LA TUTELA
DEI DIRITTI FONDAMENTALI NELLE CARTE COSTITUZIONALI,
OVVERO
DEL DIFFICILE DIALOGO TRA CARTE E CORTI
(*)
Sommario: 1. Introduzione. I principali
nodi da sciogliere, nell’ottica del giudice nazionale. – 2. Individuazione dei
diritti fondamentali, natura, giustificazione e storia. – 3. Segue. I diritti fondamentali come
«legge del più debole»; i possibili conflitti. – 4. Il dialogo tra le
carte: ovvero della (discussa) primazia costituzionale. Impostazione del
problema. – 5.
Segue. Rapida panoramica europea
sul tema della primazia costituzionale. – 6. Il
dialogo tra le corti. La Corte costituzionale italiana e la Corte di
giustizia. I rapporti tra diritto interno e diritto UE. – 7.
Segue. La teoria dei controlimiti e
il suo concreto funzionamento. – 8. La funzione dei
giudici comuni nazionali e il controllo diffuso di conformità ai principi
fondamentali dell’Unione europea. Il problema della «doppia pregiudizialità».
– 9. I rapporti tra l’ordinamento italiano e la CEDU.
Generalità. Il periodo anteriore alla riforma dell’art. 117 Cost. – 10. Segue. Le
conseguenze della riforma dell’art. 117 Cost. – 11. Segue. Modalità di composizione dei
contrasti tra norma interna e norma CEDU, ovvero del dialogo tra il giudice
nazionale comune e la Corte di Strasburgo. – 12.
Dialogo tra corti ed efficacia delle sentenze emesse a Strasburgo.
Allineamenti e disallineamenti tra Corte costituzionale italiana e Corte
europea. – 13. Le prospettive del dialogo tra le corti
in vista dell’adesione dell’U.E. alla CEDU. – 14. Le
novità introdotte dalla entrata in vigore del Trattato di Lisbona.
Generalità. – 15. Segue.
I (pretesi) limiti della Carta di Nizza. Impostazione del problema. – 16. Segue. Per
una lettura «più europeista» della Carta di Nizza nei suoi rapporti con gli
ordinamenti nazionali. Unioni di fatto e matrimoni gay. – 17. Conclusioni (in fieri). |
1. Introduzione. I principali nodi da sciogliere, nell’ottica
del giudice nazionale.
«Bisogna ripensarci un attimo a livello nazionale, a livello
di esperti, sia per il merito sia anche per il metodo, perché non si è passati
attraverso la magistratura italiana. Bisogna pensarci. C’è stato un superamento
della magistratura italiana; un surclassamento. È singolare».
Lo sbigottimento per il «superamento della
magistratura italiana» (notoriamente estremista e pericolosa!), espresso dalle
parole del Presidente della Conferenza Episcopale Italiana di fronte alla
decisione con cui la Corte europea dei diritti dell’uomo ha condannato il
nostro Paese per alcune disposizioni in tema di fecondazione assistita [1], illustra assai più di ogni dotto commento quanto
abissale appaia – persino in ambienti di raffinata cultura e di diuturna
abitudine all’esercizio del potere – l’inconsapevolezza del fatto che oggidì
esistano giudici non solo a Berlino, ma anche… a Strasburgo.
Ora, è proprio la presenza di istanze giurisdizionali
a livello sopranazionale a mutare in maniera rilevante rispetto al passato i
termini della questione della tutela dei diritti fondamentali, un tempo
«confinati» nelle sole carte costituzionali di vari Paesi.
L’ottica secondo cui vorrei affrontare un argomento tanto
impegnativo (quanto insolito per un civilista «puro», quale avrebbe la pretesa
di essere chi scrive) è l’angolo visuale del giudice nazionale europeo. Giudice
che si trova oggi ad operare in un sistema, come suol dirsi, di protezione
multilivello [2] dei diritti fondamentali. Sistema multilivello, la
cui comprensione postula una risposta il più possibile adeguata e precisa a ciascuno
dei seguenti interrogativi:
(i)
Quali sono i diritti
fondamentali.
(ii)
Quali sono le carte sovranazionali
che consacrano tali diritti.
(iii)
Quali sono i rapporti
tra le varie carte sovranazionali.
(iv)
Quali sono i rapporti
tra le varie carte sovranazionali e le costituzioni nazionali.
(v)
Quali sono i rapporti
tra le varie carte sovranazionali, le costituzioni nazionali e le norme
ordinarie di cui il giudice deve fare applicazione.
(vi)
Quali sono i rapporti
tra le corti sovranazionali e le corti costituzionali.
(vii)
Quali sono i rapporti
tra le corti sovranazionali, le corti costituzionali e i giudici ordinari.
Tanto per cominciare, si può esordire rimarcando come
nell’area del continente europeo siano individuabili i seguenti tre livelli di
corti:
(a)
la Corte europea
dei diritti dell’uomo,
(b)
la Corte di
giustizia dell’Unione Europea,
(c)
le corti
nazionali (che, a loro volta, andrebbero declinate in corti costituzionali e
giudici comuni).
Analogamente esistono almeno tre livelli di carte dei
diritti fondamentali, e, più esattamente:
(a)
la Convenzione
europea dei diritti dell’uomo,
(b)
la Carta di Nizza
e
(c)
le costituzioni nazionali.
In questo scenario da
qualche tempo ha fatto la sua comparsa un ulteriore elemento, rappresentato dal
Trattato di Lisbona, che ha inciso almeno sotto due aspetti: prima di tutto ha
aperto la via all’adesione alla CEDU da parte dell’Unione europea [3] e, in secondo luogo, ha
dato valore giuridico alla Carta di Nizza e quindi alle sue previsioni in
materia di rapporti tra organi giurisdizionali.
2. Individuazione dei diritti fondamentali, natura,
giustificazione e storia.
Iniziando dal punto sopra enucleato
sub (i), vale a dire l’individuazione
dei diritti fondamentali, va subito chiarito che la questione è densa di
implicazioni filosofiche, storiche e sociologiche, ben prima che giuridiche. Sebbene
l’angolo visuale qui prescelto – che è, per l’appunto, quello del giudice –
imponga di concentrare l’attenzione sui soli profili giuridici, occorre
ammettere che pure le altre prospettive appaiono di fondamentale rilievo, persino
per chi si proponga di studiare «solo» le implicazioni rilevanti per il
giurista.
Ai diritti fondamentali,
riconosciuti tanto in carte sovranazionali, che in costituzioni nazionali, s’attaglia
la definizione che autorevole dottrina costituzionalista ha fornito,
individuando il proprium delle formulazioni
costituzionali di principio in tre punti:
(a)
esse
sono enunciazioni che «più che interpretare attraverso l’analisi
del linguaggio» devono essere intese nel loro ethos: alle regole
si «ubbidisce», ai principi «si aderisce»;
(b)
sono «criteri per prendere posizione di fronte a
situazioni a priori indeterminate, quando vengono a determinarsi
concretamente»;
(c)
non
hanno fattispecie [4].
En toile de
fond rispetto alle considerazioni di
cui sopra si pone, naturalmente, la questione nodale circa la natura stessa dei
diritti fondamentali ed in particolare la loro riconducibilità alla nozione di
diritti pubblici.
In proposito non manca chi addirittura ritiene che i
diritti fondamentali non siano riducibili, non solo alla nozione di diritti
pubblici soggettivi, ma a quella stessa di diritti soggettivi, in quanto i
primi, come i secondi, sarebbero incapaci di rendere, attraverso un approccio
definitorio analitico e dogmatico, la complessità che sta dietro a diritti come
quello della libertà religiosa, dell’istruzione, della difesa, etc. I diritti
fondamentali non sarebbero, così, semplicemente diritti soggettivi nell’accezione
tradizionale, bensì rapporti soggettivi che svolgono un rilevante ruolo
funzionale e specifico nell’ordinamento di uno Stato. Ed in effetti si suole
affermare in proposito che i diritti fondamentali dispongono di una forza
giuridica non altrimenti acquisibile, di gran lunga superiore in sé a quella
degli «usuali» diritti soggettivi [5]. La peculiarità dei diritti fondamentali dimora nella
loro capacità di introdurre imperativi nuovi nell’ordinamento che li recepisce,
trasformandolo. Un diritto fondamentale si impone come imperativo perché
protegge qualcosa di più di una istanza individuale. Il claim, così, è soltanto uno degli aspetti del right [6].
Quanto, poi, all’ubi consistam
di siffatte situazioni, sarà il caso di farsi richiamo all’avvincente dibattito
sul loro fondamento ultimo, ove pesa come un macigno la nota affermazione di Bobbio, secondo la quale una
tale ricerca non sarebbe altro che una pia illusione. Scrive Bobbio: «Questa
illusione fu comune per secoli ai giusnaturalisti, i quali credettero di aver
messo certi diritti (ma non erano sempre gli stessi) al riparo da ogni
possibile confutazione derivandoli direttamente dalla natura dell’uomo» [7]. E ancora: «Questa illusione oggi non è più
possibile; ogni ricerca del fondamento assoluto è, a sua volta,
infondata» [8]. Da qui il monito dello stesso grande pensatore,
secondo il quale: «Il problema di fondo relativo ai diritti dell’uomo è oggi
non tanto quello di giustificarli, quanto quello di proteggerli.
È un problema non filosofico, ma politico» [9].
Sul piano storico, poi, non si potrà fare a meno di
evocare le stimolanti osservazioni di Luigi Ferrajoli [10], che scorge nella «rifondazione giuridica del diritto
e delle istituzioni politiche, sia statali che internazionali», all’esito della
Seconda Guerra Mondiale, «il lascito politico più importante del secolo appena
trascorso», rimarcando che tale rifondazione «si è espressa in due grandi
conquiste (…) che hanno investito, quali altrettanti rifiuti degli orrori del
passato, l’una la forma istituzionale degli Stati nazionali, l’altra le forme
delle relazioni tra Stati. Entrambe queste conquiste si sono realizzate con una
medesima operazione: la costituzionalizzazione del principio della pace e dei
diritti umani, inclusi quei diritti alla sopravvivenza che sono i diritti
sociali, quali limiti e vincoli normativi – una sorta di solenne “mai più” agli
orrori della guerra e dei fascismi – imposti alla politica, ossia ai supremi
poteri, sia interni che internazionali».
Prosegue l’Autore rilevando che l’enunciazione dei
diritti umani nelle carte costituzionali risale a ben prima che al secondo
dopoguerra. Essa rimonta, infatti, alle prime Costituzioni e Dichiarazioni
rivoluzionarie del Settecento – la Dichiarazione dei diritti della Virginia del
1776, la Costituzione americana del 1787 [11], la Dichiarazione francese dei diritti dell’uomo e del
cittadino del 1789 – e poi alle Costituzioni e agli Statuti dell’800. Ma la
rivoluzionaria, assoluta, novità della «stagione costituzionale» della metà del
Novecento è la creazione di una Carta internazionale dei diritti umani: la
Dichiarazione universale dei diritti umani dell’O.N.U. del 1948.
Sul piano, poi, delle costituzioni «interne» va
registrata un’altra rilevantissima novità nel costituzionalismo novecentesco
del secondo dopoguerra, inaugurato dalla Costituzione italiana del 1948 e dalla
legge fondamentale tedesca del 1949 e ripreso dalla costituzione greca del
1975, da quella portoghese del 1976 e da quella spagnola del 1978, non a caso
seguite tutte alla liberazione di questi paesi da regimi di tipo fascista: la
loro rigidità, ossia il loro carattere sopraordinato alle leggi ordinarie, che
vale a garantirne il ruolo di limiti e vincoli ai supremi poteri politici, sia
di governo che legislativi.
Anche qui si è trattato di un mutamento profondo di
paradigma, sia del diritto, che dello Stato. Nel paradigma paleopositivistico
dello stato liberale la legge, qualunque ne fosse il contenuto, era la fonte
suprema e illimitata del diritto, non subordinata, almeno formalmente, neppure
alle costituzioni [12]. Prima di tale stagione le Carte costituzionali erano
certamente documenti solenni, politicamente fondativi della convivenza civile.
Ma non erano in grado di limitare giuridicamente il potere legislativo. All’inizio,
addirittura, la Dichiarazione francese del 1789 non fu neppure, da taluni,
considerata una legge positiva [13], ma solo un documento politico. E anche dopo che ne
fu riconosciuta la natura di leggi, le costituzioni furono pur sempre
considerate per l’appunto leggi, soggette, come tutte le altre, ai principi
della successione delle leggi nel tempo. Basti ricordare lo Statuto albertino
del Regno d’Italia, che fu da tutti considerato una semplice legge ordinaria,
sia pure particolarmente solenne, e come tale poté essere travolto, senza un
formale colpo di stato, dalle leggi fasciste del 1925.
Dunque non esisteva, fino all’esito della Seconda
Guerra Mondiale, nell’immaginario dei giuristi e nel senso comune, l’idea di
una legge sulle leggi, di un diritto sul diritto. Ed era inconcepibile che una
legge potesse vincolare la legge, essendo la legge – questo era il paradigma
giuspositivistico della modernità giuridica – l’unica fonte, perciò
onnipotente, del diritto: sia che fosse concepita come il prodotto della
volontà del sovrano, sia che fosse intesa come l’espressione della maggioranza
parlamentare. Sicché il legislatore, nella migliore delle ipotesi il
Parlamento, era a sua volta concepito come onnipotente. E onnipotente era di
conseguenza la politica, di cui il diritto è il prodotto e insieme lo
strumento. Con il risultato, altresì, di una concezione tutta formale e
procedurale della democrazia, identificata unicamente con il potere del popolo,
ossia con le procedure e i meccanismi rappresentativi volti ad assicurare il
potere della maggioranza. Per non parlare del diritto internazionale, giunto alla
catastrofe delle guerre mondiali anche a causa dell’assoluta mancanza di limiti
e di vincoli costituzionali alla sovranità esterna degli Stati [14].
Tutto questo cambia radicalmente in quella
straordinaria stagione costituente che fu il quinquennio 1945-1949, che vide l’emanazione
della Carta dell’O.N.U. nel 1945, della Costituzione giapponese del 1946, della
Costituzione italiana del 1948, della Dichiarazione universale dei diritti
umani nel medesimo anno, della Legge fondamentale tedesca nel 1949. È grazie a
queste carte che si realizzano le grandi conquiste e le grandi rivoluzioni
istituzionali; le quali cambiano la natura e la struttura del diritto e delle
istituzioni politiche, dissolvendo l’una la sovranità interna, tramite i limiti
e i vincoli costituzionali imposti al potere legislativo, l’altra la sovranità
esterna, tramite il divieto della guerra e la stipulazione dei diritti
fondamentali in capo ad ogni essere umano [15].
Proprio sul piano della sovranità esterna, un’altra
rilevante conquista giuridica del secolo appena trascorso – posta in luce
sempre dal citato Autore [16] è costituita dal mutamento di paradigma intervenuto
nelle relazioni internazionali. Con l’istituzione dell’O.N.U. il diritto
internazionale si è trasformato, da sistema di relazioni pattizie tra Stati
illimitatamente sovrani, basato sui rapporti di forza e perciò destinato, come
mostrò la catastrofe dei due conflitti mondiali, a degenerare nella guerra, in
un ordinamento giuridico sovra-statale, fondato sul divieto della guerra e sui
diritti fondamentali di tutti gli esseri umani stabiliti quali limiti e vincoli
ai poteri degli Stati. In altre parole, si è passati dal diritto internazionale
a diritto sovranazionale. In fondo, a ben vedere, qualcosa di simile (anche se
in misura per molti versi differente) si è avuto in Europa con la creazione
della Comunità e poi dell’Unione Europea e quindi, se concentriamo ad esempio
la visione al campo della cooperazione giudiziaria in materia civile, con il
passaggio di tale materia dal terzo al primo pilastro, con il Trattato di
Amsterdam.
E’ vero che anche questa conquista è rimasta, nello
scacchiere internazionale, in gran parte sulla carta: allo stato, appunto, di
semplice promessa. Ma ciò non toglie che essa continui ad essere la sola alternativa
razionale alla guerra, endemica e globale, e a un futuro di violenze e di
terrore. Ed è anche vero [17] che il costituzionalismo internazionale prefigurato
dalla Carta dell’O.N.U. esprime nella maniera più esplicita il paradigma
hobbesiano di quell’artificial reason che è il diritto [18], la cui giustificazione razionale risiede appunto
nella sua funzione di garanzia della pace e perciò della vita.
3. Segue. I diritti
fondamentali come «legge del più debole»; i possibili conflitti.
C’è poi un ulteriore fondamento assiologico o
filosofico dei diritti umani messo in evidenza dalle Convenzioni internazionali
dei diritti: il loro ruolo, per così dire, di «leggi del più debole contro la
legge del più forte»; regola, quest’ultima, che è propria dello stato di
natura, ossia dell’assenza di diritto e di diritti [19]. E’ un’ottica, se vogliamo, rovesciata rispetto a
quella giusnaturalistica, che vede proprio nella natura il fondamento dei
diritti fondamentali. Qui, invece, il rango costituzionale (rigido) delle norme
si configura come la tecnica idonea alla tutela dei soggetti più deboli, in
quanto assicura l’indisponibilità e l’inviolabilità di quelle aspettative
vitali stabilite come diritti fondamentali mettendole al riparo dai rapporti di
forza propri del mercato e della politica.
La stessa dottrina qui più volte citata [20] pone però correttamente in luce la presenza di un
fattore di preoccupazione, rappresentato dalla crisi della legalità.
Innanzitutto della legalità ordinaria, per effetto
dell’inflazione legislativa che ha provocato, in tutti i paesi avanzati, un
collasso del principio di legalità. In Italia le leggi si contano ormai in
decine di migliaia, tanto che in materia penale la Corte costituzionale è stata
costretta, nel 1988, a quella vera e propria dichiarazione di bancarotta che è
stata l’archiviazione del classico principio secondo cui l’ignoranza della
legge penale non scusa: le leggi, infatti, sono ormai tante e così confuse e
complesse che è ben possibile che la loro ignoranza sia non solo scusabile ma
addirittura inevitabile. Si capisce come una simile disfunzione della legalità
finisca per allargare enormemente gli spazi della discrezionalità giudiziaria
ed equivalga, di fatto, a una regressione al diritto giurisprudenziale
premoderno. Ma la crisi ha investito altresì la legalità costituzionale: si
pensi solo all’indebolimento, per effetto dell’eclisse della vecchia sovranità
statale e della crisi dell’unità degli ordinamenti e del sistema tradizionale
delle fonti di diritto, del ruolo garantista delle costituzioni nazionali.
Al tema dell’individuazione dei diritti fondamentali
appartiene poi anche l’interrogativo – questo, assai più familiare ai giuristi,
rispetto ai precedenti – circa il modo di intenderne il catalogo, vale a dire
se esso debba considerarsi «chiuso», ovvero «aperto», dovendosene peraltro
concludere che la risposta non può trovarsi se non nei rispettivi cataloghi d’appartenenza.
Così, ad esempio, il nono emendamento della Costituzione degli Stati Uniti
afferma che «The enumeration in the Constitution, of certain rights, shall not
be construed to deny or disparage others retained by the people», e secondo l’art.
2 della Costituzione Italiana: «La Repubblica riconosce e garantisce i diritti
inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si
svolge la sua personalità, e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di
solidarietà politica, economica e sociale» [21].
Altra questione attiene allo spinosissimo tema della potenziale «competitività» fra diritti
fondamentali, sia nel caso in cui il loro catalogo sia circoscritto all’insieme
dei diritti esplicitamente riconosciuti dal diritto interno, sia nel caso in
cui si convenga di poter tener conto anche di diritti proclamati in ambito
sovranazionale [22] e/o di diritti non esplicitamente enunciati in
disposizioni di diritto positivo [23]. Al riguardo si suole affermare che due sono i
principali tipi di conflitti che possono darsi fra diritti fondamentali,
indipendentemente dal fatto che essi siano o meno espressamente enunciati in un
dato ordinamento giuridico [24]:
(a) conflitti che derivano da concezioni diverse e
divergenti del valore di cui uno stesso diritto fondamentale è espressione o
strumento di attuazione, e
(b) conflitti che derivano dall’impossibilità di
tutelare e/o attuare un diritto fondamentale senza violarne un altro, o,
almeno, senza circoscriverne la possibile portata.
Questa lettura intuitiva della nozione in esame vale,
però, solo per alcuni diritti fondamentali classici e, come sottolinea Bobbio: «Nella
maggior parte delle situazioni, in cui viene in questione un diritto dell’uomo,
accade (…) che due diritti altrettanto fondamentali si fronteggiano e non si
può proteggere incondizionatamente l’uno senza rendere inoperante l’altro» [25]. Così, riprendendo l’esempio proposto dallo stesso
Bobbio, il diritto di libertà di espressione può scontrarsi con il diritto di
non essere offeso nelle proprie credenze religiose e/o morali, con il diritto
di non essere diffamato, con il diritto di non essere truffato. Di solito i
conflitti fra diritti fondamentali derivano dalla protezione di interessi
sociali diversi e/o da valori confliggenti che diritti fondamentali differenti
tendono ad attuare. In sintesi, citando ancora Bobbio, si può dire che «Attraverso
la proclamazione dei diritti dell’uomo abbiamo fatto emergere i valori
fondamentali della civiltà umana sino al momento presente. Già, ma i valori
ultimi sono antinomici: questo è il problema» [26].
Si è detto all’inizio di
questa riflessione che l’ottica prescelta in questa sede vuole essere quella
del giudice. E dunque il giudice, come giurista, per comprendere quali sono i
diritti fondamentali, dovrà necessariamente rivolgersi ad un catalogo
normativo. Il discorso si sposta quindi inevitabilmente sul piano delle fonti e
della relativa gerarchia. Piano che, se un tempo vedeva soltanto confrontarsi
due livelli: quello della legislazione ordinaria e quello della legislazione
costituzionale, oggi presuppone inevitabilmente la soluzione delle diverse
questioni sopra [27] prospettate ai vari punti sub (ii), (iii), (iv) e (v), vale a dire
quelle dell’individuazione delle carte, delle relazioni tra le stesse, nonché
delle interazioni delle carte internazionali con le carte costituzionali
nazionali e le norme ordinarie di cui il giudice deve fare applicazione.
Iniziando dunque dalle relazioni «gerarchiche» tra carte sovranazionali e carte
costituzionali nazionali, va detto che il tema viene usualmente definito in
dottrina come quello della «primazia costituzionale» del diritto europeo sul
diritto costituzionale nazionale [28]. Concetto, questo, che va
distinto dalla «primazia ordinaria», cioè quella del diritto europeo sulle
norme nazionali di rango infracostituzionale.
È abbastanza noto che la
primazia ordinaria non pone particolari problemi in nessuno degli Stati membri:
dopo la sentenza Simmenthal [29] e dopo l’adeguamento della Corte costituzionale
italiana [30], la non applicazione del diritto nazionale è la
tecnica utilizzata.
La primazia costituzionale, invece, non è codificata
nei trattati: non lo era in origine, né lo è oggi. Ad alcuni anni or sono
risale il tentativo di riconoscere la primazia costituzionale nell’art. 1.6 del
Trattato costituzionale [31], ma quest’ultimo non è stato, come noto, ratificato;
attualmente, invece, il Trattato di Lisbona si limita a una dichiarazione –
annessa all’atto finale – in cui si ricorda che, in base a una giurisprudenza
costante della Corte di giustizia, i trattati e il diritto adottato dall’Unione
sulla base di questi ultimi prevalgono
sul diritto degli Stati membri, secondo le condizioni definite dalla
giurisprudenza medesima. Pertanto in tale dichiarazione ci si limita a
richiamare le pronunce della Corte di giustizia [32].
Venendo a tali decisioni, notiamo che la sentenza Costa v ENEL costituisce il punto di
partenza di questo iter
giurisprudenziale [33]. Già al suo interno emerge un approccio che si
potrebbe definire «assolutista», quando la Corte di Lussemburgo afferma che la primazia del diritto comunitario
trova conferma nell’art. 189 (ora 249) TCE, rilevando che «questa disposizione,
che non è accompagnata da alcuna riserva, sarebbe priva di significato
se uno Stato potesse unilateralmente annullarne gli effetti con un
provvedimento nazionale che prevalesse sui testi comunitari» e, quindi,
precisando che «il diritto nato dal Trattato non potrebbe, in ragione appunto
della sua specifica natura, trovare un limite in qualsiasi provvedimento
interno senza perdere il proprio carattere comunitario e senza che ne
risultasse scosso il fondamento giuridico della stessa Comunità». Già in tale
decisione emerge limpidamente che nessun tipo di atto nazionale, nemmeno di
rango costituzionale, può resistere al diritto comunitario.
Pochi anni dopo, nel 1970, la Corte di giustizia con
un’altra celebre sentenza, nota come Internationale
Handelsgesellschaft [34], esplicita questo contenuto che era già in nuce nella sentenza Costa v ENEL, facendo un riferimento espresso
agli attentati al diritto comunitario che potrebbero essere causati dalla
costituzione di uno Stato membro. Secondo tale motivazione, l’invocazione «ai
diritti fondamentali, per come formulati nella Costituzione di uno Stato
membro, oppure ai principi costituzionali nazionali non può sminuire la
validità di un atto comunitario o la sua validità nel territorio dello Stato».
Quindi uno Stato non può contestare la legittima applicazione di un atto
comunitario nel proprio territorio adducendo come motivo che detto atto mina i
diritti fondamentali garantiti dalla Costituzione o la struttura costituzionale
stessa del paese. Può dunque dirsi che, con questa sentenza, viene affermata in
modo netto anche la primazia costituzionale.
Nella successiva giurisprudenza della Corte di
giustizia si registra poi un momento in cui la primazia costituzionale viene ulteriormente
fatta valere, con il caso Kreil [35], in cui si sostiene che la direttiva relativa alla
parità uomo/donna nell’accesso al lavoro dovrebbe rendere inapplicabile l’art.
12 della Costituzione tedesca, che all’epoca escludeva le donne dal servizio
militare comportante l’utilizzo delle armi, permettendo loro di accedere alle
forze armate soltanto in posizioni legate al settore sanitario e musicale. In
quel caso, quindi, la Corte di giustizia condannò la Germania in conseguenza di
una norma contenuta nella sua Costituzione, senza prendere minimamente in
considerazione il carattere costituzionale delle norme tedesche che venivano in
rilievo.
Altra sentenza che può citarsi in quest’ottica è
quella relativa al caso Köbler del
2003 [36]. In essa si afferma il principio secondo cui gli
Stati sono obbligati a risarcire ai privati i danni causati dalle violazioni
del diritto comunitario loro imputabili, anche quando queste violazioni
derivino da una giurisdizione di ultima istanza; e potremmo ritenere incluse in
questa definizione anche la giustizia costituzionale e le corti che svolgono
funzioni di tale natura. Quindi, un eventuale contrasto dei giudici nazionali
con il punto di vista della Corte di giustizia potrebbe riflettersi, attraverso
la sentenza Köbler, anche sulla
responsabilità dello Stato.
Detto questo, va però anche rimarcato che, tranne
limitate eccezioni (tra cui il caso Kreil,
appena citato), la Corte di giustizia ha saputo dare prova di equilibrio e di self-restraint, nel suo mancato invadere
l’area di protezione dei diritti costituzionali nazionali; ma ciò non toglie che
il problema sussiste. Ed esiste sia, e innanzitutto, come problema di
legittimazione costituzionale, sia, più in generale, come problema
teorico-dogmatico [37].
5. Segue. Rapida panoramica europea sul tema della
primazia costituzionale.
Ma, se questa è l’ottica della Corte di Lussemburgo,
per avere un quadro meno incompleto della situazione occorre anche avere
riguardo all’atteggiamento della giurisprudenza dei vari «custodi» delle
costituzioni dei singoli Paesi aderenti, cioè a dire delle corti costituzionali,
proprio con riguardo al tema dei diritti fondamentali. Parlando dunque delle
resistenze alla primazia costituzionale mostrate da varie corti costituzionali
nazionali, va subito detto che molto noto è il punto di vista della Corte
costituzionale italiana e della Corte costituzionale federale tedesca, che
hanno sviluppato la dottrina dei controlimiti. Meno noti sono altri
atteggiamenti, pure mostrati da altre corti.
Il tentativo di classificare le risposte date dalle
corti costituzionali nazionali al tema della primazia costituzionale porta a
individuare, attraverso il punto di vista del diritto comparato, quattro
differenti risposte.
(a) Esistono in primo luogo Paesi che non ammettono la
primazia costituzionale e che, anzi, chiaramente la escludono. Si tratta di un
nucleo di sistemi assai ristretto, quali, ad es., la Danimarca, la cui Corte
suprema, nel 1998, ha affermato espressamente che l’art. 20 della Costituzione
non permette alla Comunità europea di legiferare in violazione della
Costituzione danese, comprese le sue disposizioni in materia di diritti e
libertà. Anche la Corte costituzionale della Lituania ha stabilito nel 2006 che
esiste ed è accettata la primazia ordinaria nella forma della non applicazione,
ma si fa esplicita esclusione per quanto riguarda le norme costituzionali che
quindi non possono essere disapplicate [38].
(b) Vi sono poi altri Paesi che, in linea di principio,
non ammettono la primazia costituzionale, ma che consentono di superare questo
ostacolo attraverso un procedimento rinforzato (di solito la revisione
costituzionale). Era questa la situazione della Germania, quanto meno fino alla
sentenza Kreil [39] – con cui la Corte di giustizia ha affermato, come
già visto, la primazia costituzionale del diritto europeo sul GG germanico – e al c.d. Lissabon Urteil, con cui la Corte di
Karlsruhe ha invece riservato al parlamento federale e a se stessa una Integrationsverantwortung
[40].
Peraltro la stessa Corte costituzionale
federale di Germania ha rimesso le cose in chiaro con la più recente sentenza Honeywell [41] e ormai dichiara apertamente che non solleverà alcuna
questione di «costituzionalità» rispetto a norme dell’Unione, se non previo
rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia. Per il resto, molti sono ancora i
Paesi dove il problema della primazia costituzionale può essere superato
attraverso una procedura rinforzata, cioè attraverso una costituzionalizzazione
del diritto europeo. Quindi sono Paesi dove una revisione costituzionale è
necessaria ed è anche possibile quando il diritto europeo contrasta con il
diritto costituzionale nazionale. L’elenco,
probabilmente non esaustivo, comprende Francia, Spagna, Polonia, Ungheria,
Repubblica Ceca, Slovenia e Romania [42]. Il ruolo dei
giudici in questi ordinamenti è sostanzialmente quello di esercitare una sorta
di potere di veto, perché aprono la strada sia all’opposizione parlamentare,
sia eventualmente al popolo tramite il referendum:
entrambi possono bloccare l’implementazione del diritto europeo a livello
nazionale [43].
(c) Altri Stati ancora in linea di principio ammettono
la primazia costituzionale, ma pongono limiti materiali (cioè quelli che nella
dottrina italiana siamo abituati a chiamare controlimiti in senso stretto). A questa categoria di Paesi appartiene l’Italia,
così come gli altri sistemi che individuano una sorta di «nucleo duro» di
principi supremi, irrinunciabili. Di solito tali limiti sono inseriti nella
cosiddetta «clausola europea», che è introdotta dai Paesi che hanno aderito al
processo di integrazione europea nelle varie fasi successive a quella della sua
istituzione. Per esempio, clausole europee inserite nelle costituzioni
nazionali (ovvero clausole che riguardano il procedimento attraverso il quale
lo Stato aderisce all’Unione europea, come vi appartenga e che pongono questo
tipo di limiti) sono presenti nelle costituzioni della Svezia, della Finlandia,
della Grecia e del Portogallo. Altrove, come proprio in Italia, questi
limiti materiali sono stati elaborati in via giurisprudenziale. Ci sono però
anche altre corti che pian piano si sono unite a questa comunità. In
particolare, le corti che hanno dovuto svolgere un controllo preventivo sul
Trattato costituzionale hanno dovuto anche controllare in maniera puntuale che
la primazia ivi compresa fosse compatibile con le loro costituzioni [44].
(d) Infine vi sono paesi nei quali la primazia
costituzionale è totalmente accettata, senza limiti. Qui troviamo l’Austria,
dove il Tribunale costituzionale (è significativo che si tratti proprio dello
Stato il cui giudice costituzionale segue un approccio kelseniano secondo cui
quello che non può fare la norma inferiore comunque lo può sempre fare la norma
superiore, che quindi non identifica alcun «nucleo duro» della Costituzione),
in una sentenza del 1999 sulla Commissione di controllo sulle
telecomunicazioni, ha disapplicato l’art. 133, comma 4 della Costituzione
relativo a problemi di rapporti tra giurisdizioni. Potrà poi citarsi il caso
dell’Estonia, dove la Corte suprema, con una sentenza del 2006 sulla possibile
inclusione del Paese nella zona euro, ha dato soluzione al conflitto tra l’art.
106 del Trattato della Comunità europea sulla competenza della Banca centrale
europea e l’art. 111 della Costituzione (secondo cui la Banca dell’Estonia ha
la prerogativa esclusiva dell’emissione della moneta) attraverso la non applicazione
della norma costituzionale [45].
Il bandolo della matassa, in una situazione tanto
complessa, non può essere trovato se non nel necessario passaggio dal dialogo
tra le carte al dialogo tra le corti.
Dialogo, questo, il cui strumento fondamentale è
rappresentato dal rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia [46]. Questo istituto, invero, secondo le Conclusioni dell’Avvocato
Generale Ruiz-Jarabo Colomer [47], «lungi dal costituire un interrogatorio in cui un
giudice si limita a formulare quesiti aspettando che l’altro giudice gli
fornisca una risposta, si presenta come un autentico dialogo, una
conversazione in cui i partecipanti esprimono le loro considerazioni, sebbene l’ultima
parola, per ragioni istituzionali e di uniformità del sistema, spetti ad uno
solo di essi, che impone la propria opinione tenendo conto del parere degli
altri». È, del resto, la stessa Corte di Giustizia a riconoscere che il sistema
introdotto per assicurare l’unità dell’interpretazione del diritto comunitario
negli Stati membri istituisce una cooperazione diretta tra la Corte e i giudici
nazionali basato su un dialogo tra giudici, il cui avvio si basa interamente
sulla valutazione della pertinenza e della necessità del detto rinvio compiuta
dal giudice nazionale [48].
Il rinvio pregiudiziale rappresenta dunque lo
strumento che le varie corti nazionali progressivamente adottano, al punto che
non vi è più forse oggi alcuna corte costituzionale (o corte suprema che svolge
funzioni costituzionali) che espressamente abbia negato o neghi questa
possibilità. L’unica corte che abbia rifiutato espressamente il rinvio
pregiudiziale è stata la Corte costituzionale italiana, in una sua ormai remota
ordinanza del 1995 [49], poi superata dalla giurisprudenza successiva, che
invece riconosce espressamente tale possibilità [50], sebbene limitata ai soli giudizi in via principale [51].
Come rimarcato in dottrina, le varie corti, «parlando»
tra di loro «secondo il metodo
discorsivo» [52], costruiscono delle «passerelle che collegano ordini
nazionali e sopranazionali» [53]. La fortunata immagine del giudice come «costruttore
di passerelle tra ordinamenti» – che dobbiamo a Sabino Cassese [54] – sta conoscendo a livello europeo numerosi esempi
concreti, anche al di là dei temi dei diritti fondamentali qui in esame [55]. Si deve infatti rimarcare, in linea generale, una
tendenza sempre più frequente dei giudici – specialmente quelli supremi – a
richiamare nell’applicazione del diritto interno anche le giurisprudenze
straniere su casi analoghi, quali strategie argomentative in funzione
rafforzativa delle proprie decisioni [56].
Ora, il dialogo tra corti nazionali e sovranazionali si
può svolgere su piani diversi, a seconda dei giudici che vengono in
considerazione. Cominciando dal piano delle relazioni tra Corte costituzionale
e Corte di giustizia, appare indispensabile richiamare brevemente quale sia la
disciplina italiana dell’efficacia, nel nostro ordinamento, delle norme di
fonte sovranazionale. Tale efficacia è, come noto, disciplinata dalla
Costituzione ed è caratterizzata da tre principi generali.
(a)
Il primo consiste nella
previsione di un meccanismo di adattamento automatico alle norme del diritto
internazionale generalmente riconosciute (art. 10, primo comma, Cost.), ai
trattati sulla condizione giuridica dello straniero (art. 10, secondo comma,
Cost.), ai Patti Lateranensi sui rapporti tra Stato e Chiesa (art. 7 Cost.).
(b)
Il secondo consente le
«limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e
la giustizia fra le Nazioni» e la partecipazione ad organismi internazionali rivolti
a tale scopo (art. 11 Cost.).
(c)
Il terzo stabilisce l’obbligo
del legislatore ordinario (statale e regionale) di esercitare la potestà
legislativa nel «rispetto» «dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario
e dagli obblighi internazionali» (art. 117, primo comma, Cost.) [57].
Ciò premesso, va detto che, per ciò che attiene, invece,
alle funzioni della Corte di giustizia, sedente in Lussemburgo, trattasi di un
giudice giustamente definito [58] «proteiforme, concentrando su di sé funzioni che, ad
esempio nel nostro ordinamento, spettano invece a più giudici». Giusto per limitarci
alle funzioni e ai compiti più importanti, e tralasciando quelli obiettivamente
di minore interesse, la Corte di Giustizia svolge un ruolo di:
(a)
corte
costituzionale, quando è chiamata a decidere sui conflitti tra istituzioni o
tra istituzioni e Stati membri, come avviene per le procedure di infrazione, ai
sensi degli articoli 258-260 TFUE, ovvero nello stesso sindacato di legittimità
degli atti proposto dai cd. «ricorrenti privilegiati», ai sensi dell’art. 263.1
e 263.3 TFUE;
(b)
per certi versi
di giudice costituzionale, e per altri di corte suprema, nell’esercizio della
competenza pregiudiziale, ai sensi dell’art. 267 TFUE [59];
(c)
giudice di
legittimità degli atti, che, nelle funzioni previste all’art. 263 TFUE,
funziona, specie nel caso dei cd. «ricorrenti non privilegiati», come una sorta
di giurisdizione amministrativa;
(d)
giudice
amministrativo rispetto alle cause nelle quali si fa valere la responsabilità
delle istituzioni europee ex art. 268
TFUE (e così anche, ma con qualche limite, nell’esercizio della cd.
giurisdizione per carenza, di cui all’art. 265 TFUE).
Passando dunque alla disamina del rapporto tra
ordinamento interno e comunitario (oggi dell’UE), nell’ottica «interna» della
nostra Corte costituzionale, va detto che, all’esito di un’evoluzione iniziata
negli anni Sessanta dello scorso secolo [60], proseguita nel successivo decennio [61] e, sostanzialmente, conclusa nel 1984 [62], la Consulta ha sempre identificato nell’art. 11 Cost.
la norma che ha permesso l’adesione dell’Italia alla CE, prima, e all’UE, poi,
ritenendo i due ordinamenti «distinti ed al tempo stesso coordinati». Come
rilevato in dottrina [63], è stata, quindi, offerta una configurazione del
rapporto tra tali ordinamenti che ha assicurato il primato del diritto dell’UE,
grazie al controllo diffuso di compatibilità comunitaria ed al potere del
giudice comune di non applicare la disposizione interna in contrasto con
la norma comunitaria avente effetto diretto [64].
Nella giurisprudenza costituzionale, di legittimità ed
amministrativa, si è, quindi, consolidato il principio secondo il quale l’attribuzione
all’UE della competenza in determinate materie comporta che, nel caso di
contrasto di una norma interna con una norma comunitaria dotata di effetto
diretto, la prima «non viene in rilievo», anche se, «fuori dell’ambito
materiale, e dai limiti temporali in cui vige la disciplina comunitaria», essa
«serba intatto il proprio valore», poiché sono ipotizzabili situazioni di
diritto interno in cui continua ad esplicare efficacia [65]. La questione di legittimità costituzionale proposta
per denunciare l’antinomia di una norma interna con una norma UE avente effetto
diretto è, dunque, inammissibile, per irrilevanza [66].
Neppure la riforma dell’art. 117 Cost. operata nel
2001 – che rilevanti conseguenze ha provocato in relazione alla posizione della
CEDU nei rapporti con il nostro ordinamento, come si vedrà a tempo debito [67] – sembra aver mutato l’assetto dei rapporti tra norme
comunitarie e norme costituzionali, rispetto al quale il principio della prevalenza
della norma dell’Unione incontra il solo limite dei principi strutturali dell’assetto
costituzionale, nonché dei diritti fondamentali della persona, limite fino ad
oggi rimasto sulla carta. Ad esempio, sulla necessità di mantenere l’art. 11
Cost. come fondamento del rapporto tra diritto interno e diritto dell’Unione
europea, la Corte costituzionale, nel 2010 [68], ha affermato che «Restano (…) ben fermi, anche
successivamente alla riforma, oltre al vincolo in capo al legislatore e alla
relativa responsabilità internazionale dello Stato, tutte le conseguenze che
derivano dalle limitazioni di sovranità che solo l’art. 11 Cost. consente, sul
piano sostanziale e sul piano processuale, per l’amministrazione e per i
giudici. In particolare, quanto ad eventuali contrasti con la Costituzione,
resta ferma la garanzia che, diversamente dalle norme internazionali
convenzionali, l’esercizio dei poteri normativi delegati all’Unione europea
trova un limite esclusivamente nei principi fondamentali dell’assetto costituzionale
e nella maggior tutela dei diritti inalienabili della persona».
Il potere di «non applicazione» della norma interna in
contrasto con una disposizione dell’UE spetta al giudice comune, alla
P.A. [69] ed alle Autorità indipendenti [70] e sussiste, come sopra precisato, in relazione alle
norme dell’UE aventi effetto diretto. Questo effetto connota gli atti
vincolanti dell’Unione, comprese le direttive, scaduto il termine di
recepimento [71], qualora le relative disposizioni «appaiono, dal
punto di vista sostanziale, incondizionate e sufficientemente precise» [72], se da esse derivi un diritto del cittadino,
azionabile nei confronti dello Stato [73], anche quando formalmente non siano destinate ai
singoli [74].
Siffatto potere sussiste anche quando la norma interna
leda un principio generale del diritto comunitario [75] e nel caso di non completa applicazione della norma
comunitaria da parte della disposizione nazionale, oppure se quest’ultima sia
del tutto insufficiente per attuare la prima [76]. Inoltre, secondo la Corte di Lussemburgo, il giudice
nazionale deve assicurare la piena efficacia del principio generale di non
discriminazione in ragione dell’età, disapplicando ogni contraria disposizione
di legge nazionale, anche quando il termine di trasposizione della direttiva non
è ancora scaduto [77], mentre l’equità non consente di derogare all’applicazione
delle norme comunitarie al di fuori dei casi previsti dalla normativa o nell’ipotesi
in cui la normativa stessa sia dichiarata invalida [78].
Va precisato, però, che il giudice nazionale procederà
alla disapplicazione della norma interna contraria alla direttiva solo se essa
riguarda un rapporto tra Stato e privati, mentre la stessa conserverà efficacia
laddove la stessa incida direttamente su rapporti orizzontali [79]. Si potrà citare al riguardo, ad es., il caso della
Direttiva 85/577 per la tutela dei consumatori nel caso di contratti negoziati
fuori dai locali commerciali, oggetto di una sentenza della Corte di giustizia
CE del 1994 [80]. Si potrà poi anche ricordare la Direttiva 76/207, sulla
parità di trattamento tra lavoratori di sesso diverso, rispetto alla quale è
stata rifiutata la disapplicazione della norma nazionale che vieta il lavoro
notturno femminile (nonostante il contrasto con la direttiva), proprio in virtù
del carattere orizzontale del rapporto tra datore di lavoro e lavoratrice
oggetto della controversia [81].
7. Segue. La teoria dei controlimiti e il suo
concreto funzionamento.
Secondo la costante giurisprudenza della nostra Corte
costituzionale e la dottrina prevalente, il potere di non applicazione
spettante al giudice comune incontra il limite dell’intangibilità, da parte
della norma dell’UE, dei principi fondamentali dell’ordinamento costituzionale
e dei diritti inviolabili garantiti dalla Costituzione: si tratta della teoria
detta «dei controlimiti» [82]. Dottrina, questa, che presuppone evidentemente la
presenza di quello che alcuni Autori hanno chiamato un «nucleo iperrigido»
nella nostra Costituzione» [83]. Si è in proposito anche osservato [84] che la valenza dei princìpi supremi, in tal senso,
appare diversamente qualificata a seconda «che sia in gioco la legittimità di
fonti atipiche (concordatarie, comunitarie e internazionali) ovvero delle leggi
costituzionali» [85] e di revisione costituzionale. Nella prima
fattispecie, l’individuazione dei princìpi supremi opera a mo’ di garanzia,
opponendo specifici controlimiti nel rapporto fra ordinamenti sovrani, benché
separati e reciprocamente integrati; nella seconda, gli stessi aiutano a fissare,
identificandoli come suo architrave, princìpi di caratterizzazione del sistema
costituzionale complessivo, ancorché al loro interno il Giudice delle leggi dovrà
operare quel necessario bilanciamento nell’accordare le previste protezioni
costituzionali.
Si è pure esattamente
osservato [86] che costituisce un buon esempio della prima ipotesi richiamata
il rapporto fra ordinamento canonico e quello costituzionale rispetto alla
valenza del principio di eguaglianza, nel quale quest’ultimo si dimostrerebbe cedevole
nei confronti della legislazione concordataria e ciò in ragione dell’efficacia
derogatoria accordata dall’art. 7 Cost. e in modo implicito dall’art. 11 Cost.
Nell’occasione, la Corte, più volte chiamata a risolvere questioni di antinomia
con tale ordinamento, ha assunto chiaramente come le disposizioni di esecuzione
dei Patti lateranensi, sulla base della copertura costituzionale loro accordata
dal già richiamato art. 7 Cost. [87], godono di una chiara capacità di resistenza alla
loro abrogazione con legge ordinaria successiva ed anche a derogare a
specifiche disposizioni costituzionali, ma non fino al punto da poter incidere
sui princìpi supremi dell’ordinamento costituzionale statale, individuati
soprattutto nel principio di eguaglianza e nel diritto alla difesa [88].
La giurisprudenza
costituzionale ora citata serve ad inquadrare meglio l’atteggiamento della
Consulta in merito all’individuazione di princìpi supremi da parte del Giudice
delle leggi proprio in relazione alle antinomie fra diritto interno e diritto
comunitario. Capofila di tali pronunce è la sentenza n. 183 del 1973 [89], nella quale la Corte inizia ad affermare in modo
netto ciò che ripeterà più volte in seguito, e cioè che le norme comunitarie
non possono violare «i princìpi fondamentali del nostro ordinamento
costituzionale o i diritti inalienabili della persona umana».
Un decennio dopo questa prima sentenza, il Giudice
delle leggi ribadisce l’esistenza di tali controlimiti nel caso Granital [90], nel quadro di una ricostruzione in senso dualistico
dei rapporti fra l’ordinamento comunitario e quello statale. Come pure rilevato
in dottrina [91] trattasi, secondo tale giurisprudenza, di due sistemi
configurati come «autonomi e distinti ancorché coordinati», secondo la
ripartizione di competenza stabilita e garantita dal Trattato. Nella dottrina
della Corte, la forza giuridica alla base della preminenza del diritto
comunitario sul diritto interno può pacificamente individuarsi nell’art. 11
Cost. L’assunzione di un principio che vede i due ordinamenti distinti, e al
contempo coordinati, porta la Corte a ribadire come – appartenendo la fonte
comunitaria ad altro ordinamento – «le norme da esso derivanti vengono, in
forza dell’art. 11 Cost., a ricevere diretta applicazione nel territorio
italiano, ma rimangono estranee al sistema delle fonti interne: e se così è,
esse non possono, a rigor di logica, essere valutate secondo gli schemi
predisposti per la soluzione dei conflitti tra le norme del nostro ordinamento»
[92].
La ricostruzione dualistica di tali rapporti e, al suo
interno, la richiamata primazìa del diritto comunitario, tuttavia, non è tale,
per la Corte, da consentire di ipotizzare una sottrazione alla sua competenza
dell’intero settore dei rapporti fra diritto comunitario e diritto interno.
Come lo stesso Giudice delle leggi sancisce, infatti, «questo collegio ha,
nella sentenza 183/1973, già avvertito come la legge di esecuzione del Trattato
possa andar soggetta al suo sindacato, in riferimento ai princìpi fondamentali
e ai diritti inalienabili della persona umana, nell’ipotesi contemplata, sia
pure come improbabile, al numero 9 della parte motiva di detta pronuncia». Con
tale giurisprudenza si chiarisce, al contempo, come la Corte escluda la sua competenza
a far valere la compatibilità del diritto interno rispetto a quello comunitario,
riconoscendo tale competenza ai soli giudici ordinari, nonché agli altri
soggetti cui compete di dare esecuzione al diritto comunitario [93]. Ciò deve dirsi con riferimento al diritto
comunitario che si qualifica come direttamente applicabile, residuandosi in
capo alla Corte il sindacato della compatibilità del diritto interno rispetto
al diritto comunitario, nell’ipotesi di norma disciplinante un principio di
diritto comunitario, ancorché quest’ultima abbia preferito seguire un
prevalente orientamento di self restraint,
nel senso della restituzione degli atti di causa al giudice a quo, perché lo stesso si attivi nei
confronti del Giudice comunitario al fine di conseguire una «interpretazione
certa e affidabile» [94].
E’ vero quindi, che, come rimarcato in dottrina [95], la Consulta, nel quadro di una concezione dualistica
dei due ordinamenti, come si è già ricordato, ha pienamente confermato la
primazìa del diritto comunitario rispetto a quello interno, limitandosi in gran
parte ad adottare sentenze monitorie, circa l’esistenza di controlimiti in
difesa dei princìpi e dei diritti fondamentali garantiti dall’ordinamento
costituzionale, o anche solo ordinanze di inammissibilità, fino a quando il
Giudice comunitario non si fosse pronunciato, in ciò fruendo delle possibilità
consentite dal giudizio incidentale.
Un’altra importante tappa dell’evoluzione della
giurisprudenza della Corte costituzionale italiana si è avuta nel 2008,
allorquando la Consulta ha ammesso la proposizione del rinvio pregiudiziale
alla Corte di giustizia [96], sebbene nei soli giudizi di costituzionalità in via
principale: nella specie in merito alla compatibilità con gli artt. 49 e 87 del
TCE di una disposizione legislativa regionale italiana (art. 4 della l.r.
Sardegna, n. 4 del 2006). Dunque, pur continuando a ritenere compito del
giudice a quo di avvalersi del potere
di rinvio in tutti i giudizi in via incidentale, la Corte costituzionale ha
affermato la propria legittimazione a proporre questione pregiudiziale davanti
alla Corte di giustizia nell’ambito dei giudizi di legittimità costituzionale
promossi in via principale, proprio in ragione della sua peculiare posizione
nell’ordinamento interno, che la vede quale unico giudice chiamato a pronunciarsi
in merito a tali controversie [97].
Nella specie, la risposta del Giudice di Lussemburgo
non si è fatta attendere. Con una sentenza del 2009 [98] la Corte di giustizia si è pronunciata sulla legge
oggetto del rinvio pregiudiziale dal parte del Giudice delle leggi italiano,
sancendo l’esistenza di un contrasto con il principio della libera prestazione
dei servizi e con il principio della libera concorrenza. La normativa oggetto
di giudizio (misure fiscali previste nella legge regionale sarda relative allo
scalo turistico degli aeromobili e delle imbarcazioni) viola altresì, a
giudizio della Corte di Lussemburgo, il principio della libera concorrenza, dal
momento che le misure legislative oggetto del rinvio prevedono uno sgravio
fiscale per gli operatori stabiliti in Sardegna [99].
Ma come «funziona» concretamente la teoria dei
controlimiti?
Come si è accennato, secondo la nostra Consulta, la
violazione dei principi di cui sopra comporta l’illegittimità, per quanto di
ragione, della legge di ratifica, nella parte in cui ha permesso l’ingresso nel
nostro ordinamento della disposizione sovranazionale; il relativo accertamento
spetta esclusivamente alla Corte costituzionale, alla quale la questione può e
deve essere prospettata dal giudice comune [100].
L’antinomia, invece, della norma interna con una norma
dell’Unione europea dà luogo ad una questione di legittimità costituzionale
esclusivamente nei casi nei quali sia fatta valere nel corso di un giudizio
principale [101], ovvero qualora la seconda sia priva di effetto
diretto [102], oppure quando «dall’applicazione della direttiva
deriva una responsabilità penale» [103].
Pertanto, soltanto qualora non sia possibile superare
il contrasto mediante l’interpretazione conforme e si verta nell’ambito di uno
dei casi nei quali non è ammessa la disapplicazione della norma interna, il
giudice comune deve proporre questione di legittimità costituzionale di
quest’ultima. Questione che andrà prospettata in relazione agli artt. 11 e 117,
primo comma, Cost., essendo insufficiente il riferimento al secondo di tali
parametri. Come già ricordato, invero, la Corte costituzionale ha precisato che
il limite all’esercizio della funzione legislativa stabilito dall’art. 117,
primo comma, Cost. è «solo uno degli elementi rilevanti del rapporto tra
diritto interno e diritto dell’Unione europea», che «trova ancora “sicuro
fondamento”» nell’art. 11 Cost. in relazione a «tutte le conseguenze che
derivano dalle limitazioni di sovranità» [104].
Successivamente alla novellazione dell’art. 117 Cost.,
restano, perciò, fermi «oltre al vincolo in capo al legislatore e alla relativa
responsabilità internazionale dello Stato, tutte le conseguenze che derivano
dalle limitazioni di sovranità che solo l’art. 11 Cost. consente, sul piano
sostanziale e sul piano processuale, per l’amministrazione e i giudici. In particolare,
quanto ad eventuali contrasti con la Costituzione, resta ferma la garanzia che,
diversamente dalle norme internazionali convenzionali (…), l’esercizio dei
poteri normativi delegati all’Unione europea trova un limite esclusivamente nei
principi fondamentali dell’assetto costituzionale e nella maggior tutela dei
diritti inalienabili della persona» [105], non in tutte le pertinenti norme della Carta
fondamentale.
Va ancora aggiunto che il giudice comune, nei
limitati casi in cui l’antinomia della norma interna con la norma dell’UE va denunciata
con l’incidente di costituzionalità, prima di sollevare la relativa questione,
ha l’onere di verificare l’impossibilità di porre rimedio al contrasto mediante
l’interpretazione del diritto nazionale in modo conforme al diritto dell’UE [106], avendo cura di indicare le ragioni che,
eventualmente, la precludono [107]. A tale scopo egli deve avvalersi per intero del
margine di discrezionalità consentitogli dalle regole ermeneutiche [108], ma anche tenere conto che il principio di
interpretazione conforme non può servire da fondamento ad un’esegesi contra legem
del diritto nazionale [109]. Inoltre, il giudice comune deve avere
riguardo al testo ed alle finalità della direttiva [110] e non può offrire una lettura della disposizione
sovranazionale che entri in conflitto con i diritti fondamentali o con gli
altri principi generali del diritto comunitario [111].
Da notare che tale obbligo d’interpretazione conforme
riguarda l’insieme delle disposizioni del diritto nazionale, sia anteriori che
posteriori alla direttiva. Infatti, proprio il principio d’interpretazione
conforme richiede che i giudici nazionali si adoperino al meglio, nei limiti
della loro competenza, prendendo in considerazione il diritto interno nella sua
interezza e applicando i metodi di interpretazione riconosciuti da quest’ultimo,
al fine di garantire la piena effettività della direttiva di cui trattasi e
pervenire ad una soluzione conforme alla finalità perseguita da quest’ultima [112].
Come efficacemente riassunto in dottrina, il criterio
che dovrà guidare l’interprete della indagine relativa ai rapporti fra i nuovi
trattati e le Costituzioni nazionali rimane quello della «suddivisione dei
rispettivi ambiti di operatività in base ad un principio di competenza,
rimanendo ciascun ordinamento fondato e orientato su una propria Carta
costituzionale» [113]. Nell’ipotesi di sovrapposizione fra discipline dei
diversi ordinamenti, i trattati godono in modo indubbio di supremazia e
prevalenza sulle Costituzioni nazionali. Tale supremazia, tuttavia, allorché
tocca l’ambito dei principi e dei diritti fondamentali per come accolti e disciplinati
nei singoli ordinamenti costituzionali nazionali, lascia l’ultima parola alle Costituzioni
nazionali e per esse ai relativi giudici costituzionali, in una sorta di «primato
invertito», in cui la prevalenza del diritto europeo è costretta ad arrestarsi
di fronte ai principi supremi degli ordinamenti costituzionali [114].
In questa ottica trova piena conferma la lettura
secondo la quale i controlimiti non si pongono più come «un rigido muro di
confine fra ordinamenti», bensì come «il punto di snodo, la cerniera dei
rapporti tra UE e Stati membri», divenendo ormai gli stessi un elemento
positivo e dinamico di integrazione fra gli ordinamenti, rispetto a cui i
giudici dei due sistemi potranno meglio e più proficuamente ricostruire quel
necessario dialogo fra le Corti e quella circolazione di giurisprudenza che
avrà il suo riscontro, in ogni caso, con riferimento al livello di protezione
più elevato, di volta in volta al caso concreto, «in un’applicazione pro individuo dello standard di tutela comunitaria o nazionale che sia» [115].
Concludendo sul tema non potrà non notarsi come, ad
avviso di una parte della dottrina [116], il riferimento ai controlimiti, che pure continua ad
evocarsi dal giudice delle leggi, finisce sempre più con l’assomigliare ad un
baluardo che la Corte mantiene quasi più per ragioni di forma che non di
sostanza, finendo, peraltro, per mitigare i tentativi giurisprudenziali, anche
recenti, che intendono invece riempire di contenuti i controlimiti fino al
punto di escludere il dovere del giudice di ultima istanza di operare il rinvio
pregiudiziale alla Corte di giustizia quando la norma comunitaria dovesse
«cozzare» contro una di tali controlimitazioni e di affermare che il
sindacato sui controlimiti spetta allo stesso giudice e non è «sindacabile
esclusivamente» dalla Consulta. Si ha così la sensazione che la teoria dei
controlimiti sembri destinata, nel medio-lungo periodo, a progressivamente
arenarsi. Se non è seriamente ipotizzabile che vi siano norme comunitarie in
grado di vulnerare il principio democratico su cui poggia l’ordinamento
nazionale o le radici stesse del Paese, per quel che riguarda il riferimento ai
diritti inviolabili dell’uomo, v’è da dire che esso va progressivamente
assumendo una dimensione transnazionale per effetto di quel corposo numero di
strumenti normativi sovranazionali – comunitari e non – che hanno disciplinato
i diritti umani fondamentali e che si pongono con forza immediatamente
precettiva e suprema per le giurisdizioni nazionali.
Una volta presentato il rapporto tra
Corte costituzionale italiana e Corte di giustizia dell’Unione europea, rimane
da vedere quale sia il ruolo dei giudici comuni nazionali con riguardo ai principi
fondamentali comunitari, così venendo a trattare del punto sopra [117] indicato sub
(vii).
Secondo la dottrina [118] la risposta maggiormente plausibile all’interrogativo,
rispetto al diritto vigente (artt. 52 e 53, Carta dei diritti fondamentali dell’U.E.),
porta a ritenere tanto che gli stessi possano costituire materia opportuna di
rinvio pregiudiziale, quanto che possano rappresentare valido parametro ai fini
dell’interpretazione degli atti sottoposti alla sua cognizione (si tratta della
c.d. interpretazione conforme al diritto comunitario). È appunto in tale ambito
che si dischiudono significative questioni poste dall’intersezione fra la
disciplina dell’Unione in tema di diritti e di princìpi fondamentali comunitari
(si pensi, fra le tante, alla materia del biodiritto o a quella della famiglia)
e quella costituzionale di ogni singolo Paese membro dell’U.E., di norma
garantita dal principio della rigidità costituzionale e da quello connesso di
controllo giurisdizionale della costituzionalità delle leggi.
Di notevole rilievo appare, poi, la disposizione della
Carta dei diritti fondamentali relativa al «livello di protezione» dei diritti
(art. 53), secondo cui nessuna disposizione della Carta medesima può essere
interpretata come limitativa o lesiva dei diritti dell’uomo e delle libertà
fondamentali riconosciuti, nel rispettivo ambito di applicazione, oltre che dal
diritto dell’Unione, dal diritto internazionale, dalle convenzioni
internazionali delle quali l’U.E. o tutti gli Stati membri sono parti, in
particolare la CEDU, e dalle Costituzioni nazionali [119]. Nulla quaestio,
pertanto, circa l’individuazione della portata e del livello di protezione dei
diritti fondamentali dell’U.E. Questi ultimi sono da individuare e da
proteggere secondo lo standard più
elevato e con preferenza per le garanzie costituzionali assicurate da ogni
singolo Paese membro dell’Unione europea, e naturalmente con preferenza del
parametro comunitario in presenza di c.d. diritti nuovi [120].
L’espansione del ruolo del giudice ordinario,
pertanto, pare trovare un suo spazio particolare negli interstizi di questi due
ordinamenti giuridici. Ogni volta che la norma da utilizzarsi per la
risoluzione della singola controversia sia da valutare con riferimento al
sospetto di una sua incostituzionalità, la procedura è quella del ricorso alla Corte
costituzionale, la quale, in tal caso, nell’auspicio di un superamento del suo
attuale orientamento giurisprudenziale in riferimento ai casi di «doppia
pregiudizialità comunitaria e costituzionale» [121], dovrebbe entrare nel merito della questione
sottopostale a prescindere dalla questione se la norma dell’Unione sia o meno
priva di effetti diretti [122].
Tuttavia, se la stessa norma da utilizzarsi come
parametro non ricade espressamente nei parametri costituzionali e nella
giurisprudenza costituzionale già disponibile – nonché nell’interpretazione
conforme alla Costituzione medesima – pare aprirsi più di un varco a questo
stesso giudice di adire la Corte di giustizia, o mediante il rinvio
pregiudiziale o mediante la risoluzione della controversia con un’interpretazione
conforme alle disposizioni dei trattati. L’orizzonte che si apre, come si può cogliere
appare indubbiamente nuovo; è l’orizzonte di un controllo diffuso della costituzionalità
comunitaria. Tuttavia, non pare del tutto astratto il possibile rischio di elusione
del controllo di costituzionalità a seguito degli spazi riconosciuti al giudice
ordinario [123].
Il percorso testé delineato, come del resto sarà parso
evidente, risulta tutt’altro che lineare.
Tanto per citare un esempio, potrà dirsi che è del
2012 una decisione penale della Cassazione [124] contenente un lungo inciso sui rapporti tra diritto dell’Unione
e diritto interno. Un inciso che costituisce in effetti un obiter nell’economia della decisione, ma che potrebbe ingenerare
gravi fraintendimenti se dovesse avere
seguito nella giurisprudenza futura.
Ed invero, al paragrafo 5 della sentenza citata, la
Corte afferma che «la non applicazione di una norma nazionale da parte del
giudice è possibile soltanto allorché si sia in presenza di un diretto
contrasto tra una puntuale norma interna con un altrettanto puntuale precetto
comunitario, che dovrebbe essere applicato al posto della norma interna
incompatibile con esso. Situazione questa che può verificarsi, ad esempio,
quando un principio generale posto dal Trattato CE sia stato specificato e
concretizzato da una decisione della Corte di giustizia, assumendo così la
norma comunitaria carattere immediatamente precettivo, e dandosi pertanto luogo
non ad un rapporto di conformità-non conformità ma di applicabilità-non
applicabilità, in quanto l’applicazione di una norma esclude l’applicabilità
dell’altra».
Nel caso invece di una situazione di non conformità di
una norma nazionale con un principio generale del diritto comunitario, continua
la Corte, il giudice nazionale avrebbe anzitutto il dovere di tentare un’interpretazione
conforme; laddove questa strada si riveli impraticabile, egli sarebbe tenuto a
sollevare questione pregiudiziale dinanzi alla Corte di giustizia, ovvero una
questione di legittimità costituzionale della norma interna per violazione dell’art.
117, comma primo, Cost.: «non si tratterebbe, infatti, di ‘non applicare’ la
norma italiana per applicare al suo posto la puntuale norma comunitaria
incompatibile, bensì in sostanza di, per così dire, ‘disapplicare’ o ‘eliminare’
la norma interna per la non conformità con un principio generale dell’ordinamento
comunitario, compito questo che però spetta esclusivamente alla Corte
costituzionale, la cui sfera di attribuzioni verrebbe in pratica aggirata se si
ammettesse una sorta di controllo diffuso di compatibilità comunitaria».
Ora, a parte l’evidente
bizantinismo fondato sulla (pretesa) antinomia tra «non applicazione» e
«disapplicazione», va detto che, come prontamente rilevato in dottrina [125], la distinzione così enunciata dalla Corte non è
fondata dal punto di vista del diritto dell’Unione europea, né trova alcun
appoggio nella nostra giurisprudenza costituzionale.
La sua adozione da parte della giurisprudenza italiana
sovvertirebbe infatti l’intero sistema dei rapporti tra diritto interno e
diritto dell’Unione, esponendo il nostro Paese a una flagrante violazione del
diritto dell’Unione, così come interpretato dalla Corte di giustizia nella
storica sentenza Simmenthal, in cui
venne stabilito che «il giudice nazionale, incaricato di applicare, nell’ambito
della propria competenza, le disposizioni di diritto comunitario, ha l’obbligo di garantire la piena efficacia
di tali norme, disapplicando all’occorrenza, di propria iniziativa, qualsiasi
disposizione contrastante della legislazione nazionale, anche posteriore, senza
doverne chiedere o attendere la previa rimozione in via legislativa o mediante
qualsiasi altro procedimento costituzionale» [126].
Come già ricordato, la nostra Corte costituzionale ha,
con la sentenza 170/1984 [127], tratto le necessarie conseguenze da tale principio,
stabilendo che una eventuale questione di legittimità costituzionale che
facesse leva sul contrasto tra la norma interna impugnata e una norma di
diritto comunitario dotata di effetto diretto sarebbe inammissibile, spettando
piuttosto al giudice ordinario risolvere il contrasto mediante la
disapplicazione della norma interna.
Tali principi valgono, beninteso, soltanto per l’ipotesi
in cui la norma comunitaria contrastante con quella interna sia dotata di
effetto diretto. In caso contrario, il giudice ordinario in effetti non potrà
risolvere direttamente il contrasto, non potendo egli stesso dare applicazione
alla norma comunitaria; il contrasto dovrà in questo caso essere rimesso alla
Corte costituzionale, la quale dovrà a questo punto dichiarare illegittima la
norma interna per violazione degli gli artt. 11 e 117, comma primo, Cost. [128]. Ciò è avvenuto, ad es., nel 2010, in un caso in cui
la Consulta è stata chiamata a pronunziarsi su di contrasto tra una norma
italiana e una direttiva comunitaria non munita di efficacia diretta, poiché dalla
stessa non derivava un diritto riconosciuto al cittadino, azionabile nei confronti
dello Stato inadempiente [129]. Si è rilevato in proposito [130] che la Consulta si è in tal modo mantenuta un proprio
intangibile àmbito di intervento sulla compatibilità con le norme
costituzionali e con i principi identitari dell’ordinamento costituzionale,
convinta che il reciproco riconoscimento delle rispettive sfere sovrane di
giurisdizione costituisce, in questa fase di passaggio, l’indispensabile
condizione per un effettivo dialogo tra le diverse Corti nazionali ed europee
e, quindi, per una loro partecipazione attiva al confronto multilivello sui
diritti fondamentali.
Come si è
visto, la questione di compatibilità comunitaria, quando il contrasto sia con
una norma non provvista di effetto diretto o si tratti di contrasto da far
valere in un giudizio principale di costituzionalità, si traduce in una
questione di legittimità costituzionale. Che succede quando si pongano
contestualmente una questione di legittimità costituzionale rispetto ad un
parametro interno ed una questione di compatibilità comunitaria non risolvibile
dal giudice comune in via interpretativa o con la disapplicazione? È la
questione nota come di «doppia pregiudizialità», che ha alimentato la curiosità
di molta dottrina [131], in particolare di diritto interno, e che di recente
ha trovato nuovo alimento nella riforma del giudizio di costituzionalità in
Francia. La legge organica di attuazione della legge costituzionale del 2008,
che ha introdotto il giudizio a
posteriori di costituzionalità, ha previsto che in caso di contestuale
messa in discussione della compatibilità di una legge rispetto alla
Costituzione e agli impegni internazionali, il giudice deve pronunciarsi
prioritariamente sulla trasmissione della questione di costituzionalità [132].
Guardando al sistema italiano, dove l’ipotesi non è
espressamente prevista, il problema ha la sua soluzione sia nella disciplina
del giudizio di costituzionalità, sia nel rapporto tra diritto interno e
diritto dell’Unione.
In primo luogo, infatti, il dubbio di compatibilità
comunitaria deve essere risolto dal giudice comune prima di sollevare la
questione di costituzionalità, in quanto inerisce alla rilevanza della
questione di legittimità costituzionale. Una norma che non fosse compatibile
con il diritto comunitario sarebbe inapplicabile e dunque la relativa questione
di costituzionalità che fosse proposta prima di sciogliere quel dubbio sarebbe
inammissibile per difetto di rilevanza [133].
Dal punto di vista del diritto comunitario, poi, fin
dalla sentenza Simmenthal e dalla
sentenza Factortame, la Corte di
giustizia ha affermato che il giudice nazionale incaricato di applicare le
norme comunitarie ha l’obbligo di garantirne la piena efficacia, disapplicando
all’occorrenza qualsiasi disposizione contrastante della legislazione
nazionale, senza doverne chiedere previamente la rimozione in via legislativa o
mediante qualsiasi altro procedimento costituzionale. E la stessa risposta la
Corte ha dato alla Cassazione francese con la sentenza Melki [134], al giudice amministrativo bulgaro con la sentenza Elchinov [135] e alla Corte di Cassazione italiana [136]. Lo stesso principio è stato ripetuto nella sentenza Chartry v Belgium [137], anche se poi la Corte si è dichiarata incompetente a
risolvere la questione sottopostale in quanto l’oggetto della causa non aveva
alcun collegamento con il diritto dell’Unione [138].
E’ giunto ora il momento di trattare dei rapporti tra
l’ordinamento italiano e la Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti
dell’uomo e delle libertà fondamentali del 4 novembre 1950, ratificata dall’Italia
il 26 ottobre 1955 con l. 4 agosto 1955, n. 848 [139].
Come si è bene posto in luce in dottrina [140], a differenza del meccanismo di adattamento
automatico previsto dagli artt. 10 e 11 Cost. in relazione alle norme «del
diritto internazionale generalmente riconosciute» ed alle «limitazioni di
sovranità necessarie ad un ordinamento rivolto ad assicurare la pace e la
giustizia fra le Nazioni», i trattati, lasciati privi di un’espressa copertura
costituzionale, per potere acquistare efficacia nell’ordinamento interno,
richiedono, invece, una legge del Parlamento, comprensiva sia dell’autorizzazione
alla ratifica, sia di un ordine di esecuzione.
La conseguenza formale è stata che le norme
convenzionali internazionali assumevano nel nostro ordinamento lo stesso rango
della legge di adattamento, dunque di legge ordinaria. La conseguenza
sostanziale era che, in forza del principio lex
posterior derogat legi priori, era il tempo a determinare la prevalenza
dell’una o dell’altra norma in caso di conflitto; in breve, a mettere nel nulla
le norme di un trattato sottoscritto e ratificato poteva essere sufficiente una
legge ordinaria, solo perché successiva a quella di adattamento. Il conflitto
tra una norma interna ed una norma internazionale convenzionale, pertanto, non
dava luogo ad una questione di legittimità costituzionale, ma di prevalenza di
norme, di pari rango, posteriori nel tempo.
A questo problema, non da poco rispetto alle esigenze
di una ordinata vita di relazioni del nostro Paese nella Comunità
Internazionale, la giurisprudenza – fino alla approvazione della versione
attualmente in vigore dell’art. 117 Cost. – aveva posto rimedi contingenti, ora
con il criterio della specialità, ora con la variante della «peculiarità», in
generale con il ricorso al criterio dell’interpretazione conforme utilizzato
anche con una certa disinvoltura. In definitiva, si era riusciti, da parte dei
giudici comuni e del giudice costituzionale, a dare di fatto la prevalenza
nella maggior parte dei casi alle norme internazionali.
Ed invero, secondo la consolidata giurisprudenza
costituzionale, la Convenzione europea, in quanto resa esecutiva nel nostro
ordinamento interno con la sopra citata legge ordinaria, possedeva, per l’appunto,
siffatto rango [141], non potendo per essa venire in considerazione l’art.
11 Cost., per l’impossibilità di individuare con riferimento ad essa «alcuna
limitazione della sovranità nazionale» [142]. Il giudice delle leggi aveva, quindi, costantemente
negato che le disposizioni della Convenzione potessero fungere da parametri per
lo scrutinio di costituzionalità [143], con conclusione non contraddetta dalla possibilità di
evocarle quale parametro interposto, ai sensi dell’art. 76 Cost. [144].
Si è peraltro rimarcato in dottrina [145] che, non senza contraddizioni, la Corte
costituzionale aveva talora scrutinato nel merito la denunciata antinomia, senza
pronunciarsi sul rango della Convenzione [146], ovvero era sembrata incline a riconoscere la CEDU
quale parametro interposto ex art.
10, secondo comma, Cost. [147]. In ogni caso, le norme convenzionali restavano
esposte alla abrogazione da parte di successive disposizioni equiordinate; inoltre,
le norme di diritto internazionale pattizio, in generale, incontravano «il
limite costituzionale (…) nella sua interezza, alla stregua di quanto accade
con riguardo a ogni altra legge» [148].
Identico principio era stato enunciato dalla
prevalente giurisprudenza, di legittimità ed amministrativa [149]. La Corte di cassazione, almeno a partire dal 1989,
aveva, tuttavia, affermato che le norme della Convenzione, salvo quelle il cui
contenuto fosse così generico da non delineare fattispecie sufficientemente puntualizzate,
sarebbero state di immediata applicazione nel nostro Paese [150]. L’irriconducibilità delle norme convenzionali al
diritto comunitario aveva giustificato la negazione sia del potere del giudice
comune di disapplicare la norma interna in contrasto con la CEDU [151], sia dell’ammissibilità del rinvio pregiudiziale alla
Corte di Lussemburgo, per la risoluzione di questioni di interpretazione delle
medesime [152]. Peraltro, in alcuni casi la legge di ratifica era
stata ricondotta ad una competenza atipica, allo scopo di escluderne l’abrogazione
da parte di leggi successive [153].
L’effetto conseguente a siffatta configurazione,
consistente nell’esposizione delle disposizioni della CEDU all’abrogazione da
parte di leggi successive a quella di ratifica, era stato, in parte, attenuato dalle
pronunce della Consulta, che avevano sottolineato l’identità dei valori
enunciati nella Convenzione e nella Costituzione [154], attribuendo una particolare forza alla CEDU, sia
mediante l’enfatizzazione della rilevanza della stessa nell’interpretazione
delle norme parametro o delle norme oggetto [155], sia privilegiando l’esegesi di queste ultime
conforme alle disposizioni convenzionali [156], anche nell’interpretazione offerta dalla Corte di
Strasburgo [157].
La giurisprudenza di legittimità aveva offerto una
organica soluzione alla questione in esame con quattro sentenze delle Sezioni
Unite civili del 2004 – concernenti la legge 24 marzo 2001, n. 89 (cd. legge
Pinto) – le quali avevano affermato anzitutto il dovere del giudice ordinario
di «applicare il diritto nazionale conformemente alla Convenzione» e di
«interpretare detta legge in modo conforme alla CEDU per come essa vive nella
giurisprudenza della Corte europea», «per quanto possibile, e quindi solo nei
limiti in cui detta interpretazione conforme sia resa possibile dal testo della
stessa legge». Inoltre, avevano precisato che un eventuale contrasto tra detta legge
e la CEDU avrebbe posto un problema di conformità della stessa con la
Costituzione, non risolvibile dal giudice comune [158].
Peculiare rilievo, nella giurisprudenza penale,
avevano poi avuto tre sentenze, le quali, a cavallo tra il 2005 ed il 2006,
avevano ribadito l’obbligo del giudice italiano di conformarsi alle pronunce
della Corte europea [159].
Infine, va ricordato che il Consiglio di Stato, pur
negando alla CEDU posizione pariordinata alla Costituzione, aveva riconosciuto,
in via di interpretazione, una particolare resistenza all’abrogazione delle
norme di ratifica della medesima ad opera di fonti equiordinate successive,
nella parte in cui recavano una disciplina in contrasto con una norma
convenzionale [160].
10. Segue. Le conseguenze della riforma dell’art. 117
Cost.
La questione in esame ha ricevuto una soluzione in
grado di garantire peculiare efficacia alle disposizioni della CEDU soltanto
nel 2007, con due sentenze della Corte costituzionale [161], grazie alla novellazione dell’art. 117 Cost. ad
opera della legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3 [162], che non può «essere ritenuto una mera riproduzione
in altra forma di norme costituzionali preesistenti (in particolare gli artt.
10 e 11)» e neppure è «da considerarsi operante soltanto nell’ambito dei
rapporti tra lo Stato e le Regioni» [163].
Ed invero, la riformulazione dell’art. 117, primo
comma, Cost., realizzata dalla riforma costituzionale del 2001, introducendo la
previsione secondo cui «la potestà legislativa è esercitata dallo Stato e dalle
Regioni nel rispetto (…) dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e
dagli obblighi internazionali», ha offerto copertura costituzionale anche alle
disposizioni convenzionali; compresa la CEDU, che è il trattato più
frequentemente interpretato ed applicato nelle nostre aule di giustizia. Il
contrasto tra norma interna e norma internazionale convenzionale è pertanto
oggi una questione di legittimità costituzionale rispetto all’art. 117, primo
comma della Costituzione, di competenza della Corte costituzionale quando non
sia sanabile in via interpretativa dal giudice comune.
La Consulta, con le sentenze del 2007, ha anzitutto
confermato che la CEDU non rientra nell’ambito di operatività dell’art. 10,
primo comma, Cost.; le relative norme, poiché recepite con legge ordinaria,
«non si collocano a livello costituzionale» e, per esse, non può essere evocato
l’art. 11 Cost., non essendo configurabile «alcuna limitazione della sovranità
nazionale», poiché i diritti fondamentali non costituiscono «una “materia” in
relazione alla quale sia allo stato ipotizzabile, oltre che un’attribuzione di
competenza limitata all’interpretazione della Convenzione, anche una cessione
di sovranità».
Poste queste premesse, le pronunce hanno affermato che
soltanto il nuovo primo comma dell’art. 117 Cost. ha posto rimedio alla
preesistente lacuna, introducendo un parametro che ha dato copertura alle norme
convenzionali, le quali specificano, integrandone il contenuto, il dovere del
legislatore di rispettare gli «obblighi internazionali». Peraltro, ciò non
significa, che con l’art. 117, primo comma, Cost., si possa attribuire rango
costituzionale alle norme contenute in accordi internazionali, oggetto di una
legge ordinaria di adattamento, com’è il caso delle norme della CEDU. Il
parametro costituzionale in esame comporta, infatti, l’obbligo del legislatore
ordinario di rispettare dette norme, con la conseguenza che la norma nazionale
incompatibile con la norma della CEDU e dunque con gli «obblighi internazionali»
di cui all’art. 117, primo comma, viola per ciò stesso tale parametro
costituzionale. Secondo la Consulta, quindi, «Con l’art. 117, primo comma, si è
realizzato, in definitiva, un rinvio mobile alla norma convenzionale di volta
in volta conferente, la quale dà vita e contenuto a quegli obblighi
internazionali genericamente evocati e, con essi, al parametro, tanto da essere
comunemente qualificata “norma interposta”; e che è soggetta a sua volta (…) ad
una verifica di compatibilità con le norme della Costituzione» [164].
Siffatto contrasto dà, quindi, luogo ad una questione
di costituzionalità anche quando concerna leggi cronologicamente precedenti
alla modifica del parametro costituzionale [165].
Secondo il giudice delle leggi, da tale configurazione
consegue che, proposto incidente di costituzionalità per violazione della CEDU,
la norma convenzionale, in primo luogo, «è soggetta a sua volta (…), ad una
verifica di compatibilità con le norme della Costituzione», perché integra il
parametro costituzionale, ma rimane «pur sempre ad un livello
sub-costituzionale». In secondo luogo, diversamente da quanto accade per le
norme comunitarie e concordatarie, tale verifica non è limitata «alla possibile
lesione dei principi e dei diritti fondamentali», ma va effettuata con tutte
«le pertinenti norme della Costituzione» [166], quindi, deve «estendersi ad ogni profilo di
contrasto tra le “norme interposte” e quelle costituzionali» [167], per accertare se «il contrasto sia determinato da un
tasso di tutela della norma nazionale inferiore a quello garantito dalla norma
CEDU» [168].
Sempre secondo la Consulta, «il risultato complessivo
dell’integrazione delle garanzie dell’ordinamento deve essere di segno
positivo, nel senso che dall’incidenza della singola norma CEDU sulla
legislazione italiana deve derivare un plus
di tutela per tutto il sistema dei diritti fondamentali» [169]. Ciò in quanto, evidentemente, la subordinazione della
Convenzione alla Costituzione deriva dall’esigenza di garantire il più alto
livello di tutela, per evitare che quella accordata ad un diritto possa
pregiudicarne un altro di pari valore, obiettivo il cui conseguimento richiede
un bilanciamento riservato alla Consulta, quale custode ultimo della Carta
fondamentale. Nel caso in cui il giudice delle leggi accerti che il contenuto precettivo
della disposizione convenzionale vulnera norme della Costituzione, «tale
ipotesi, pure eccezionale, esclude l’operatività del rinvio alla norma
internazionale», «e, non potendosi evidentemente incidere sulla sua
legittimità, comporta (…) l’illegittimità, per quanto di ragione, della legge
di adattamento» [170].
Nel nostro ordinamento attuale, pertanto, alle norme
di provenienza CEDU è riconosciuto un effetto orizzontale indiretto [171]: «le disposizioni contenute in tali atti
internazionali costituiscono quanto meno un notevole criterio interpretativo
delle norme vigenti nel nostro ordinamento, specie quando si tratti di norme
successivamente emanate» [172]. Si discute, invece, se possa dirsi riscontrabile in
modo chiaro la rilevanza giuridica della diretta efficacia delle norme pattizie
nei rapporti intersoggettivi [173]. L’effetto orizzontale CEDU è invece pacificamente
accettato in Francia, ove l’art. 55 della Costituzione [174] attribuisce ai trattati internazionali un valore
superiore a quello della legge ordinaria. La giurisprudenza, pertanto, ha
individuato un vero e proprio Contrôle de
conventionnalité affidato alle corti ordinare che, in caso di difformità
del diritto interno alla Convenzione, possono disapplicarlo, con efficacia inter partes [175]. In Spagna attraverso la legge de amparo i diritti fondamentali sono tutelabili direttamente
innanzi ai Tribunali Costituzionali e le sentenze della Corte europea dei
diritti dell’uomo hanno valore vincolante per gli stessi [176].
11. Segue. Modalità di composizione dei contrasti tra
norma interna e norma CEDU, ovvero del dialogo tra il giudice nazionale comune
e la Corte di Strasburgo.
In base a quanto sopra esposto deriva che il giudice
nazionale comune, qualora rilevi un’antinomia tra una norma interna e la CEDU,
deve anzitutto individuare puntualmente la disposizione convenzionale
eventualmente vulnerata, e ciò deve fare avendo riguardo all’interpretazione
offerta dalla Corte di Strasburgo. Infatti, la rilevanza della Convenzione,
«così come interpretata dal “suo” giudice, rispetto al diritto interno è
certamente diversa rispetto a quella della generalità degli accordi
internazionali» [177], avendo il giudice europeo ritenuto soggetta al suo
giudizio l’attività ermeneutica del giudice nazionale, anche di quello
costituzionale [178]. Tale ricognizione va operata avendo riguardo alla
«giurisprudenza europea consolidatasi sulla norma conferente» [179], puntualizzazione questa che induce a ritenere
necessario verificare se sulla norma convenzionale esista un «diritto vivente»
del giudice di Strasburgo, tenendo quindi conto delle oscillazioni della giurisprudenza
europea, valorizzando, eventualmente, le opinioni dissenzienti ed accertando se
si tratti di decisione resa da una Camera, ovvero dalla Grande Camera, oppure
direttamente riferibile all’Italia [180].
Accertata l’esistenza di un contrasto insanabile,
secondo la giurisprudenza costituzionale sopra richiamata, al giudice comune
non spetta quel potere di disapplicare la norma interna, che caratterizza
invece il caso di contrasto con il diritto dell’UE. Ciò che, del resto, non
appare possibile neppure configurando un contrasto in via indiretta, per
effetto della qualificazione, da parte della Corte di Lussemburgo, dei diritti
fondamentali oggetto di disposizioni della CEDU come principi generali del
diritto comunitario, in difetto della generale «comunitarizzazione» delle norme
della Convenzione.
Egli deve, invece, verificare se sia possibile offrire
della norma interna un’interpretazione conforme alla CEDU [181], entro i limiti di quanto ragionevolmente consentito
dai normali criteri ermeneutici, tenendo conto che «l’apprezzamento della giurisprudenza europea consolidatasi
sulla norma conferente va operato in modo da rispettare la sostanza di quella
giurisprudenza» e valorizzando gli specifici margini di apprezzamento riservati
al giudice nazionale [182]. Infatti, «appartiene alle autorità nazionali il
dovere di evitare che la tutela di alcuni diritti fondamentali (…) si sviluppi
in modo squilibrato, con sacrificio di altri diritti ugualmente tutelati dalla
Carta costituzionale e dalla stessa Convenzione europea» [183].
E’ da tenere presente che, ai sensi dell’art. 32,
paragrafo 1, della CEDU, il giudice interno, per accertare se vi sia contrasto
fra le norme nazionali e le norme della CEDU, deve tenere conto di queste
ultime solo nel significato loro attribuito dalla Corte EDU [184] e, comunque, deve interpretare la normativa nazionale
in modo conforme alla CEDU [185].
Soltanto quando
l’interpretazione conforme e la valorizzazione di tale margine di apprezzamento
non permettano di escludere l’antinomia, il giudice comune è tenuto a proporre
questione di legittimità costituzionale della norma interna, con riferimento
all’art. 117, primo comma, Cost. La «clausola del necessario rispetto dei
vincoli derivanti dagli obblighi internazionali», contenuta in tale parametro
impone, infatti, «il controllo di costituzionalità, qualora il giudice comune
ritenga lo strumento dell’interpretazione insufficiente ad eliminare il
contrasto» [186].
Tale criterio è stato condiviso dalla Corte europea [187] ed è stato applicato dalla Corte di cassazione [188], la quale ha ulteriormente chiarito che le norme
della citata convenzione hanno immediata rilevanza nell’ordinamento interno. I
diritti riconosciuti dalla Convenzione sono inviolabili, essendo relativi a
diritti fondamentali della persona, e sostanzialmente assimilabili a quelli
protetti dalla Costituzione: per questo le norme della CEDU possono essere
qualificate come elementi costitutivi dell’ordine pubblico italiano [189].
La Corte di
legittimità ha anche ritenuto ammissibile il ricorso straordinario, ex art. 625-bis c.p.p. preordinato ad ottenere, in esecuzione di una sentenza
della Corte EDU – che abbia accertato la non equità del trattamento
sanzionatorio determinato, con sentenza definitiva, in violazione degli art. 6
e 7 CEDU – la sostituzione della pena inflitta con quella ritenuta equa dai
giudici europei [190].
Pur confermando l’insindacabilità dell’interpretazione
della Convenzione fornita dalla Corte di Strasburgo, la Corte costituzionale
riserva, dunque, a sé la possibilità – oltre che di controllare la rispondenza
delle norme CEDU alla Costituzione – anche di «valutare come ed in qual misura
il prodotto dell’interpretazione della Corte europea si inserisca nell’ordinamento
costituzionale italiano». Questa valutazione si risolve, in particolare, in un
apprezzamento da parte della Corte costituzionale della «giurisprudenza europea
consolidatasi sulla norma conferente», che consenta di rispettarne la sostanza
e, nello stesso tempo, di tener conto anche delle peculiarità dell’ordinamento
giuridico in cui la norma convenzionale è destinata a inserirsi» quale norma
interposta.
A questo necessario riscontro di «non incompatibilità»
formale fra diritto convenzionale e Costituzione la più volte ricordata sentenza
n. 317 del 2009 ha aggiunto una ulteriore importante condizione di ordine
sostanziale: e cioè che «il risultato complessivo dell’integrazione delle
garanzie dell’ordinamento deve essere di segno positivo, nel senso che dall’incidenza
della singola norma CEDU sulla legislazione italiana deve derivare un plus di tutela per tutto il sistema
[nazionale] dei diritti fondamentali». Richiedendo tale «plus di tutela», la Corte costituzionale si dispone perciò a un
confronto aperto con le giurisprudenze comunitaria e internazionali, non
ripiegandosi su logiche nazionalistiche, ma riconfermando la disponibilità a
superare lo stesso principio di sovranità della Costituzione politica quando
ciò valga ad ampliare la tutela dei diritti della persona.
Altro fattore che va tenuto
in conto e che in qualche modo attiene al tema dei diritti fondamentali all’interno
del sistema CEDU è il problema della diretta applicabilità delle sentenze della
Corte europea dei diritti dell’uomo [191]. La questione che si pone al riguardo è dunque quella
dell’eventuale presenza di effetti precettivi immediati in capo alle decisioni
della Corte di Strasburgo.
Secondo un primo
filone giurisprudenziale di legittimità, le sentenze della Corte EDU che
dichiarano violata la Convenzione, non avrebbero effetti precettivi immediati, pur
producendo diritti ed obblighi nei confronti delle parti del giudizio: lo Stato
deve dunque ad esse conformarsi, eliminando la violazione; la parte lesa dalla
violazione ha diritto alla riparazione nella forma pecuniaria e/o specifica
della restitutio in integrum [192].
Secondo diverso
indirizzo, invece, la sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, una
volta divenuta definitiva ai sensi dell’art. 44 della CEDU, ha effetti
precettivi immediati assimilabili al giudicato e, in quanto tale, deve essere
tenuta in considerazione dall’organo dello Stato che, in ragione della sua
competenza, è al momento il destinatario naturale dell’obbligo giuridico,
derivante dall’art. 1 della CEDU, di conformare e di non contraddire la sua
decisione al deliberato della Corte di Strasburgo per la parte in cui abbia
acquistato autorità di cosa giudicata in riferimento alla stessa quaestio disputanda della quale continua
ad occuparsi detto organo. Proprio questo è l’avviso espresso da una decisione
di legittimità del 2011 [193].
Nella specie, la
sentenza definitiva della Corte di Strasburgo era intervenuta all’esito del
giudizio penale nei confronti di un parlamentare per il reato di diffamazione
in danno di un privato cittadino, che si era concluso con pronuncia di
inammissibilità della Corte di cassazione in ragione della ritenuta operatività
della guarentigia di cui all’art. 68, primo comma, Cost., senza però sollevare
conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato dinanzi alla Corte
costituzionale avverso la delibera di insindacabilità del Parlamento; la Corte
EDU aveva, quindi, ritenuto sussistente la violazione dell’art. 6 della
Convenzione, escludendo che nella fattispecie operasse la prerogativa dell’art.
68 Cost.; nelle more del processo penale, la vittima del reato aveva intanto
promosso il giudizio civile per ottenere dal parlamentare il risarcimento dei
danni derivanti dalla diffamazione; la S.C. ha ritenuto che sul tema della
inoperatività dell’art. 68 Cost. statuita dalla Corte EDU derivasse un effetto
di giudicato del quale il giudice della causa civile doveva tener conto,
giacché chiamato a decidere sulla medesima causa
petendi.
Da notare, in proposito, che l’adeguamento alle
sentenze definitive della Corte EDU costituisce, per gli Stati contraenti, ai
sensi dell’art. 46, par. 1, CEDU, l’oggetto di uno specifico e speculare
obbligo di conformazione [194], che può ricevere attuazione anche mercé un
intervento adeguatore della Consulta. Un rilevante esempio al riguardo è dato
da una decisione del 2011 della Corte costituzionale [195], la quale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale
dell’art. 630 c.p.c., nella parte in cui non prevede la revisione del processo,
allorché la sentenza o il decreto penale di condanna siano in contrasto con la
sentenza definitiva della Corte EDU che abbia accertato l’assenza di equità del
processo ai sensi dell’art. 6 della CEDU, così consento la riapertura del
processo in tale ipotesi. E’ evidente che questa ulteriore ipotesi di revisione
del processo penale è stata resa necessaria proprio dall’esistenza del
richiamato obbligo di conformazione alle sentenze della Corte EDU previsto dall’art.
46 della CEDU [196].
A parte questa recente situazione, va aggiunto che,
come rimarcato in dottrina, diversi sono i settori in cui la nostra Consulta ha
innalzato il complessivo grado di tutela dei diritti rispetto a quello previsto
in Costituzione, recependo o facendo proprie indicazioni provenienti dalla
giurisprudenza della Corte di Strasburgo.
Si pensi al tema dell’indennità di espropriazione e
del risarcimento del danno derivante dalla occupazione appropriativa da parte
della pubblica amministrazione. Si tratta della cosiddetta «accessione invertita»,
e cioè di un istituto, di invenzione giurisprudenziale, consistente nell’utilizzazione
senza titolo da parte della stessa amministrazione di un bene per scopi di
interesse pubblico, con la conseguente acquisizione di tale bene al suo
patrimonio indisponibile, senza che sia necessario un valido provvedimento di
esproprio.
Al riguardo la Corte costituzionale, nel 2007 [197], non ha avuto alcun dubbio a dichiarare
costituzionalmente illegittima la disposizione di legge [198] che, per tale caso, stabiliva il risarcimento del
danno in misura non corrispondente al valore di mercato del bene occupato,
rilevandone il contrasto con gli obblighi internazionali sanciti dall’art. 1
del Protocollo addizionale alla CEDU in tema di diritto di proprietà, come
interpretato dalla giurisprudenza europea.
Un ulteriore caso di uniformazione della
giurisprudenza costituzionale alla giurisprudenza europea concerne la
qualificazione della confisca «per equivalente» in materia fiscale come misura
analoga a una sanzione penale, con il conseguente divieto di applicazione
retroattiva. La Corte costituzionale ha disatteso la giurisprudenza dei giudici
comuni che qualificava la «confisca per equivalente» del profitto come una
misura di sicurezza di carattere amministrativo (e quindi di applicazione anche
retroattiva) e, allineandosi ai princìpi sanciti nell’art. 7 della CEDU come
interpretati dalla Corte di Strasburgo [199], l’ha ricondotta al novero delle sanzioni penali, in
quanto tali, non retroattive [200].
Di contro alle
predette ipotesi di «allineamento» della Consulta alla giurisprudenza prodotta
sulle rive dell’Ill, si annoverano non pochi casi di «disallineamento».
Ed invero, una divergenza,
quanto meno parziale, sull’interpretazione
dell’art. 7 della CEDU, relativamente all’estensione del principio di
retroattività delle leggi penali, si è manifestato con riguardo alla legge che
prevede un trattamento più favorevole al reo (lex mitior) in una
decisione del 2011 [201]. La Consulta era qui chiamata a decidere la questione
di legittimità costituzionale dell’art. 10, l. n. 251 del 2005 (c.d. ex-Cirielli)
nella parte in cui esclude l’applicazione dei nuovi termini di prescrizione dei
reati, se più favorevoli, per i processi già pendenti in grado di appello o
dinanzi alla Corte di cassazione. Secondo il giudice a quo detta
disposizione, essendo venuta a limitare l’applicazione retroattiva di una norma
che riduceva i termini di prescrizione del reato, più favorevole al reo, si
poneva in contrasto con l’art. 7 della CEDU, nell’interpretazione di esso
fornita dalla Corte di Strasburgo nel caso Scoppola contro Italia [202]. In questa decisione – secondo il giudice rimettente
– si era infatti ricavato dal citato art. 7 il principio non solo del divieto
di retroattività della legge penale incriminatrice, ma anche quello della
necessaria retroattività della lex mitior [203].
La Corte costituzionale, nel dichiarare non fondata la
questione, ha anzitutto osservato che la sentenza Scoppola «ancorché tenda ad
assumere un valore generale e di principio (…) resta pur sempre legata alla
concretezza della situazione che l’ha originata», ribadendo la propria
competenza a trarre dalla puntualità della casistica giurisprudenziale i
princìpi atti ad essere trasposti nell’ordinamento giuridico nazionale e a innestarsi
armoniosamente in esso. In particolare si è osservato che, secondo la Corte di
Strasburgo, il principio di retroattività della lex mitior concerne le
sole «disposizioni che definiscono i reati e le pene che li reprimono» [204], mentre il principio di retroattività che vige nel
nostro ordinamento ed è formalizzato nell’art. 2, quarto comma, c.p., non deve
essere limitato alle sole disposizioni concernenti la misura della pena, ma va
esteso a tutte le norme sostanziali, come quelle attinenti alla prescrizione,
che, pur riguardando profili diversi dalla sanzione in senso stretto, incidono
sul complessivo trattamento riservato al reo [205]. Peraltro, come affermato più volte dalla Consulta,
«il principio di retroattività della disposizione penale più favorevole al reo
– previsto a livello di legge ordinaria dall’art. 2, secondo, terzo e quarto
comma, cod. pen. – non è stato costituzionalizzato dall’art. 25, secondo comma,
Cost., che si è limitato a sancire l’irretroattività delle norme incriminatrici
e, in generale, delle norme penali più severe. Esso, dunque, ben può subire
deroghe per via di legislazione ordinaria, quando ne ricorra una sufficiente
ragione giustificativa (ex plurimis:
sentenze n. 215 del 2008, n. 393 del 2006, n. 80 del 1995, n. 74 del 1980, n. 6
del 1978; ordinanza n. 330 del 1995)» [206].
E proprio in ragione della diversa, e più ristretta,
portata del principio convenzionale rispetto a quello accolto nel nostro
ordinamento costituzionale, ha concluso nel senso che la ricordata
giurisprudenza della Corte EDU non contrasta con l’indirizzo della
giurisprudenza costituzionale – affermato in numerose sue sentenze (Sentenze
nn. 215 e 72 del 2008, 394 e 393 del 2006) – secondo il quale il principio di
necessaria retroattività della lex mitior, quando, come nel caso della
prescrizione, non sia riferito a reati o pene, può essere bilanciato con
interessi e valori di primario rilievo o con esigenze di natura processuale di
analogo rango (quali l’efficienza del processo e la salvaguardia dei diritti
dei soggetti che sono destinatari della funzione giurisdizionale). In queste
ipotesi, in cui non si verifica un mutamento nella valutazione sociale del
fatto tale da incidere sulla sua rilevanza ai fini dell’ordinamento penale,
anche la Corte di Strasburgo, infatti, ha sempre autorizzato limitazioni al
principio della piena retroattività della legge penale di favore.
13. Le prospettive del dialogo tra le corti in vista
dell’adesione dell’U.E. alla CEDU.
Concludendo sul punto del dialogo tra corti nazionali e
Corte europea, dovrà aggiungersi che neppure l’adesione dell’Unione alla CEDU
dovrebbe cambiare la situazione testé descritta dei rapporti tra giudice
nazionale, giudice costituzionale e Corte di Strasburgo. Lo conferma l’attenzione
che gli Stati membri hanno mostrato nel precisare più volte, in occasione della
riforma di Lisbona, che la Carta non incrementa le competenze dell’Unione e che
il sistema comunitario è fondato sul principio delle competenze di
attribuzione, quasi a voler ricordare a coloro che sono stati conquistati solo
di recente all’ideale dell’integrazione comunitaria che tale principio, sancito
già a chiare lettere dal Trattato di Roma del 1957, resta ancora oggi
saldamente il perno sul quale poggia l’intero sistema. E la circostanza non può
considerarsi casuale. Gli Stati membri ancora una volta hanno voluto
palesemente sottolineare di voler procedere a piccoli passi nel processo d’integrazione,
senza salti in avanti.
Si è anche rimarcato in dottrina che applicare la
Carta dei diritti fondamentali, o utilizzare il meccanismo della
disapplicazione in caso di conflitto con una norma CEDU indipendentemente dalla
rilevanza della fattispecie per il diritto comunitario, costituirebbe un salto
in avanti del quale, anche a voler tacere della correttezza giuridica, non si
coglierebbe né la necessità, né l’opportunità. Il ritmo impresso al processo di
integrazione europea – si è detto – va rispettato, anche per evitare che i
tentativi di passi troppo rapidi, senza la necessaria base normativa o addirittura
a dispetto di questa, finiscano per alimentare quei contraccolpi negativi dei
quali pure è piena la vicenda comunitaria [207].
L’argomento sarà ripreso tra breve in relazione al
valore della Carta di Nizza. Peraltro va tenuto presente che, all’indomani dell’entrata
in vigore del Trattato di Lisbona, alcune decisioni amministrative hanno
ritenuto che, in virtù di detto art. 6, le disposizioni della CEDU
costituirebbero «diritto comunitario» e sarebbero direttamente applicabili nel
nostro ordinamento; quindi, le norme interne con esse in contrasto potrebbero
essere disapplicate dal giudice comune [208]. Diversamente, invece, una sentenza ha negato tale
effetto, muovendo dalla constatazione che l’UE non ha ancora aderito alla CEDU,
osservando che è, quindi, «prematuro (…) chiedersi se l’adesione alla CEDU
comporterà l’equiparazione della Convenzione ai Trattati, ovvero se gli
enunciati ivi contenuti conserveranno il rango intermedio dei principi
generali, sia pure rilevanti autonomamente e non più tramite le decisioni della
Corte di giustizia» [209]. Ma, a prescindere da questo rilievo d’ordine, per
così dire, temporale, la stessa Corte di giustizia ha escluso, con una
decisione del 2012 su esplicito quesito pregiudiziale formulato dal Tribunale
di Bolzano, l’assimilazione delle norme CEDU a quelle comunitarie quanto a
effetto diretto e disapplicazione della norma nazionale in caso conflitto [210]. Analoghe conclusioni erano state raggiunte l’anno
precedente da una decisione della nostra Corte costituzionale [211].
Non vi è peraltro dubbio che il dialogo tra la Corte
costituzionale e la Corte europea potrebbe divenire più serrato se venisse data
esecuzione al punto 12, lettera d), della Dichiarazione di Brighton [212], emessa all’esito della High Level Conference tenutasi sotto gli auspici del Consiglio d’Europa
il 19 e 20 aprile 2012 «on the Future of the European Court of Human Rights».
In tale documento si auspica che nella Convenzione, allo scopo di rafforzare l’interazione
fra la Corte di Strasburgo e le autorità nazionali, sia introdotto un
Protocollo addizionale – da redigere entro la fine del 2013 – per dotare la
Corte del potere di inviare «advisory
opinions» sull’interpretazione della Convenzione, su richiesta dello
Stato membro. Le opinions, secondo la Dichiarazione, dovrebbero avere
carattere vincolante per il solo Stato cui appartiene l’autorità che formula il
quesito interpretativo e non «for the
other States Parties». Esse si configurerebbero, quindi, per quello
Stato come una sorta di «pregiudiziale convenzionale» e dovrebbero, pertanto,
vincolare l’autorità richiedente alla stessa stregua delle pronunce rese dalla
Corte di giustizia di Lussemburgo in sede di rinvio pregiudiziale sull’interpretazione
del diritto dell’Unione ai sensi dell’art. 267 del TFUE.
Un siffatto meccanismo è sicuramente apprezzabile nell’ottica
di un più intenso dialogo dei giudici nazionali con la Corte di Strasburgo ai
fini di una maggiore uniformità dell’interpretazione del diritto convenzionale,
sebbene il suo carattere vincolante ponga il problema di fondo della
conciliabilità di tale istituto con l’orientamento della Corte costituzionale
italiana, diretto, come si è visto, a riservare alla Corte nazionale un margine
di apprezzamento autonomo della giurisprudenza della Corte EDU. E’ vero che la
richiesta dell’opinione sarebbe opzionale e, perciò, rimessa alla scelta dell’autorità,
ma è anche vero che, una volta emessa l’opinion, la Corte costituzionale
italiana difficilmente potrebbe fare quel controllo di compatibilità con la nostra
Costituzione che ha, invece, riservato a se stessa [213].
Ulteriore «problema di dialogo» è quello che si
potrebbe porre sull’applicabilità diretta di una norma convenzionale in caso di
mancanza di una disciplina legislativa di un determinato argomento.
A questo punto, secondo la tesi della Corte
costituzionale, l’operatore si dovrebbe trovare a dover ricercare la tutela più
intensa attraverso il confronto diretto ed esclusivo tra CEDU e Costituzione;
una tale evenienza si è verificata, anche di recente, in tragiche questioni
relative al fine-vita, quali quelle di cui ai casi Welby ed Englaro [214]. In circostanze del genere, il giudice, trovandosi a
dover prendere scelte assai complesse, potrebbe individuare la protezione più
intensa nel diritto internazionale pattizio, piuttosto che nella Costituzione.
Di modo che, anche per questo aspetto, potrebbe assistersi all’applicazione
diretta di una norma convenzionale idonea ad offrire la più adeguata tutela al
diritto [215]. D’altro canto, non si vede perché mai si consideri
possibile l’applicazione immediata di una norma costituzionale, mentre non lo
sarebbe quella di una norma convenzionale. È pur vero, poi, che la stessa
applicazione di una norma costituzionale potrebbe mascherare l’applicazione
della norma internazionale che, di fatto, acquisterebbe rilievo per la pratica
giuridica, essendo utilizzata in sede d’interpretazione del dettato
costituzionale [216].
In definitiva, l’indicazione che si ricava dal quadro
disegnato dalla citata sentenza n. 317/2009 della Consulta è che il giudice, il
cui ruolo – come detto – appare assai rinvigorito [217], si trova sulla sua scrivania una folla di materiali
normativi da gestire in modo accorto attraverso un’opera interpretativa di non
poco conto e grande delicatezza, volta ad estrarre dai documenti che ha di
fronte il massimo livello di tutela, frutto di un processo di integrazione non
solo delle Carte, ma anche delle Corti [218]. Ben si intende, allora, come la logica della
separazione tra ordinamenti non sia più particolarmente confacente a quella
della tutela più intensa dei diritti, quest’ultima potendosi davvero realizzare
da una lettura (e applicazione) integrata delle fonti del diritto in campo e
degli ordinamenti cui esse appartengono [219].
Sul punto la dottrina si è poi anche chiesta, se, in
siffatta opera di «mutuo soccorso» che i documenti normativi relativi ai
diritti si danno, sia possibile piegare l’interpretazione dell’una fonte a
quella dell’altra, in particolare adattando l’interpretazione della CEDU a
quella della Costituzione [220], ipotesi, questa, che sembra invero esclusa (con
specifico riferimento alla CEDU) dalla giurisprudenza costituzionale, ad avviso
della quale la CEDU può essere intesa nel solo modo con cui la intende e mette
in atto la Corte di Strasburgo [221]. Si è posto in evidenza in proposito che è da
distinguere il caso che su una data norma si abbia un vero e proprio «diritto
vivente», cioè un consolidato indirizzo interpretativo ormai formatosi a
Strasburgo, rispetto al caso che esso non si sia ancora radicato [222]. In questa seconda eventualità, sembra che debba
riconoscersi un margine di manovra alla Corte e, prima ancora, ai giudici
comuni in sede di interpretazione-applicazione della CEDU che invece non sia ha
nella prima.
In secondo luogo, viene ancora una volta in rilievo il
canone della tutela più intensa. Se grazie all’adattamento interpretativo è
possibile offrire una più adeguata tutela al diritto (anzi, come si è detto,
all’intero sistema dei diritti), ed allora perché non farvi luogo? Una soluzione,
questa, che si fa preferire rispetto all’altra della possibile invalidazione
della norma convenzionale [223]. In conclusione, sembra da preferire l’esito che vede
flessibili e mobili i rapporti tra le Carte (e tra le Corti), le stesse
tecniche interpretative dovendo essere adottate allo scopo di assicurare la più
adeguata, intensa, tutela ai diritti, rifuggendo da sterili irrigidimenti
frutto di prospettiva formale-astratta ed ispirati alla logica della
separazione degli ordinamenti, come tali inidonei a dare soddisfazione ai
diritti, alle loro pretese crescenti, che possono essere appagate in modo
adeguato unicamente attraverso lo sforzo congiunto, «integrato», degli
ordinamenti stessi e dei loro garanti, Corti e giudici comuni.
14. Le novità introdotte dalla entrata in vigore del
Trattato di Lisbona. Generalità.
L’entrata in vigore, il 1° dicembre 2009, del Trattato
di Lisbona ha posto nuove questioni, in quanto l’art. 6 del medesimo – oltre a
prevedere, come si appena visto, che l’UE aderisca alla CEDU – ha attribuito
alla Carta europea dei diritti fondamentali, proclamata a Nizza il 7 dicembre
2000, lo stesso valore giuridico dei trattati, disponendo che i diritti
fondamentali garantiti dalla CEDU, risultanti dalle tradizioni costituzionali
comuni agli Stati membri, fanno parte del diritto dell’Unione quali principi
generali.
Come osservato in dottrina [224], il fatto che, a partire dal Trattato di Maastricht
del 1992 (art. F, poi 6, par. 3, TUE, ripreso dai successivi trattati di
revisione), quella tutela sia stata enunciata direttamente nei testi e che i
diritti fondamentali siano stati poi proclamati in modo articolato dalla Carta
dei diritti fondamentali dell’Unione europea, approvata a Nizza nel dicembre
2000 e resa poi obbligatoria dal Trattato di Lisbona (art. 6, par. 1), non deve
far dimenticare che la protezione dei diritti fondamentali era già entrata nell’ordinamento
giuridico dell’Unione grazie alla giurisprudenza della Corte. Del resto, la
menzionata disposizione del Trattato di Maastricht recepì alla lettera la ben
nota formula coniata proprio da tale Corte, secondo cui «I diritti
fondamentali, garantiti dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei
diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali e risultanti dalle tradizioni
costituzionali comuni agli Stati membri, fanno parte del diritto dell’Unione in
quanto principi generali» [225].
Ed in effetti, non sembra contestabile che agli albori
del processo di integrazione alla tutela dei diritti fondamentali fosse
riservato uno spazio assai limitato all’interno dei tre trattati istitutivi
delle Comunità, come dimostrato dal fatto che, al momento della loro redazione,
non si ritenne di dover inserire alcuna proclamazione formale in questo senso.
Una tale mancanza affonda le sue radici essenzialmente nella natura di
organizzazione a contenuto economico che rivestiva alle origini la Comunità. In
un tal tipo di assetto la politica o, quanto meno, tutto ciò che non rientrava
nell’ambito della politica economica, era lasciato ai margini. La strategia dei
«piccoli passi» a ridosso della catastrofica esperienza della seconda guerra
mondiale aveva imposto ai padri fondatori di delineare un’Europa costruita su
un «interlacciamento sempre più stretto delle economie nazionali» nella quale
poco spazio era riservato a tutto quanto non fosse strettamente funzionale alla
creazione di un mercato comune [226].
A rendere possibile una tale transizione è stata, come
detto, l’opera della Corte di giustizia, che, in «un atto di coraggioso judicial activism» [227] venne a creare un «sistema di principi fondamentali
non scritti» costituiti dai diritti fondamentali traendoli dalle tradizioni
costituzionali comuni degli Stati membri [228].
La pietra miliare di un tale, nuovo, orientamento
giurisprudenziale da parte del giudice comunitario è rappresentata dalla
sentenza Stauder del 1969 [229], con la quale, per la prima volta, il giudice
comunitario afferma che «i diritti fondamentali della persona fanno parte dei
principi generali del diritto comunitario di cui la Corte garantisce l’osservanza».
Questa sua posizione venne poi stata ribadita con maggiore chiarezza nel 1970,
con la sentenza Internationale
Handelsgesellschaft [230], in cui si afferma che la salvaguardia dei diritti
fondamentali è informata alle tradizioni costituzionali comuni agli Stati
membri e che perciò va garantita nell’ambito della struttura e delle finalità
della Comunità, e in altre pronunce successive.
Nel 1992, come già ricordato, questa giurisprudenza
della Corte di giustizia venne formalmente recepita nel Trattato di Maastricht
sull’Unione Europea, che nell’art. F, par. 2, stabilisce che «l’Unione rispetta
i diritti fondamentali quali sono garantiti dalla Convenzione europea per la
salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata
a Roma il 4 novembre 1950, e quali risultano dalle tradizioni costituzionali
comuni degli Stati membri in quanto principi generali del diritto comunitario».
Il successivo Trattato di Amsterdam intervenne
nuovamente in materia di tutela dei diritti fondamentali in ambito comunitario
aggiungendo alla prescrizione del vecchio art. F, trasferita senza variazioni
nell’art. 6, par. 2, l’affermazione in base alla quale «l’Unione si fonda sui
principi di libertà, democrazia, rispetto dei diritti dell’uomo e delle libertà
fondamentali, e dello stato di diritto, principi che sono comuni agli Stati
membri» (art. 6, par. 1). Inoltre, all’art. 46, riconosce espressamente alla
Corte di giustizia la competenza di esercitare il controllo giurisdizionale
sull’attività delle istituzioni comunitarie anche sotto il profilo del loro
rispetto dei diritti fondamentali e delle tradizioni costituzionali comuni agli
Stati membri della Comunità.
Si è, però, precisato che l’art. 6 non costituisce una
vera e propria clausola di rinvio e, per questo, non può produrre l’effetto di
trasformare i principi e le regole dedotte dalle tradizioni costituzionali
comuni in una fonte del diritto europeo, limitandosi ad individuare un
«complesso di indirizzi» a cui gli organi e le istituzioni comunitarie devono
attenersi senza, tuttavia, costituire, di per sé, diritto europeo. Ne risulta,
pertanto, confermato il riferimento alle tradizioni costituzionali comuni come
«strumenti d’interpretazione» privilegiati, non avendo il Trattato di
Maastricht operato una novazione della fonte ed, anzi, avendone in qualche modo
confermato la natura giurisprudenziale della stessa [231].
Per questa ragione si rendeva dunque necessario che
una disposizione, quale il già citato art. 6 del Trattato di Lisbona, stabilisse
formalmente e solennemente che «1. L’Unione riconosce i diritti, le libertà e i
principi sanciti nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea del 7
dicembre 2000, adattata il 12 dicembre 2007 a Strasburgo, che ha lo stesso
valore giuridico dei trattati. Le disposizioni della Carta non estendono in
alcun modo le competenze dell’Unione definite nei trattati. I diritti, le
libertà e i principi della Carta sono interpretati in conformità delle
disposizioni generali del titolo VII della Carta che disciplinano la sua
interpretazione e applicazione e tenendo in debito conto le spiegazioni cui si
fa riferimento nella Carta, che indicano le fonti di tali disposizioni. 2. L’Unione
aderisce alla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e
delle libertà fondamentali. Tale adesione non modifica le competenze dell’Unione
definite nei trattati. 3. I diritti fondamentali, garantiti dalla Convenzione
europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali
e risultanti dalle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri, fanno
parte del diritto dell’Unione in quanto principi generali».
La citata costituzionalizzazione a livello europeo dei
principi fondamentali non è però scevra da gravi problemi ermeneutici, la cui
presenza proietta ombre su due distinti versanti:
(a)
quello dei
rapporti tra la CEDU e gli ordinamenti nazionali e
(b)
quello dei
rapporti tra questi ultimi e la Carta di Nizza.
Sul primo punto, si è già visto [232] che si deve escludere l’assimilazione delle norme
CEDU a quelle comunitarie quanto a effetto diretto e disapplicazione della
norma nazionale in caso conflitto.
D’altro canto, si è affermato in dottrina che il
principio di separazione fra diritti fondamentali dell’Unione e diritti
convenzionali non verrà meno, neanche quando si sarà concluso il processo di
adesione dell’Unione alla Convenzione, disposto ai sensi dell’art. 6 par. 3,
TUE. L’adesione non avrà, infatti, l’effetto di assorbire il sistema
convenzionale, con le specificità dei suoi meccanismi e del relativo ambito di
applicazione, nell’ambito dell’ordinamento dell’Unione europea. Essa avrà
semmai l’effetto opposto: quello cioè di produrre un sistema integrato, nel
quale la Convenzione europea rappresenti un limite ulteriore ed «esterno» rispetto
all’esercizio delle competenze dell’Unione dato dall’esigenza di rispettare i
diritti convenzionali [233]. Una volta concluso il processo di adesione, la
Convenzione avrà effetti nell’ordinamento interno dell’Unione in virtù dell’art.
216, par. 2, TFUE, e costituirà quindi un limite di validità sia nei confronti
del diritto derivato dell’Unione che di norme degli Stati membri che si
collochino nell’ambito di applicazione del diritto dell’Unione.
In quanto accordo internazionale vincolante per l’Unione,
la Convenzione sarà applicabile (oltre che nell’ambito dei diritti interni dei
vari Paesi ad essa Convenzione aderenti) nell’ambito di applicazione delle
norme dell’Unione. L’adesione dovrebbe comportare quindi un doppio binario nell’applicazione
della Convenzione a rapporti interni. Per quelli ricadenti nel «cono d’ombra»
del diritto dell’Unione, la Convenzione sarebbe applicata a titolo di accordo
internazionale dell’Unione; essa sarebbe invece applicata come accordo
vincolante per lo Stato italiano rispetto a situazioni puramente interne [234]. Ora, proprio tale doppio binario, derivante dalla
diversità di titolo giuridico dell’applicazione della Convenzione nell’ordinamento
nazionale sembra accentuare l’incongruità derivante da un eventuale trattamento
differenziato dei diritti convenzionali. Soprattutto allorché le fattispecie
ricadenti nell’ambito di applicazione del diritto dell’Unione presentino
elementi strutturali analoghi alle corrispondenti situazioni puramente interne,
un’applicazione che dia vita a letture differenziate della Convenzione europea
darebbe vita a difficoltà anche pratiche non irrilevanti [235].
La questione appare estremamente complessa e gravida
di ricadute in svariati settori del diritto interno [236] e viene a toccare il nucleo del tema, sopra indicato sub (b), dei limiti di applicabilità
della Carta di Nizza.
15. Segue. I (pretesi) limiti della Carta di Nizza.
Impostazione del problema.
Venendo dunque all’interrogativo circa l’individuazione
dell’esatto perimetro di applicabilità dei principi dei principi della Carta di
Nizza [237] in relazione alle normative nazionali, va subito
detto che, secondo l’opinione di gran lunga prevalente [238], esso avrebbe tratto al solo diritto di fonte
europea, rimanendo invece quel documento del tutto ininfluente su quelle parti
degli ordinamenti nazionali non modellate dal diritto UE.
Per questa soluzione deporrebbe in primo luogo l’art.
5 del Trattato sull’Unione europea, come modificato per effetto dell’entrata in
vigore del Trattato di Lisbona, par. 2, secondo cui «In virtù del principio di
attribuzione, l’Unione agisce esclusivamente nei limiti delle competenze che le
sono attribuite dagli Stati membri nei trattati per realizzare gli obiettivi da
questi stabiliti», e ancora l’art. 6 dello stesso Trattato, par. 1, secondo cui
«Le disposizioni della Carta non estendono in alcun modo le competenze dell’Unione
definite nei trattati», nonché par. 2, secondo cui «L’Unione aderisce alla
Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà
fondamentali. Tale adesione non modifica le competenze dell’Unione definite nei
trattati».
Del resto, è innegabile che lo stesso documento (nella
versione riadattata a Strasburgo nel 2007) precisa nel Preambolo che, invece di
statuire diritti nuovi, «La presente Carta riafferma, nel rispetto delle
competenze e dei compiti dell’Unione e del principio di sussidiarietà, i
diritti derivanti in particolare dalle tradizioni costituzionali e dagli
obblighi internazionali comuni agli Stati membri, dalla Convenzione europea per
la salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle Libertà fondamentali, dalle carte
sociali adottate dall’Unione e dal Consiglio d’Europa, nonché dalla
giurisprudenza della Corte di giustizia dell’Unione europea e da quella della
Corte europea dei diritti dell’uomo».
Il medesimo documento, inoltre, all’art. 57,
stabilisce che «1. Le disposizioni della presente Carta si applicano alle
istituzioni, organi e organismi dell’Unione nel rispetto del principio di
sussidiarietà come pure agli Stati membri esclusivamente nell’attuazione del
diritto dell’Unione. Pertanto, i suddetti soggetti rispettano i diritti,
osservano i principi e ne promuovono l’applicazione secondo le rispettive
competenze e nel rispetto dei limiti delle competenze conferite all’Unione nei
trattati. 2. La presente Carta non estende l’ambito di applicazione del diritto
dell’Unione al di là delle competenze dell’Unione, né introduce competenze
nuove o compiti nuovi per l’Unione, né modifica le competenze e i compiti
definiti nei trattati».
Ed ancora l’art. 58, n. 3, della Carta prescrive che
«Le disposizioni della presente Carta che contengono dei principi possono
essere attuate da atti legislativi e esecutivi adottati da istituzioni, organi
e organismi dell’Unione e da atti di Stati membri allorché essi danno
attuazione al diritto dell’Unione, nell’esercizio delle loro rispettive
competenze. Esse possono essere invocate dinanzi a un giudice solo ai fini dell’interpretazione
e del controllo di legalità di detti atti».
In altri termini, un’attitudine della Carta di Nizza a
divenire strumento generale di tutela dei diritti fondamentali sembrerebbe
ostacolato dalle competenze comunque limitate dell’Unione Europea [239] e ben si comprende perché autorevole dottrina
richiami l’attenzione sul fatto che la Carta dei diritti fondamentali «è
diritto dell’Unione, al pari dei due Trattati e dell’intero complesso di atti
che costituiscono il diritto derivato. Ne consegue che essa è applicabile solo
quando è applicabile il diritto comunitario, niente affatto in tutti i casi di
violazione di un diritto fondamentale rilevante per il diritto nazionale. Le
disposizioni della Carta sono altrettanti parametri di legittimità degli atti
dell’Unione, degli atti nazionali che ai primi danno attuazione, nonché di
quegli atti nazionali che, a giustificazione dell’introduzione di una deroga
agli obblighi imposti dai Trattati, invocano l’esigenza di tutelare un diritto
fondamentale. Al di là di queste ipotesi, la Carta non vuole e non può essere
applicata» [240].
Anche la Corte di giustizia sembra, per lo meno in
alcune decisioni, sottolineare la presenza di tali limiti [241].
16. Segue. Per una lettura «più europeista» della
Carta di Nizza nei suoi rapporti con gli ordinamenti nazionali. Unioni di fatto
e matrimoni gay.
Se è innegabile che, da un punto di vista generale, la
Carta prescrive diritti e libertà rilevanti solo nell’ambito di attuazione del
diritto dell’Unione, assai più problematica appare la situazione in cui ci si
trovi di fronte a casi di diritti fondamentali riconosciuti solo in sede di
diritto dell’Unione europea, o, per lo meno, riconosciuti chiaramente (o in
modo meno ambiguo rispetto ad altre carte sovranazionali) esclusivamente in
siffatto ordinamento.
Pensiamo al divieto di discriminazioni sulla base dell’orientamento
sessuale o, più in generale, a determinate relazioni attinenti ai rapporti
giusfamiliari. Si pensi, in particolare, al tema – da chi scrive approfondito
in altra sede [242] – circa il ben diverso rilievo che il diritto di
formare una famiglia, come diritto distinto dal diritto di sposarsi, assume
nella Carta di Nizza rispetto alla corrispondente enunciazione della CEDU [243].
Qui, di fronte a diritti umani fondamentali, non può
non intervenire il principio costituzionale di non discriminazione, con
conseguente necessità di una lettura della Carta di Nizza in chiave assai «più
europeista» di quanto non si faccia.
E, del resto, che senso avrebbe statuire un principio
come quello della libertà matrimoniale e della libertà di fondare una famiglia,
se tali regole dovessero valere solo nell’ambito del diritto comunitario? Sin
troppo facile sarebbe obiettare che, in materia di rapporti familiari, il
diritto comunitario odierno si limita a disciplinare:
(a)
alcune
(marginali) aree del diritto processuale (competenza giurisdizionale,
riconoscimento ed esecuzione delle decisioni), nonché
(b)
profili di
diritto internazionale privato [244].
Del tutto inesistenti sono, allo stato, un «diritto
matrimoniale» e un «diritto di famiglia» dell’Unione europea, per lo meno
secondo l’accezione tradizionale di tali concetti [245].
Che significato avrebbe dunque l’art. 9 della Carta di
Nizza (secondo cui «Il diritto di sposarsi e il diritto di costituire una
famiglia sono garantiti secondo le leggi nazionali che ne disciplinano l’esercizio»),
se non potesse essere riferito al modo in cui matrimonio e famiglia sono
modellati nei diversi diritti nazionali? Davvero si potrebbe continuare a
predicare l’indifferenza della Carta di Nizza nell’ipotesi in cui, puta caso, un legislatore nazionale si
sbizzarrisse a varare una normativa che restringesse il diritto di sposarsi
(es.: non più di tre volte nella vita di ogni soggetto…), o, al contrario,
intervenisse su quell’immagine speculare di quel diritto, vale a dire sul
diritto di non sposarsi (si pensi all’introduzione di sanzioni o comunque di
disincentivi per i non coniugati, sulla scorta di esempi quali la Lex julia de maritandis ordinibus o la
famigerata tassa sul celibato introdotta dalla legislazione fascista) [246]?
Che la Carta di Nizza trovi applicazione anche con
riguardo a situazioni non disciplinate dal diritto di fonte europea è
conclusione rinvenibile nella giurisprudenza della nostra Corte di Cassazione [247]. In questo stesso senso sembra del resto deporre
almeno una parte della giurisprudenza della stessa Corte di giustizia, la
quale, pur avendo talora richiesto l’esistenza di un nesso con il diritto
comunitario in merito al principio di non discriminazione [248], ha, in altre occasioni più volte ammesso che i
giudici nazionali, a cui un soggetto che si asserisce discriminato in base ad
una situazione puramente interna si rivolge, propongano rinvio pregiudiziale
alla Corte, al fine di ottenere l’esatta interpretazione della norma di diritto
comunitario/europeo che, sulla base di apposite disposizioni di diritto
nazionale, viene indirettamente estesa alle situazioni interne [249].
D’altro canto, come si è avuto modo di vedere in altra
sede [250], la stessa Corte europea dei diritti dell’uomo non
esita oggi ad utilizzare proprio la Carta di Nizza per «rileggere» in maniera
ben diversa dal passato la nozione di «famiglia» di cui alla CEDU: e ciò, si
badi, in situazioni per nulla attinenti a profili di diritto dell’Unione
europea e che non presentano in alcun modo elementi di internazionalità.
Emblematico il caso Schalk
e Kopf v Austria, in relazione al quale, nel 2010, la Corte di Strasburgo
ha affermato che l’esclusione delle coppie omosessuali dal matrimonio non
integra un trattamento discriminatorio contrario alla CEDU, ma ciò solo in
quanto in Austria è oggi riconosciuta la possibilità di registrare la
convivenza, con attribuzione di alcuni diritti e doveri simili, sia pur più
limitati, a quelli coniugali [251].
Questa decisione, come non si è mancato di notare,
costituisce prova di un «affascinante “dialogo tra le Carte”», nell’ambito del
quale i giudici di Strasburgo hanno richiamato proprio l’art. 9 della Carta
della U.E. per modificare la propria interpretazione dell’art. 12 della CEDU,
annunciando solennemente che «la Corte non considererà più che il diritto di
sposarsi ai sensi dell’art. 12 debba essere necessariamente limitato al
matrimonio tra persone di sesso opposto» [252].
In motivazione, richiamata la propria pregressa
giurisprudenza per cui le famiglie de
facto sono da ricondurre nella nozione di «vita familiare» e premesso che
«le coppie dello stesso sesso hanno la stessa capacità delle coppie di sesso
diverso di entrare in relazioni stabili e impegnative», i giudici europei hanno
così ritenuto che sarebbe oramai «artificial» mantenere la pregressa
distinzione tra omosessuali ed eterosessuali, annunciando che le relazioni
omosessuali non saranno più comprese soltanto nella nozione di «vita privata»,
ma nella nozione di «vita familiare», pure contenuta nell’art. 8 [253].
Correttamente si è ritenuto [254] che proprio il rilievo dato
dalla Corte nella pronuncia in esame al consensus
che si sta progressivamente formando tra gli Stati europei sull’esigenza di
riconoscere alle coppie dello stesso sesso il diritto di formalizzare in qualche
modo la loro unione induce a ritenere che la perdurante mancanza nell’ordinamento
italiano di modalità di formalizzazione delle unioni omosessuali sarà in un
prossimo futuro (se non, ad avviso di chi scrive, già da ora) da ritenersi in
contrasto con l’interpretazione data dalla Corte di Strasburgo alla CEDU.
Ma per tornare al tema più generale dei (pretesi)
limiti della Carta di Nizza rispetto ai territori non governati dal diritto di
fonte UE, sarà il caso di riportare in questa sede i rilievi di chi in dottrina
[255] correttamente nega la possibilità di escludere «che la
Carta sia priva di significato su questioni pacificamente “interne”, quelle
nelle quali la competenza è saldamente in mano agli Stati. La dottrina ha messo
da tempo in luce il pericolo di una discriminazione alla rovescia” per cui il
soggetto sarebbe sub-tutelato per questioni meramente formalistiche e in
spregio al principio del trattamento di miglior favore, il che è stato peraltro
già negato da alcune decisioni interne che hanno comunque applicato le tutele
più ampie se previste dal diritto comunitario».
Più in generale debbono pienamente sottoscriversi i
rilievi di chi [256] nota come la Carta di Nizza mostri «la sua attitudine
a costituire punto di riferimento dei diritti umani anche al di là del raggio d’azione
dell’Unione. Il rispetto della dignità umana, il diritto alla vita, il divieto
della pena di morte, il divieto della tortura, ecc. non riguardano, infatti,
specificamente il diritto dell’Unione, le cui competenze non toccano tali beni,
ma gli Stati che ne fanno parte e, soprattutto, quelli che aspirano a divenirne
membri (in quanto il mancato rispetto di tali diritti diverrebbe elemento
ostativo alla loro adesione), onde la Carta si presenta come una sorta di
sintesi di valori costituzionali comuni cui l’Unione fa riferimento, anche al
di là dell’esercizio delle sue competenze». Quanto sopra conferma che, del resto, la logica di una rigida
separazione degli ordinamenti (e, per ciò pure, delle sfere di competenza delle
relative Corti) non ha ormai più alcun senso, se mai ne ha avuto. È vero che
gli stessi ordinamenti parrebbero accreditarla; e basti solo pensare alla
perdurante vigenza del principio di attribuzione in ordine ai riparti di
materie e funzioni tra Unione e Stati, come pure – per ciò che specificamente
attiene alla salvaguardia dei diritti – al principio secondo cui la stessa
Carta dei diritti dell’Unione dichiara di poter valere unicamente negli ambiti
materiali di competenza dell’Unione stessa. E, tuttavia, l’esperienza ormai
insegna che separare a colpi di accetta gli ambiti stessi è impresa vana, i
rapporti piuttosto essendo governati da canoni volti a renderne quanto più
possibile duttile lo svolgimento e mobili i confini dei campi [257].
Come pure osservato da altra dottrina [258], «una Corte – qual è la Corte di giustizia che aspira
a interpretare il ruolo di Corte costituzionale – tradirebbe se stessa se
invece che favorire la promozione dei diritti fondamentali si opponesse ad essa
nel nome del riparto di competenze».
Se, dunque, uno Stato membro è libero di
autodeterminare le proprie scelte in alcune materie rimaste di competenza
esclusiva, non può farlo, però, violando nel suo libero agire principi costituzionali
comuni e fundamental rights di matrice sopranazionale. Certamente in
questi casi ciò che viene in rilievo è proprio la lesione del contenuto
essenziale del diritto e non tanto tutte le sue sfumature e caratteristiche
fissate, ad esempio, dalle Corti sovranazionali, con una discrezionalità ed uno
spazio di manovra ben più vasto per i poteri interni, ma la Carta comunque non
potrebbe essere semplicemente ignorata [259].
Un’altra considerazione milita in questo senso e cioè
la definizione in via generale, non solo nella Carta ma anche nei Trattati, del
principio di non discriminazione, il che sembra comportare in via indiretta il
potere di sindacato di un atto interno pacificamente rientrante nella sfera
decisionale dello Stato sotto il profilo del rispetto di tale meta-principio.
La Corte di giustizia ha già offerto esempi, prima ricordati (il più discusso è
il caso Kreil), di
«sconfinamento» in questo senso, posto che l’ordinamento delle forze militari o
i rapporti familiari non rientrano in nessun modo nella competenza dell’Unione [260].
Così si è correttamente notato che le numerosissime
ordinanze che hanno rimesso la questione delle nozze gay alla nostra Corte costituzionale richiamando le decisioni delle
Corti sopranazionali (v. la Goodwin, la K.B., la Richards )
dimostrano l’attitudine espansiva del testo di Nizza. Si è così potuto
concludere che se la tendenza dimostrata da tali decisioni si consoliderà «ampliando
ulteriormente i limiti della incorporation, sarà davvero impossibile
riconoscere che le disposizioni di cui all’art. 51 della Carta abbiano ancora
valore» [261].
17. Conclusioni (in fieri).
Le conclusioni dell’esposizione che si è andata fin
qui tentando di presentare non sono e non possono essere se non in fieri, un po’ come quell’idea che i
progettisti del Louise Weiss building,
che ospita il parlamento europeo a Strasburgo, hanno voluto fornire di una
costruzione in perenne divenire [262].
Ora, il punto di partenza deve necessariamente risiedere
in quell’autorevole osservazione secondo cui il momento essenziale nel quale
nasce una vera Costituzione è solo quello in cui vi è un giudice che può
utilizzarla per contestare la legalità di un altro atto, anche legislativo,
poiché, in caso contrario, il documento rimane una mera enunciazione politica [263]. La risposta positiva che si deve dare all’interrogativo
sull’esistenza di un controllo di costituzionalità comunitaria sugli atti
normativi «ordinari» costituisce «sintomo ed evidenziamento di un processo di
costituzionalizzazione europeo che, se non può ancora defirsi compiuto,
indubbiamente si spinge fino ai ‘controlimiti’ opponibili dai livelli
costituzionali nazionali di protezione costituzionale dei diritti e dei
principi fondamentali» [264].
Pertanto, che si dia una competenza (di giurisdizione
costituzionale europea) in capo alla Corte di giustizia pare problema non
revocabile in dubbio. Che tale competenza confonda in una sola giurisdizione
competenze di merito e competenze di legittimità (degli atti dell’Unione
rispetto al relativo diritto) è parimenti indubitabile.
Ciò che costituisce, al momento, un problema aperto –
più che l’incerta individuazione del contenuto dei singoli diritti – è quello,
risalente e ancora senza soluzione, posto dal «rapporto fra le diverse enunciazioni
degli stessi diritti e fra le diverse giurisdizioni sui diritti» e in
particolare del rapporto fra la Corte di giustizia dell’Unione europea, le Corti
costituzionali nazionali e la Corte europea dei diritti dell’uomo [265].
A seguito del riconoscimento alla Carta di Nizza dello
stesso valore giuridico dei trattati è alla Corte di Lussemburgo che compete
svolgere il delicato compito di garantire i contenuti normativi della Carta dei
diritti, che ora diviene pleno jure
diritto dell’U.E.; né appare proponibile (o auspicabile) l’attribuzione di tale
incombenza alla Corte di Strasburgo (la quale, però, a sua volta, ha già
dimostrato di utilizzare la Carta di Nizza per operare una rilettura della
Convenzione europea), ovvero ad una Corte istituita ad hoc, una sorta di «Corte europea bis», come pure era stato suggerito [266]. Come correttamente obiettato [267], molteplici elementi osterebbero all’efficace svolgimento
di tale compito cui le nuove disposizioni del Trattato non aggiungerebbero nessuna
reale garanzia di miglioramento.
Interessante poi la prospettiva posta da chi si è già
chiesto se il nuovo ordinamento dei diritti fondamentali dell’Unione non
autorizzi gli stessi giudici nazionali all’effettuazione di un controllo che diverrebbe
così di costituzionalità diffusa, mercé la disapplicazione del diritto
nazionale in contrasto con quello sovranazionale nell’ambito della stessa
materia dei diritti fondamentali [268]. Tale prospettiva in Italia – come osserva in modo
convincente Alessandro Pizzorusso – è stata rafforzata, tra l’altro, dalla
modifica dell’art. 117 Cost., «che ha introdotto un primo comma che sembra
possa consentire sviluppi di questo tipo» [269]. D’altro canto, come pure rimarcato [270], vi sono ormai decine di testi internazionali che, in
un modo o in un altro, sono stati recepiti nel diritto interno di molti Stati e
ciò fa sì che il mondo del diritto sia ormai quasi sempre permeabile a questo
tipo di esigenze, per cui le idee che si sono concretizzate in un modo o nell’altro
in questi testi hanno grandi possibilità di trovare attuazione soprattutto
nella misura in cui esiste una maturazione culturale degli operatori che rende
tutto questo possibile (insieme ovviamente con tutte le altre circostanze che
si possono presentare nel corso della storia dei singoli Paesi).
Nonostante tali aperture, il complessivo quadro di
riferimento rimane ancora, per molti profili, incerto e ambiguo per quanto
concerne il tema della effettività della protezione giurisdizionale dei
diritti. La precaria definizione del sistema dei raccordi giurisdizionali (nazionale/U.E./convenzionale)
evidenzia il persistente deficit
regolativo in tema di verifica degli atti dell’Unione e di insufficienza delle
vie di ricorso disponibili per far valere i diritti fondamentali [271]. Tali considerazioni riportano, ancora una volta,
alla questione della necessità di una positivizzazione di adeguate tutele
giurisdizionali dei diritti fondamentali dell’Unione, la garanzia dei quali non
può che chiamare in causa il livello della Costituzione e pertanto di forme
adeguate di legittimazione politica del diritto dei trattati.
Appare dimostrato, dunque, che parlare di diritti e di
Costituzione nell’ambito dell’Unione europea vuol dire porsi degli
interrogativi sulla natura stessa dell’integrazione europea, superando l’approccio
funzionalista che l’ha caratterizzata fin dalle origini per ridefinirne le fonti
di legittimazione e consolidarne i valori fondanti [272].
Sullo sfondo rimane poi sempre (e qui torniamo all’
«ottica del giudice» segnalata all’inizio del presente lavoro) una questione di
base, se vogliamo, ancor più radicale. Il dialogo tra le varie corti nazionali
e le corti sovranazionali, infatti, pone oggi più che mai il problema
fondamentale di una «legittimazione europea» delle magistrature del nostro
continente. A fronte della predisposizione, ad opera del Consiglio d’Europa, di
un vero e proprio «ordinamento giudiziario del Vecchio Continente» [273], dell’elaborazione di regole internazionali
sull’indipendenza dei giudici [274] e dell’apparizione dei primi albori di una formazione
giudiziaria europea [275], si presenta in modo imperioso la necessità che gli
Stati membri dell’Unione europea abbandonino la tradizionale gelosia con cui da
sempre hanno voluto conservare per sé, quale questione assolutamente «interna»,
la vita ed il funzionamento del potere giudiziario, per dar vita ad una
magistratura che possa dirsi europea non solo per la sua vocazione, ma anche
per la sua (quanto più possibilmente uniforme) disciplina.
Ma questa è un’altra storia.
(*) Testo accompagnatorio
della relazione presentata all’incontro di studio sul tema: «Il ruolo delle
Corti europee e del giudice nazionale nella protezione dei diritti
fondamentali», organizzato dal Consiglio Superiore della Magistratura, Nona
Commissione – Tirocinio e Formazione Professionale, svoltosi a Roma dal 17 al
21 settembre 2012.
[1] Cfr. Corte europea dir.
uomo, 28 agosto 2012, Costa et Pavan c.
Italie, disponibile all’indirizzo web
seguente: http://www.altalex.com/index.php?idnot=19209.
[2] Nell’ampia bibliografia sul punto, cfr. Gambino, La protezione «multilevel» dei
diritti fondamentali (fra Costituzioni, trattati comunitari e giurisdizioni),
in Aa. Vv., Scritti in onore di Michele Scudiero, Napoli, 2008, p. 1007 ss.; Id., Multilevel Constitutionalism e diritti fondamentali, in Dir. pubbl. comp. e europ., 2008, n. 3,
disponibile all’indirizzo web
seguente: http://www.dpce.it; v.
inoltre Pernice, Multilevel Constitutionalism and the Treaty
of Amsterdam: European Constitution-Making Revisited?, in Common Market
Law Review, 1999, p. 36 ss.; Id.,
L’Unione Costituzionale europea nella
prospettiva della Conferenza Intergovernativa del 2000, in Aa. Vv.,
I costituzionalisti e l’Europa. Riflessioni sui mutamenti costituzionali nel
processo d’integrazione europea, a cura di Panunzio, Milano, 2002; Morbidelli, La tutela giurisdizionale dei diritti nell’ordinamento europeo, in Aa.Vv.,
Annuario 1999. La Costituzione europea, Padova, 2000, p. 425 ss.; Morlok,
Il diritto costituzionale nel sistema
europeo a più livelli, ibidem
(resoconto disponibile anche all’indirizzo web
seguente: http://www.luiss.it/semcost/europa/morlok/index.html);
Pernice e Mayer, La Costituzione
integrata dell’Europa, in Aa. Vv., Diritto e Costituzione
nell’Unione europea, a cura
di G. Zagrebelsky, Roma-Bari, 2003, p. 43 ss. (articolo disponibile
anche all’indirizzo web seguente: http://www.whi-berlin.de/documents/whi-paper0703.pdf);
Sorrentino, La tutela multilivello dei diritti, in Riv. it. dir. pub. com., 2005, p. 79 ss.; Aa. Vv.,
La tutela multilivello dei diritti. Punti di crisi, problemi aperti, momenti
di stabilizzazione, a cura
di Bilancia e De Marco, Milano, 2004; Ruggeri, Conferme e novità di fine anno in tema di rapporti tra diritto interno
e CEDU (311/2009 e 317/2009), in Forum di Quaderni costituzionali, disponibile all’indirizzo web
seguente: http://www.forumcostituzionale.it/site/images/stories/pdf/documenti_forum/giurisprudenza/2009/0030_nota_311_317_2009_ruggeri.pdf);
Id., Dimensione europea della tutela dei diritti
fondamentali e tecniche interpretative, in www.federalismi.it (04-12-2009); Pollicino, Margine di apprezzamento, art. 10, c.1, Cost e bilanciamento
“bidirezionale”: evoluzione o svolta nei rapporti tra diritto interno e diritto
convenzionale nelle due decisioni nn. 311 e 317 del 2009 della Corte
costituzionale?, in Forum di Quaderni costituzionali, 16 dicembre 2009, p. 7.
[3] Processo, questo, che si presenta quanto mai complesso.
Come rimarcato da autorevole dottrina (cfr. Pocar,
Diritti umani: la difficile ricerca di
equilibrio tra le giurisdizioni delle Corti internazionali, in Guida dir., 5 novembre 2011, n. 44, p. 9
s.), per l’adesione dell’Unione alla Convenzione europea non basta la semplice
firma e ratifica della Convenzione da parte dell’Unione, ma è necessaria la
conclusione di un accordo internazionale. Poiché la Convenzione prevede
soltanto l’adesione di Stati, e non di organizzazioni internazionali, si rende
indispensabile una modifica della convenzione stessa, che può avvenire solo
mediante un trattato fra gli Stati membri del Consiglio d’Europa parti della
Convenzione e l’Unione europea. Come si ricava inoltre dal protocollo n. 8
allegato ai trattati europei, l’accordo relativo all’adesione deve garantire
che siano preservate le caratteristiche specifiche dell’Unione e del suo
diritto, in particolare per quanto attiene alle modalità dell’eventuale
partecipazione dell’Unione agli organi di controllo della Convenzione europea e
ai meccanismi per assicurare che i procedimenti avviati da Stati non membri e
le singole domande siano indirizzate correttamente, a seconda dei casi, agli
Stati membri e/o all’Unione. È evidente che la conclusione di un accordo di
questo genere, che impone un coordinamento di procedure rispettivamente
dell’Unione e degli organi della Convenzione europea, si presentava come
particolarmente delicato.
[4] Cfr. G. Zagrebelsky,
Il diritto mite, Torino, 1992, p. 148 s.
[5] Il riferimento è a Palombella,
L’autorità dei diritti. I diritti
fondamentali tra istituzioni e norme, Roma, 2002, p. 23.
[6] Il riferimento è alle posizioni espresse da Zanichelli, Il significato dei diritti fondamentali, in Aa. Vv., I diritti in azione, a cura di Cartabia,
Bologna, 2007, p. 507 ss.
[7] Bobbio, Sul fondamento dei diritti dell’uomo, in Riv. int. fil. dir., 1965, p. 302 ss.
(nonché in Bobbio, L’età dei
diritti, Torino, 1992, p. 6 ss.).
[8] Bobbio, op. loc. ultt.
citt.
[9] Bobbio, op. loc. ultt. citt. Monito, questo, ribadito dallo stesso Autore
pochi anni dopo (cfr. Id., Presente
e avvenire dei diritti dell’uomo, in La comunità internazionale,
1968, p. 3 ss.), quando afferma che «Il problema che ci sta dinanzi (…) non è
filosofico ma giuridico, e in più largo senso politico. Non si tratta tanto di
sapere quali e quanti siano questi diritti, quale sia la loro natura e il loro
fondamento (…), ma quale sia il modo più sicuro per garantirli, per impedire
che nonostante le dichiarazioni solenni vengano continuamente violati».
[10] Ferrajoli, Diritti
fondamentali e democrazia costituzionale, disponibile all’indirizzo web seguente: http://www.giuri.unige.it/intro/dipist/digita/filo/testi/analisi_2002/17FER_1.RTF.
[11] Sulla protezione dei diritti fondamentali nelle carte
costituzionali e dichiarazioni dei diritti in America nel corso del XVIII
secolo cfr. Gentili, Extending
Rights: il New Judicial Federalism e la
protezione dei diritti fondamentali nelle costituzioni degli Stati dell’Unione,
disponibile all’indirizzo web
seguente: http://www.fscpo.unict.it/Bacheca/Archivio/2010/Comparatisti/Gentili.pdf.
[12] Non ci si riferisce qui
alla Costituzione americana, che fu rigida fin dall’inizio ma per ragioni e con
effetti del tutto diversi dalla rigidità delle costituzioni europee. Come
stabilì nel 1803 nella causa Marbury v Madison il giudice Marshall, la
costituzione americana non è derogabile dal Congresso né dai singoli Stati
perché ha la forma di un trattato, modificabile solo da tutti gli Stati membri.
Ma questo comporta, in capo ai giudici, il potere di disapplicare le leggi
ritenute incostituzionali nel singolo caso sottoposto al loro giudizio, ma non
certo quello, attribuito invece alle Corti costituzionali europee, di deciderne
il definitivo annullamento. In Europa, invece, di rigidità costituzionale non
può parlarsi fino al breve esperimento austriaco del 1920, promosso da Kelsen,
e poi alla Costituzione italiana del 1948 (cfr. Ferrajoli,
Diritti fondamentali e democrazia
costituzionale, cit.).
[13] Si ricordi il
giudizio sferzante che ne dette Jeremy Bentham nel pamphlet intitolato Anarchical Fallacies del 1796 (ed. fr.
del 1816, a cura di Dumont, Sophismes
anarchiques, in Oeuvres de Jerémie Bentham, Bruxelles, 1840, I, p.
505 ss.), in cui Bentham qualifica la Dichiarazione, con i suoi principi e i
suoi diritti, come una sorta di trattatello di diritto naturale esposto in
articoli, senza rendersi conto che, una volta stipulati, quei principi avevano
cambiato natura divenendo norme vincolanti di diritto positivo (sul tema v.
anche Ferrajoli, Diritti fondamentali e democrazia
costituzionale, cit.).
[14] Così sempre Ferrajoli, Diritti fondamentali e democrazia costituzionale, cit.
[15] Così Ferrajoli, Diritti fondamentali e democrazia costituzionale, cit.
[16] Ferrajoli, Diritti
fondamentali e democrazia costituzionale, cit.
[17] Cfr. sempre Ferrajoli, Diritti fondamentali e democrazia costituzionale, cit.
[18] Fin dalla prima
pagina del Leviatano, lo Stato è chiamato da Hobbes «an artificial man»
e il diritto («equity and laws») «an artificial reason» (Hobbes, Leviatano, con testo inglese
del 1651 a fronte e testo latino del 1668 in nota, a cura di R. Santi,
Bompiani, Milano, 2001, The Introduction,
p. 1).
[19] Così ancora Ferrajoli, Diritti fondamentali e democrazia costituzionale, cit.
[20] Cfr. sempre Ferrajoli, Diritti fondamentali e democrazia costituzionale, cit.
[21] Con riferimento
alla Costituzione Italiana e al suo art. 2, il quesito in esame è affrontato,
ad esempio, da Barbera Art. 2,
in Commentario della Costituzione, a
cura di Branca, Principi fondamentali, Bologna-Roma, 1975, p. 50 ss.; Pace, Metodi interpretativi e
costituzionalismo, in Quaderni
costituzionali, 2001, p. 35 ss. Più in generale, cfr., inoltre, Mazzarese, Diritti fondamentali e neocostituzionalismo: un inventario di problemi,
in Aa. Vv., Neocostituzionalismo
e tutela (sovrasovra)nazionale dei
diritti fondamentali, a cura di Mazzarese, Torino, 2002, p. 23 ss.; Guastini, Teoria e dogmatica delle
fonti, Milano, 1998, p. 343 ss.; Rolla,
I diritti fondamentali nel costituzionalismo contemporaneo: spunti
critici, in Aa. Vv., Tecniche di garanzia dei diritti
fondamentali, Torino, p. 21 ss. Sul ruolo dell’art. 2 Cost. nel
riconoscimento e nell’affermazione di una formazione sociale quale la famiglia
di fatto cfr. per tutti Oberto, I regimi patrimoniali della famiglia di
fatto, Milano, 1991, p. 53 ss.; Id.,
I diritti dei conviventi. Realtà e prospettive tra Italia ed Europa,
Padova, 2012, p. 8 ss., 150, 221 ss.
[22] Due gli esempi che
Rolla, I diritti fondamentali
nel costituzionalismo contemporaneo: spunti critici, cit., p. 23, segnala
di «clausole che aprono l’ordinamento nazionale alle codificazioni
internazionali in materia di diritti fondamentali della persona»: l’art. 10
della Costituzione spagnola («Le norme relative ai diritti fondamentali e alle
libertà che la Costituzione riconosce si interpretano in conformità con la
Dichiarazione universale dei diritti umani ed i trattati ed accordi
internazionali sulla medesima materia ratificati dalla Spagna»), e l’art. 16
della Costituzione portoghese («Le disposizioni costituzionali e di legge relativi
ai diritti fondamentali debbono essere interpretate ed integrate in armonia con
la Dichiarazione universale dei diritti umani»).
[23] Due i possibili
esempi, già richiamati nel testo: il nono emendamento della Costituzione degli
Stati Uniti, e l’art. 2 della Costituzione Italiana. E ancora, secondo Rolla, I diritti fondamentali nel
costituzionalismo contemporaneo: spunti critici, cit., p. 24 s., che li
caratterizza come «clausole di apertura generali che si richiamano al valore
fondamentale della persona ed al suo libero sviluppo», ulteriori esempi possono
essere individuati, ad esempio, nell’art. 2 della Legge Fondamentale tedesca e
nell’art. 5 della Costituzione greca (cfr. Mazzarese,
Ragionamento giudiziale e diritti
fondamentali. Rilievi logici ed epistemologici, p. 199, nota 32,
disponibile all’indirizzo web
seguente: http://www.giuri.unige.it/intro/dipist/digita/filo/testi/analisi_2002/10MAZZAR.PDF).
[24] Indipendentemente
da qualsiasi differenza nel caratterizzarli e/o nel distinguerne tipi diversi,
i conflitti fra diritti fondamentali sono stati spesso indicati come una delle
principali difficoltà che dei diritti fondamentali ostacolano una compiuta
attuazione e una piena tutela. Così, ad
esempio, Bobbio, opp. locc. ultt. citt.; Mazzarese, Judicial
Implementation of Fundamental Rights: Three Sorts of Problem, in Aa. Vv.,
Recht, Gerechtigkeit und der Staat, a cura di Karlsson, Jónsson e Brynjarsdóttir, Berlin, 1993, p. 203 ss.; Corso, Diritti umani, in Ragion pratica, 1996, n. 7, p. 59 ss.; Guastini, Teoria e dogmatica delle fonti, cit., p.
228 ss.; Koskenniemi, The
Effect of Rights on Political Culture, in Aa.
Vv., The EU and Human Rights, a cura di Alston, Oxford, 1999, p.
107 ss.; Prieto Sanchís, Neocostituzionalismo
e ponderazione giudiziale, in Ragion
pratica, 2002, n. 18, p. 169 ss. In particolare, secondo Bobbio, Sul fondamento dei diritti
dell’uomo, cit., p. 302 ss., il conflitto fra diritti fondamentali
individua una delle ragioni che precludono la possibilità di indicarne un
fondamento ultimo. In contrasto con quest’opinione ricorrente, Ferrajoli, I fondamenti dei diritti
fondamentali, in Teoria politica,
2000, n. 3, p. 51 ss., 77 ss., critica radicalmente la possibilità di conflitti
fra diritti fondamentali. Secondo tale Autore, infatti: «Non ha senso parlare
di “conflitti” o peggio di tendenziale o virtuale incompatibilità tra libertà
negativa da un lato e diritti di autonomia civile e politica dall’altro. Si
deve piuttosto parlare, una volta chiarita la diversa struttura e natura dei
diritti primari e secondari, di un’opposizione meno problematica ma molto più
seria ed importante: dei limiti imposti alla generica libertà negativa
dall’esercizio diretto o indiretto dei diritti di autonomia, nei limiti a
questi imposti dai diritti di libertà» (p. 51).
[25] Bobbio, op. loc. ultt.
citt.
[26] Bobbio, op. loc. ultt. citt.
[27] Cfr. supra, § 1.
[28] Sul tema v. per tutti Groppi,
I diritti fondamentali in Europa e la
giurisprudenza “multilivello”, disponibile al sito web seguente: http://www.europeanrights.eu/public/commenti/02._Groppi_it.doc;
cfr. inoltre De Witte, Direct Effect, Supremacy and the Nature of
Legal Order, in Aa. Vv., The
Evolution of EU Law, a cura di Craig
e De Burca, Oxford, 1999, p. 198.
[29] Cfr. Corte di giustizia
CE, 9 marzo 1978, Amministrazione delle
Finanze dello Stato c. s.p.a. Simmenthal, in causa 106/77, disponibile al
seguente indirizzo web: http://eur-lex.europa.eu/LexUriServ/LexUriServ.do?uri=CELEX:61977J0106:IT:HTML.
La Corte di giustizia, con tale decisione, oppose l’esigenza primaria di dare
immediata applicazione alle norme comunitarie provviste di effetto diretto,
evitando procedure che non consentissero tale immediatezza, compresa la
questione di legittimità costituzionale demandata alla Corte costituzionale.
[30] A partire dalla
sentenza Granital, su cui v. infra, § 7.
[31] «Art. 1.6. Diritto
dell’Unione. – La Costituzione e il diritto adottato dalle istituzioni
dell’Unione nell’esercizio delle competenze a questa attribuite prevalgono sul
diritto degli Stati membri». Sul Trattato costituzionale europeo (il cui testo
è disponibile alla pagina web
seguente: http://eur-lex.europa.eu/JOHtml.do?uri=OJ:C:2004:310:SOM:it:HTML)
cfr. Aa. Vv., Studi sulla
Costituzione europea. Percorsi e ipotesi, a cura di Lucarelli e Patroni
Griffi, in Quaderni della Rassegna di
diritto pubblico europeo, n. 1, Napoli, 2003; Ziller, La nuova
Costituzione europea, Bologna, 2004; Aa.
Vv., Diritti e Costituzione nell’Unione europea, a cura di G.
Zagrebelsky, Bari, 2005; Aa. Vv., La
Costituzione europea: un primo commento, a cura di Bassanini e Tiberi,
Bologna, 2004; Aa. Vv., La
Costituzione europea. Luci e ombre, a cura di Paciotti, Roma, 2003; Curti Gialdino, La Costituzione europea. Genesi - Natura - Struttura – Contenuto,
Roma, 2005.
[32] Cfr. la dichiarazione
n. 17 delle «Dichiarazioni relative a disposizioni dei trattati», all’interno
delle «Dichiarazioni allegate all’atto finale della conferenza intergovernativa
che ha adottato il trattato di Lisbona, firmato il 13 dicembre 2007»,
disponibile alla pagina web http://eur-lex.europa.eu/LexUriServ/LexUriServ.do?uri=OJ:C:2010:083:0335:0360:IT:PDF:
«17. Dichiarazione relativa al primato. La conferenza ricorda che, per
giurisprudenza costante della Corte di giustizia dell’Unione europea, i
trattati e il diritto adottato dall’Unione sulla base dei trattati prevalgono
sul diritto degli Stati membri alle condizioni stabilite dalla summenzionata
giurisprudenza».
[33] Cfr. Corte di giustizia CE, 15 luglio 1964, Flaminio Costa c. E.N.E.L., in causa
6/64, disponibile all’indirizzo web
seguente: http://eur-lex.europa.eu/LexUriServ/LexUriServ.do?uri=CELEX:61964CJ0006:IT:HTML.
[34] Corte di giustizia CE, 17 dicembre 1970, Internationale Handelsgesellschaft mbH v
Einfuhr- und Vorratsstelle für Getreide und Futtermittel, in causa 11/70,
disponibile all’indirizzo web
seguente: http://eur-lex.europa.eu/smartapi/cgi/sga_doc?smartapi!celexplus!prod!CELEXnumdoc&numdoc=61970J0011&lg=en.
[35] Corte di giustizia CE, 11 gennaio 2000, Tanja Kreil v Bundesrepublik Deutschland,
in causa C-285/98, disponibile all’indirizzo web seguente: http://curia.europa.eu/juris/liste.jsf?language=en&num=C-285/98.
[36] Corte di giustizia CE, 30 settembre 2003, Gerhard Köbler v Republik Österreich, in
causa C-224/01, disponibile all’indirizzo web
seguente: http://curia.europa.eu/juris/liste.jsf?language=en&num=C-224/01.
[37] Gambino, Diritti
fondamentali, fra Unione europea e Costituzione italiana, in Panóptica, 2010, p. 78 (testo disponibile
in formato .pdf all’indirizzo web
seguente: http://www.panoptica.org/2010_18_pdf/18_4.pdf).
[38] Cfr. Groppi, op. loc. ultt. citt.
[39] Su cui v. supra, in questo stesso §.
[40] Secondo una delle massime ufficiali della citata
sentenza, «Se gli Stati membri elaborano il diritto pattizio in forma tale da
consentire una modifica senza procedura di ratifica ad opera esclusivamente o
prevalentemente degli organi dell’Unione, salvaguardando in linea di massima il
principio di attribuzione specifica limitata, spetta anche ai corpi
legislativi, accanto al Governo federale, una responsabilità particolare sotto
il profilo della partecipazione, a livello nazionale in Germania disciplinata
dall’art. 23 comma 1 Legge fondamentale (responsabilità per l’integrazione: Integrationsverantwortung)
e suscettibile di essere fatta valere eventualmente in un procedimento davanti
al giudice costituzionale». Per una traduzione in lingua italiana della
decisione si v. la pagina web
seguente: http://www.cortecostituzionale.it/documenti/convegni_seminari/Traduzione_sentenza.pdf
[41] Cfr. BverfG,
6 luglio 2010, 2 BvR 2661/06,
disponibile all’indirizzo web
seguente: http://www.bundesverfassungsgericht.de/entscheidungen/rs20100706_2bvr266106.html.
La corte di Karlsruhe ricorda come la prevalenza del diritto dell’Unione sia
fondata sulla necessità che esso operi in maniera uniforme in tutti gli Stati
membri, e come questo elemento di supremazia sia compatibile con l’art. 23,
paragrafo 1 della Costituzione Federale, che disciplina il trasferimento dallo
stato all’Unione Europea delle competenze (e della relativa porzione di
sovranità)(par. 53). Il BVerfG
rimarca che tale supremazia non è assoluta (come ad esempio quella del diritto
federale sul diritto dei Länder, art.
31 Cost. Fed.) e che, come chiarito nel precedente Lissabon Urteil, il BVerfG
ha il diritto e il dovere («ist ... berechtigt und verpflichtet») di vigilare
sugli atti dell’Unione che appaiano adottati in eccesso dei poteri conferiti
dai trattati (par. 55). Questa opera di controllo da parte dei «signori del
trattato» (Herren der Verträge),
tuttavia, deve svolgersi di concerto con la Corte di giustizia UE, nell’intento
condiviso di preservare la coerenza e uniformità del diritto dell’Unione (par.
56). Ciò significa che in linea di massima, i casi di tensione inevitabile
devono essere bilanciati in maniera cooperativa, alla luce dell’idea di
integrazione europea, e devono essere disinnescati attraverso un atteggiamento
di attenzione reciproca (wechselseitige
Rücksichtsnahme) (par. 57). Anzitutto, questo comporta che il BVerfG non può dichiarare
l’incostituzionalità di un atto dell’Unione prima di aver sollevato una
questione pregiudiziale ex art. 267
TUE (par. 60), così da dare alla Corte di giustizia – nei casi più delicati –
una sorta di ultimatum, e la
possibilità di fornire dell’atto impugnato un’interpretazione
«costituzionalmente orientata». Inoltre, i casi di pronuncia di
incostituzionalità devono limitarsi alle sole situazioni in cui l’infrazione
del riparto delle competenze pattuito sia sufficientemente grave. Come
corollario di questo atteggiamento generale, il BVerfG ha riconosciuto che anche alla Corte di Giustizia «deve
accordarsi un margine di errore» che rende generalmente inappropriato, da parte
delle corti nazionali, il tentativo di sostituire la propria interpretazione
del diritto dell’Unione a quella della Corte di giustizia UE, in caso di
divergenza (par. 66).
[42] Altra precisazione è che in effetti questa soluzione
(ovvero che, qualora esista un contrasto, questo si risolve modificando la
costituzione) è utilizzata soprattutto in rapporto al diritto europeo
originario. Una volta che sono superate queste riserve di costituzionalità e
che è dato effetto al diritto dei trattati nell’ordinamento nazionale, questo
normalmente è immune da ogni controllo di costituzionalità negli ordinamenti
che lo hanno adottato tramite questa via. Anche se ciò non ha impedito a un
certo numero di corti, prima tra tutte quella tedesca, ma anche quella polacca,
a quella ceca, nonché (seppur in modo meno chiaro) quella spagnola, di
introdurre in aggiunta dei limiti materiali. Più problematica è in questi
stessi paesi la questione del diritto derivato. Solo in pochi Stati il diritto
derivato può essere sottoposto a controllo di costituzionalità e normalmente
ciò accade attraverso la via indiretta del controllo sulle misure nazionali di
attuazione; inoltre l’eventuale incostituzionalità può essere comunque superata
– in questa categoria di paesi – attraverso la revisione costituzionale. Qui il
caso più noto è quello della Francia dove le sentenze del 2004 e del 2006 del Conseil Constitutionnel hanno stabilito
la possibilità per il Conseil stesso
di controllare la costituzionalità di un atto nazionale di trasposizione di una
direttiva (cfr. Groppi, op. loc. ultt. citt.).
[43] Cfr. Groppi, op. loc. ultt. citt.
[44] Ad esempio, il
Tribunale costituzionale spagnolo dopo la Dichiarazione sul Trattato
costituzionale europeo (la Dichiarazione
I del 2004), sembra poter essere inserito in questa categoria quando ha
fatto salvi le strutture costituzionali fondamentali e il sistema di valori
consacrato nella Costituzione, compresi i diritti fondamentali, rispetto alla
primazia costituzionale, che era invece espressamente affermata dal Trattato costituzionale.
Sempre in questa categoria si colloca anche il Regno Unito, benché possa
sembrare strano per un ordinamento che non ha una costituzione scritta. La
giurisprudenza ha individuato un nucleo di principi riconducibili a un diritto
fondamentale o costituzionale garantito dal diritto britannico di fronte al
quale il diritto europeo deve fermarsi. Qui la sentenza senz’altro più nota è
quella che va sotto il nome di Metric
Martyrs, relativa alla necessità di introdurre il sistema metrico decimale
nelle unità di misura: cfr. Groppi,
op. loc. ultt. citt.
[45] In questa sentenza si
afferma che l’efficacia delle disposizioni costituzionali contrarie al diritto
comunitario è sospesa, così come si afferma anche che nelle materie di
competenza dell’Unione europea al diritto comunitario deve sempre essere data
la primazia in caso di conflitto con il diritto estone, Costituzione compresa.
In questa categoria va inserito, dopo il 2006, anche Cipro perché proprio in
conseguenza della sentenza sul mandato d’arresto europeo c’è stata una
revisione costituzionale che inserito l’art. 1.a, in base al quale si proibisce
l’annullamento per incostituzionalità di una legge o di un altro atto che siano
necessari per l’appartenenza dello Stato all’Unione europea: cfr. Groppi, op. loc. ultt. citt.
[46] In generale sul rinvio
pregiudiziale si v. per tutti R. Conti,
Il giudice penale italiano e il diritto
dell’Unione europea: un approccio non più differibile. Giudice comune e diritto
dell’Unione Europea. Cinque buone ragioni pratiche per diventare giudici comuni
di diritto eurounitario, in Dir. pen.
contemp., 2012, p. 20 ss. (testo disponibile all’indirizzo web seguente: http://www.penalecontemporaneo.it/tipologia/4-/-/-/1551-il_giudice_penale_italiano_e__il_diritto_dell_unione_europea__un_approccio_non_pi___differibile).
[47] Cfr. le conclusioni
presentate il 28 giugno 2007, nella causa C-262/06, Deutsche Telekom AG.
[48] Cfr. Corte di giustizia
CE, 16 dicembre 2008, Cartesio Oktató és Szolgáltató bt, in causa
C-210/06, p.90 s.
[49] Corte cost., 29
dicembre 1995, n. 536.
[50] Possibilità utilizzata
una volta, nel 2008: cfr. Corte cost., 15 aprile 2008, n. 103, su cui v. sempre
Groppi, op. loc. ultt. citt.; cfr. inoltre Bartole, Pregiudiziale comunitaria ed «integrazione» di ordinamenti, in Forum di Quaderni costituzionali, articolo disponibile all’indirizzo web
seguente: http://www.forumcostituzionale.it/site/images/stories/pdf/documenti_forum/giurisprudenza/2008/0018_nota_103_2008_bartole.pdf.
[51] Osserva R. Conti,
Il giudice penale italiano e il diritto
dell’Unione europea: un approccio non più differibile. Giudice comune e diritto
dell’Unione Europea. Cinque buone ragioni pratiche per diventare giudici comuni
di diritto eurounitario, cit., p. 3, come «la Corte costituzionale,
autoescludendosi dal rinvio pregiudiziale nei giudizi incidentali (Corte cost.
n.103/2008), non si sia completamente aperta all’idea di un dialogo “franco ed
alla pari” con la Corte di giustizia anzi caldeggiando, in nome di principi
intoccabili, un sereno distacco da quelli che altri colgono come frutti
virtuosi prodotti dall’ordinamento eurounitario e che ancora oggi il giudice
delle leggi interpreta come elementi capaci di minare le fondamenta dello Stato
e della sua sovranità».
[52] Habermas,
Fatti e norme. Contributi a una teoria
discorsiva del diritto e della democrazia, Milano, 1996, p. 143 ss.
[53] Cfr. Cosio, I Diritti Fondamentali nel dialogo tra le alte corti. Appunti per una
ricerca, in Aa. Vv., Atti
del Convegno nazionale Nuovi assetti delle fonti del Diritto del Lavoro – 2011,
a cura di Balducci e Serrano, disponibile all’indirizzo web seguente: http://caspur-ciberpublishing.it/index.php/atti_csdn/issue/view/41;
v. inoltre la Prefazione al volume Aa.
Vv., Diritto del lavoro nell’Unione Europea, a cura di Foglia e Cosio,
Milano, 2011.
[54] S. Cassese,
I tribunali di Babele. I giudici alla
ricerca di un nuovo ordine globale, Roma, 2009, p. 3 ss., 41 ss. (cfr.
anche Id., Il diritto globale. Giustizia e democrazia oltre lo Stato, Torino,
2009, p. 136 ss., 146).
[55] Tra i tanti casi che si potrebbero citare si veda ad
esempio il rationale posto da Lord Justice Matthew Thorpe a fondamento
della decisione del caso Radmacher v
Granatino, incentrato sulla considerazione per cui il premarital agreement in contemplation of divorce stipulato tra le
parti all’atto della celebrazione delle nozze, sarebbe stato ritenuto valido se
portato dinanzi ad un giudice tedesco o un giudice francese (sul punto cfr. Oberto, La comunione legale tra coniugi, Milano, 2010, p. 204; Id., Contratti
prematrimoniali e accordi preventivi sulla crisi coniugale, in Fam. dir., 2012, p. 73 s.). Sul tema
dell’efficacia del precedente straniero Aa.Vv., Il giudice e l’uso delle
sentenze straniere. Modalità e tecniche della comparazione giuridica, a
cura di Alpa, Milano, 2006; Fine, El
uso de precedentes jurisprudenciales de origen extranjero por la Suprema Corte
de Justicia de los Estados Unidos de América, in Rev. iberoam. der.
proc. const., n. 6/2006, p. 327 ss.; Sperti,
Il dialogo fra le corti costituzionali ed il ricorso alla comparazione
giuridica nell’esperienza più recente, in Riv. dir. cost., 2006, p.
125 ss. In senso critico v. però Bork,
Il giudice sovrano (2002), Macerata, 2004, p. 163 ss.; Poster, The Supreme Court 2004 Term.
A political court, in 119 Harv. Law Rev., 2005, p. 99. Nel senso, invece, che il fenomeno di
«circolazione culturale» delle giurisprudenze abbia un indubbio valore positivo
per lo sviluppo del diritto contemporaneo ed sia ormai, per certi versi,
inevitabile, oltre che destinato a portare, prima o poi, a una convergenza di
risultati, cfr. G. Zagrebelsky, Corti
costituzionali e diritti universali, in Riv. trim. dir. pubbl.,
2006, p. 297 ss.
[56] Per questo rilievo v. anche Panzera, Tutela dei
diritti fondamentali, tecniche di normazione e tipologia delle pronunce
costituzionali (la “rivoluzione della flessibilità”), in Aa. Vv.,
Tecniche di normazione e tutela giurisdizionale dei diritti fondamentali,
a cura di Ruggeri, D’Andrea, Saitta e Sorrenti, Torino 2007, p. 289 ss.
Art. 7. Lo Stato e la Chiesa cattolica sono, ciascuno nel
proprio ordine, indipendenti e sovrani. I loro rapporti sono regolati dai Patti Lateranensi.
Le modificazioni dei Patti, accettate dalle due parti non richiedono
procedimento di revisione costituzionale. Art. 10. L’ordinamento giuridico italiano si conforma alle
norme del diritto internazionale generalmente riconosciute. (…). |
Art. 11. L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa
alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle
controversie internazionali; consente, in condizioni di parità con gli altri
Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad uno ordinamento che
assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le
organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo. |
Art. 117. La potestà legislativa è esercitata dallo Stato e
dalle Regioni nel rispetto della Costituzione, nonchè dei vincoli derivanti
dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali. (…). |
[58] Cfr. Munari,
Il ruolo della Corte di giustizia e il
suo rapporto con gli altri organi dell’Unione, in Dir. U.E., 2012, p. 191 s.
[59] Nel controllo
pregiudiziale di legittimità, il ruolo è più simile a quello di una corte
costituzionale, come parrebbe confermato, ad es., dalla sentenza Foto-Frost (cfr. Corte di giustizia CE,
22 ottobre 1987, Foto-Frost v
Hauptzollamt Luebeck-Ost, in causa 314/85), secondo cui «13. Attribuendo ai
giudici nazionali, avverso le cui decisioni possa proporsi un ricorso
giurisdizionale di diritto interno, la facoltà di porre alla Corte questioni
pregiudiziali d’interpretazione o d’accertamento di validità, l’art. 177 non ha
risolto il problema del potere di detti giudici di dichiarare essi stessi
l’invalidità degli atti delle istituzioni comunitarie. 14. Dette giurisdizioni
possono esaminare la validità di un atto comunitario e, se ritengono infondati
i motivi d’invalidità addotti dalle parti, respingerli concludendo per la piena
validità dell’atto. Così facendo, infatti, essi non mettono in causa
l’esistenza dell’atto comunitario. 15. Al contrario, essi non hanno il potere
di dichiarare invalidi gli atti delle istituzioni comunitarie. Infatti, come e
stato sottolineato nella sentenza 13 maggio 1981 (International Chemical Corporation, 66/80, racc. pag. 1191), le
competenze attribuite alla Corte dall’art. 177 hanno essenzialmente lo scopo di
garantire l’uniforme applicazione del diritto comunitario da parte dei giudici
nazionali. Questa esigenza di uniformità è particolarmente imperiosa quando sia
in causa la validità di un atto comunitario. L’esistenza di divergenze fra i
giudici degli Stati membri sulla validità degli atti comunitari potrebbe
compromettere la stessa unità dell’ordinamento giuridico comunitario ed
attentare alla fondamentale esigenza della certezza del diritto». Nella
competenza pregiudiziale di interpretazione, prevale invece, probabilmente, il
ruolo di corte suprema: Munari, op. loc. ultt. citt.
[60] Corte cost., 24
febbraio 1964, n. 14.
[61] Corte cost. 27 dicembre
1973, n. 183; Corte cost., 30 ottobre 1975, n. 232.
[62] Cfr. Corte cost., 8 giugno 1984, n. 170.
[63] Salvato, Il rapporto
tra norme interne, diritto dell’UE e disposizioni della CEDU: il punto sulla
giurisprudenza, in Corr. giur.,
2011, p. 333 ss.
[64] Spetta, invece, agli Stati membri individuare gli
organi competenti a dichiarare definitivamente, ove necessario, la nullità
della disposizione nazionale: cfr. Corte
di giustizia UE, 19 novembre 2009, Filipiak, in causa n. C-314/08.
[65] Così a partire da Corte cost., 8 giugno 1984, n. 170,
sino a, tra le altre, Corte cost., 14 giugno 2002, n. 238; Cass., Sez. Un., 17
febbraio 2010, n. 3674; sull’inapplicabilità del diritto dell’UE in riferimento
a situazioni meramente interne, cfr. Corte
di giustizia CE, 1° aprile 2008, Governo della Comunità francese e Governo
vallone c. Governo fiammingo, in causa n. C-212/06; sul tema v. per
tutti Salvato, op. cit., p. 333 ss.
[66] Cfr., tra le decisioni più recenti, Corte cost., 21 giugno 2010, n. 227; Corte cost., 22 aprile 2009, n. 125; Corte cost., 4 luglio 2007, n. 284.
[67] V. infra, § 10.
[68] Cfr. Corte cost., 24
giugno 2010, n. 227.
[69] Corte cost., 26 giugno
2010, n. 227; Cons. Stato, sez. VI, 23 maggio 2006, n. 3072.
[70] Cons. Stato, sez. VI, 3
settembre 2009, n. 5197; Corte di giustizia CE, 9 settembre 2003, Consorzio
Industrie Fiammiferi (CIF) c.
Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato, in causa n. C-198/01.
[71] Cass., 25 febbraio
2004, n. 3762; Cons. Stato, sez. VI, 8 marzo 2006, n. 1270.
[72] Corte di giustizia CE, 5 ottobre 2004, Pfeiffer v
Deutsches Rotes Kreuz, Kreisverband Waldshut eV, in causa n. C-397-403/01;
Cons. Stato, sez. VI, 3 settembre 2009, n. 5197.
[73] Corte cost., 28 gennaio
2010, n. 28; Corte cost., 8 aprile 1991, n. 168.
[74] Corte di giustizia CE, 5 febbraio 1963, Van Gend
en Loos v Nederlandse Administratie der Belastingen, in causa n. C-26/62;
Corte di giustizia CE, 17 luglio 2008, Flughafen Köln/Bonn GmBH v Hauptzollamt
Köln, in causa n.
C-226/07.
[75] Corte di giustizia CE,
12 dicembre 2002, Rodríguez Caballero c. Fondo de Garantía Salarial (Fogasa), in causa n. C-442/00.
[76] Cons. Stato, sez. VI,
23 febbraio 2009, n. 1054: «L’istituto della disapplicazione o, come ha
precisato la Corte costituzionale, della “non applicazione” della norma
nazionale, quando essa sia in contrasto con quella comunitaria, deve essere
utilizzato anche nel caso in cui si sia in presenza di una non completa
applicazione di quest’ultima ovvero quando la disposizione nazionale sia del
tutto insufficiente per attuare il precetto comunitario. In materia venatoria,
il principio generale è il divieto di caccia alle specie protette (art. 5 della
direttiva79/409/CEE ); una deroga a detto divieto è consentita soltanto in
presenza di determinate condizioni. La normativa nazionale di recepimento
dell’art. 9 della direttiva 79/409/CEE (art. 19 bis della L. n. 157/1992) non è conforme alle prescrizioni
comunitarie, per la mancanza in essa di un’adeguata e compiuta disciplina che,
nel recepire il regime di deroga al divieto di caccia alle specie protette,
avrebbe dovuto vincolarlo in modo tassativo ad una determinata quantità di capi
per ciascuna specie, rappresentata dal limite nazionale della “piccola
quantità” consentita dalla norma comunitaria; in più, il medesimo regime di
deroga avrebbe dovuto assicurare un tempestivo controllo da parte degli organi
competenti (regionali e nazionali) in relazione alla necessità di prevenire i
prelievi illegali nel corso del breve periodo durante il quale è in vigore la
deroga. Il fatto che la deroga non sia correttamente attuata comporta la
riespansione del divieto d’ordine generale di cui al citato art. 5 della
direttiva, che è direttamente applicabile all’interno degli ordinamenti
nazionali».
[77] Corte di giustizia CE, 22 novembre 2005, Mangold v Helm, in causa n. C-144/04.
[78] Corte di giustizia CE, 26 ottobre 2006, Koninklijke
Coöperatie Cosun UA c. Commissione delle Comunità europee, in causa
C-248/04.
[79] Corte di giustizia CE,
8 ottobre 1987, in causa C-80/86, in Giust.
civ., 1989, I, p. 3; Corte di giustizia CE, 26 settembre 1996, in causa
C-168/95, in Foro it., 1997, IV, 93.
[80] Cfr. Corte di Giustizia 14 luglio 1994, Faccini Dori c. Recreb srl, in causa C-91/92, in Dir. comun. scambi int., 1994, p. 361,
con nota di Capelli, di cui si
riportano qui le massime:
«1. Le disposizioni di cui agli artt. 1, n. 1, 2 e 5
della direttiva 85/577, per la tutela dei consumatori in caso di contratti
negoziati fuori dei locali commerciali, sono incondizionate e sufficientemente
precise per quanto concerne la determinazione dei beneficiari e il termine
minimo entro il quale va notificato il recesso da un contratto stipulato fuori
di un locale commerciale. Infatti, benché gli artt. 4 e 5 della direttiva
concedano agli Stati membri un certo margine di discrezionalità per quanto
concerne la tutela del consumatore quando il commerciante non fornisce
informazioni in merito al diritto di recesso e per quel che riguarda la
fissazione del termine e delle modalità del suddetto recesso, tale margine di
discrezionalità non esclude che sia possibile determinare alcuni diritti minimi
da garantire in ogni caso ai consumatori.
2. La possibilità di far valere una direttiva nei
confronti degli enti statali è fondata sulla natura cogente attribuita a tale
atto dall’art. 189 del Trattato, natura cogente che esiste solo nei confronti
dello Stato membro cui la direttiva è rivolta e che mira ad evitare che uno Stato
possa trarre vantaggio dalla sua trasgressione del diritto comunitario. Sarebbe
infatti inaccettabile che lo Stato al quale il legislatore comunitario
prescrive l’adozione di talune norme volte a disciplinare i suoi rapporti, o
quelli degli enti statali, con i privati e a riconoscere a questi ultimi il
godimento di taluni diritti potesse far valere la mancata esecuzione dei suoi
obblighi al fine di privare i singoli di detti diritti.
Estendere detta giurisprudenza all’ambito dei rapporti
tra singoli significherebbe riconoscere in capo alla Comunità il potere di
emanare norme che facciano sorgere con effetti immediati obblighi a carico di
questi ultimi, mentre tale competenza le spetta solo laddove le sia attribuito
il potere di adottare regolamenti.
Ne consegue che, in assenza di provvedimenti di
attuazione entro i termini prescritti, un privato non può fondare su una
direttiva un diritto nei confronti di un altro privato, né può farlo valere
dinanzi a un giudice nazionale.
3. In assenza di provvedimenti di attuazione della
direttiva 85/577, per la tutela dei consumatori in caso di contratti negoziati
fuori dei locali commerciali, entro i termini prescritti, i consumatori non
possono fondare sulla direttiva stessa un diritto di recesso nei confronti dei
commercianti con i quali essi hanno stipulato un contratto fuori di uno dei
suddetti locali, né possono far valere tale diritto dinanzi a un giudice
nazionale.
4. L’obbligo degli Stati membri, derivante da una
direttiva, di conseguire il risultato da questa contemplato, come pure
l’obbligo loro imposto dall’art. 5 del Trattato di adottare tutti i
provvedimenti generali o particolari atti a garantire l’adempimento di tale
obbligo, valgono per tutti gli organi degli Stati membri ivi compresi,
nell’ambito di loro competenza, quelli giurisdizionali. Ne consegue che,
nell’applicare il diritto nazionale, a prescindere dal fatto che si tratti di
norme precedenti o successive alla direttiva, il giudice nazionale deve
interpretare il proprio diritto nazionale quanto più possibile alla luce della
lettera e dello scopo della direttiva per conseguire il risultato perseguito da
quest’ultima e conformarsi pertanto all’art. 189, terzo comma, del Trattato.
5. Nel caso in cui uno Stato membro venga meno
all’obbligo di attuare una direttiva, ad esso imposto dall’art. 189, terzo
comma, del Trattato, e laddove il risultato prescritto dalla direttiva non
possa essere conseguito mediante interpretazione del diritto nazionale da parte
degli organi giurisdizionali, il diritto comunitario impone a detto Stato di
risarcire i danni da esso causati ai singoli a causa della mancata attuazione
della direttiva, purché siano soddisfatte tre condizioni, e cioè: che il
risultato prescritto dalla direttiva comporti l’attribuzione di diritti a favore
dei singoli; che sia possibile individuare il contenuto di tali diritti sulla
base delle disposizioni della direttiva; e che esista un nesso di causalità tra
la violazione dell’obbligo a carico dello Stato e il danno subito. In casi del
genere, spetterà al giudice nazionale garantire il diritto delle persone lese
al risarcimento, nell’ambito delle norme nazionali in tema di responsabilità».
[81] Cass., 20 novembre
1997, n. 11571, in Foro it., 1998, I,
c. 444: «Le direttive comunitarie, le cui disposizioni abbiano un contenuto
precettivo incondizionato e suscettibile di immediata applicazione, hanno
efficacia cogente solo nei confronti degli Stati membri, cui esse, per loro
natura, sono rivolte. Ne consegue che, in materia di lavoro notturno delle donne,
non sono idonei di per sé a creare obblighi e diritti tra le parti di un
rapporto di lavoro, in contrasto con le previsioni dell’art. 5 della legge 9
dicembre 1977 n. 903, l’art. 5 della direttiva n. 76-207 sulla attuazione del
principio di parità tra uomini e donne in materia di condizioni di lavoro, e,
in particolare, l’inerente obbligo degli Stati membri di non stabilire come
principio legislativo il divieto di lavoro notturno delle sole donne (sentenza
della Corte di giustizia 5 luglio 1991, n. 245 del 1989, Stoeckel), obbligo
comunque da ritenersi operativo nei confronti dell’Italia solo a seguito della
denuncia, intervenuta nel 1992, della Convenzione OIL 9 luglio 1948 n. 89
(ratificata con legge 2 agosto 1952 n. 1305), stante il principio dell’art. 234
del Trattato CEE, facente salva l’osservanza degli obblighi internazionali
precedentemente contratti dagli Stati membri».
Per un
isolato caso in cui la giurisprudenza ha ritenuto di dare applicazione alla
direttiva nell’ipotesi di rapporti orizzontali, cfr. Pret. Lecco, 29 febbraio
1996, in Lavoro nella giur., 1996, p.
671.
[82] Fra gli altri, sul punto, cfr. anche Gambino, La Carta e le Corti costituzionali. «Controlimiti» e «protezione
equivalente», in Pol. dir.,
2006, n. 3.
[83] Sulla presenza di un nucleo iperrigido nella nostra
Costituzione appare condivisibile quell’autorevole orientamento dottrinario che
parla comunque di un «carattere relativo dei limiti sostanziali della
revisione» (cfr. Paladin, Le
fonti del diritto italiano, Bologna, 1996, p. 154), sottolineandosi, al
contempo, che «l’idea di un nucleo costituzionale iperrigido» assume senso e
contenuto forte nelle sole costituzioni che prevedano una garanzia della loro
rigidità. V. inoltre sul tema Modugno,
I «nuovi diritti» nella giurisprudenza costituzionale, Torino, 1995; Id., Il
problema dei limiti alla revisione costituzionale (in occasione di un commento
al messaggio alle Camere del Presidente della Repubblica del 26 giugno 1991),
in Giur. cost., 1992; Id., I
princìpi costituzionali supremi come parametro nel giudizio di legittimità
costituzionale, in Aa.Vv., Il principio di unità del
controllo sulle leggi nella giurisprudenza della Corte costituzionale, a cura di Modugno, Agrò e Cerri,
Torino, 2002; Id., Qualche interrogativo sulla revisione
costituzionale e i suoi possibili limiti, in Aa. Vv., Studi
in onore di Gianni Ferrara, Torino,
2005; Ruggeri, La CEDU alla ricerca di una nuova identità,
tra prospettiva formale-astratta e prospettiva assiologia-sostanziale
d’inquadramento sistematico (a prima lettura di Corte cost. nn. 348 e 349 del
2007), in Forum di Quaderni costituzionali, 2007.
[84] Cfr. Gambino, Diritti fondamentali, fra Unione europea e Costituzione italiana,
cit., p. 86 s.
[85] Cfr. Modugno,
I «nuovi diritti» nella giurisprudenza costituzionale, cit., p. 95. A mo’ di
esemplificazione, così, può dirsi che costituiscono indubbiamente princìpi
supremi del sistema costituzionale italiano, in quanto qualificanti la sua
«forma repubblicana» di Stato, l’art. 1 Cost., che statuisce il principio della
sovranità popolare (fra le altre, cfr. anche Corte cost., sent. n. 571/1989,
nella quale la Corte opera una lettura fondata sulla interpretazione
sistematica dell’art. 1 Cost. e dell’art. 139 Cost., per assicurare la garanzia
dei diritti politici anche nella loro natura di diritti inviolabili del sistema
democratico), l’art. 2 Cost.,
ove si qualificano come inviolabili i diritti dell’uomo, l’art. 3 Cost., in
tema di eguaglianza formale e sostanziale, l’art. 5 Cost., ove si sancisce
l’unità e la indivisibilità della Repubblica, il principio lavoristico, quello
concordatario (con le garanzie specifiche della negoziazione bilaterale ai fini
della eventuale modifica dei contenuti dei patti lateranensi) nonché quello di
laicità, il principio pacifista, il principio di fedeltà e il diritto di
resistenza, mentre risulta molto più complessa e problematica l’individuazione
dei contenuti essenziali dei diritti fondamentali. Ogni studioso, invero, ha
provato ad identificare un proprio catalogo di diritti fondamentali
qualificativi del sistema costituzionale, ancorché la Corte costituzionale sia
stata molto più prudente nell’assegnare tale qualificazione a tutte le
disposizioni costituzionali di protezione dei diritti fondamentali medesimi
(cfr. Gambino, Diritti fondamentali, fra Unione europea e
Costituzione italiana, cit., p. 86, nota 33).
[86] Gambino, Diritti
fondamentali, fra Unione europea e Costituzione italiana, cit., p. 86 s.
[87] Si ricordano, in tal senso, almeno le sentt. nn. 30,
31 e 32 del 1971; le sentt. nn. 195 del 1972, 175 del 1973, 16 e 18 del 1982.
V. inoltre la sentenza n. 203/89 che, nell’identificare nel «principio di
laicità dello Stato» uno dei principi supremi del sistema costituzionale, si
richiama espressamente alla sent. n. 1146/88, concludendo nel senso che «nella
materia vessata gli artt. 3 e 19 vengono in evidenza come valori di libertà
religiosa nella duplice specificazione di divieto: a) che i cittadini siano
discriminati per motivi di religione, b) che il pluralismo religioso limiti la
libertà negativa di non professare alcuna religione».
[88] Cfr., in part.,
Corte cost., sent. n. 18/1982. Dopo aver
ricordato che la stessa aveva già più volte affermato (a partire dalle sentenze
nn. 30, 31 e 32 del 1971) che le norme del Concordato, immesse nell’ordinamento
italiano dalla legge n. 810 del 1929, pur fruendo della «copertura
costituzionale» fornita dall’art. 7 della Costituzione, non si sottraggono al
sindacato di legittimità costituzionale, che in tal caso, peraltro, resta
limitato e circoscritto al solo accertamento della loro conformità o meno ai
«principi supremi dell’ordinamento costituzionale», il Giudice delle leggi ne
conclude che «la constatata violazione del supremo principio del diritto alla
tutela giurisdizionale (…) che vuole siano in ogni caso assicurati, a chiunque
e per qualsiasi controversia, un giudice e un giudizio (…) comporta la
dichiarazione della illegittimità costituzionale delle denunciate norme, nella
parte in cui le stesse prevedono che la dispensa dal matrimonio rato e non
consumato, ottenuta attraverso l’apposito procedimento amministrativo canonico,
possa produrre effetti civili nell’ordinamento dello Stato». Tanto premesso può
così sancire l’illegittimità costituzionale dell’art. 1 della legge 27 maggio
1929, n. 810 (Esecuzione del Trattato, dei quattro allegati annessi, e del
Concordato, sottoscritti in Roma, fra la Santa Sede e l’Italia, l’11 febbraio
1929), limitatamente all’esecuzione data all’art. 34, comma sesto, del
Concordato, e dell’art. 17, comma secondo, della legge 27 maggio 1929, n. 847
(Disposizioni per l’applicazione del Concordato dell’11 febbraio 1929 tra la
Santa Sede e l’Italia, nella parte relativa al matrimonio), «nella parte in cui
le norme suddette non prevedono che alla Corte d’appello, all’atto di rendere
esecutiva la sentenza del tribunale ecclesiastico, che pronuncia la nullità del
matrimonio, spetta accertare che nel procedimento innanzi ai tribunali
ecclesiastici sia stato assicurato alle parti il diritto di agire e resistere
in giudizio a difesa dei propri diritti, e che la sentenza medesima non
contenga disposizioni contrarie all’ordine pubblico italiano». Sul punto, fra
gli altri, cfr. anche Gambino e Moschella, L’ordinamento giudiziario fra diritto comparato, diritto comunitario e
C.E.D.U., in Pol. dir., 2005,
n. 4.
[89] Corte cost., 27
dicembre 1973, n. 183; cfr. inoltre Corte cost., 8 giugno 1984, n. 170.
[90] Corte cost., 8 giugno 1984, n. 170. Questa decisione
ha disegnato due percorsi, entrambi fondati sull’art. 11 Cost., definito il
«sicuro fondamento» del rapporto tra norme interne e norme comunitarie. Il
primo percorso ha individuato in quella norma una delega di competenze
normative all’Unione europea, con la conseguenza che quando tali competenze
sono esercitate in modo pieno, nel senso che l’atto non richiede alcun
intervento ulteriore da parte di autorità nazionali ed è dunque provvisto di
effetto diretto, l’ordinamento interno non è competente e dunque deve lasciare
che il rapporto sia regolato immediatamente e per intero dalla norma
comunitaria. In breve, il contrasto della norma interna con quella comunitaria
non dà luogo ad una questione di legittimità costituzionale, ma di competenza
dell’ordinamento comunitario, sì che la norma interna «non viene in rilievo»
per la disciplina del caso e non può essere applicata dal giudice comune, il
quale deve applicare la norma comunitaria in luogo di quella interna.
[91] Gambino, Diritti
fondamentali, fra Unione europea e Costituzione italiana, cit., p. 87 s.
[92] Corte cost., 8 giugno
1984, n. 170 (v. in partic. il «considerato in diritto», n. 4).
[93] In quest’ultimo senso,
Corte cost., 11 luglio 1989, n. 389.
[94] Cfr. Onida,
«Armonia tra diversi» e problemi aperti.
La giurisprudenza comunitaria sui rapporti fra ordinamento interno e
ordinamento comunitario, in Quad. cost., 2002, p. 551, per il quale il «passaggio attraverso la
Corte costituzionale (dopo il giudizio della C.G.C.E.) si potrebbe rivelare
dunque in ogni caso superfluo». In questo stesso senso cfr. anche,
successivamente, Corte cost., 29 dicembre 1995, n. 536; v. anche Gambino, Diritti fondamentali, fra Unione europea e Costituzione italiana,
cit., p. 90, nota 48.
[95] Gambino, Diritti
fondamentali, fra Unione europea e Costituzione italiana, cit., p. 91.
[96] Corte cost., 15 aprile 2008, n. 103, cit.; in senso
contrario v. la precedente Corte cost., 29 dicembre 1995, n. 536.
[97] Così Scerbo,
La Corte di giustizia si pronuncia sul
primo rinvio pregiudiziale introdotto dalla Corte costituzionale italiana,
in Palomar, n.
40, gennaio 2010, disponibile all’indirizzo web
seguente: http://www3.unisi.it/dipec/palomar/040_2010.html.
[98] Corte di giustizia UE,
17 novembre 2009, Presidente del
Consiglio dei Ministri c. Regione Sardegna, in causa C-169/08.
[99] Cfr. Gambino, Diritti fondamentali, fra Unione europea e Costituzione italiana,
cit., p. 96.
[100] Corte cost.,
13 luglio 2007, n. 284, secondo cui «nel sistema dei rapporti tra ordinamento
interno e ordinamento comunitario, quale risulta dalla giurisprudenza di questa
Corte, consolidatasi, in forza dell’art. 11 della Costituzione, soprattutto a
partire dalla sentenza n. 170 del 1984, le norme comunitarie provviste di
efficacia diretta precludono al giudice comune l’applicazione di contrastanti
disposizioni del diritto interno, quando egli non abbia dubbi – come si è
verificato nella specie – in ordine all’esistenza del conflitto. La non
applicazione deve essere evitata solo quando venga in rilievo il limite,
sindacabile unicamente da questa Corte, del rispetto dei principi fondamentali
dell’ordinamento costituzionale e dei diritti inalienabili della persona»;
v. inoltre Corte cost., 28 dicembre 2006, n. 454; contra, nella
giurisprudenza amministrativa, ma del tutto isolata, Cons. Stato, sez. V, 8
agosto 2005, n. 4207, secondo cui una norma introdotta con una sentenza
additiva della Corte costituzionale sarebbe preclusiva del vaglio comunitario,
che in nessun caso potrebbe superare il pronunciamento della nostra Corte costituzionale
a tutela di un diritto fondamentale.
[101] Cfr., tra le tante,
Corte cost., 8 aprile 2010, n. 127 e Corte cost., 8 aprile 2010, n. 124.
[102] Cfr., tra le tante, Corte cost., 24 giugno 2010, n.
227: «La giurisprudenza costituzionale ha individuato il sicuro fondamento del
rapporto tra ordinamento nazionale e diritto comunitario nell’art. 11 Cost., in
forza del quale la Corte ha riconosciuto, tra l’altro, il principio di
prevalenza del diritto comunitario e, conseguentemente, il potere-dovere del giudice
comune di dare immediata applicazione alle norme comunitarie provviste di
effetto diretto in luogo di norme nazionali che siano con esse in contrasto
insanabile in via interpretativa; ovvero di sollevare questione di legittimità
costituzionale per violazione di quel parametro costituzionale quando il
contrasto fosse con norme comunitarie prive di effetto diretto. Il novellato
art. 117, primo comma, Cost. – che pure ha colmato la lacuna della mancata
copertura costituzionale per le norme internazionali convenzionali, escluse
dalla previsione dell’art. 10, primo comma, Cost. – ha dunque confermato
espressamente, in parte, ciò che era stato già collegato all’art. 11 Cost., e
cioè l’obbligo del legislatore, statale e regionale, di rispettare i vincoli derivanti
dall’ordinamento comunitario. Nel caso in esame, i rimettenti hanno
correttamente valutato l’esistenza del contrasto tra l’impugnato art. 18, comma
1, lett. r ), della legge n. 69 del 2005 e la decisione quadro n. 584 del 2002
relativa al mandato d’arresto europeo e, con motivazione plausibile, hanno
ritenuto preclusa l’interpretazione conforme da numerose decisioni della stessa
Corte di cassazione, suffragate sia dalla lettera della disposizione che dai
lavori preparatori, e configuranti un vero e proprio diritto vivente. Il
rilevato contrasto tra la normativa di recepimento e la decisione quadro,
insanabile in via interpretativa, non poteva trovare rimedio nella
disapplicazione della norma nazionale da parte del giudice comune, trattandosi
di norma dell’Unione europea priva di efficacia diretta, ma doveva essere
sottoposto alla verifica di costituzionalità della Corte. Inoltre, gli atti
nazionali attuativi di una decisione quadro con base giuridica nel Trattato
sull’Unione europea e relativi alla cooperazione giudiziaria in materia penale
non sono sottratti alla verifica di legittimità rispetto alle conferenti norme
del Trattato CE, ora Trattato sul funzionamento dell’Unione europea, che
integrano a loro volta i parametri costituzionali – artt. 11 e 117, primo
comma, Cost. – che a quelle norme fanno rinvio. Nella specie rileva, infatti,
oltre alla citata decisione quadro, l’art. 12 del Trattato CE, oggi art. 18 del
TFUE, che vieta ogni discriminazione in base alla nazionalità nel campo di
applicazione del Trattato. Anche sotto tale profilo è corretto il ricorso al
giudice delle leggi, poiché il contrasto della norma con il principio di non
discriminazione non è sempre di per sè sufficiente a consentire la “non
applicazione” della confliggente norma interna da parte del giudice comune.
Invero, il divieto in esame, pur essendo in linea di principio di diretta
applicazione ed efficacia, non è dotato di una portata assoluta tale da far
ritenere sempre e comunque incompatibile la norma nazionale che formalmente vi
contrasti, poiché è consentito al legislatore nazionale di prevedere una
limitazione alla parità di trattamento tra il proprio cittadino e il cittadino
di altro Stato membro, a condizione che sia proporzionata e adeguata. L’ipotesi
di illegittimità della norma nazionale per non corretta attuazione della
decisione quadro è riconducibile, pertanto, ai casi in cui, secondo la
giurisprudenza della Corte, non sussiste il potere del giudice comune di “non
applicare” la prima, bensì il potere-dovere di sollevare questione di
legittimità costituzionale, per violazione degli artt. 11 e 117, primo comma,
Cost., integrati dalla norma conferente dell’Unione, laddove, come nella
specie, sia impossibile escludere il detto contrasto con gli ordinari strumenti
ermeneutici consentiti dall’ordinamento». Cfr. inoltre Corte cost., 17 dicembre
2008, n. 415; Corte cost., 13 luglio 2007, n. 284.
[103] Cfr. Corte
cost., 28 gennaio 2010, n. 28; in riferimento alla disciplina penale,
cfr. anche Corte cost., 23 giugno 1999, n. 267; Corte cost., 26 luglio 1996, n.
317.
[104] Corte cost., 24 giugno
2010, n. 227, su cui v. supra, § 6.
[105] Corte cost., 24 giugno 2010, n. 227.
[106] Corte cost., 28 gennaio 2010, n. 28.
[107] Corte cost., 24 giugno
2010, n. 227.
[108] Corte di giustizia CE,
18 dicembre 2007, Soc. Frigerio c.
Comune di Triuggio, in causa C-357/06.
[109] Corte di giustizia CE, 16 giugno 2005, Pupino, in causa
C-105/03.
[110] Corte di giustizia CE,
5 ottobre 2004, Pfeiffer v Deutsches Rotes Kreuz, Kreisverband Waldshut eV,
in causa n. C-397-403/01, cit.
[111] Corte di giustizia CE,
19 febbraio 2009, LSG – Gesellschaft zur Wahrnehmung von
Leistungsschutzrechten GmbH v eleTele2 Telecommunication GmbH, in causa
C-557/07.
[112] Così R. Conti, Il giudice penale italiano e il diritto dell’Unione europea: un
approccio non più differibile. Giudice comune e diritto dell’Unione Europea.
Cinque buone ragioni pratiche per diventare giudici comuni di diritto
eurounitario, cit., p. 14 ss.
[113] Cartabia,
«Unità nella diversità»: il rapporto fra
la Costituzione europea e le costituzioni nazionali, Relazione alla Giornata
di studio in ricordo di Alberto Predieri, Firenze, 18 febbraio 2005 (anche in Dir. UE, 2005, n.
3); v. inoltre Gambino, Diritti fondamentali, fra Unione europea e
Costituzione italiana, cit., p. 120, nota 128.
[114] Cfr. Cartabia,
«Unità nella diversità»: il rapporto fra
la Costituzione europea e le costituzioni nazionali, cit. Cfr. inoltre Guastaferro, Il rispetto delle identità nazionali nel Trattato di Lisbona tra
riserva di competenze statali e “controlimiti europeizzati” (29 dicembre
2011), in www.forumcostituzionale.it:
l’Autrice rimarca che, secondo una parte della dottrina, il fatto che sia lo
stesso Trattato sull’Unione europea a ritenere le strutture costituzionali
degli Stati membri meritevoli di tutela rappresenterebbe il superamento del
«primato assoluto» propugnato dalla giurisprudenza della Corte di giustizia ed
avallerebbe la lettura del «primato con riserva» sostenuta dalle Corti
costituzionali degli Stati membri, che oppongono il principi inviolabili delle
Costituzioni nazionali al primato del diritto dell’Unione (cfr. von Bogdandy e Schill, Overcoming Absolute Supremacy: Respect for
National Identity under the Lisbon Treaty, in Common Market Law Review n.
48/2011). Tale tesi troverebbe conferma nella circostanza che, rispetto al
Trattato costituzionale, il Trattato di Lisbona reca una clausola sul rispetto
delle identità costituzionali, ma non una clausola sul primato del diritto
dell’Unione: tale principio appare «derubricato», in quanto scompare dal testo
del Trattato e viene relegato alla Dichiarazione n. 17 (Fioravanti, Costituzionalismo. Percorsi della storia e
tendenze attuali, Roma-Bari,
2009). Dal momento che tale Dichiarazione non ha forza vincolante, è stato
sostenuto che «la lettura sistematica dell’art. 4 TUE e della Dichiarazione n.
17 comporta (…) non solo che i principi di assetto costituzionale fondamentale
degli Stati si affiancano alla primazia ma vanno ad essa anteposti” (Celotto, La primauté nel
Trattato di Lisbona, in AA. VV., Dal Trattato costituzionale al Trattato
di Lisbona. Nuovi Studi sulla Costituzione europea, a cura di Lucarelli e
Patroni Griffi, Napoli, 2009).
[115] Celotto,
Una nuova ottica dei controlimiti nel
T.C.E.?, in www.forumcostituzionale.it; v.
inoltre Gambino, Diritti fondamentali, fra Unione europea e
Costituzione italiana, cit., p. 109, nota 130.
[116] Cfr. ad es. R. Conti, Il giudice penale italiano e il diritto dell’Unione europea: un
approccio non più differibile. Giudice comune e diritto dell’Unione Europea.
Cinque buone ragioni pratiche per diventare giudici comuni di diritto
eurounitario, cit., p. 72 ss.
[117] V. supra, § 1.
[118] Gambino, Diritti
fondamentali, fra Unione europea e Costituzione italiana, cit., p. 123 ss.
[119] Gambino, Diritti
fondamentali, fra Unione europea e Costituzione italiana, cit., p. 124.
[120] Sul tema v. anche R. Conti, Il giudice penale italiano e il diritto dell’Unione europea: un
approccio non più differibile. Giudice comune e diritto dell’Unione Europea.
Cinque buone ragioni pratiche per diventare giudici comuni di diritto
eurounitario, cit., p. 31 ss.
[121] Cfr. Cartabia,
Considerazioni sulla posizione del
giudice comune di fronte a casi di doppia pregiudizialità comunitaria e
costituzionale, in Foro it.,
1997, V, c. 222 ss.
[122] Gambino, Diritti
fondamentali, fra Unione europea e Costituzione italiana, cit., p.124.
[123] Fra gli altri, sul punto, cfr. A. Barbera, Le tre Corti e la tutela multilivello dei diritti, in Aa. Vv.,
La tutela multilivello dei diritti. Punti di crisi, problemi aperti, momenti
di stabilizzazione, a cura
di Bilancia e De Marco, cit., p. 95 ss.
[124] Cass. pen., 16 maggio 2012, n. 18767.
[125] Cfr. Parodi
e Viganò, Una (problematica)
sentenza della Cassazione in tema di raccolta abusiva di scommesse e di
rapporti tra diritto interno e diritto dell’Unione europea, disponibile
all’indirizzo web seguente: http://www.penalecontemporaneo.it/materia/3-/63-/-/1523-una__problematica__sentenza_della_cassazione_in_tema_di_raccolta_abusiva_di_scommesse_e_di_rapporti_tra_diritto_interno_e_diritto_dell___unione_europea.
Per osservazioni critiche sulla decisione v. anche R. Conti, Il giudice
penale italiano e il diritto dell’Unione europea: un approccio non più
differibile. Giudice comune e diritto dell’Unione Europea. Cinque buone ragioni
pratiche per diventare giudici comuni di diritto eurounitario, cit., p. 76
ss., il quale correttamente parla di «ritorno al passato», evidenziando come la
decisione sembri prendere le mosse dalla constatazione secondo cui i principi contenuti nei Trattati UE non sarebbero ex se dotati di efficacia precettiva,
acquisendo tale caratteristica solo per effetto dell’attività concretizzatrice
della Corte di Giustizia. Tale affermazione non sembra cogliere la distinzione
fra caratteristiche proprie di un diritto fondamentale, libertà o principi
sanciti a livello di Trattato UE, Carta di Nizza-Strasburgo, principi generali
sanciti dall’art. 6 par. 3 CEDU ed attività ermeneutica della Corte europea. Un
conto sembra essere il carattere immediatamente vincolante di una di siffatte
posizioni giuridiche, altra è l’attività nomofilattica che è chiamato a
svolgere il giudice di Lussemburgo. Da ciò sembra doversi trarre il convincimento
che l’eventuale rinvio pregiudiziale che il giudice nazionale può essere
chiamato ad esercitare, pur essendo da uno strumento di straordinaria efficacia
nel processo di attuazione dei diritti fondamentali, non è condizione
ineludibile per riconoscere l’immediata precettività di tali diritti
fondamentali tutte le volte che il giudice nazionale, sulla base del diritto
vivente nazionale o della stessa Corte di Giustizia ritenga di attribuire
efficacia cogente a detto principio. Tanto è sufficiente per sgombrare il campo
dall’idea di considerare che la qualificazione in termini di precettività debba
farsi in astratto sulla disposizione e non già sulla norma che prende forma dal
significato che alla stessa viene dato ma non importa affatto di ritenere, come
invece assume la Cassazione, che i principi generali siano privi di efficacia
precettiva in assenza di un rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia.
Nemmeno convincente sembra la conclusione che trae la Corte di legittimità
ritenendo che il mancato rinvio pregiudiziale o il mancato rinvio degli atti
alla Corte costituzionale perché questa possa eventualmente dichiarare la
contrarietà della norma interna con il principio non dotato di immediata
efficacia potrebbe determinare un aggiramento del sindacato diffuso della
Corte. Tali conclusioni sembrano contrastare radicalmente con i principi a suo
tempo fissati da Corte cost. n. 284/2007, nella quale era apparso evidente che
le norme parametro primarie comunitarie fossero pacificamente provviste di
effetto diretto, confermando semmai l’estrema problematicità della
soluzione che ritiene possibile il sindacato di costituzionalità in siffatti
ambiti.
[126] Corte di giustizia CE,
9 marzo 1978, Amministrazione delle
Finanze dello Stato c. s.p.a. Simmenthal, in causa 106/77, cit., § 24.
[127] V. supra, § 6.
[128] Da notare che la
distinzione tra norme comunitarie dotate e non dotate di effetto diretto,
tuttavia, non dipende affatto – come invece sembra ritenere la Cassazione nella
sentenza penale del 2012 appena citata – dalla natura di norma-precetto
(puntuale) o di norma-principio della disposizione comunitaria. E’ pacifico,
infatti, che l’effetto diretto debba essere riconosciuto – concorrendo tutte le
condizioni enunciate per la prima volta dalla Corte nella sentenza Van Gend en Loos del 1963 – anche alle
molte norme dei trattati che stabiliscono libertà (di circolazione, di
stabilimento, etc.) o principi (come il principio di non discriminazione) in
termini assolutamente generali, certamente non riducibili allo schema di una
(puntuale) norma-precetto: cfr. Parodi
e Viganò, op. loc. ultt. citt. I medesimi Autori pongono poi correttamente in
luce che nel precedente caso Costa c.
Enel, del 1964, per la prima volta fu affermato il principio del primato
del diritto comunitario, e in cui la Corte riconobbe l’effetto diretto delle
disposizioni del Trattato di Roma in materia di libertà di stabilimento e di
non discriminazione tra operatori europei nel mercato interno, precisando che
spettava al giudice di merito (cioè al giudice comune) valutare se la normativa
interna in concreto limitasse illegittimamente tali principi e dovesse pertanto
essere disapplicata nel caso di specie. Ma si pensi anche, tanto per fare un
esempio più recente, alla sentenza Kücükdeveci,
pronunciata dalla Grande Sezione della Corte di giustizia il 19 gennaio 2010
(C-555/07), concernente l’incompatibilità di una legge tedesca con il principio
di non discriminazione in base all’età, concretamente espresso da una direttiva
in tema di parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di
lavoro. La Corte affronta qui la questione alla luce del diritto primario
dell’Unione, e verifica dunque la compatibilità delle disposizioni di legge
interne non già con le singole disposizioni della direttiva, ma direttamente
con il principio generale di non discriminazione così come riconosciuto
dall’art. 21 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, alla
quale – sottolinea la Corte – è ora attribuito lo stesso valore giuridico dei
trattati (§§ 19-22). La Corte sottolinea quindi come la controversia al suo
esame ricada all’interno dell’ambito di applicazione del diritto dell’Unione
(§§ 23-25), il che evidentemente consente all’art. 21 citato di spiegare
effetto diretto nell’ordinamento dello Stato membro, ai sensi dell’art. 51
della Carta. Acclarata poi l’incompatibilità tra la normativa tedesca e il
principio in questione, la Corte prosegue affermando recisamente che «è compito
del giudice nazionale, investito di una controversia in cui è messo in discussione
il principio di non discriminazione in ragione dell’età, quale espresso
concretamente nella direttiva 2000/78, assicurare, nell’ambito delle sue
competenze, la tutela giuridica che il diritto dell’Unione attribuisce ai
soggetti dell’ordinamento, garantendone la piena efficacia e disapplicando, ove
necessario, ogni contraria disposizione di legge nazionale» (§ 51). Ribadisce
quindi la Corte che il giudice interno non può sottrarsi a tale obbligo di
disapplicazione adducendo che l’ordinamento interno non gli consente in
generale di disapplicare una disposizione di legge nazionale a meno che tale
norma non sia stata previamente dichiarata illegittima dalla Corte
costituzionale, dal momento che un tale meccanismo di intervento necessario
della Corte costituzionale sarebbe esso stesso contrario al principio del
primato del diritto dell’Unione sul diritto interno (§ 54), che impone invece
che sia lo stesso giudice ordinario investito della controversia a dover
disapplicare la disposizione interna contrastante con il diritto comunitario.
Nella medesima sentenza Kücükdeveci,
la Corte di giustizia ha infine sottolineato che il giudice ordinario ha, nel
caso in cui ritenga che una disposizione di legge interna contrasti con un
principio del diritto dell’Unione, la facoltà di sottoporre alla Corte una
domanda pregiudiziale di interpretazione, per avere lumi sulla esatta
estensione del principio in questione, ribadendo però che il dovere del giudice
di disapplicare la disposizione di legge interna contrastante non è in alcun
modo condizionato alla preventiva proposizione di una domanda pregiudiziale (§
55), che non è necessaria qualora il giudice abbia sufficienti elementi per
ritenere sussistente il contrasto tra il principio comunitario in questione e
la disposizione di legge interna (cfr. Parodi
e Viganò, op. loc. ultt. citt.).
([129]) Corte cost., 25 gennaio
2010, n. 28, in cui si legge, tra l’altro, che «Non è implausibile la
motivazione con cui il giudice rimettente esclude di poter fare diretta
applicazione delle direttive comunitarie, disapplicando di conseguenza la norma
censurata, in quanto ritenuta in conflitto con le prime. La prevalente
giurisprudenza di legittimità nega, infatti, il carattere “autoapplicativo”
delle direttive de quibus, con la
conseguenza che le disposizioni nazionali, ancorché ritenute in contrasto con
le stesse, hanno efficacia vincolante per il giudice (ex plurimis, Corte di cassazione, ordinanza n. 1414 del 2006). Più
in generale, l’efficacia diretta di una direttiva è ammessa – secondo la
giurisprudenza comunitaria e italiana – solo se dalla stessa derivi un diritto
riconosciuto al cittadino, azionabile nei confronti dello Stato inadempiente.
Gli effetti diretti devono invece ritenersi esclusi se dall’applicazione della
direttiva deriva una responsabilità penale (ex
plurimis, Corte di giustizia, ordinanza 24 ottobre 2002, in causa C-233/01,
RAS; sentenza 29 aprile 2004, in causa C-102/02, Beuttenmuller; sentenza 3 maggio 2005, in cause C-387, 391, 403/02,
Berlusconi e altri; Corte di cassazione,
sentenza n. 41839 del 2008)».
[130] Cfr. Gallo, Rapporti fra Corte costituzionale e Corte EDU, p. 25, testo
disponibile al seguente indirizzo web:
http://www.cortecostituzionale.it/documenti/relazioni_internazionali/RI_BRUXELLES_2012_GALLO.pdf.
[131] Sul tema v. per tutti Tesauro, Relazioni tra Corte Costituzionale e Corte di giustizia, p. 8 s.;
testo disponibile in formato .pdf all’indirizzo web seguente:
http://www.cortecostituzionale.it/documenti/relazioni_internazionali/RI_BRUXELLES_2012_TESAURO.pdf.
[132] Cfr. artt. 23-2 e 23-5 dell’ordonnance n° 58-1067 del 7 novembre 1958 (portant loi organique sur le Conseil constitutionnel), introdotti
dall’art. 1 della loi organique n°
2009-1523 del 10 dicembre 2009 (relative
à l’application de l’article 61-1 de la Constitution):
«Art. 23-2. - La juridiction statue sans délai par une
décision motivée sur la transmission de la question prioritaire de
constitutionnalité au Conseil d’Etat ou à la Cour de cassation. Il est procédé à
cette transmission si les conditions suivantes sont remplies :
1° La disposition
contestée est applicable au litige ou à la procédure, ou constitue le fondement
des poursuites ;
2° Elle n’a pas
déjà été déclarée conforme à la Constitution dans les motifs et le dispositif
d’une décision du Conseil constitutionnel, sauf changement des circonstances ;
3° La question n’est pas dépourvue de caractère
sérieux.
En tout état de cause, la juridiction doit,
lorsqu’elle est saisie de moyens contestant la conformité d’une disposition
législative, d’une part, aux droits et libertés garantis par la Constitution
et, d’autre part, aux engagements internationaux de la France, se prononcer par
priorité sur la transmission de la question de constitutionnalité au Conseil
d’Etat ou à la Cour de cassation.
La décision de
transmettre la question est adressée au Conseil d’Etat ou à la Cour de
cassation dans les huit jours de son prononcé avec les mémoires ou les
conclusions des parties. Elle n’est susceptible d’aucun recours. Le refus de
transmettre la question ne peut être contesté qu’à l’occasion d’un recours
contre la décision réglant tout ou partie du litige».
«Art. 23-5. - Le
moyen tiré de ce qu’une disposition législative porte atteinte aux droits et
libertés garantis par la Constitution peut être soulevé, y compris pour la
première fois en cassation, à l’occasion d’une instance devant le Conseil
d’Etat ou la Cour de cassation. Le moyen est présenté, à peine
d’irrecevabilité, dans un mémoire distinct et motivé. Il ne peut être relevé
d’office.
En tout état de
cause, le Conseil d’Etat ou la Cour de cassation doit, lorsqu’il est saisi de
moyens contestant la conformité d’une disposition législative, d’une part, aux
droits et libertés garantis par la Constitution et, d’autre part, aux
engagements internationaux de la France, se prononcer par priorité sur le
renvoi de la question de constitutionnalité au Conseil constitutionnel.
Le Conseil d’Etat ou la Cour de cassation dispose d’un
délai de trois mois à compter de la présentation du moyen pour rendre sa
décision. Le Conseil constitutionnel est saisi de la question prioritaire de
constitutionnalité dès lors que les conditions prévues aux 1° et 2° de
l’article 23-2 sont remplies et que la question est nouvelle ou présente un
caractère sérieux.
Lorsque le Conseil constitutionnel a été saisi,
le Conseil d’Etat ou la Cour de cassation sursoit à statuer jusqu’à ce qu’il se
soit prononcé. Il en va autrement quand l’intéressé est privé de liberté à
raison de l’instance et que la loi prévoit que la Cour de cassation statue dans
un délai déterminé. Si le Conseil d’Etat ou la Cour de cassation est tenu de se
prononcer en urgence, il peut n’être pas sursis à statuer».
[133] Cfr. Corte cost., 21
marzo 2002, n. 85.
[134] Corte di giustizia UE,
22 giugno 2010, Melki e Abdeli, nelle
cause C-188-189/10.
[135] Corte di giustizia UE,
5 ottobre 2010, Elkinov, in causa
C-173/09.
[136] Corte di giustizia UE,
20 0ttobre 2011, Interedil s.r.l., in
liquidazione c. Fallimento Interedil s.r.l., Intesa Gestione Crediti s.p.a.,
C-396/09.
[137] Corte di giustizia UE,
1° marzo 2011, Chartry v Belgium,
C-457/09.
[138] Cfr. Tesauro, op. loc. ultt. citt.
[139] Il testo attualizzato è
disponibile in lingua italiana, tra l’altro, all’indirizzo web seguente: http://conventions.coe.int/Treaty/Commun/QueVoulezVous.asp?NT=005&CM=8&DF=16/10/2010&CL=ITA.
[140] Cfr. Tesauro,
op. loc. ultt. citt.
[141] Così, a partire da Corte cost., 18 maggio 1960, n.
32, sino a Corte cost., 24 ottobre 2007, n. 348 e n. 349; era rimasta isolata
Corte cost., 19 gennaio 1993, n. 10, l’unica sentenza ad avere affermato la
natura di fonte atipica rinforzata della CEDU.
[142] Corte cost., 22
dicembre 1980, n. 188; Corte cost., 24 ottobre 2007, n. 349.
[143] Cfr., tra le molte, Corte cost., 10 febbraio 1981, n.
17; Corte cost., 22 marzo 2001, n. 73.
[144] Ciò è avvenuto soprattutto in riferimento alle norme
del codice di rito penale: cfr. Corte cost., 15 luglio 1991, n. 344.
[145] Cfr. Salvato, op. loc. ultt. citt.
[146] Corte cost., 22 luglio
1999, n. 342.
[147] Corte cost., 23
novembre 1967, n. 120; Corte cost., 4 luglio 1977, n. 125.
[148] Corte cost., 22 marzo
2001, n. 73.
[149] Cfr., tra le molte, Cass., Sez. Un., 6 maggio 2003,
n. 6853; Cons. Stato, sez. IV, 24 marzo 2004, n. 1559; per l’impossibilità di
delibare eccezioni di illegittimità costituzionale riferite alla CEDU, Cass.
pen., 9 luglio 1982, n. 1659, Signorelli; contra,
Cass. pen., 12 luglio 2002, n. 33345, Pilla.
[150] Cass., Sez. Un. pen., 23 novembre 1988, Polo Castro.
[151] Cass., 10 marzo 2004, n. 4932; Cass., 27 marzo 2004,
n. 6173; Cass., 11 giugno 2004, n. 11130; Cons. Stato, sez. IV, 10 agosto 2004,
n. 5499; contra, ma isolata, Cass.,
Sez.Un., 23 dicembre 2005, n. 28507.
[152] Cass., 22 marzo 2007,
n. 6978.
[153] Cass., 23 settembre 2004, n. 19082; Cass., 24 ottobre
2003, n. 16041.
[154] Cfr., tra le tante, Corte cost., 10 febbraio 1981, n.
17; Corte cost., 24 aprile 2002, n. 135.
[155] Cfr., per tutte, Corte cost., 14 dicembre 1995, n.
505; Corte cost., 23 dicembre 2004, n. 413.
[156] Corte cost., 25 luglio 1996, n. 310; Corte cost., 27
luglio 2000, n. 376.
[157] Corte cost., 22 luglio 2005, n. 299.
[158] Cass., Sez.Un., 26 gennaio 2004, n. 1338, n. 1339, n.
1340, n. 1341.
[159] Cass. pen., 22 settembre 2005, Cat Berro, concernente
la richiesta di annullamento dell’ordine di esecuzione, proposta dopo che una
sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo aveva accertato la
violazione della Convenzione nello svolgimento in contumacia di un processo;
Cass. pen., 12 luglio 2006, n. 32678, Somogyi, in tema di richiesta di
restituzione nel termine per appellare proposta da un condannato dopo che il
suo ricorso era stato accolto dalla Corte di Strasburgo; Cass. pen., 1°
dicembre 2006, n. 2800, Dorigo, sulla eseguibilità del giudicato, nel caso in
cui la Corte di Strasburgo abbia accertato che la condanna è stata pronunciata
per effetto della violazione delle regole sul processo equo sancite dalla
Convenzione.
[160] Cons. Stato, A.G., 1° marzo 2001, n. 2.
[161] Corte cost., 24 ottobre 2007, n. 348 e n. 349; i
principi in queste affermati sono stati poi ribaditi e specificati in
successive pronunce, di seguito indicate. Su queste pronunce gemelle cfr. R. Morelli, La Convenzione Europea dei
diritti dell’uomo alla luce delle recenti novità del trattato di Lisbona, Roma, p. 3 ss., cui si fa rinvio
anche per un’interessante comparazione con il sistema tedesco. V. inoltre,
sempre a commento di tali decisioni, Randazzo,
Alla ricerca della tutela più intensa dei
diritti fondamentali, attraverso il “dialogo” tra le Corti, disponibile
all’indirizzo web seguente: http://www.giurcost.org/studi/randazzo.htm.
Art. 117 Cost.
anteriormente alla l. Cost. n. 3/2001 |
Art. 117, primo e secondo comma, Cost. nel testo
attualmente vigente |
«Art. 117 La Regione emana per le seguenti materie norme
legislative nei limiti dei principi fondamentali stabiliti dalle leggi dello
Stato, sempreché le norme stesse non siano in contrasto con l’interesse
nazionale e con quello di altre Regioni: - ordinamento degli uffici e degli enti amministrativi
dipendenti dalla Regione; - circoscrizioni comunali; - polizia locale urbana e rurale; - fiere e mercati; - beneficenza pubblica ed assistenza sanitaria ed
ospedaliere; - istruzione artigiana e professionale e assistenza
scolastica; - musei e biblioteche di enti locali; - urbanistica; - turismo ed industria alberghiera; - tranvie e linee automobilistiche di interesse
regionale; - viabilità, acquedotti e lavori pubblici di interesse
regionale; - navigazione e porti lacuali; - acque minerali e termali; - cave e torbiere; - caccia; - pesca nelle acque interne; - agricoltura e foreste; - artigianato; - altre materie indicate da leggi costituzionali. Le leggi della Repubblica possono demandare alla Regione
il potere di emanare norme per la loro attuazione». |
«Art. 117 La potestà legislativa è esercitata dallo Stato e
dalle Regioni nel rispetto della Costituzione, nonché dei vincoli derivanti
dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali. Lo Stato ha legislazione esclusiva nelle seguenti
materie: a) politica
estera e rapporti internazionali dello Stato; rapporti dello Stato con
l’Unione europea; diritto di asilo e condizione giuridica dei cittadini di
Stati non appartenenti all’Unione europea; b) immigrazione; c) rapporti tra la Repubblica e le confessioni
religiose; d) difesa e Forze armate; sicurezza dello Stato;
armi, munizioni ed esplosivi; e) moneta, tutela del risparmio e mercati
finanziari; tutela della concorrenza; sistema valutario; sistema tributario e
contabile dello Stato; perequazione delle risorse finanziarie; f) organi dello Stato e relative leggi elettorali;
referendum statali; elezione del Parlamento europeo; g) ordinamento e organizzazione amministrativa dello
Stato e degli enti pubblici nazionali; h) ordine pubblico e sicurezza, ad esclusione della
polizia amministrativa locale; i) cittadinanza, stato civile e anagrafi; l) giurisdizione e norme processuali; ordinamento
civile e penale; giustizia amministrativa; m) determinazione dei livelli essenziali delle
prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere
garantiti su tutto il territorio nazionale; n) norme generali sull’istruzione; o) previdenza sociale; p) legislazione elettorale, organi di governo e
funzioni fondamentali di Comuni, Province e Città metropolitane; q) dogane, protezione dei confini nazionali e
profilassi internazionale; r) pesi, misure e determinazione del tempo;
coordinamento informativo statistico e informatico dei dati dell’amministrazione
statale, regionale e locale; opere dell’ingegno; s) tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni
culturali. (…)». |
[163] Corte cost., 24 ottobre
2007, n. 348.
[164] Cfr. Corte cost., 24
ottobre 2007, n. 349. Per una diversa lettura del sistema cfr. ad es. Cannizzaro, Diritti “diretti” e diritti “indiretti”: i diritti fondamentali tra
Unione, CEDU e Costituzione italiana, in Dir. U.E., 2012, p. 34 ss., ad avviso del quale la Convenzione
europea sarebbe invece riconducibile all’art. 11 Cost.; poiché, peraltro, non
esisterebbe, sul piano logico, un nesso fra la tutela accordata dall’art. 11
Cost. e il meccanismo della disapplicazione (rispondendo quest’ultimo non già
ad una esigenza funzionalmente legata alla realizzazione dell’interesse
costituzionale protetto dall’art. 11, ma piuttosto ad una esigenza propria
dell’Unione europea: un sistema normativo a favore del quale l’art. 11 ha
disposto il trasferimento di poteri tipici dello Stato sovrano, fra i quali il
potere di adottare norme direttamente applicabili nell’ordinamento nazionale),
le norme della Convenzione, pur creando diritti soggettivi in capo ad individui
e pur potendo essere invocate innanzi ai giudici nazionali, non sarebbero
assistite da quel particolare meccanismo strumentale che consiste nell’obbligo
posto direttamente in capo ai giudici e agli altri operatori giuridici
nazionali di applicarle anche a costo di non applicare norme interne di pari
grado che pretendano di disciplinare la medesima fattispecie. Il conflitto fra
leggi interne e Convenzione europea non sarebbe quindi risolto, neppure secondo
questa ricostruzione, attraverso lo strumento della disapplicazione, bensì
attraverso il ricorso allo strumento del sindacato di costituzionalità delle
leggi.
[165] Corte cost., 25 gennaio
2008, n. 39.
[166] Corte cost., 24 ottobre
2007, n. 349.
[167] Corte cost., 24 ottobre
2007, n. 348.
[168] Corte cost., 26 novembre 2009, n. 311.
[169] Corte cost., 4 dicembre
2009, n. 317.
[170] Corte cost., 26
novembre 2009, n. 311.
[171] Colcelli, Le
situazioni giuridiche soggettive nel sistema CEDU, Perugia, 2010, p. 37
ss.; cfr. inoltre Nunin, Le norme programmatiche della C.E.D.U. e
l’ordinamento italiano, in Riv. int.
dir. uomo, 1991, p. 719 ss.
[172] Cfr. Cass., 27 maggio 1975, n. 2129, in Giur. it., 1976, I, 1, c. 970, il
riferimento è tratto dal famoso caso Soraya.
Si veda anche Cass., 2 febbraio 2007, n. 2247, in Nuova giur. civ. comm., 2007, p. 1195, per cui «è configurabile, in
capo al giudice del merito, un obbligo di tener conto dei criteri elaborati
dalla CEDU, pur conservando un margine di valutazione che gli consente di
discostarsi dalle liquidazioni effettuate da quella Corte in casi simili,
purché in misura ragionevole e motivatamente». Ambiguamente afferma invece
Trib. Biella, 1 giugno 2005 che «i giudici nazionali devono “conformarsi” alle
sentenze C.E.D.U. anche al di fuori del campo d’applicazione della legge n.
89/2001, nella specie con riferimento all’applicazione dell’art. 2059 c.c.».
[173] Colcelli,
op. cit., p. 37 ss. Cfr. sul punto
Corte cost., 24 ottobre 2007, n. 348 e 349, in Giorn. dir. amm., 2008, p. 25 ss.; va poi anche segnalata oggi una
tendenza di alcune Corti di procedere ad una disapplicazione della norma
interna contraria a quella CEDU: così App. Firenze, 14 luglio 2006, n. 1403, in
Giorn. dir. amm., 2007, con nota di Pacini.
[174] Art. 55 Cost.
francese: «Les traités ou accords régulièrement ratifiés ou approuvés ont, dès
leur publication, une autorité supérieure à celle des lois, sous réserve, pour
chaque accord ou traité, de son application par l’autre partie».
[175] La prima pronuncia del Conseil d’Etat che afferma la superiorità delle Convenzioni
internazionali regolarmente incorporate nel diritto interno e che si estende su
tutte le legge successive alla ratifica è il c.d. arrêt Nicolo del 20 ottobre 1989, in Rec. Lebon, 1989, p. 190. Si veda, successivamente, Cass., 20
giugno 2000, Crédit Lyonnais/
Lecarpentier, in Rev. franç, de droit
adm., 2000, n. 6, p. 123.
[176] L’art. 10.2 della Costituzione spagnola stabilisce
che i diritti fondamentali presenti nella Costituzione debbano essere
interpretati in modo conforme alle dichiarazioni internazionali di cui è parte
la Spagna. In questo modo le dichiarazioni internazionali, compresa la CEDU,
nel caso di specie, assumono una rilevanza costituzionale interna. Il Tribunal Costitucional utilizza la
giurisprudenza della Corte di Strasburgo come orientamento al pari delle
proprie pronunce, ed anzi spesso quasi fosse addirittura la giurisprudenza di
un tribunale superiore; sicché sarebbe addirittura possibile affermare che esso
funziona, in parte, come «delegazione» della Corte di Strasburgo e, in una
certa misura, è un giudice integrato nel sistema della Convenzione di Roma. Al
proposito si i veda la nota pronuncia, Tribunal
Constitucional, sentenza del 16 dicembre 1991, n. 245, Barberà, Messeguer y Jabardo, nella quale il T.C. conclude
affermando che la violazione di un diritto garantito dalla CEDU, come accertata
dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, si traduce automaticamente in una
lesione del corrispondente precetto della Costituzione spagnola. Tema e
sentenza riportato da Miguel, La ejecución de las sentencias del Tribunal
Europeo de Derechos Humanos, Madrid, 1997.
[177] Corte cost., 24 ottobre
2007, n. 349; Corte cost., 12 marzo 2010, n. 93; Corte cost., 5 gennaio 2011,
n. 1.
[178] Corte europea dei
diritti dell’uomo, 23 giugno 1993, Ruiz-Mateos
c. Spagna.
[179] Corte cost., 26 novembre 2009, n. 311; sulla modalità
di identificazione dei principi enunciati da tale giurisprudenza, v. anche Corte
cost., 22 maggio 2009, n. 162.
[180] Sui criteri di ricostruzione ed interpretazione della
giurisprudenza europea, cfr. Cass., 13 luglio 2009, n. 39078; Cass., 22 ottobre
2009, n. 48925, in ordine ai presupposti per la confisca dei terreni
abusivamente lottizzati e delle opere abusivamente costruite, nonché ai fini
dell’assoggettabilità a sequestro preventivo ed a demolizione degli immobili
realizzati in violazione di norme urbanistiche penalmente sanzionate.
[181] Alle sentenze sopra richiamate, adde, Corte cost., 5 gennaio 2011, n. 1; Corte cost., 4 giugno
2010, n. 196; Corte cost., 24 luglio 2009, n. 239.
[182] Corte cost., 26
novembre 2009, n. 311, con riguardo ai limiti di ammissibilità delle leggi
interpretative; v. anche Corte cost., 5 gennaio 2011, n. 1; sul «margine di
apprezzamento» spettante agli Stati, Corte cost., 28 maggio 2010, n. 187.
[183] Corte cost., 4 dicembre
2009, n. 317.
[184] Il contenuto della convenzione e degli obblighi che
da essa derivano, in particolare, è essenzialmente quello che si trae dalla
giurisprudenza che nel corso degli anni la Corte europea dei diritti dell’uomo
ha elaborato (cfr. le sentenze nn. 257, 236, 187, 181 e 113 del 2011, 93 del
2010, 311 e 239 del 2009, 39 del 2008, 349 e 348 del 2007; ordinanza n. 180 del
2011).
[185] A pena di inammissibilità della questione di
legittimità costituzionale, qualora detto tentativo non sia reso impossibile
dal vincolo testuale dalla littera legis
e non si sia formato un diritto vivente di segno contrario all’interpretazione
che si conforma alla CEDU: sentenze nn. 236, 113, 80 e 1 del 2011; 196, 138 e
87 del 2010; 317, 311 e 239 del 2009; 39 del 2008.
[186] Corte cost., 26
novembre 2009, n. 311; Corte cost., 5 gennaio 2011, n. 1.
[187] Corte europea dei
diritti dell’uomo, 31 marzo 2009, Simaldone
c. Italia.
[188] Cass., 6 maggio 2009,
n. 10415, secondo la quale, al fine di accertare l’osservanza del parametro di
liquidazione del danno non patrimoniale da irragionevole durata del giudizio,
non rileva il riferimento ad un criterio formalmente diverso rispetto a quello
utilizzato dalla Corte di Strasburgo, qualora esso non «incida negativamente
sulla complessiva attitudine della citata L. n. 89 del 2001, ad assicurare
l’obiettivo di un serio ristoro per la lesione del diritto alla ragionevole durata
del processo», occorrendo comunque valutare se l’acritico recepimento del
criterio del giudice europeo possa recare vulnus
ad altri diritti fondamentali, costituzionalmente tutelati: «In tema di equa
riparazione per violazione del diritto alla ragionevole durata del processo, è
manifestamente infondata la questione di costituzionalità dell’art. 2, comma 3,
lettera a), della legge 24 marzo 2001, n. 89, nella parte in cui stabilisce
che, al fine dell’equa riparazione, rileva soltanto il danno riferibile al periodo
eccedente il termine di ragionevole durata, non essendo ravvisabile alcuna
violazione dell’art. 117 , primo comma, Cost., in riferimento alla
compatibilità con gli impegni internazionali assunti dall’Italia mediante la
ratifica della Convenzione Europea per la salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e
delle libertà fondamentali. Infatti, qualora sia sostanzialmente osservato il
parametro fissato dalla Corte EDU ai fini della liquidazione dell’indennizzo,
la modalità di calcolo imposta dalla norma nazionale non incide sulla
complessiva attitudine della legislazione interna ad assicurare l’obiettivo di
un serio ristoro per la lesione del diritto in argomento, non comportando una
riduzione dell’indennizzo in misura superiore a quella ritenuta ammissibile dal
giudice europeo; diversamente opinando, poiché le norme CEDU integrano il
parametro costituzionale, ma rimangono pur sempre ad un livello
subcostituzionale, dovrebbe valutarsi la conformità del criterio di computo
desunto dalle norme convenzionali, che attribuisce rilievo all’intera durata
del processo, rispetto al novellato art. 111, secondo comma, Cost., in base al
quale il processo ha un tempo di svolgimento o di durata ragionevole, potendo
profilarsi, quindi, un contrasto dell’interpretazione delle norme CEDU con
altri diritti costituzionalmente tutelati».
[189] Cass., 30 settembre 2011, n. 19985, sui v. infra, § 12.
[190] Cass., 11 febbraio
2010, n. 16507.
[191] Sul tema cfr. ex multis Cataldi, Convenzione
europea dei diritti dell’uomo e ordinamento italiano: un tentativo di bilancio,
in Divenire sociale e adeguamento del
diritto, Scritti in onore di Francesco Capotorti, I, Milano, 1999, p. 39; Tanzarella, La svolta della Cassazione sull’applicazione diretta delle sentenze di
Strasburgo, Nota a Cass., 13 ottobre 2006, n. 32678, in Quad. cost., 2007, p. 189 ss.
[192] Cass. pen., 21 giugno
2010, n. 23761; Cass., 17 gennaio 2012, n. 535; Cass., 17 gennaio 2012, n. 536.
[193] Cass., 30 settembre
2011, n. 19985, su cui cfr. Castellaneta,
Le dichiarazioni rese nel corso di
interviste sono estranee alla funzione parlamentare, in Guida dir., 5 novembre 2011, n. 44, p.
47 s.: «La sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, una volta
divenuta definitiva ai sensi dell’art. 44 della CEDU, ha effetti precettivi
immediati assimilabili al giudicato e, in quanto tale, deve essere tenuta in
considerazione dall’organo dello Stato che, in ragione della sua competenza, è
al momento il destinatario naturale dell’obbligo giuridico, derivante dall’art.
1 della CEDU, di conformare e di non contraddire la sua decisione al deliberato
della Corte di Strasburgo per la parte in cui abbia acquistato autorità di cosa
giudicata in riferimento alla stessa quaestio
disputanda della quale continua ad occuparsi detto organo. (Nella specie,
la sentenza definitiva della Corte di Strasburgo era intervenuta all’esito del
giudizio penale nei confronti di un parlamentare per il reato di diffamazione
in danno di un privato cittadino, che si era concluso con pronuncia di
inammissibilità della Corte di cassazione in ragione della ritenuta operatività
della guarentigia di cui all’art. 68, primo comma, Cost., senza però sollevare
conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato dinanzi alla Corte
costituzionale avverso la delibera di insindacabilità del Parlamento; la Corte
EDU aveva, quindi, ritenuto sussistente la violazione dell’art. 6 della
Convenzione, escludendo che nella fattispecie operasse la prerogativa dell’art.
68 Cost.; nelle more del processo penale, la vittima del reato aveva intanto
promosso il giudizio civile per ottenere dal parlamentare il risarcimento dei
danni derivanti dalla diffamazione; la S.C. ha ritenuto che sulla inoperatività
dell’art. 68 Cost. statuita dalla Corte EDU derivasse un effetto di giudicato
del quale il giudice della causa civile doveva tener conto, giacché chiamato a
decidere sulla medesima causa petendi).
[194] «Le alte Parti
Contraenti s’impegnano a conformarsi alle sentenze definitive della Corte nelle
controversie nelle quali sono parti».
[195] Corte cost., 7 aprile 2011,
n. 113. Sulla decisione cfr. Gallo,
Rapporti
fra Corte costituzionale e Corte EDU, cit.
[196] Rileva Gallo,
Rapporti fra Corte costituzionale e Corte
EDU, cit., p. 15, che il giudice che ha sollevato la questione di
legittimità costituzionale dinanzi alla Corte lamentava che l’omessa
previsione, nell’art. 630 del codice di procedura penale, di un’ipotesi di
revisione del processo dichiarato «ingiusto» dalla Corte di Strasburgo violasse
l’art. 46 CEDU, cioè la norma che, come noto, impegna gli Stati contraenti a
«conformarsi alle sentenze definitive della Corte [EDU] sulle controversie di
cui sono parti». La Corte costituzionale, accogliendo la prospettazione del
giudice rimettente, ha ritenuto che la citata disposizione codicistica
ostacolasse l’adeguamento dell’ordinamento italiano al diritto
giurisprudenziale convenzionale. Se con questa pronuncia sia stato introdotto
un meccanismo capace di adattare automaticamente il diritto interno al diritto
convenzionale attraverso la denuncia di una violazione dell’obbligo di
adeguamento previsto nel citato art. 46 CEDU e se in tal modo sia divenuto
possibile eludere il riscontro di conformità del diritto CEDU a Costituzione
imposto dalle sentenze n. 348 e n. 349 del 2007 è un dubbio che legittimamente
la dottrina ha avanzato. Sempre secondo il citato Autore, con la sentenza n.
113 del 2011, la Consulta si è collocata nella prospettiva di un confronto a
tutto campo con gli apporti normativi e giurisprudenziali internazionali,
superando comprensibili resistenze.
[197] Cfr. Corte cost., 24
ottobre 2007, n. 349.
[198] Art. 5-bis,
comma 6, d.l. n. 333 del 1992, con. in l. n. 359 del 1992, nel testo sostituito
dall’art. 1, comma 65, l. n. 549 del 1995.
[199] Cfr. Corte europea dei
diritti dell’uomo, 9 febbraio 1995, Welch v United Kingdom, in causa n. 17440/90.
[200] Cfr. Corte cost., 2
aprile 2009, n. 97; Corte cost., 20 novembre 2009, n. 301.
[201] Corte cost., 22 luglio
2011, n. 236: «L’art. 10 della legge n. 251 del 2005 (ex Cirielli), nella parte
in cui esclude l’applicazione dei nuovi e più brevi termini di prescrizione nei
procedimenti già pendenti in fase di appello, non contrasta con l’art. 117
della Costituzione e l’art. 7 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo».
[202] Cfr. Corte europea dei
diritti dell’uomo, Grande Camera, 17 settembre 2009, Scoppola c. Italia, in causa n. 10249/03.
[203] Come rilevato dalla
Consulta nella motivazione, «con la sentenza del 17 settembre 2009 (Scoppola
contro Italia) la Grande Camera, mutando il proprio precedente e consolidato
orientamento, ha ammesso che “l’art. 7 § 1 della Convenzione non sancisce solo
il principio della irretroattività delle leggi penali più severe, ma anche, e
implicitamente, il principio della retroattività della legge penale meno
severa”, traducendosi “nella norma secondo cui, se la legge penale in vigore al
momento della commissione del reato e le leggi penali posteriori adottate prima
della pronuncia definitiva sono diverse, il giudice deve applicare quella le
cui disposizioni sono più favorevoli all’imputato”.
[204] Cfr. Corte europea dei
diritti dell’uomo, 27 aprile 2010, Morabito
c. Italia; nello stesso senso, Corte europea dei diritti dell’uomo, 17
settembre 2009, Scoppola contro Italia.
[205] Come rileva Gallo, Rapporti fra Corte costituzionale e Corte EDU, cit., p. 21, la
Corte ha chiarito, insomma, che altro è la lex mitior in relazione a
reati e pene in senso stretto, altro è la lex mitior in relazione ad
ulteriori istituti penali quale la prescrizione.
[206] Si pongano a raffronto le seguenti disposizioni:
Art. 7 CEDU |
Art. 2 c.p. |
Art. 25 cpv. Cost. |
1. Nessuno può essere condannato per una azione o
una omissione che, al momento in cui è stata commessa, non costituiva reato
secondo il diritto interno o internazionale. Parimenti, non può essere
inflitta una pena più grave di quella applicabile al momento in cui il reato
è stato commesso. 2. Il presente articolo non ostacolerà il giudizio e
la condanna di una persona colpevole di una azione o di una omissione che, al
momento in cui è stata commessa, costituiva un crimine secondo i principi
generali di diritto riconosciuti dalle nazioni civili. |
Nessuno può essere punito per un fatto che, secondo
la legge del tempo in cui fu commesso, non costituiva reato. Nessuno può essere punito per un fatto che, secondo
una legge posteriore, non costituisce reato; e, se vi è stata condanna, ne
cessano l’esecuzione e gli effetti penali. Se vi è stata condanna a pena detentiva e la legge
posteriore prevede esclusivamente la pena pecuniaria, la pena detentiva
inflitta si converte immediatamente nella corrispondente pena pecuniaria, ai
sensi dell’articolo 135. Se la legge del tempo in cui fu commesso il reato e
le posteriori sono diverse, si applica quella le cui disposizioni sono più
favorevoli al reo, salvo che sia stata pronunciata sentenza irrevocabile. Se si tratta di leggi eccezionali o temporanee, non
si applicano le disposizioni dei capoversi precedenti. Le disposizioni di questo articolo si applicano
altresì nei casi di decadenza e di mancata ratifica di un decreto-legge e nel
caso di un decreto-legge convertito in legge con emendamenti. |
Nessuno può essere punito se non in forza di una
legge che sia entrata in vigore prima del fatto commesso. |
[207] Tesauro, Relazioni tra
Corte Costituzionale e Corte di giustizia, cit., p. 6 s.
[208] Cons. Stato, sez. IV, 2
marzo 2010, n. 1220; TAR Lazio, II sez. bis, 25 maggio 2010, n. 11984.
[209] TAR Lombardia, 15
settembre 2010, n. 5988; sul punto v. anche Salvato,
op. loc. ultt. citt.
[210] Cfr. Corte europea dei
diritti dell’uomo, 24 aprile 2012, Kamberaj,
in causa C-571/10, secondo cui «Il rinvio operato dall’articolo 6, paragrafo 3,
TUE alla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle
libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950, non impone al giudice
nazionale, in caso di conflitto tra una norma di diritto nazionale e detta
convenzione, di applicare direttamente le disposizioni di quest’ultima,
disapplicando la norma di diritto nazionale in contrasto con essa». Sulla
decisione cfr. Ruggeri, La Corte di giustizia marca la distanza tra
il diritto dell’Unione e la CEDU e offre un puntello alla giurisprudenza
costituzionale in tema di (non) applicazione diretta della Convenzione (a
margine di Corte giust., Grande Sez., 24 aprile 2012), disponibile
all’indirizzo web seguente: http://www.diritticomparati.it/2012/05/la-corte-di-giustizia-marca-la-distanza-tra-il-diritto-dellunione-e-la-cedu-e-offre-un-puntello-alla.html,
il quale osserva che «La Corte non dice perché la Convenzione non sarebbe stata
“comunitarizzata” in virtù del richiamo ad essa fatto dal disposto suddetto,
così come invece si avrebbe secondo una ricostruzione teorica diversamente
orientata, né si avventura in ragionamenti, assai complessi, che invero non
aveva la convenienza di svolgere, anticipando conclusioni di cui potrebbe un
domani pentirsi, a riguardo di ciò che potrebbe aversi una volta giunta a
compimento la prevista adesione dell’Unione alla CEDU. Non sappiamo, dunque, se
la ipotizzata “comunitarizzazione” resterà ugualmente esclusa malgrado
l’adesione stessa o se, di contro, le cose a seguito e per effetto di essa
cambieranno». Lo stesso Autore assai perspicuamente rimarca che «viene
difficile da pensare che, qualora dagli ambienti nazionali dovesse venire
un’indicazione largamente e vigorosamente patrocinata nel senso
dell’applicazione diretta della CEDU, la Corte dell’Unione possa efficacemente
contrastarla, resistendo alla pressione esercitata “dal basso”. Il fatto è che,
come si sa, da un canto, siffatta pressione (dal nostro e da altri ordinamenti)
non è venuta, mentre, dall’altro, ancora più consistente e in qualche caso praticamente
irresistibile è stata (ed è) la pressione esercitata “dall’alto”, le Corti
europee avendo già in molte occasioni sollecitato mutamenti d’indirizzo dei
giudici nazionali, di cui si è quindi avuto puntuale riscontro».
[211] Corte cost., 7 marzo 2011, n. 80, su cui cfr. Giarda, Norme derivanti da fonte «europea»: applicabilità diretta o semplici
referenti di rilevanza costituzionale?, in Corr. merito, 2011, p. 777 ss. Sulla decisione v. inoltre Gallo, Rapporti fra Corte
costituzionale e Corte EDU,
cit., p. 12 ss. A tali conclusioni la Corte è giunta muovendo dalla
premessa che l’art. 11 della Costituzione – e cioè l’articolo che ammette a
certe condizioni la cessione di sovranità attraverso la stipula dei Trattati –
è applicabile solo all’ordinamento dell’Unione e non anche a quello della CEDU,
il primo configurandosi una «realtà giuridica, funzionale e istituzionale» ben
differenziata dal secondo. In particolare, ha spiegato che l’art. 11 Cost. non
sarebbe direttamente riferibile alla CEDU neppure facendo leva sull’art. 6,
paragrafo 3, TUE, che – come si è visto – qualifica i diritti fondamentali
della CEDU come «princípi generali» del diritto dell’Unione. Ciò perché tale
disposizione, riprendendo lo schema del previgente art. 6, paragrafo 2, dello
stesso TUE, si limita a confermare una forma di protezione preesistente al
Trattato di Lisbona, e cioè una protezione per cui i diritti fondamentali
garantiti dalla CEDU e risultanti dalle tradizioni costituzionali comuni agli
Stati membri vengono in gioco non in sé e per sé, ma soltanto «in quanto
princípi generali» del diritto dell’Unione; beninteso, con riferimento alle
fattispecie in cui venga in rilievo l’interpretazione o l’applicazione di tale
diritto. Per la Corte costituzionale italiana, la situazione anteriore al
Trattato di Lisbona non è, dunque, mutata per il fatto che la cosiddetta Carta
di Nizza abbia assunto, in forza del paragrafo 1, primo comma, dell’art. 6 TUE,
lo «stesso valore giuridico dei Trattati» e che l’art. 52, paragrafo 3, primo
periodo, della suddetta Carta, preveda una Carta non estendono in alcun modo le
competenze dell’Unione definite nei Trattati» e che tali disposizioni trovano
applicazione, pertanto, alle sole fattispecie già disciplinate dal diritto
dell’Unione. Sempre secondo la Corte italiana, infine, non potrebbe trarsi
alcun argomento in contrario dall’adesione della UE alla CEDU, prevista
dall’art. 6, paragrafo 2, primo periodo, del TUE, per l’ovvia ragione che tale
adesione non si è ancora perfezionata (su questo tema v. peraltro infra, § 13).
[212] Il documento è disponibile all’indirizzo web seguente: http://www.coe.int/en/20120419-brighton-declaration/.
[213] Così Randazzo, Alla ricerca della tutela più intensa dei diritti fondamentali,
attraverso il “dialogo” tra le Corti, cit.
[214] In merito
all’applicazione diretta della Costituzione, cfr. Romboli, L’attività
creativa di diritto da parte del giudice, in Aa.Vv., La Costituzione repubblicana. I principi, le
libertà, le buone ragioni, in Quad.
di Quest. giust., a cura di Caputo e Pepino, 2009, p. 195 ss.; Bin e Pitruzzella,
Le fonti del diritto, Torino, 2009,
p. 40 ss. e 52 ss.; Mannella, Giudice comune e Costituzione: il problema
dell’applicazione diretta del testo costituzionale, disponibile al seguente
indirizzo web: http://www.federalismi.it/.
[215] Randazzo, Alla ricerca
della tutela più intensa dei diritti fondamentali, attraverso il “dialogo” tra
le Corti, cit.
[216] Randazzo, Alla ricerca
della tutela più intensa dei diritti fondamentali, attraverso il “dialogo” tra
le Corti, cit., il quale soggiunge che Come la stessa giurisprudenza
costituzionale ha efficacemente rilevato, in una sua notissima pronunzia (la n.
388 del 1999), Costituzione e Carte dei diritti «si integrano, completandosi
reciprocamente nella interpretazione». È dunque da prendere in conto il caso
che proprio la norma convenzionale possa giocare un ruolo di primo piano in
sede interpretativa, concorrendo in significativa misura a riempire di
contenuti aggiornati il dettato costituzionale.
[217] R. Conti, CEDU e interpretazione del giudice: gerarchia o dialogo con la Corte di
Strasburgo?, disponibile all’indirizzo web
seguente: http://www.federalismi.it/.
L’Autore rileva (p. 20) che spetta «alle autorità nazionali» garantire «sempre
più elevati standard di tutela dei
diritti fondamentali, individuati attraverso continue ed incessanti operazioni
di bilanciamento fra i diritti fondamentali», la salvaguardia di questi ultimi
passando, proprio, «dalla tutela domestica a pena di divenire inefficace». Del
«ruolo cruciale che spetta in materia al giudice comune» parla anche Carlotto, I giudici comuni e gli obblighi internazionali dopo le sentenze n. 348
e n. 349 del 2007 della Corte costituzionale: un’analisi sul seguito
giurisprudenziale, in Pol. dir.,
2010, p. 287.
[218] R. Conti, CEDU e interpretazione del giudice: gerarchia o dialogo con la Corte di
Strasburgo?, cit., p. 16; Randazzo,
Alla ricerca della tutela più intensa dei
diritti fondamentali, attraverso il “dialogo” tra le Corti, cit.
[219] Randazzo, Alla ricerca
della tutela più intensa dei diritti fondamentali, attraverso il “dialogo” tra
le Corti, cit.; v. inoltre Ruggeri,
Interpretazione conforme e tutela dei
diritti fondamentali, tra internazionalizzazione (ed “europeizzazione”) della
Costituzione e costituzionalizzazione del diritto internazionale e del diritto
eurounitario, in http://www.associazionedeicostituzionalisti.it/,
spec. le notazioni finali, di cui al par. 9; Butturini,
La partecipazione paritaria della
Costituzione e della norma sovranazionale all’elaborazione del contenuto
indefettibile del diritto fondamentale. Osservazioni a margine di Corte cost.
n. 317 del 2009, in Giur. cost.,
2010, p. 1824, osserva che nella sent. n. 317, cit., «l’area del diritto
fondamentale non è governata da gerarchie formali, perché la scelta sul livello
competente è data dai contenuti prodotti dalla migliore integrazione fra gli
ordinamenti». Osserva, pertanto, Randazzo,
op. loc. ultt. citt., che il massimo
grado di tutela passa da una compiuta integrazione fra ordinamenti o – se si
vuole, ragionando a contrario – è il frutto di un sistema integrato di
ordinamenti: tanto più quest’ultimo è avanzato ed effettivo, tanto più sembra
realizzabile una protezione dei diritti che sia concreta e la più intensa.
[220] Sul punto v. ad es. Randazzo, Alla ricerca della tutela più intensa dei diritti fondamentali,
attraverso il “dialogo” tra le Corti, cit.
[221] In argomento, v., da
ultimo, anche Pollicino, Margine
di apprezzamento, art 10, c.1, Cost. e bilanciamento “bidirezionale”:
evoluzione o svolta nei rapporti tra diritto interno e diritto convenzionale
nelle due decisioni nn. 311 e 317 del 2009 della Corte costituzionale?, in www.forumcostituzionale.it, par.
2, il quale rileva che in alcuni casi la Corte europea dei diritti dell’uomo
acconsente che ci si possa discostare dalla propria interpretazione,
riconoscendo un certo margine di apprezzamento agli Stati. A tal proposito,
occorre mettere in luce che un tale orientamento appare oggi mitigato da quanto
si legge nella sent. n. 317 cit., nella quale si chiede che l’interpretazione
fornita dal giudice interno presti rispetto nella sostanza a quella data a
Strasburgo.
[222] Cfr. Randazzo,
Alla ricerca della tutela più intensa dei
diritti fondamentali, attraverso il “dialogo” tra le Corti, cit. Non assegna invece rilievo a questa distinzione Lamarque, Gli effetti delle sentenze della Corte di Strasburgo secondo la Corte
costituzionale italiana, in Corr.
giur., 2010, p. 957 ss.
[223] Così sempre Randazzo, Alla ricerca della tutela più intensa dei diritti fondamentali,
attraverso il “dialogo” tra le Corti, cit.
[224] Gambino, Diritti
fondamentali, fra Unione europea e Costituzione italiana, cit., p. 76 ss.
[225] Anche per Tesauro, op. cit., p. 5, la Carta di Nizza «in fatto, essa aveva comunque un
valore sostanziale, alla luce di una ricchissima giurisprudenza quarantennale
del giudice comunitario in materia di diritti fondamentali, in grandissima
parte trasposta nella Carta».
[226] Cfr. Robles
Morochón, La protezione dei
diritti fondamentali nell’Unione Europea, in Aa. Vv., Ars
Interpretandi. Annuario di Ermeneutica
Giuridica, VI, Giustizia
internazionale e interpretazione, Padova, 2001, p. 252. V. inoltre Condinanzi, Il «livello comunitario» di tutela dei diritti fondamentali
dell’individuo, in Aa. Vv., La
tutela multilivello dei diritti. Punti di crisi, problemi aperti, momenti di
stabilizzazione, cit., p. 38.
[227] Cfr. Castaldo
e Á Vila Hernández, Le fonti del sistema comunitario di
protezione dei diritti dell’uomo/The Bases of the Community System of Human
Rights Protection, disponibile alla pagina web seguente: http://www.ejournal.unam.mx/bmd/bolmex124/BMD000012404.pdf.
Non bisogna del resto dimenticare che le basi giuridiche su cui si fondava
l’iniziativa della Corte non erano tali da giustificare il ricorso a fonti
comunitarie non scritte: solo l’art. 215 del Trattato di Roma rinvia ai
«principi generali comuni ai diritti degli Stati membri» con riferimento esclusivo
all’ambito della responsabilità extracontrattuale della Comunità (cfr., sul
punto, Cartabia, Principi inviolabili ed integrazione europea,
Milano, 1995, p. 26 s.).
[228] Cfr. Cartabia e Weiler, L’Italia in
Europa. Profili istituzionali e costituzionali, Bologna, 2000, p. 218 s.
[229] Corte di giustizia CE, 12 novembre 1969, Stauder v Stadt Ulm - Sozialamt, in
causa 29/69.
[230] Corte di giustizia CE,
17 dicembre 1970, Internationale
Handelsgesellschaft mbH v Einfuhr- und Vorratsstelle für Getreide und Futtermittel,
in causa 11/70, cit.
[231] Cfr. Castaldo
e Á Vila Hernández, op. loc. ultt. citt.
[232] V. supra, § 13.
[233] Cannizzaro, Diritti
“diretti” e diritti “indiretti”: i diritti fondamentali tra Unione, CEDU e
Costituzione italiana, in Dir. U.E.,
cit.
[234] Così sempre Cannizzaro, op. loc. ultt. citt.
[235] V. sempre Cannizzaro, op. loc. ultt. citt.
[236] Per un’applicazione
delle riflessioni di cui al testo al tema dei rapporti familiari di fatto cfr. Oberto, I diritti dei conviventi. Realtà
e prospettive tra Italia ed Europa, cit., p. 16 ss. L’autore coglie
l’occasione per ringraziare Roberta Clerici ed Ilaria Queirolo per una serie di
suggerimenti e spunti offerti allo scrivente sul tema.
[237] Sui precedenti della Carta di Nizza cfr. Castaldo e Á Vila Hernández, Le
fonti del sistema comunitario di protezione dei diritti dell’uomo/The Bases of
the Community System OF Human Rights Protection, cit.
[238] Cfr. R. Conti,
Corte costituzionale e CEDU: qualcosa di
nuovo all’orizzonte?, Nota a Corte cost., 26 novembre 2009, n. 311, in Corr. giur., 2010, p. 632. Cfr. inoltre Nascimbene, Unioni di fatto e matrimonio fra omosessuali. orientamenti del giudice
nazionale e della corte di giustizia, in Corr. giur., 2010, p. 91.
[239] Cfr. R. Conti, op. loc. ultt. citt.
[240] Così Tesauro, op. cit., p. 6.
[241] Cfr., ad es., Corte di
giustizia UE, 15 novembre 2011, Dereci,
in cui si legge (punti 71 e 72 della motivazione): «Tuttavia, occorre ricordare
che le disposizioni della Carta si applicano, ai sensi dell’art. 51, n. 1,
della medesima, agli Stati membri esclusivamente in sede di attuazione del
diritto dell’Unione. In virtù del n. 2 della medesima disposizione, la Carta
non estende l’ambito di applicazione del diritto dell’Unione al di là delle
competenze dell’Unione, né introduce competenze nuove o compiti nuovi per
l’Unione, né modifica le competenze e i compiti definiti nei trattati.
Pertanto, la Corte è chiamata a interpretare, alla luce della Carta, il diritto
dell’Unione nei limiti delle competenze riconosciute a quest’ultima. Pertanto,
nel caso di specie, qualora il giudice del rinvio ritenga che, alla luce delle
circostanze delle cause principali, le posizioni dei ricorrenti nelle cause
principali siano soggette al diritto dell’Unione, esso dovrà valutare se il
diniego del diritto di soggiorno di questi ultimi nelle cause principali leda
il diritto al rispetto della vita privata e familiare, previsto dall’art. 7
della Carta. Viceversa, qualora ritenga che dette posizioni non rientrino nella
sfera di applicazione del diritto dell’Unione, esso dovrà condurre un siffatto
esame alla luce dell’art. 8, n. 1, della CEDU». V. inoltre la sentenza Mariano, Corte di giustizia CE, 17 marzo
2009, in causa C-217/08 (punti nn. 29 e 30): «29 Neppure il riferimento alla
Carta dei diritti fondamentali può venire a sostegno di una conclusione diretta
a far entrare il presente procedimento nella sfera di applicazione del diritto
comunitario. A tal riguardo basta sottolineare che, conformemente all’art. 51,
n. 2, di detta Carta, quest’ultima non introduce competenze nuove o compiti
nuovi per la Comunità europea e per l’Unione, né modifica le competenze nonché
i compiti definiti nei Trattati. Inoltre, conformemente all’art. 52, n. 2,
della stessa Carta, i diritti riconosciuti dalla stessa che trovano il loro
fondamento nei Trattati comunitari o nel Trattato sull’Unione europea si
esercitano alle condizioni e nei limiti dagli stessi definiti. 30. Alla luce
delle considerazioni che precedono, la questione sollevata deve essere risolta
nel senso che il diritto comunitario non contiene un divieto di qualsiasi
discriminazione di cui i giudici degli Stati membri devono garantire
l’applicazione allorché il comportamento eventualmente discriminatorio non
presenta alcun nesso con il diritto comunitario». Nello stesso senso cfr. poi
anche la sentenza McB, Corte di
giustizia UE, 5 ottobre 2010, in causa C-400/10 PPU, che, dopo avere ricordato
che «conformemente all’art. 6, n. 1, primo comma, TUE, l’Unione riconosce i
diritti, le libertà e i principi sanciti nella Carta, “che ha lo stesso valore
giuridico dei Trattati”», ha precisato che «le disposizioni della Carta si
applicano, ai termini del suo art. 51, n. 1, agli Stati membri esclusivamente
nell’attuazione del diritto dell’Unione. In virtù del n. 2 della medesima disposizione,
la Carta non estende l’ambito di applicazione del diritto dell’Unione al di là
delle competenze dell’Unione, “né introduce competenze nuove o compiti nuovi
per l’Unione, né modifica le competenze e i compiti definiti nei trattati”».
[242] Cfr. Oberto, I diritti dei conviventi. Realtà
e prospettive tra Italia ed Europa, cit., p. 24 ss.
[243] Si pongano a confronto
le relative disposizioni:
CEDU |
Carta di Nizza |
«Articolo 12 Diritto al matrimonio A partire dall’età minima per contrarre matrimonio, l’uomo
e la donna hanno il diritto di sposarsi e di fondare una famiglia secondo le
leggi nazionali che regolano l’esercizio di tale diritto». |
«Articolo 9 Diritto di sposarsi e di
costituire una famiglia Il diritto di sposarsi e il diritto di costituire una famiglia
sono garantiti secondo le leggi nazionali che ne disciplinano l’esercizio». |
In altre parole, l’avere individuato disgiuntamente i
due distinti diritti – quello di sposarsi e quello di creare una famiglia – è
stato interpretato nel senso di avere inteso assicurare una disciplina alle
famiglie non unite in matrimonio, riconoscendo loro una tutela giuridica. E
proprio questo argomento si pone alla base di quel «dialogo tra carte», di cui
si nutre l’attuale giurisprudenza di Strasburgo in questo settore, sulla quale
si avrà modo di riferire a tempo debito: l’ulteriore evoluzione di tale case
law segna infatti la presenza di interventi sempre più marcati a tutela
della famiglia di fatto etero e omosessuale, come si avrà modo di vedere
trattando di quest’ultimo specifico argomento (Cfr. Oberto, I diritti dei
conviventi. Realtà e prospettive tra
Italia ed Europa, cit., p. 23 ss.).
[244] Sul tema v. per tutti Oberto, La comunione coniugale nei suoi profili di diritto comparato,
internazionale ed europeo, in Il
diritto di famiglia e delle persone, 2008, p. 367 ss.; Id., La
comunione legale tra coniugi, cit., p. 210 ss.
[245] Come noto, si suole evidenziare da più parti che la
normativa del diritto di famiglia, in senso ampio, è riservata alla competenza
esclusiva dei singoli Stati membri, trattandosi di materia fortemente
influenzata dai valori, dalla cultura e dalla tradizione propri di una nazione.
Sul tema, che non può essere certo sviluppato in questa sede, cfr. Ruscello, La famiglia tra
diritto interno e normativa comunitaria, in Familia, 2001, p. 697
ss.; Ferrando, Le relazioni
familiari nella Carta dei diritti dell’Unione europea, in Pol. dir., 2003, p. 347 ss.; Honorati, Verso una competenza della Comunità Europea in materia di diritto di
famiglia?, in Aa. Vv., La famiglia nel diritto internazionale
privato comunitario, a cura di Bariatti, Milano, 2007, p. 3 ss.; Tomasi, La nozione di famiglia negli atti dell’Unione e della Comunità europea,
ivi, p. 47 ss.; cfr. inoltre Long, Il diritto italiano della famiglia alla prova delle fonti
internazionali, cit., passim.
Svariati contributi sul tema sono poi raccolti in Aa. Vv., Perspectives for the Unification and
Harmonisation of Family Law in Europe, a cura di Boele-Woelki,
Antwerp-Oxford-New York, 2003; tra questi si segnalano in particolare Pintens, Europeanisation of Family Law, p. 3 ss., 16 ss.; Dethloff, Arguments for the Unification and Harmonisation of Family Law in Europe,
p. 37 ss.; cfr. inoltre Boele-Woelki,
The Road towards a European Family Law,
disponibile alla pagina web seguente: http://www.ejcl.org/11/art11-1.doc,
p. 12 ss.; Queirolo, Separazione, annullamento, divorzio e
responsabilità genitoriale: il regolamento CE 2201/2003, in Aa. Vv., Il nuovo diritto di famiglia, Trattato diretto da Ferrando, I, Matrimonio, separazione e divorzio,
Bologna, 2007, p. 1107 ss. Sul futuro europeo dei regimi patrimoniali cfr. per
tutti Oberto, La comunione coniugale nei suoi profili di diritto comparato,
internazionale ed europeo, in Dir.
fam. pers, 2008, p. 367 ss.; Id.,
La comunione legale tra coniugi,
cit., p. 218 ss.
[246] Schlüter, Die
nichteheliche Lebensgemeinschaft, Berlin-New York, 1981, p. 18, che rileva
come una «(negative) Eheschließungsfreiheit» sia garantita dall’art. 6, primo
comma, della Costituzione tedesca, ma anche dall’art. 23, secondo comma, della
convenzione delle Nazioni Unite del 19 dicembre 1966, sui diritti civili e
politici.
[247] Per un’applicazione delle norme della Carta di Nizza
a una fattispecie che prescindeva da riferimenti al diritto europeo cfr. Cass.,
2 febbraio 2010, n. 2352, in materia di demansionamento di fatto di un
professionista operante nell’ambito di una struttura ospedaliera. Secondo tale
decisione, infatti, i giudici di merito possono avere un vero e proprio obbligo
di ispirarsi ai principi della Carta, osservando come i «principi di diritto
comune europeo [...] hanno il pregio di rendere evidenti i valori universali
del principio personalistico su cui si fondano gli Stati della Unione».
Aggiunge la sentenza che «[l]a filonomachia della Corte di Cassazione include
anche il processo interpretativo di conformazione dei diritti nazionali e
costituzionali ai principi non collidenti ma promozionali del Trattato di
Lisbona e della Carta di Nizza che esso pone a fondamento del diritto comune
europeo». Queste parole, pur se pronunziate non in relazione ad un caso
attinente al diritto di famiglia, si pongono quale giusto sfondo per
comprendere l’evoluzione che anche il nostro diritto sta subendo. È uno dei
tanti casi di confronto fra l’homo juridicus italicus e l’homo
juridicus europaeus, secondo la tesi suggerita da Schuster, Gender and beyond. Disaggregating
legal categories, in Id., Equality and
justice. Sexual orientation and gender identity in the XXI century, Udine,
2011, p. 21 ss.
[248] Cfr. Corte di giustizia CE, 17 marzo 2009, Mariano,
in causa n. C-217/08, cit., che, nell’affermare che il diritto comunitario non
contiene un divieto di qualsiasi discriminazione di cui i giudici degli Stati
membri devono garantire l’applicazione allorché il comportamento eventualmente
discriminatorio non presenta alcun nesso con il diritto comunitario, ribadisce
che nemmeno la Carta di Nizza può modificare la natura puramente interna della
questione: «Neppure il
riferimento alla Carta dei diritti fondamentali può venire a sostegno di una
conclusione diretta a far entrare il presente procedimento nella sfera di
applicazione del diritto comunitario. A tal riguardo basta sottolineare che,
conformemente all’art. 51, n. 2, di detta Carta, quest’ultima non introduce
competenze nuove o compiti nuovi per la Comunità europea e per l’Unione, né
modifica le competenze nonché i compiti definiti nei Trattati». In senso
conforme v. inoltre Corte di giustizia CE, 26 marzo 2009, Pignataro, in
causa n. C-535/08; Corte di
giustizia CE, 3 ottobre 2008, Crocefissa Savia, in causa n. C-287/08;
Corte di giustizia CE, 23 settembre 2008, Birgit Bartsch, in causa n.
C-427/06.
[249] Sul tema cfr. Nascimbene, Le discriminazioni all’inverso: Corte di giustizia e Corte
costituzionale a confronto, in Dir.U.E.,
2007, p. 717. In particolare, detto principio che, tradizionalmente, viene
fatto risalire alla sentenza Guimont (sentenza
5 dicembre 2000, Guimont, in causa n.
C-448/98, in Raccolta, p. I-10663),
con riferimento alla libera
circolazione delle merci, ha trovato espressa applicazione anche in ambito di
libera circolazione delle persone. Rileva, in tal senso, il caso Angonese (sentenza 6 giugno 2000, Roman Angonese c. Cassa di Risparmio di Bolzano SpA, in causa C-281/98,
in Raccolta, p. I-4139) che, come
evidenziato in dottrina, rappresenta «un passo
in più verso un riconoscimento comunitario» delle «discriminazioni a rovescio»,
dovuto ad esigenze giuridiche prettamente interne del giudice a quo (così
Pallaro, La sentenza Guimont: un definitivo superamento “processuale”
dell’irrilevanza delle c.d. “discriminazioni a rovescio”?, in Riv. it. dir. pubbl. comun., 2001, p. 97
e Zoppi, Le discriminazioni a rovescio, in Dir. com. sc. int., 2006, n. 4, p. 808). Nel caso di specie, un cittadino italiano residente a Bolzano
contestava il fatto che una banca della stessa città, nell’ambito di un
concorso di assunzione, esigesse il possesso del c.d. «patentino», attestante
il bilinguismo, rilasciato solo dall’amministrazione provinciale, senza
accettare altre prove dell’adeguata conoscenza sia dell’italiano che della
lingua tedesca; ritenendo il requisito svantaggioso per i non residenti nella
provincia e in particolare per i cittadini di altri Stati membri, e quindi
reclamandone l’incompatibilità con il divieto di discriminazioni tra lavoratori
fondate sulla nazionalità di cui all’art. 48 Trattato CE (divenuto art. 39 TCE;
attualmente trasfuso nell’art. 45 TFUE), egli chiedeva al giudice nazionale di
dichiararlo nullo sulla base di principi di diritto interno. Il giudice adisce
la Corte di giustizia per sapere se il fatto di pretendere l’attestato sul
bilinguismo da parte di un’impresa privata (quindi, di un singolo datore di
lavoro) fosse incompatibile con il Trattato e con la normativa derivata in tema
di libera circolazione dei lavoratori; l’ordinanza adduceva quale unico
elemento «transfrontaliero» lo svolgimento da parte dell’attore nella
fattispecie a quo di studi di lingue straniere all’Università di Vienna,
studi, tuttavia, del tutto estranei al tipo di attività lavorativa cui si era
candidato; essa aggiungeva inoltre la problematica dell’eventuale
disapplicabilità della clausola concorsuale ai sensi dei principi giuridici
nazionali. Per commenti, si veda Gaja,
Può un cittadino italiano utilmente
imparare il tedesco in Austria?, in Riv. dir. int., 2000, p. 1051 ss.; F. Palermo, Diritto comunitario e tutela delle minoranze: alla ricerca di un punto
di equilibrio, in Dir. pubbl. comp.
eur., 2000, p. 969 ss.; Schepisi, Cosa si nasconde dietro al caso Angonese? Novità e conferme in materia
di libera circolazione dei lavoratori, in Dir. Un. eur., 2002, p. 327 ss.
[250] Cfr. Oberto, I diritti dei conviventi. Realtà
e prospettive tra Italia ed Europa, cit., p. 236 ss.
[251] Corte europea dir. uomo, 24
giugno 2010, Schalk and Kopf v Austria,
par. 109. Per il periodo di tempo precedente tale riforma legislativa non
sussisteva comunque una violazione, poiché l’Austria non aveva ecceduto il
margine di apprezzamento che doveva esserle riconosciuto in ragione della
mancanza di un consensus sul punto
tra gli Stati membri del Consiglio d’Europa (ivi, parr. 104 ss.). La Corte ha poi ritenuto all’unanimità
l’inesistenza di una violazione dell’art. 12 CEDU e ha respinto, con una
maggioranza di soli quattro voti contro tre, la tesi del ricorrente di
esistenza di una violazione del combinato disposto degli artt. 8 e 14 CEDU. Su
tale decisione cfr. Conte, Profili costituzionali del riconoscimento
giuridico delle coppie omosessuali alla luce di una pronuncia della Corte
europea dei diritti dell’uomo, Nota a Corte europea dei diritti dell’uomo, Schalk and Kopf v Austria, cit., in Corr. giur., 2011, p. 573 ss.; R. Conti, Convergenze (inconsapevoli o…naturali) e contaminazioni tra giudici
nazionali e Corte EDU: a proposito del matrimonio di coppie omosessuali, ibidem, p. 579 ss.; Winkler, Le famiglie omosessuali nuovamente alla prova della Corte di Strasburgo,
in Nuova giur. civ. comm., 2010, I, p. 1148 ss.
[252] «60. Turning to the comparison between Article 12 of the Convention and
Article 9 of the Charter of Fundamental Rights of the European Union (the
Charter), the Court has already noted that the latter has deliberately dropped
the reference to men and women (see Christine Goodwin, cited above, § 100). The
commentary to the Charter, which became legally binding in December 2009,
confirms that Article 9 is meant to be broader in scope than the corresponding
articles in other human rights instruments (see paragraph 25 above). At the
same time the reference to domestic law reflects the diversity of national
regulations, which range from allowing same-sex marriage to explicitly
forbidding it. By referring to national law, Article 9 of the Charter leaves
the decision whether or not to allow same-sex marriage to the States. In the
words of the commentary: “... it may be argued that there is no obstacle to
recognize same-sex relationships in the context of marriage. There is however,
no explicit requirement that domestic laws should facilitate such marriages.”
61. Regard being had to Article 9 of the Charter, therefore, the Court would no
longer consider that the right to marry enshrined in Article 12 must in all
circumstances be limited to marriage between two persons of the opposite sex.
Consequently, it cannot be said that Article 12 is inapplicable to the
applicants’ complaint. However, as matters stand, the question whether or not
to allow same-sex marriage is left to regulation by the national law of the
Contracting State». La
Corte cita in tale decisione il caso Goodwin;
va però tenuto conto del fatto che il medesimo rationale, fondato sul dialogo tra la Convenzione EDU e la Carta di
Nizza si rinviene anche in Case of I. v
The United Kingdom, 11 luglio 2002 (in causa n° 25680/94).
[253] Sul concetto di famiglia nella giurisprudenza della
Corte di Strasburgo cfr. anche Carr,
“Famiglia e famiglie”. Circolazione delle
persone e profili di armonizzazione: l’esperienza irlandese, in Aa. Vv.,
La famiglia e il diritto fra diversità
nazionali ed iniziative dell’Unione Europea, a cura di Amram e A. D’Angelo,
Padova, 2011, p. 80 ss.
[254] Long, Le fonti di origine extranazionale, in Aa. Vv.,
Trattato di diritto di famiglia, diretto da Zatti, I, Famiglia e
matrimonio, 1, seconda edizione, Milano, 2011, p. 152.
[255] Bronzini, Significato
ed efficacia della Carta di Nizza nella tutela multilivello dei diritti
fondamentali, disponibile alla pagina web
seguente: http://www.scuolasuperioreavvocatura.it/arch/docs/382/INTERVENTO%20dott.%20Giuseppe%20Bronzini.pdf,
p. 10 s.; Id., I diritti
fondamentali nell’ordinamento integrato. Il ruolo della Corte di Giustizia, Relazione svolta
all’incontro di studio organizzato dal CSM in Roma nei giorni 1-3 febbraio 2010
sul tema: I diritti fondamentali
nell’ordinamento, in www.csm.it, p.10.
[256] Sorrentino, I diritti fondamentali in Europa dopo Lisbona
(Considerazioni preliminari), in
Corr. giur., 2010, p. 148.
[257] Cfr. Ruggeri, Corte costituzionale e corti
europee: il modello, le esperienze, le prospettive, in Quad. europ., 2010, n. 19, p. 39,
disponibile all’indirizzo web
seguente: http://www.lex.unict.it/cde/quadernieuropei/giuridiche/19_2010.pdf.
[258] Cartabia,
I diritti fondamentali e la cittadinanza
dell’Unione, in Aa. Vv., Le
nuove istituzioni europee. Commento
al Trattato di Lisbona, a cura di Bassanini e Tiberi, Bologna, 2008, p.
100.
[259] Così Bronzini, op. loc. ultt. citt.
[260] Cfr. Bronzini, op. loc. ultt. citt.
[261] Pistorio,
Commento all’art. 51, in Aa. Vv.,
La Carta dei diritti dell’Unione europea.
Casi e materiali, a cura di Bisogni, Bronzini e Piccone, Taranto, 2009, p.
610.
[262] Ma, secondo una
leggenda metropolitana, anche di una torre di Babele, per lo meno secondo
l’interpretazione del relativo passo biblico offerta da Bruegel il vecchio nel
celeberrimo quadro conservato presso il Kunsthistorisches
Museum di Vienna, quadro che avrebbe costituito il modello ispiratore per
l’edificio sulle rive dell’Ill (cfr. ad es: http://www.foxnews.com/story/0,2933,602223,00.html;
http://en.wikipedia.org/wiki/Seat_of_the_European_Parliament_in_Strasbourg#cite_note-10).
[263] Onida, Il problema della giurisdizione, in Aa.Vv.,
La Costituzione europea. Luci e ombre, a cura di Paciotti, p. 134 ss.
[264] Così Gambino, Diritti fondamentali, fra Unione europea e Costituzione italiana,
cit., p. 125.
[265] Gambino,
Diritti fondamentali, fra Unione europea
e Costituzione italiana, cit., p. 125. Sulla natura «praticamente velleitaria»
del tentativo di pervenire per via ermeneutica a qualsiasi razionalizzazione
dei rapporti in essere fra le diverse Corti europee cfr., tra i tanti, Spadaro, Una (sola) Corte per l’Europa, in Aa.Vv., La Corte costituzionale e le
Corti d’Europa, a cura di P. Falzea, Spadaro e Ventura, Torino, 2003, p.
555.
[266] Cfr. Favoreu, Corti costituzionali nazionali e Corte europea dei diritti dell’uomo,
in Riv. dir. cost., 2004,
p. 3 ss.
[267] Cfr. Gambino, Diritti fondamentali, fra Unione europea e Costituzione italiana,
cit., p. 125.
[268] Cfr. Pizzorusso,
Una Costituzione «ottriata», in Aa.Vv.,
La Costituzione europea. Luci e ombre, a cura di Paciotti, cit.; Onida, Il problema
della giurisdizione, cit.
[269] Cfr. Pizzorusso, Una Costituzione «ottriata», cit.
[270] Gambino, Diritti
fondamentali, fra Unione europea e Costituzione italiana, cit., p. 125.
[271] U. Villani,
Principi democratici e diritti
fondamentali nella «Costituzione europea», in La Comunità internazionale, 2005, n. 4; Tizzano, I «diritti fondamentali e le Corti in Europa», in Dir. UE, 2005, n. 4.
[272] Così sempre Gambino, Diritti fondamentali, fra Unione europea e Costituzione italiana,
cit., p. 125.
[273] Sebbene non dotato,
come noto, di efficacia vincolante: sul tema cfr. ad es. Oberto, Progetto preliminare di parere sulle norme concernenti l’indipendenza
della giustizia e l’inamovibilità dei giudici contenute nella Raccomandazione
n° R (94) 12 del Consiglio d’Europa sull’indipendenza, l’efficienza e il ruolo
dei giudici, in Riv. dir. priv.,
2002, p. 193 ss.; Id., La proposta di una nuova raccomandazione sul
tema:«Indipendenza, efficienza e responsabilità dei giudici», elaborata dal
Comitato d’esperti sulla Magistratura (Cj-S-Jud) del Consiglio d’Europa, in
Contratto e impresa/Europa, 2010, p.
481 ss.
[274] Per i necessari
richiami sia consentito rinviare ai lavori dello scrivente raccolti nella
seguente pagina web: http://giacomooberto.com/ordinamentogiud.htm.
[275] Cfr. sul tema, ex multis, Cappelletti, Studio del diritto e tirocinio professionale
in Italia e Germania, Milano, 1957, passim;
Pisani Massamormile, La legge professionale forense e l’esigenza
di formazione dell’avvocato, in Giur. it., 1990, IV, c. 1 ss.; A. Padoa Schioppa, Per una riforma degli
studi universitari di giurisprudenza in Italia, in Foro it., 1991,
V, c. 517 ss.; Id., Il modello
dell’ insegnamento del diritto in Italia, in Foro it., 1995, V, c.
413 ss.; Id., Una formazione
professionale unitaria per superare le diffidenze tra le categorie, in Guida
al Diritto, Il Sole 24 ore, 1998, n. 42, p. 11 ss.; Consolo e Mazzarolli, La
formazione dell’avvocato. L’Università, in Giur. it., 1993, IV, c.
381 ss.; Franchini, La formazione professionale e scientifica
nell’Università, in Dir. e società, 1993, p. 363 ss.; Levine, Legal Education, New
York, 1993, passim; Bartole, Per una valutazione
comparativa dell’ordinamento del potere giudiziario nei Paesi dell’Europa
continentale, in Studium juris,
1996, p. 531 ss.; Borgna e Cassano, Il giudice e il principe. Magistratura e potere politico in Italia e in
Europa, Roma, 1997, p. 107 ss.; Oberto,
Verardi e Viazzi, Il reclutamento e la formazione professionale dei
magistrati in Italia e in Europa, in Aa.
Vv., L’esame di uditore
giudiziario, Milano, 1997, p. 41 ss.; Spantigati,
La formazione del giurista strumentale alla costruzione del «sistema»,
in Pol. dir., 1997, p. 125 ss.; Caianiello,
Formazione e selezione dei giudici in un’ipotesi comparativa, in Giur. it., 1998, p. 387 ss.; Donati, Storicismo e antistoricismo
nella formazione del giurista, in Jus, 1998, p. 307 ss.; Mariani Marini, I problemi irrisolti
della formazione comune tra avvocati e magistrati, in Rass. forense,
1998, p. 827 ss.; Id., Tradizione e innovazione nella formazione
dell’avvocato, in Rass. forense, 1999, p. 47 ss.; Id., Agli antipodi
dell’azzeccagarbugli (un modello formativo per l’avvocatura), in Rass. forense, 2000, p. 501 ss.; Alpa, L’accesso alla professione
forense: nuove prospettive per l’avvocatura, in Nuova giur. civ. comm.,
1999, II, p. 193 ss.; Dogliani e Sicardi, La riforma degli ordinamenti
didattici e il diritto costituzionale, in Quaderni costituz., 1999,
p. 563 ss.; Moccia, La
formazione dell’«avvocato europeo»: questioni e risposte di prospettiva, in
Riv. trim. dir. proc. civ., 1999, p. 567 ss.; Aa. Vv., Traité
d’organisation judiciaire comparée, I, Zürich-Bruxelles, 1999, passim; Oberto, Recrutement, formation et carrière des magistrats dans le système
juridique et constitutionnel italien, in Aa.
Vv., Que formação para os
magistrados hoje?, Lisbona, 2000, p. 185 ss. (https://www.giacomooberto.com/portugal/rapport.htm); Id., Recrutement et
formation des magistrats: le système italien dans le cadre des principes
internationaux sur le statut des magistrats et l’indépendence du pouvoir
judiciaire, in Riv. dir. priv., 2001, p. 717 ss.; Id., La formazione dei magistrati italiani nell’ottica
della formazione del giurista europeo, in La magistratura, 1/2 (gennaio-giugno),
2002, p. 40 ss.; Id., Recrutement
et formation des magistrats en Europe. Etude comparative, Strasbourg, 2003,
passim; Id., Magistrati. Reclutamento e formazione. Studio
comparato fra sistemi europei, Collana «Inchieste e proposte», diretta da Giuseppe
Salerno, n. 37, Roma, 2003, passim; Id., La
formazione dei magistrati alla luce dei principi internazionali e dei profili
di diritto comparato, Collana «Le monografie di Contratto e impresa. Serie
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dell’informatica, in Dir. e formazione, 2002, p. 287 ss.; Phare Orizontal Program on Justice and Home
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Per una cultura giuridica comune: la
nuova dimensione della formazione giudiziaria in Europa. L’impegno delle
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