GLI ACCORDI
PREMATRIMONIALI IN CASSAZIONE,
OVVERO QUANDO IL DISTINGUISHING
FINISCE NELLA HAARSPALTEMASCHINE
ABSTRACT: La
poderosa fortezza costruita nel corso di alcuni decenni dalla Cassazione sul
tema della nullità delle intese preventive di divorzio continua a perdere
pezzi. La decisione in commento,
pur proclamando in astratto la propria fedeltà all’indirizzo tradizionale (che
afferma la nullità, in generale, degli accordi in vista della crisi coniugale),
viene a sottrarre a quella regola un’ulteriore
categoria di pattuizioni. L’ennesimo distinguo
proposto dagli ermellini si basa questa volta sulla contrapposizione seguente. A)
«accordi» che intendono «regolare l’intero assetto economico tra i coniugi o un
profilo rilevante (come la corresponsione di assegno), con possibili
arricchimenti e impoverimenti»: accordi, questi, destinati ad essere colpiti da
nullità in base alla ben nota giurisprudenza di legittimità. B) «contratti»
caratterizzati «da prestazioni e controprestazioni tra loro proporzionali», in
cui la crisi del rapporto viene in considerazione alla stregua di una condizione:
negozi, questi, da ritenersi invece validi. Quest’ulteriore distinzione, come
si tenterà di provare nel presente lavoro, appare dogmaticamente inaccettabile.
Essa presenta, se non altro, il pregio di dimostrare che i tempi sono ormai
maturi per una decisa inversione di rotta.
SOMMARIO: 1. L’accordo in esame e le
conseguenti statuizioni giudiziali. Distinguishing
o Haarspaltemaschine? – 2. Precedenti usi della «macchina spaccacapelli» sul tema
degli accordi preventivi: alcuni esempi tratti dalla giurisprudenza di
legittimità. – 3. Segue.
Un esempio di «uso inconsapevole» della «macchina spaccacapelli». – 4. Segue. Esempi di
uso della «macchina spaccacapelli» tratti dalla giurisprudenza di merito. – 5. La sottile, ma insostenibile, distinzione proposta dalla
Cassazione nella decisione in commento. – 6. La crisi
coniugale come condizione del contratto prematrimoniale in discorso. – 7. La crisi coniugale in bilico tra causa e condizione del
contratto. – 8. Sull’esecuzione dell’impegno preventivo a
trasferire l’immobile. Una questione processuale. – 9. Segue. La natura non preliminare
dell’impegno preventivo a trasferire. – 10. La natura
dell’atto di trasferimento e l’applicabilità dell’art. 2932 c.c.
1. L’accordo
in esame e le conseguenti statuizioni giudiziali. Distinguishing o Haarspaltemaschine?
Il caso è assai semplice. Un giorno prima
della celebrazione delle nozze, i futuri coniugi sottoscrivono una scrittura
privata, che, secondo quanto è dato desumere dalla motivazione della decisione
di legittimità, appare concepita nei termini seguenti: «in caso di fallimento
del matrimonio (separazione o divorzio) la moglie cederà al marito un immobile
di sua proprietà, quale indennizzo delle spese sostenute dallo stesso per la
ristrutturazione di altro immobile, pure di sua proprietà, da adibirsi a casa
coniugale; a saldo, comunque, il marito trasferirà alla moglie un titolo BOT di
lire 20.000.000».
Sulla base di siffatto impegno, sopravvenuto
il giudizio divorzio, il marito propone in tale ultimo processo, in via
riconvenzionale, domanda ex art. 2932
c.c. per ottenere una sentenza che tenga luogo del trasferimento immobiliare
non effettuato: petitum, questo, che
viene rigettato dal tribunale, laddove la corte d’appello dichiara «valido ed
efficace» l’impegno, «omettendo peraltro pronuncia ex art. 2932 c.c., ed invitando la parte interessata ad attivarsi,
al riguardo, in separata sede».
La moglie propone allora ricorso contro tale statuizione,
appoggiandosi alla tradizionale giurisprudenza di legittimità sulla nullità
delle intese tra coniugi in vista del divorzio, per violazione dell’art. 160
c.c. La Cassazione nega però che il contratto in discorso sia ascrivibile a
questa categoria di negozi. Ne deriva che la nullità non è in tal caso
applicabile. Il ricorso è rigettato.
Non è certo questa la sede per riprendere l’annoso
dibattito sulla validità delle intese preventive di separazione e divorzio. La
dimostrazione della loro piena validità, contro l’opinione da sempre espressa
dalla Cassazione e da una consistente parte della dottrina, ma conformemente a
quanto teorizzato e praticato in vari sistemi dell’Europa (anche continentale)
e del mondo, è già stata, da diversi anni, fornita da chi scrive in numerose
sedi, cui si fa pertanto rinvio [1].
Qui preme invece soffermarsi brevemente sul metodo
utilizzato dalla Cassazione, la quale compie una spericolata manovra volta, da
un lato, a ribadire in astratto la tradizionale posizione sul tema,
eccettuandovi però, dall’altro, il caso di specie. Caso, va subito precisato,
in cui la mancata attribuzione di validità al patto sarebbe venuta a porsi in
contrasto, in maniera particolarmente stridente, prima ancora che con regole di
diritto, con il buon senso. Evidente, dunque, lo sforzo di raggiungere per tale
via un risultato di «equità» sostanziale nel caso concreto, facendo salva
l’impalcatura concettuale generale da sempre seguita dal Supremo Collegio sul
tema degli accordi in vista della crisi coniugale. Il risultato viene
perseguito mercé il ricorso ad un sottile distinguo,
volto, come si diceva poc’anzi, a sottrarre l’accordo in oggetto al novero di
quelli preventivi in vista del divorzio.
Questa volta, peraltro, il distinguishing operato dalla Suprema Corte, più che quel «gioco
seducente (fascinating game) che
permette al giudice di common law di
sottrarsi alla soggezione a un determinato precedente vincolante e di
recuperare così ampi spazi di discrezionalità, dichiarando che il caso concreto
in quel momento al suo esame non presenta le stesse circostanze di fatto che
avevano giustificato l’applicazione della regola nel passato» [2], ricorda la «macchina spaccacapelli» di jheringiana
memoria [3]. Una Haarspaltemaschine
che, pur se presa a prestito dal «cielo dei concetti giuridici», su cui il
grande giurista tedesco ironizzava, sembra, per via del suo uso eccessivo,
essersi ormai inesorabilmente inceppata.
Prima di dimostrare dove si cela la zeppa che viene a
bloccare il meccanismo, sarà opportuno rammentare in quali precedenti
controversie siffatta tecnica decisionale è stata applicata alla materia delle
intese preventive di divorzio.
Il primo caso fu quello, assai pubblicizzato a suo
tempo dai media (e non a caso
ricordato proprio dalla sentenza qui in esame) di una decisione dell’ormai lontano
2000 [4], la quale, pur riaffermando il tradizionale principio
della nullità delle intese concluse in sede di separazione, con valore inteso
dalle parti come vincolante anche per il divorzio, rigettò la domanda di
nullità di un accordo preventivo sull’ammontare dell’assegno di divorzio, sulla
base del pretesto che l’invalidità era stata invocata nella specie non dal
coniuge avente diritto all’assegno, bensì dall’altro, che di tale assegno
avrebbe potuto essere onerato.
Il risultato paradossale di siffatta operazione
ermeneutica fu quello di trasformare – al di fuori di ogni previsione di legge
– la nullità per violazione di regole d’ordine pubblico in una sorta di nullità
relativa, la quale potrebbe essere fatta valere soltanto dal coniuge che
avrebbe diritto all’assegno, con buona pace di quanto disposto dall’art. 1421
c.c. E’ del resto innegabile che, se la causa è illecita, la nullità colpisce l’intero
atto; quest’ultimo non può essere lecito nei confronti di una parte e illecito
nei riguardi dell’altra, al punto che, secondo taluno, la sentenza si sarebbe
posta addirittura in violazione dell’art. 3 Cost., poiché avrebbe riservato un
trattamento differenziato a ciascuno dei coniugi [5].
Il secondo caso, assai meno noto [6], ma certo non meno paradossale, fu quello in cui, in
quel medesimo anno, la Corte [7] si spinse ad affermare che tale forma di nullità non
solo potrebbe essere invocata esclusivamente dal coniuge avente diritto all’assegno,
ma dovrebbe essere fatta valere soltanto nell’ambito della procedura di
divorzio (e pertanto non successivamente alla relativa pronunzia), così
surrettiziamente introducendo per quell’ipotesi di nullità un’impropria forma
di prescrizione, in aperta ed ingiustificata violazione, questa volta, non
solamente del principio di cui all’art. 1421 c.c., ma anche di quello ex art. 1422 c.c.
Per il periodo successivo va ricordata una decisione
del 2001 [8] su di un caso piuttosto singolare. Nella specie due
coniugi, in sede di udienza presidenziale di divorzio, si erano accordati nel
senso che l’ex marito avrebbe corrisposto alla ex moglie un assegno mensile,
contestualmente ad un versamento di quaranta milioni di lire. Tale ultima somma
veniva espressamente qualificata quale anticipo su eventuali aumenti che l’assegno
avrebbe potuto subire per effetto di decisioni giudiziali eventualmente emesse
a seguito di procedure ex art. 9,
l.div., nel caso, per l’appunto, la donna avesse deciso di richiedere un
aumento dell’assegno [9].
La Corte statuì che «non viola il principio di
indisponibilità preventiva dei diritti patrimoniali conseguenti allo
scioglimento del vincolo coniugale (ed è, pertanto, del tutto legittima) l’eventuale
compensazione operata tra l’importo del credito vantato dall’ex coniuge in
ragione del successivo incremento dell’assegno divorzile disposto dal giudice
ed una somma in precedenza corrisposta dall’obbligato all’assegno stesso con
funzione integrativa di quest’ultimo, da tenere in conto (come convenzionalmente
pattuito tra i coniugi in sede di scioglimento del vincolo matrimoniale) nell’ipotesi,
appunto, di verificazione delle condizioni legali per un aumento, somma da
considerare, conseguentemente, come una forma di anticipazione del maggior
importo eventualmente dovuto in futuro all’ex coniuge».
Ora, se è vero che quell’intesa era destinata ad
incidere su soggetti ormai svincolati dal rapporto coniugale, è altrettanto
innegabile che essa era stata raggiunta – come, del resto, espressamente
richiesto dall’art. 4, sedicesimo comma, l.div.! [10] – in un momento anteriore, pur se di poco, a quello
della cessazione degli effetti civili del matrimonio e anche tale patto era
venuto a formare oggetto di quella negoziazione globale dei rapporti dare-avere
nati dal vincolo matrimoniale, che caratterizza la fine di quest’ultimo.
Inoltre, appare evidente che l’accordo veniva in qualche
modo a comprimere gli effetti dell’esercizio di un’azione, quale quella ex art. 9, l.div., che, nella
tradizionale visione della Cassazione [11] sarebbe caratterizzata dal profilo della più assoluta
irrinunziabilità. Ed invero, il consenso a vanificare ab initio gli effetti dell’esperimento di un’azione non è cosa poi
molto distante dalla rinunzia alla proposizione della medesima. L’obiezione,
poi [12], secondo cui l’accordo in oggetto non cadrebbe sotto
gli strali dell’art. 160 c.c., posto che si tratta di soggetti ormai
divorziati, prova, come si dice, troppo, atteso che questo è proprio il motivo
per il quale, in realtà, ogni accordo preventivo in vista del divorzio sfugge
alla sfera di operatività della disposizione citata, non concernendo «diritti e
doveri che nascono dal matrimonio», bensì riguardando rapporti giuridici che
nascono dal divorzio, che del matrimonio rappresenta, per l’appunto, l’esatto
opposto [13].
Due anni dopo, la Corte [14], pur ribadendo, anche in questo caso, che «ogni patto
stipulato in epoca antecedente al divorzio volto a predeterminare il contenuto
dei rapporti patrimoniali del divorzio stesso deve ritenersi nullo», ammette la
possibilità «che le parti, in sede di divorzio, dichiarino espressamente che,
in virtù di una pregressa operazione (ad es. trasferimento immobiliare) tra di
esse, l’assegno di divorzio sia già stato corrisposto una tantum, con conseguente richiesta al giudice di stabilire
conformemente l’assegno medesimo». In assenza di tale inequivoca richiesta sarebbe
invece inibito al giudice di determinare l’assegno, «sulla base del
riconoscimento dell’avvenuta corresponsione in unica soluzione». Ebbene, come
il giudice possa procedere alla determinazione dell’assegno dopo aver
constatato che esso è già stato liquidato in unica soluzione rimane un mistero,
anche alla luce del disposto dell’art. 5, ottavo comma, l.div.
Ma il profilo più sconcertante è dato dal fatto che, come
prosegue la sentenza citata, del tutto diversa sarebbe l’ipotesi in cui le
parti abbiano già regolato i propri rapporti patrimoniali e nessuna delle due
richieda un assegno, nel qual caso l’accordo sarebbe valido per l’attualità, «ma
non escluderebbe che successivi mutamenti della situazione patrimoniale di una
delle due parti possano giustificare la richiesta di corresponsione di un
assegno a carico dell’altra» [15]. Appare chiaro che questa insolita fattispecie di
«nullità à la carte», oltre a non
trovare alcun fondamento giuridico nel vigente ordinamento, manifesta un’intima
contraddittorietà della decisione. Ed invero, l’invalidità degli accordi
preventivi viene dalla giurisprudenza ricondotta, come più volte ricordato,
alla nullità per violazione di canoni d’ordine pubblico. Ora, siffatta nullità
non consente in alcun modo di ritenere ammissibile una richiesta di modifica
basata sulla mera sopravvenienza. L’accordo nullo non può produrre, per
definizione, effetti di sorta (e le prestazioni che ne siano eventualmente
seguite sono ripetibili): la categoria della «validità per l’attualità» è
dunque un nonsense giuridico.
È probabile che quando la Corte affermò questo
principio avesse in mente l’ipotesi dell’accordo in sede di divorzio non
contenente un’espressa rinunzia e non preceduto da una rinunzia preventiva: in
tal caso la validità dell’intesa s’incontra con la proponibilità della
richiesta di modifica delle condizioni del divorzio, ex art. 9 l.div. Sarebbe però comunque scorretto, in questa
ipotesi, discorrere, come invece fa la Cassazione, di «validità per l’attualità»:
il contratto è tout court valido (e
tale resta ad vitam aeternam!),
potendo semmai diventare inefficace per cause sopravvenute, da far valere ex art. 9 l.div., laddove, naturalmente
– per lo meno secondo l’opinione di chi scrive – tale eventualità non sia stata
implicitamente od esplicitamente esclusa dalla voluntas contrahentium.
3. Segue. Un esempio di «uso inconsapevole»
della «macchina spaccacapelli».
All’antologia di cui sopra potrà aggiungersi ancora
una decisione di legittimità del 2012, in cui l’ «effetto-spaccacapello» è, per
così dire, inconsapevole, dal momento che dalla lettura della motivazione
emerge che la Corte ha sostanzialmente attribuito rilievo, senza rendersene
conto, ad un patto raggiunto in sede di separazione, sebbene con una chiara
valenza divorzile e postdivorzile [16].
Secondo tale decisione, invero, il giudice deve tener
conto degli accordi intervenuti tra i coniugi sul godimento della casa
familiare. Va pertanto cassata la decisione di merito che abbia rigettato la
richiesta di assegnazione della casa familiare per aver raggiunto il figlio
maggiorenne convivente l’autosufficienza economica, quando per gli accordi
intercorsi in sede di separazione è stato attribuito al coniuge il diritto a
godere l’abitazione fino a quando fosse durata la convivenza con il figlio
maggiorenne, a prescindere dalla raggiunta autonomia economica e (ancorché non
espressamente dichiarato dalle parti, ma comunque secondo quanto implicitamente
desumibile) a prescindere dalla circostanza che ormai si verta in un giudizio
di divorzio.
Nella specie, l’accordo, consacrato nel verbale di
separazione personale, era testualmente concepito nei termini seguenti: «L’immobile
in questione verrà posto in vendita a terzi con modalità che i coniugi stessi
stabiliranno di comune accordo, quando i figli L. e V. trasferiranno altrove la
loro residenza e quindi tale abitazione non sarà più di loro necessità». Ora,
di fronte ad una simile intesa, la Cassazione rimprovera alla decisione d’appello
di non aver tenuto conto del fatto che il «regolamento convenzionale» era
«destinato ad avere vigenza temporalmente indeterminata fino al verificarsi
della condizione ivi prevista» (cioè dello stabilimento in altro luogo della
residenza dei figli). Prosegue la Corte di legittimità asserendo che «la
sentenza impugnata appare quindi viziata laddove non dà conto delle ragioni –
eventualmente sopravvenute – per le quali tale accordo non dovrebbe influire
sulla domanda di assegnazione della casa coniugale in sede di giudizio di
divorzio».
Neppure una parola sulla notoria giurisprudenza di
legittimità circa la nullità delle intese preventive di divorzio, nonostante
proprio il tema dell’accordo assunto in sede di separazione personale sulla
vendita a terzi dell’immobile di proprietà comune, con conseguente divisione
del ricavato, avesse già formato oggetto – esattamente vent’anni prima – di uno
specifico precedente, che aveva invece (coerentemente con l’indirizzo
assolutamente prevalente e da chi scrive mai condiviso) fulminato di nullità
siffatto tipo di accordo [17].
La sentenza del 2012 attribuisce quindi efficacia
vincolante all’accordo sulla casa familiare raggiunto in sede di separazione
consensuale, riconoscendogli una valenza anche post-divorzile, sebbene ancorata
alla clausola rebus sic stantibus
(quest’ultima sfumatura mi sembra debba essere colta, invero, nella parte della
motivazione che richiama non meglio precisate «ragioni – eventualmente
sopravvenute – per le quali tale accordo non dovrebbe influire sulla domanda di
assegnazione della casa coniugale in sede di giudizio di divorzio»).
4. Segue. Esempi di uso della «macchina
spaccacapelli» tratti dalla giurisprudenza di merito.
Per non essere da meno, pure la giurisprudenza di
merito si è cimentata in subiecta materia
con il «meccanismo spaccacapelli».
Ho già avuto modo di ricordare in altre occasioni
come, nel 2010, il tribunale di Varese [18] abbia spinto il suo furore iconoclasta contro gli
accordi preventivi al punto di dichiarare nullo l’accordo con il quale gli
sventurati contendenti avevano avuto l’ardire di premettere all’intesa una
premessa del seguente letterale tenore: «è specifico intento delle parti
addivenire ad una composizione convenzionale della complessa vertenza,
trasformando il procedimento instaurato in divorzio congiunto, dirimendo ogni questione
economica, passata, presente e futura con la presente scrittura conciliativa».
Ebbene, in quella medesima occasione, il giudice
ammette espressamente che quell’accordo avrebbe dovuto essere considerato
valido, se solo si fosse trattato di «patti “puri”, svincolati cioè dal
divorzio e dunque, senza alcun riferimento, esplicito od implicito, al futuro
assetto dei rapporti economici conseguenti alla eventuale pronuncia di divorzio».
Il discrimen viene così posto sul
labile versante formale della presenza/assenza della menzione della causa dell’intesa
(causa «definitoria» in maniera «tombale» della crisi coniugale, a valere per
il divorzio). L’omessa indicazione varrebbe dunque a salvare la validità degli
accordi, pur essendo evidente che, tanto per citare un esempio, un’attribuzione
patrimoniale una tantum in sede di
separazione – a prescindere dalla presenza o meno di esternazioni sull’assegno
e dall’evocazione dello scioglimento del matrimonio – manifesta la presenza di
un accordo destinato comunque, nell’intenzione delle parti, «a valere» anche
per il divorzio. Con una conclusione, quindi, che prova veramente troppo, posto
che, allora, qualsiasi attribuzione patrimoniale diversa dalla corresponsione
di un assegno, effettuata nel contesto di un contratto della crisi coniugale
precedente al supremum exitum del
vincolo, dovrebbe reputarsi vietata.
Alcuni anni prima della decisione di cui sopra, il
tribunale di Messina [19] aveva invece sottoposto la possibile validità dei
patti preventivi di divorzio al positivo accertamento, da parte del giudice,
che lo stesso non violi in concreto il «limite inderogabile rappresentato dalla
funzione assistenziale che la legge attribuisce all’assegno di divorzio»,
atteso che il regolamento dei rapporti patrimoniali tra coniugi divorziati dovrebbe
«poter assicurare al coniuge richiedente, qualora questi non abbia adeguati
mezzi propri, il mantenimento, almeno in via tendenziale, del tenore di vita
goduto durante il matrimonio»; pertanto, nei limiti in cui non si stravolgesse
detto principio, potrebbe considerarsi valida e vincolante la rinuncia al
mantenimento, liberamente concordata dalle parti, salvo il sopravvenire di
nuove circostanze che imponessero la revisione di detti accordi.
La decisione, peraltro, si fonda su di un’evidente
confusione tra funzione assistenziale e funzione alimentare, laddove, come
noto, solo per quest’ultima la legge prevede espressamente la caratteristica
dell’inderogabilità [20]. Non chiarita dall’arresto rimane poi anche la
distinzione tra il tema della rinunziabilità in via preventiva alle conseguenze
patrimoniali postmatrimoniali e la rinunziabilità tout court (eventualmente anche all’atto del verificarsi della
crisi coniugale): due ben distinti profili, che troppo spesso vengono confusi [21].
5. La
sottile, ma insostenibile, distinzione proposta dalla Cassazione nella
decisione in commento.
Tornando al caso deciso dalla sentenza in commento, va
osservato innanzi tutto che questa volta la Haarspaltemaschine
viene utilizzata per spaccare il capello in modo ulteriormente diverso rispetto
al passato.
Qui, infatti, la Suprema Corte propone, per la prima
volta, una distinzione tra i due seguenti tipi di intese. A) «accordi» che intendono «regolare l’intero assetto economico tra i coniugi o un profilo rilevante
(come la corresponsione di assegno), con possibili arricchimenti e impoverimenti»:
accordi, questi, destinati ad essere colpiti da nullità in base alla ben nota
giurisprudenza di legittimità. B) «contratti» caratterizzati «da prestazioni e controprestazioni
tra loro proporzionali», in cui la crisi del rapporto viene in considerazione
alla stregua di una condizione: negozi, questi, da ritenersi invece validi.
In tutta onestà, neppure
questa volta il risultato di tale raffinata Haarspaltung
appare condivisibile.
In primis si dovrà notare che la «prematrimonialità» di un contratto della crisi
coniugale nulla ha a che vedere con la sua eventuale «globalità», atteso che
nessuno è in grado di prevedere quali e quanto complessi saranno i rapporti economici
dopo un periodo magari pluriennale di convivenza uti coniuges. Né essa risulta necessariamente legata allo specifico
tema dell’assegno: proprio la Suprema Corte non ha mai esitato, neppure per un
istante, a fulminare di nullità intese tra coniugi separati dirette a stabilire
singole, ben determinate, attribuzioni patrimoniali al momento dell’eventuale (ancorché
in tal contesto ormai facilmente vaticinabile) futuro divorzio, anche al di là
e al di fuori dell’ipotesi della predeterminazione del (o della rinunzia al)
diritto all’assegno divorzile [22].
In un’ottica ancora più
radicale, va sottolineato che, nella materia in esame, concernente per
definizione pattuizioni di carattere patrimoniale, non appare possibile
riproporre la superata contrapposizione tra «accordo» e «contratto».
Varrà la pena ricordare
brevemente che, sul piano della teoria generale, la concezione che vorrebbe
individuare l’«accordo» (in senso stretto) come un tipo di negozio a sé stante,
distinto dal contratto, nasce – sotto la spinta di influssi corporativistici –
come il tentativo di raggruppare in un’autonomia categoria una serie di figure
negoziali in cui le parti, invece di comporre tra di loro interessi in
conflitto, attuano interessi «paralleli e convergenti» [23].
Questa opinione, per quanto
di autorevole fonte, non appare condivisibile.
Come esattamente rilevato
nella dottrina meno risalente, la compatibilità tra concordanza di interessi e
fattispecie contrattuale sembra una nozione ormai acquisita e trova conferma a
livello codicistico con l’espressa previsione dei contratti plurilaterali con
comunione di scopo [24]. Per non dire poi del fatto
che la distinzione in esame non solo non trova conforto in alcuna delle vigenti
disposizioni, ma pare contrastata dall’art. 1321 c.c. che, oltre a non
autorizzare alcun tipo di contrapposizione tra i due concetti in questione,
fonda espressamente sull’accordo il concetto di contratto [25]. Infine, come pure
autorevolmente rimarcato ormai svariati decenni or sono, neanche sotto il
profilo delle regole operazionali il ricorso alla figura dell’accordo sembra
recare una qualche utilità: l’accordo finirebbe infatti con il diventare una
«figura metagiuridica, una inutilità per il diritto, se ad un certo momento le
parti non restassero vincolate, in quello che sarà l’apprezzamento dei propri
interessi convergenti» [26].
La verità è che, nel campo
degli accordi sulla separazione, il divorzio o l’annullamento del matrimonio, l’unica
categoria di riferimento è (e non può essere se non) quella, scoperta ormai
diversi anni or sono dallo scrivente, dei «contratti della crisi coniugale» [27], definibili come quei
contratti «che si caratterizzano per la presenza vuoi della causa tipica di
definizione della crisi coniugale (contratto tipico della crisi coniugale –
contratto postmatrimoniale), vuoi per la semplice presenza, accanto ad una
causa tipica diversa (donazione, negozio solutorio, transazione, convenzione
matrimoniale, divisione), di un motivo “postmatrimoniale”, rappresentato dal
fatto che quel particolare contratto viene stipulato in contemplazione della
crisi coniugale, avuto riguardo all’intenzione delle parti di considerare la
relativa pattuizione alla stregua di una delle “condizioni” della separazione o
del divorzio, cioè di un elemento la cui presenza viene dai coniugi ritenuta
essenziale al fine di acconsentire ad una definizione non contenziosa della
crisi coniugale» [28].
In quest’ottica, del tutto
arbitrario risulta l’espresso riferimento della motivazione qui in commento al
requisito della «rilevanza» (misurabile, di grazia, come ed in base a quale
scala?) del profilo patrimoniale: un aspetto, questo, che non si comprende da
quale norma o da quale principio sarebbe desumibile, come dimostrato proprio
dal richiamo della motivazione all’assegno postmatrimoniale. Ed invero, l’esperienza
del contenzioso coniugale comprova come la parte più interessante, più
combattuta, e sovente più «succosa» della «partita» patrimoniale si giochi non
tanto sugli assegni, quanto sul regime, sulla titolarità dei beni acquisiti,
sulla qualificazione giuridica di attribuzioni patrimoniali effettuate dai
coniugi e/o dai rispettivi parenti, sui rapporti dare-avere sorti in anni di
intrecci affettivo-patrimoniali.
No. L’unica ragione che può
indurre a considerare come «prematrimoniale» un contratto della crisi coniugale
è data dal suo essere concepito in
contemplation of divorce, laddove la contemplation
va intesa – e non può non essere intesa se non – proprio alla stregua di una
condizione.
6. La crisi
coniugale come condizione del contratto prematrimoniale in discorso.
Nell’ottica testé delineata,
la riconduzione dell’accordo oggetto della decisione qui commentata al novero
delle intese «prematrimoniali», mercé il richiamo delle parti al meccanismo
della condizione, appare quanto di più naturale si possa immaginare.
Sebbene la Cassazione parli
qui di «un contratto atipico con condizione sospensiva lecita, espressione dell’autonomia
negoziale dei coniugi diretto a realizzare interessi meritevoli di tutela, ai
sensi dell’art. 1322, secondo comma c.c.», dovrà invece riconoscersi nell’accordo
la presenza di un mutuo (per la ristrutturazione di un alloggio della moglie),
di cui le parti avevano previsto l’estinzione a mezzo di una datio in solutum, peraltro a sua volta
in parte «contro-compensata» o «riequilibrata»
– avuto riguardo, evidentemente, al rapporto tra il valore del bene e l’ammontare
delle spese di ristrutturazione sostenute dal marito – dal trasferimento da
parte del marito alla moglie di «un titolo BOT di L. 20.000.000» [29]. L’estinzione del mutuo era peraltro soggetta alla condizione sospensiva del «fallimento» dell’unione.
Osservando le stesse cose da un altro punto di vista, si poteva pensare ad una
donazione indiretta, risolutivamente condizionata al medesimo evento di cui
sopra.
Nihil sub sole novi, come si ribadirà tra un attimo.
È evidente che il trasferimento dell’immobile non era
previsto come dovuto nel caso in cui il matrimonio non si fosse venuto a
trovare in una situazione di crisi (o di «fallimento», per utilizzare l’espressione
usata dalle parti). La persistenza del vincolo avrebbe avuto l’effetto di
conservare il carattere gratuito della prestazione costituita dal pagamento, da
parte del (in allora futuro) marito delle spese di ristrutturazione di un altro
immobile della (in allora futura) moglie.
Negare al contratto in oggetto la natura di patto
prematrimoniale, come invece fa la Cassazione nella sentenza in commento,
appare quanto mai arduo.
A parte la considerazione (per il vero irrilevante per
i fini in discorso, ma comunque significativa in vista di una connotazione più
marcatamente «familiare» dell’intesa) per cui le spese sostenute dal marito
attenevano alla ristrutturazione non già di un immobile «qualsiasi» della
moglie, bensì proprio di quello destinato a divenire casa coniugale [30], va ribadito in questa sede come l’idea di collegare
i rapporti patrimoniali tra due soggetti che stanno per unirsi in matrimonio al
(ci si consenta l’espressione) «buon esito» dello stesso, sia concezione da
antichissima data inscindibilmente connessa con l’istituto matrimoniale.
Proprio lo studio storico e comparato delle
pattuizioni in vista della celebrazione delle nozze [31] evidenzia il frequente e diffuso riconoscimento della
validità di accordi diretti, per l’eventualità del fallimento del rapporto di
coniugio, a riportare i contraenti, come dire, back to square one: cioè, nella stessa posizione di partenza in cui
si sarebbero trovati se mai si fossero impegnati in quell’unione rivelatasi poi
così male assortita.
A parte le intese contenute nei pacta nuptialia, di cui fanno fede le fonti romane, che in un
numero incredibilmente vasto di casi contemplavano espressamente il divortium quale causa di restituzione
dell’apporto dotale, provvedendo a fissare le concrete modalità dell’attuazione
di tale restitutio [32], va ricordato che pure in epoche nelle quali l’unica
causa di scioglimento del vincolo matrimoniale era rappresentata dalla morte, i
notai non disdegnavano di prendere in considerazione nei contratti di
matrimonio l’ipotesi della separatio a
mensa e thoro, proprio quale causa di ristabilimento delle condizioni
patrimoniali di partenza dell’una e dell’altra parte.
Così, nel medioevo, il celebre Rolandino, dopo aver
spiegato che (conformemente a quanto unanimemente ritenuto dal pensiero
giuridico dell’epoca) la restitutio dotis
era dovuta non solo in caso di scioglimento del matrimonio per morte, ma anche
di separazione, diremmo oggi, personale, conseguente alla fornicatio del marito (la restituzione veniva invece esclusa, a
titolo sanzionatorio, nel caso di adulterio della moglie), si intratteneva
nella descrizione dei soggetti cui competeva la richiesta di restituzione ed il
tempo in cui tale restituzione avrebbe dovuto essere fatta, rimettendo la predeterminazione
di tali elementi proprio alla volontà delle parti nell’atto (prematrimoniale) di
costituzione di dote [33].
Ho già avuto modo di evocare in altre occasioni la
decisione resa nel 1612 dal Concistorium
del Regno di Sicilia in applicazione delle consuetudini di Messina, ove per
determinati tipi di matrimonio (detti «alla latina») vigeva un regime di
comunione universale legale. La sentenza confermò la validità della clausola
del contratto matrimoniale che escludeva la comunione «casu (quod absit) di
separatione di matrimonio, tanto senza figli come nati figli, & quelli
morti in minori età, vel maiori ab intestato», stabilendo altresì che, in tale
ultima ipotesi, «detta sposa non possa disponere, nisi tantum di unzi trenta» [34]. Qualcosa, tra l’altro, di molto simile a ciò che per
secoli è avvenuto ed ancor oggi avviene Oltralpe con la c.d. «clausola
alsaziana».
Tramite tale clause
alsacienne, invero, le coppie che optano in Francia per il regime di
comunione universale possono stabilire che, in caso di scioglimento per
divorzio, ognuno dei coniugi riprenderà gli apporti alla comunione [35]. Il risultato perseguito è sicuramente commendevole. Come
rilevato dalla dottrina transalpina [36], «En période de
divortialité galopante, on peut comprendre la préoccupation des époux de faire
en sorte que le bénéfice susceptible d’être tiré du régime matrimonial soit
minimal en cas de divorce et maximal en cas de décès. La clause de liquidation
alternative répond à cette attente (également dénommée clause alsacienne en
raison de son développement par les praticiens alsaciens en réponse à la
fréquence de la communauté universelle dans cette région, pour des raisons historiques).
Elle consiste, dans le cas d’une communauté universelle, à liquider celle-ci
différemment selon la cause de dissolution. En cas de dissolution par décès, les
règles de la communauté universelle s’appliquent. Au contraire, en cas de
dissolution par divorce, la liquidation est
réalisée comme s’il s’agissait d’une communauté réduite aux acquêts, par la
possibilité offerte à chacun des époux de reprendre ses “apports”, c’est-à dire
les biens qui auraient été propres en régime légal ou les biens non
constitutifs d’acquêts» [37]. La clausola, già ritenuta conforme al sistema del Code civil [38], ha ricevuto un ulteriore avallo dalla riforma
francese del 23 giugno 2006 (sulle successioni e liberalità), in vigore dal 1°
gennaio 2007, che ha introdotto un terzo comma all’art. 265 del Code, a
mente del quale «si le contrat de mariage le prévoit, les époux pourront
toujours reprendre les biens qu’ ils auront apportés à la communauté» [39].
Quanto sopra – tornando alla disciplina nostrana – è
del resto ciò che ancora oggi i coniugi molte volte fanno quando, in sede di
separazione, chiariscono che determinati acquisti «squilibrati», operati nel
corso dell’unione, vanno «riequilibrati» mercé il ricorso ad atti ricognitivi,
per esempio, di proprietà per quote diverse da quelle demonstratae dal rogito d’acquisto, ma rispondenti alla proporzione
tra i rispettivi apporti di denaro corrisposti al momento del pagamento del
prezzo d’acquisto [40]. E non si
venga a dire che un accordo di questo genere non avrebbe carattere
«preventivo». È chiaro infatti che, se il momento in cui intese di questo tipo
sono raggiunte è quello della separazione, la valenza (se ci si passa l’espressione)
«tombale» alle stesse accordata ne squaderna la contemplation of divorce, a prescindere dalla più o meno accorta
formale omissione di ogni richiamo al futuro divorzio, e dunque il carattere «preventivo»
(qui non rispetto al matrimonio, ma rispetto al divorzio, che è ciò che conta
in questa sede), nel senso più volte chiarito.
E del resto, non può tacersi
che l’inconsistenza della tradizionale posizione della giurisprudenza di
legittimità è ulteriormente comprovata proprio dal fatto che le intese
preventive sulla separazione personale, a differenza di quelle sul divorzio,
sono state più volte ritenute valide, pur essendo anch’esse intese preventive
su di un futuro, possibile, mutamento di status
[41].
Si noti, poi, che della
«prematrimonialità» dell’accordo in esame sembra rendersi ben conto la
Cassazione nella decisione in esame, laddove, nella sua parte finale, collega
la «sospensione», in costanza di matrimonio, del credito del marito verso la
moglie alla vigenza inter coniuges
del dovere di contribuzione ex art.
143 c.c. [42].
7. La crisi
coniugale in bilico tra causa e condizione del contratto.
Le
considerazioni di cui sopra introducono la trattazione di un ulteriore criterio
distintivo, cui la Cassazione, nella sentenza qui commentata, sembra voler fare
solo un marginale richiamo, ma che ha invece costituito il nucleo della
decisione di merito confermata in sede di legittimità. Sul punto va tenuto
presente che la decisione di primo grado aveva rigettato la domanda del marito,
ritenendo nullo l’impegno assunto dalla moglie «per illiceità della causa, in
quanto in contrasto con la disposizione imperativa dell’art. 160 c.c., che
vieta atti di disposizione relativi a diritti od obblighi nascenti dal
matrimonio» [43].
La sentenza d’appello aveva
allora avuto buon gioco a sottolineare che l’impegno negoziale assunto dalla moglie,
prima del matrimonio, di trasferire al marito, in caso di «fallimento» del
matrimonio stesso (ossia in caso di separazione o di scioglimento) l’immobile,
a titolo di indennizzo per le spese affrontate dal marito per la sistemazione
del diverso immobile adibito a casa coniugale, era «un impegno negoziale che,
in sé, non trae[va] il proprio titolo genetico dal matrimonio, e non [poteva]
quindi annoverarsi fra i diritti o doveri nascenti dal matrimonio, nell’ottica
del prefato art. 160 c.c., che vieta appunto gli atti di disposizione relativi
a diritti o doveri “nascenti” dal matrimonio, e sanciti imperativamente» [44].
Sin qui,
peraltro, il discorso si svolgeva sul solo piano generale della validità tout
court dell’intesa, non certo su quello specifico
dell’intesa, in quanto intesa preventiva.
A
sparigliare le carte interveniva però la stessa corte d’appello, introducendo (pur
se, a quanto pare, non espressamente richiesta sul punto) il tema del carattere
preventivo dell’accordo. Così osservava la corte territoriale: «Si potrebbe,
tuttavia, in ipotesi, sostenere che, al di là della causa formalmente apparente
di tale datio in solutum
condizionale, in realtà la causa negoziale effettivamente sottesa (…) fosse
quella di istituire una sorta di abnorme “penale” per il caso di scioglimento
del matrimonio, ossia una prestazione patrimoniale destinata ad avere effetto
dissuasivo o penalizzante in caso di iniziativa intesa a determinare lo
scioglimento del matrimonio: se tale fosse stato l’intento finalistico delle
parti, la effettiva causa negotii non
avrebbe potuto intendersi come regolamento preventivo (in sé ammissibile) di
rapporti di dare ed avere patrimoniali riguardanti il rimborso (mediante datio in solutum di altro bene) delle
spese come sopra affrontate dal marito nella prospettiva del matrimonio (in tal
senso rilevante solo dal punto di vista del motivo), ma avrebbe invece dovuto
intendersi in termini di preventiva, preordinata e dissuasiva penalizzazione di
iniziative intese alla risoluzione del vincolo [matrimoniale], e, come tale,
sicuramente illecita, in quanto mirante a condizionare preventivamene la libertà
decisionale degli sposi».
Tale
ipotesi, continuava la decisione di merito, «però potrebbe ritenersi vera solo
nel caso in cui risultasse una forte sproporzione fra le prestazioni (…),
poiché solo dalla eventuale sproporzione di tali contrapposte prestazioni
potrebbe eventualmente dedursi (…) che la reale causa negotii della surrichiamata scrittura del 18/8/89 non fosse
quella di una datio in solutum con
funzione di indennizzo, soggetta all’evento condizionale dello scioglimento del
matrimonio, ma fosse, invece, rispondente ad una ben diversa funzione causale,
mirata a dar vita ad una sorta di “penale” per la iniziativa di scioglimento
del matrimonio». Seguiva poi l’illustrazione delle ragioni per le quali, nella
specie, tale sproporzione non poteva ritenersi sussistente.
Chiaramente,
la decisione di merito legava, sul piano degli accordi preventivi, la validità
dell’intesa al fatto di aver le parti considerato il «fallimento» dell’unione
alla stregua di una mera condizione del contratto, laddove l’accordo sarebbe
stato nullo se i coniugi avessero dedotto l’evento-divorzio non già in
condizione, ma nella causa del negozio stesso.
Ora,
come dimostrato da chi scrive in altra sede [45], se il dedurre a causa di
un contratto l’impegno a separarsi o a divorziare (o, tutto al contrario, a non
separarsi e a non divorziare) è senz’altro motivo di nullità dell’intesa per
evidente violazione dei principi di ordine pubblico di protezione della libertà
personale nella sfera più intima, ben diversa è la sorte dei contratti che
prevedano tali eventi personali alla stregua di mere condizioni, sospensive o
risolutive, dell’efficacia delle prestazioni patrimoniali ivi contemplate. Ciò
è proprio quanto ha ribadito la corte d’appello, con statuizione confermata dalla
sentenza qui in commento, nella parte in cui rileva che «ove causa genetica fosse
il matrimonio (e il suo fallimento), l’impegno predetto, una sorta di sanzione dissuasiva
volta a condizionare la libertà decisionale degli sposi anche in ordine all’assunzione
di iniziative tendenti allo scioglimento del vincolo coniugale, sarebbe
sicuramente nullo. Ma indice di tale ipotesi potrebbe essere soltanto una notevole
sproporzione delle prestazioni, al contrario non provata» [46].
Da tali parole traspare l’intuizione
della vera ed unica distinzione possibile in materia: quella, cioè, tra
contratti che vedono il profilo personale dedotto ad oggetto della prestazione
(«in cambio di x mi impegno a divorziare», «in cambio di y mi impegno a non
divorziare») e quelli che vedono quello stesso profilo dedotto alla stregua di
mero evento in condizione («nel caso di divorzio mi impegno a riconoscerti x»).
Il richiamo alla «notevole sproporzione delle prestazioni» cela, in realtà, l’intuizione
del tema della penale collegata ad un comportamento di carattere personale [47].
Ma, per arrivare a tale
conclusioni, non appare necessario scomodare gli angeli del Begriffshimmel per chiedere loro in
prestito la «macchina spaccacapelli»: le famigerate intese preventive sulla
crisi coniugale non vedono mai quale
causa l’impegno a separarsi o a divorziare (o, al contrario, ad astenersi dal
compiere tali atti), bensì mirano a predeterminare le conseguenze patrimoniali
dell’eventuale (libera) decisione sul piano personale, così diminuendo il
livello di aleatorietà del possibile contenzioso coniugale, conformemente ad un’esigenza
drammaticamente sentita di «certezza», in una materia tanto umanamente
delicata. E se mai (ma, si ripete, non risulta che sia mai concretamente
capitato) dovesse accertarsi una situazione di evidente sproporzione tra la
prestazione promessa in caso di divorzio e la situazione patrimoniale del
promittente, la natura di penale dell’attribuzione dimostrerebbe (arg. ex art. 1382 c.c.) la presenza, al di là
delle espressioni usate dalle parti nel contratto della crisi coniugale,
proprio di un obbligo di astensione dall’esercizio del diritto personale di
agire per il divorzio, con conseguente nullità dell’impegno [48].
8. Sull’esecuzione
dell’impegno preventivo a trasferire l’immobile. Una questione processuale.
Per
concludere, alcune brevi notazioni a margine sull’impegno a trasferire assunto
nella scrittura per cui era causa e sulla sua esecuzione per via giudiziale.
In primo
luogo un profilo processuale.
Il
lettore della decisione di legittimità potrebbe infatti essere colto dalla
curiosità di sapere per quale motivo la domanda ex art. 2932 c.c. sia stata dalla corte d’appello – nel contesto,
non lo si dimentichi, di una procedura di divorzio – rigettata nel merito e
non, puramente e semplicemente, dichiarata inammissibile. È noto infatti che la
trattazione congiunta di cause soggette a riti differenti può attuarsi, secondo
le regole di cui all’art. 40 c.p.c. soltanto laddove tali cause siano connesse
ai sensi degli artt. 31, 32, 34, 35 e 36 c.p.c. Conseguentemente, non è
possibile il cumulo in un unico processo della domanda di cessazione degli
effetti civili del matrimonio, soggetta al rito della camera di consiglio, e –
ad esempio – di quella di scioglimento della comunione legale su un bene comune
dei coniugi, soggetta a rito ordinario, trattandosi di domande non legate da
vincoli di connessione, ma in tutto autonome e distinte [49]. A maggior ragione ciò
sarebbe dovuto valere per la richiesta formulata dal marito in prime cure ai
sensi dell’art. 2932 c.c.
Va però anche tenuto
presente che, ai sensi del citato art. 40 c.p.c., l’inammissibilità del petitum in oggetto va eccepita dalla
parte o rilevata d’ufficio non oltre «la prima udienza» [50], mentre nella specie ciò
non era concretamente avvenuto, come puntualmente rimarcato dalla decisione d’appello.
Quest’ultima, pur impropriamente riferendosi ad una questione «di competenza», anziché
di (divieto di) cumulo tra cause per cui è prescritto un rito diverso [51], dà correttamente atto
della intervenuta preclusione al riguardo [52].
9. Segue. La natura non preliminare
dell’impegno preventivo a trasferire.
Una
volta superato lo scoglio dell’inammissibilità, resta allora da comprendere
perché la corte territoriale, pur affermando (con statuizione curiosamente pure
riportata in dispositivo) che la scrittura in oggetto costituiva «valido
impegno negoziale preliminare (…) ai successivi fini ed effetti dell’art. 2932
c.c.», abbia in concreto rifiutato l’applicazione di tale ultima norma,
limitandosi a «dichiarare la validità ed efficacia» dell’impegno a trasferire l’immobile
in discorso, «omessa, nella presente sede cognitiva, ogni determinazione agli
effetti traslativi» [53]. La ragione risiede nel fatto che, nella specie, la parte non aveva adempiuto
all’onere di fornire la necessaria attestazione circa gli estremi della
concessione edilizia, né aveva «apportato, in alternativa, la eventuale
dichiarazione di anteriorità dell’opera all’anno 1967, il tutto come
tassativamente previsto dall’art. 40 Legge Urbanistica n. 47/85 e succ. mod.» [54].
Come il
marito potrà evitare l’effetto preclusivo del giudicato sul rigetto della
domanda ex art. 2932 c.c., una volta
ottenuta la sola (e peraltro non richiesta) sentenza accertativa del diritto al
trasferimento è un mistero che lasciamo ai processualisti [55]. In questa sede si potrà
invece brevemente vedere, in generale, quale struttura l’impegno
prematrimoniale a trasferire un diritto reale (immobiliare o mobiliare che sia)
possa assumere e, in particolare, se esso debba ricevere quella di un atto
bilaterale (con la necessità, quindi, di una manifestazione di volontà anche da
parte del destinatario dell’attribuzione), ovvero quella di un atto traslativo
unilaterale (ciò che prescinderebbe dall’accettazione dell’accipiens), ovvero ancora quella di una proposta ex art. 1333 c.c. (con la conseguenza
che l’accettazione non sarebbe necessaria, ma il contratto dovrebbe ritenersi
concluso solo in mancanza di un rifiuto del destinatario «nel termine richiesto
dalla natura dell’affare o dagli usi»).
La
questione si pone in termini identici a quella già più volte affrontata in
relazione ai contratti traslativi assunti (non in vista, ma) in sede di crisi
coniugale
Proprio l’ultima di quelle
appena indicate è la soluzione additata dalla Cassazione in una nota pronunzia [56] la quale, di fronte alle
incognite del binomio: impegno a trasferire – atto di trasferimento, suggerisce
le seguenti soluzioni: preliminare di contratto ex art. 1333 c.c. – contratto definitivo ex art. 1333 c.c.
Concentrando l’attenzione
sull’impegno a trasferire notiamo subito che la dottrina ha esattamente
criticato, nella decisione appena ricordata, l’individuazione di un contratto
preliminare nell’impegno del padre di trasferire l’immobile, sostenendo che è
invece nel primo negozio (quello, appunto, stipulato in sede di separazione)
che va ravvisato l’atto di autonomia, laddove nel secondo va riscontrato un
mero atto solutorio [57].
10. La
natura dell’atto di trasferimento e l’applicabilità dell’art. 2932 c.c.
Passando al secondo dei
termini del binomio in cui s’articola l’effetto traslativo voluto dalle parti,
sarà opportuno dire a questo punto che, una volta scartate la via della
donazione e quella della compravendita [58], rimangono a disposizione
tre possibilità. Esse consistono, più esattamente, nel ricorso al contratto ex art. 1333 c.c., al negozio traslativo
unilaterale (o pagamento traslativo) e al negozio traslativo bilaterale.
Per la prima soluzione si è
già espressa la Corte di cassazione [59], oltre ad una parte
(minoritaria) della dottrina [60]. La conclusione si scontra
però con la lettera della disposizione in esame – che parla di sole
«obbligazioni», senza fare cenno agli effetti reali – oltre che con i risultati
cui perviene quella dottrina che, sulla base del dato testuale della norma,
confortato da riflessioni comparatistiche, nega l’idoneità della proposta
diretta a concludere un contratto «con effetto reale a carico del solo
proponente» a porre in opera il meccanismo formativo del contratto descritto
dall’art. 1333 c.c. [61]. L’osservazione è stata
criticata da chi ha ritenuto di poter proporre un’estensione analogica della
norma in questione [62]: operazione ermeneutica,
questa, inaccettabile a fronte del carattere eccezionale dell’art. 1333 c.c.
Carattere eccezionale che non può certo essere disconosciuto tramite l’accostamento
[63] a fattispecie quali quelle
di cui agli artt. 649, 1236, 1411 c.c., connotate da evidenti differenze
strutturali rispetto al contratto con obbligazioni a carico del solo
proponente.
In realtà, l’art. 649 c.c. è
chiaro nell’attribuire al legato l’effetto traslativo immediato, al momento
dell’apertura della successione, laddove l’art. 1333 c.c. collega,
testualmente, la conclusione del contratto – e dunque il momento di produzione
degli effetti – alla «mancanza del rifiuto»; rifiuto che deve oltre tutto
essere espresso «nel termine richiesto dalla natura dell’affare o dagli usi»,
con conseguente incertezza nella determinazione del momento nel quale il
diritto si trasferisce in capo all’acquirente, ciò che appare inconciliabile
con il regime della circolazione dei beni immobili e con il sistema di
pubblicità che lo accompagna. Questa incertezza è invece totalmente assente
nella citata fattispecie successoria, e lo stesso discorso vale per gli artt.
1236 c.c. (sulla cui pertinenza alla materia degli effetti reali si potrebbe,
tra l’altro, discutere) e 1411 c.c., così come per l’art. 785 c.c. Con riguardo
a quest’ultima disposizione, andrà subito detto che, anche a voler ammettere la
possibilità di estendere gli effetti del contratto concluso ex art. 1333 c.c. al di là di quelli
meramente obbligatori (ciò che peraltro, per le ragioni sopra esposte, appare
inaccettabile), rimane comunque il fatto che lo schema in esame appare difficilmente
compatibile con la forma dell’atto pubblico [64]. Il «non rifiuto» – si è
osservato – è un evento che comunque sfugge all’attività notarile, con
conseguente impossibilità di una documentazione dello stesso presupposto della
costituzione del diritto in capo all’oblato [65].
Se dunque la via indicata
dalla Cassazione non sembra percorribile, non appare neppure consigliabile la
strada del negozio unilaterale traslativo astratto solutionis causa, o pagamento traslativo, atto unilaterale
riconducibile alla categoria più generale ex
artt. 1176 ss. c.c. e svincolato da ogni forma di accettazione o di mancato
rifiuto da parte del destinatario [66]. Ciò non solo per via delle
persistenti incertezze sull’ammissibilità nel nostro ordinamento di un
trasferimento di proprietà mediante atti a struttura unilaterale [67], ma anche per poter
comunque offrire al destinatario il potere di impedire l’effettuazione del
trasferimento allorquando egli abbia interesse a farlo: si pensi al caso in cui
il creditore abbia perso interesse all’atto, oppure il medesimo si prospetti
addirittura come fonte di possibili danni. Scartata la via dell’atto
unilaterale la conclusione preferibile appare dunque quella di far assumere all’atto
traslativo una struttura bilaterale [68] nella quale risulti appunto
– oltre, ovviamente, alla specificazione della causa praeterita del negozio – anche il consenso del destinatario dell’attribuzione.
Venendo ad accennare
brevemente alla tutela giudiziale dell’obbligazione di trasferire, dottrina e
giurisprudenza appaiono concordi, in caso di rifiuto dell’obbligato ad operare
il trasferimento, a concedere al creditore l’azione ex art. 2932 c.c. [69]. La soluzione è sicuramente
da condividersi, né costituisce ostacolo al suo accoglimento l’aver negato la
natura «preliminare» dell’impegno a trasferire concluso in sede di separazione
consensuale o di divorzio su domanda congiunta. Se è vero, infatti, che, stando
alla lettera della legge, l’art. 2932 c.c. postula la presenza di un obbligo a
«concludere un contratto» (e non di un «obbligo a trasferire»), ponendo a
disposizione del creditore un rimedio consistente nell’emanazione di una
sentenza che produce gli effetti «del contratto non concluso» (e non di un
«trasferimento non attuato»), è altrettanto vero che, ex art. 1324 c.c., la disciplina contrattuale è applicabile agli
atti unilaterali tra vivi aventi contenuto patrimoniale.
Non sembra quindi azzardato
proporre un’estensione della sentenza costitutiva anche in funzione
sostitutoria degli effetti che sarebbero dovuti scaturire dall’atto traslativo
della proprietà, alla cui effettuazione un coniuge si era obbligato in sede di
stipula del contratto di definizione della crisi coniugale. La soluzione testé
prospettata riceve del resto ulteriore conforto dalla considerazione di quanto
disposto dall’art. 1706 cpv. c.c., che estende il rimedio ex art. 2932 c.c. ad un’obbligazione di dare in senso tecnico
(generata dal mandato senza rappresentanza ad acquistare), ossia di trasferire
la proprietà del bene a mezzo di un atto in cui si suole identificare un
negozio traslativo di esecuzione non astratto, ma causale, che si appoggia, cioè,
al mandato e alla sua causa [70].
[1] Va dato atto, in
primis, alla decisione in commento di riconoscere che l’orientamento
prevalente in giurisprudenza «è
criticato da parte
della dottrina, in
quanto trascurerebbe di considerare adeguatamente non
solo i principi del diritto di famiglia, ma la stessa evoluzione del
sistema normativo, ormai
orientato a riconoscere sempre più
ampi spazi di
autonomia ai coniugi nel determinare
i propri rapporti
economici, anche successivi alla crisi coniugale». Sul punto cfr., anche
per gli ulteriori rinvii, Oberto, I contratti della crisi coniugale, I,
Milano, 1999, p. 483 ss.; Id., «Prenuptial
agreements in contemplation of divorce» e disponibilità in via preventiva dei
diritti connessi alla crisi coniugale, in Riv. dir. civ., 1999, II, p. 171 ss.; Id., Contratto e
famiglia, in Aa.Vv., Trattato
del contratto, a cura di Roppo, VI, Interferenze,
a cura di Roppo, Milano, 2006, p. 253 ss.; Id.,
Gli accordi preventivi sulla crisi
coniugale, in Familia, 2008, p.
25 ss.; Id., Contratti prematrimoniali e accordi preventivi sulla crisi coniugale,
in Fam. dir., 2012, p. 69 ss.; Id., Accordi
preventivi di divorzio: la prima picconata è del tribunale di Torino, Nota
a Trib. Torino, 20 aprile 2012, in Fam.
dir., 2012, p. 806 ss. V. poi anche, da ultimo, Fusaro, Marital contracts, Ehevertraege, convenzioni e accordi prematrimoniali. Linee
di una ricerca comparatistica, in Nuova
giur. civ. comm., 2012, II, p. 475 ss.; Arceri,
La pianificazione della crisi coniugale:
il consenso sulle condizioni della separazione, accordi a latere e pattuizioni
in vista del futuro divorzio, in Fam.
dir., 2013, p. 98 ss. La prima decisione edita, in senso decisamente
favorevole alla validità delle intese preventive di divorzio è Trib. Torino, 20
aprile 2012, in Fam. dir., 2012, p.
803, con nota di Oberto.
[2] Così Lamarque,
Gli effetti delle sentenze della Corte di
Strasburgo secondo la Corte costituzionale italiana, in Corr. giur., 2010, p. 960. Sul distinguishing
cfr. Moretti, Il precedente giudiziario nel sistema inglese, in Aa. Vv.,
Atlante di diritto privato comparato,
a cura di Galgano, Bologna, 2006, p. 12 ss.; Rordorf,
L’arte del distinguishing e i poteri di overruling dei giudici di merito e di legittimità,
relazione svolta all’Incontro di studio organizzato dal Consiglio Superiore
della Magistratura, Roma, 9 maggio 2006, in http://astra.csm.it/incontri/relaz/13058.pdf.
Richiama questa tecnica anche Angeloni,
La cassazione attenua il proprio
orientamento negativo nei confronti degli accordi preventivi di divorzio: distinguishing o perspective overruling?, in Contratto e impresa, 2000, p. 1136 ss., proprio a commento di Cass.,
14 giugno 2000, n. 8109, su cui v. immediatamente infra, nel testo: decisione, quest’ultima, non a caso citata dalla
sentenza qui in commento.
[3] Rudolf von Jhering collocava nel «cielo dei concetti
giuridici» (Begriffshimmel) una
meravigliosa «macchina spaccacapelli» (Haarspaltemaschine),
con la quale gli aspiranti beati si sarebbero dovuti cimentare, spaccando un
capello in 999.999 parti assolutamente uguali (cfr. von Jhering, Serio e faceto nella giurisprudenza,
Firenze, 1954, p. 280; per la versione in lingua originale cfr. von Jhering,
Scherz und Ernst in der Jurisprudenz,
Wien, 2009, p. 250 ss.; la prima edizione è del 1884).
[4] Cass., 14 giugno 2000, n. 8109, in Fam. dir.
2000, p. 429; in Corr. giur., 2000,
p. 1021, con nota di Balestra; in Riv. notar., 2000, II, p. 1221, con nota
di Zanni; in Giust. civ., 2000, I, p. 2217, con nota di Giacalone; in Giur. it.,
2000, p. 2229, con nota di Barbiera;
in Nuova giur. civ. comm., 2000, I,
p. 704, con nota di Bargelli; in Foro it., 2001, I, c. 1318, con note di
E. Russo e di G. Ceccherini; in Giust. civ., 2001, I, p. 457, con nota di Guarini; in Familia,
2001, p. 243, con nota di Ferrando.
[5] Così M. Finocchiaro,
Sull’assetto dei rapporti patrimoniali
tra coniugi. Una rivoluzione annunciata solo dalla stampa, Nota a Cass., 14
giugno 2000, n. 8109, in Guida al diritto,
2000, n. 24, p. 43; v. inoltre Ruggiero,
Gli accordi prematrimoniali, Napoli,
2005, p. 83.
[6] Al punto da non essere menzionato dalla decisione qui
in commento, la quale cita Cass., 14 giugno 2000, n. 8109, cit., oltre a Cass.,
21 febbraio 2001, n. 2492 (su cui v. tra breve nel testo), nonché Cass., 10
marzo 2006, n. 5302. La menzione di tale ultima decisione appare peraltro
incomprensibile, nel contesto in cui essa viene effettuata. Ed invero, con
quell’arresto la Suprema Corte decise che «Gli accordi dei coniugi diretti a
fissare, in sede di separazione, i reciproci rapporti economici in relazione al
futuro ed eventuale divorzio con riferimento all’assegno divorzile sono nulli
per illiceità della causa, avuto riguardo alla natura assistenziale di detto
assegno, previsto a tutela del coniuge più debole, che rende indisponibile il
diritto a richiederlo. Ne consegue che la disposizione dell’art. 5, ottavo
comma, della legge n. 898 del 1970 nel testo di cui alla legge n. 74 del 1987 –
a norma del quale, su accordo delle parti, la corresponsione dell’assegno
divorzile può avvenire in un’unica soluzione, ove ritenuta equa dal tribunale,
senza che si possa, in tal caso, proporre alcuna successiva domanda a contenuto
economico – , non è applicabile al di fuori del giudizio di divorzio, e gli
accordi di separazione, dovendo essere interpretati secundum ius, non possono implicare rinuncia all’assegno di
divorzio». Neppure la lettura della motivazione consente di comprendere per
quale motivo tale sentenza sarebbe da annoverare tra quelle che avrebbero fatto
salva, nella specie, la validità di un patto preventivo. Tutto al contrario, la
Corte fece in tale occasione coerente applicazione del principio generale dalla
stessa sempre affermato, confermando la decisione di merito che aveva
riconosciuto alla moglie un assegno, sebbene i coniugi avessero inteso, in sede
di separazione, liquidare le pretese della moglie mercé l’attribuzione una tantum di un bene (un bar, nella
specie), avendo ella rinunziato (dalla lettura della motivazione non si
comprende se espressamente od implicitamente) ad ogni contributo di
mantenimento.
[7] Cfr. Cass., 1 dicembre 2000, n. 15349, in Giust. civ., 2001, I, p. 1592.
[8] Cass., 21 febbraio 2001, n. 2492, in Nuova giur. civ. comm., 2002, I, p. 345,
con nota di Grondona.
[9] Più esattamente la moglie si era impegnata per
iscritto a «tener conto» della citata somma «qualora si [fossero dovuti]
verificare in futuro giustificati motivi per [una] possibile variazione
dell’assegno».
[10] Sul punto cfr. Oberto,
Contratti prematrimoniali e accordi
preventivi sulla crisi coniugale, cit., p. 86 s.
[11] Da chi scrive per nulla condivisa: cfr. Oberto, I contratti della crisi coniugale, I, cit., p. 473 ss.
[12] In questo senso sembrerebbe orientato Grondona, Accordi patrimoniali tra ex coniugi e assegno di divorzio: un
precedente?, Nota a Cass., 21 febbraio 2001, n. 2492, in Nuova giur. civ. comm., 2002, I, p. 347.
[13] Sul tema v. per tutti Oberto,
I contratti della crisi coniugale, I,
cit., p. 457 ss.; Id., Accordi preventivi di divorzio: la prima
picconata è del tribunale di Torino, cit., p. 812 s.; Arceri, op. loc. ultt. citt.
[14] Cfr. Cass., 9 ottobre 2003, n. 15064.
[15] Nella fattispecie la S.C. ha confermato la sentenza
di merito la quale, escluso che i coniugi avessero dichiarato l’avvenuta
corresponsione una tantum
dell’assegno di divorzio in virtù di una precedente operazione di trasferimento
immobiliare, aveva proceduto alla determinazione dell’assegno medesimo sulla
base della richiesta di modifica delle condizioni di cui alla sentenza di
divorzio presentata da uno degli ex coniugi.
[16] Cfr. Cass., Sentenza 13 gennaio 2012 n. 387, in Fam. dir., 2012, p. 772, con nota di Arceri.
[17] Cass., 4 giugno 1992, n. 6857, in Corr. giur., 1992, p. 863, con nota di
V. Carbone; in Giur. it., 1993, I, 1, c. 340, con nota
di Dalmotto: «A norma della legge
1 dicembre 1970 (sia nella originaria formulazione, che a seguito della legge
di riforma 6 marzo 1987 n. 74) l’accordo con il quale i coniugi fissano, in
costanza, il regime giuridico del futuro ed eventuale divorzio, deve
considerarsi invalido, oltre che nella parte riguardante i figli, anche nella
parte concernente l’assegno spettante al coniuge ai sensi dell’art. 5, in forza
della radicale indisponibilità preventiva dei diritti patrimoniali conseguenti
allo scioglimento o alla cessazione degli effetti civili del matrimonio.
Infatti, un siffatto accordo non solo contrasta con l’art. 9 della medesima
legge, il quale consente la revisione in ogni tempo delle disposizioni
concernenti la misura e la modalità di versamento dell’assegno, ma anche, e
soprattutto, ha causa illecita, in quanto appare sempre connesso,
esplicitamente o implicitamente, alla finalità di viziare o limitare la libertà
di difendersi nel successivo giudizio di divorzio, sia in relazione agli
aspetti economici, sia in relazione alla stessa dichiarazione di divorzio, in contrasto
anche con la nuova disciplina della legge n. 74 del 1987, che, configurando
detto assegno con natura eminentemente assistenziale, ne si pone in evidenza il
carattere di indisponibilità in correlazione con il principio generale
dell’ordinamento secondo cui gli emolumenti di varia natura correlati alle
esigenze di vita (pensioni, alimenti, retribuzioni ecc.) sono indisponibili».
L’accordo raggiunto in sede di separazione consensuale prevedeva, nella specie,
la vendita dell’unico immobile di proprietà comune e la successiva divisione
tra le parti del relativo prezzo.
[18] Cfr. Trib. Varese, 29 marzo 2010, in Fam. dir., 2011, p. 60, con nota di Grasso; ibidem, p. 295, con nota di Patania;
ibidem, p. 919, con nota di Torre. Come già ricordato da chi scrive
(cfr. Oberto, Contratti prematrimoniali e accordi preventivi sulla crisi coniugale,
cit., p. 81, nota 80), più che spontaneo sorge il dubbio sulla circostanza se
il tribunale varesotto si sia interrogato sulla conciliabilità di questa
soluzione con il tenore letterale dell’art. 4, sedicesimo comma, l. div., che
presuppone, proprio per la proponibilità della domanda congiunta, che le parti
abbiano già raggiunto un accordo
(proprio come le stesse s’erano azzardate a fare sul presupposto di un chiaro
intento di presentare tale domanda) «che indichi anche compiutamente le
condizioni inerenti alla prole e ai rapporti economici». Va aggiunto che, nella
specie, l’accordo prevedeva testualmente quanto segue: «La casa coniugale,
della quale i ricorrenti sono comproprietari, verrà posta in vendita, anche per
l’eventuale tramite di un mediatore, al prezzo di euro 230.000,00»; la
successiva domanda giudiziale era diretta alla «nomina di un mediatore che si
occupi, così come stabilito dall’art. 2 dell’omologa di separazione, della
vendita della casa cointestata ai coniugi».
[19] Trib. Messina, 10 dicembre 2002, in CED – Corte di cassazione, Archivio
MERITO, pd 2150A3, in Arch. civ., 2003, p. 410, con nota di Petitti.
[20] Sulla differenza tra la funzione assistenziale e la
funzione alimentare, nonché sull’assoluta irrilevanza della prima sul tema
della derogabilità o meno, in via tanto preventiva che susseguente,
dell’assegno di divorzio si rinvia per tutti ad Oberto,
I contratti della crisi coniugale, I,
cit., p. 440 ss.
[21] Sulla distinzione v. per tutti Oberto, I contratti della crisi coniugale, I, cit., p. 388 ss. Una maggiore
consapevolezza della necessità di tenere distinti i due profili traspare da
Trib. Terni, 10 maggio 2005, in Corr.
merito, 2005, p. 909, con nota di Sorrentino,
che ha affermato la validità di una implicita rinunzia all’assegno in sede di
divorzio su domanda congiunta. La cosa singolare è che tale rinunzia è stata
non solo implicitamente ricavata dalla semplice dichiarazione delle parti di
«nulla avere più reciprocamente a pretendere per qualsivoglia titolo o
ragione», ma è stata addirittura estesa al punto di ritenere inaccoglibile la
richiesta di concessione di un assegno ex
art. 9, l.div., essendo successivamente mutate le condizioni delle parti. Sul
punto, sebbene debba senz’altro ritenersi ammissibile (pur non essendo questa
l’opinione prevalente) una rinunzia al citato rimedio processuale (così come al
parallelo rimedio successivo alla separazione, ex art. 710 c.p.c.: cfr. Oberto,
I contratti della crisi coniugale, I,
cit., p. 473 ss.), va considerato che non può desumersi tale rinunzia dal
semplice fatto che i contraenti abbiano emesso la dichiarazione di cui sopra. I
contratti della crisi coniugale sono caratterizzati dalla clausola rebus sic stantibus e per questa ragione
la costante giurisprudenza ammette la parte che non si sia fatta riconoscere un
assegno postmatrimoniale ad avanzarne richiesta ai sensi delle norme citate
(artt. 710 c.p.c., ovvero 9, l.div.): Cass. 5 ottobre 1956, n. 3363, in Rep.
Foro it., 1956, voce Separazione di coniugi, n. 130 ss.; Cass. 13
aprile 1960, n. 860, in Giust. civ., 1960, I, p. 1371; in Giur. it.,
1961, I, 1, c. 843, con nota di Jemolo;
in Foro it., 1960, I, c. 951; Cass. 30 gennaio 1961, n. 173, in Foro
it., 1961, I, c. 438; Cass., 26 maggio 1967, n. 1146; Cass. 26 ottobre
1968, n. 3564; Cass., 14 novembre 1992, n. 12235; Cass., 24 maggio 1996, n.
4794. Il tutto, lo si ripete (per lo meno secondo l’isolata opinione di chi
scrive), fin tanto che espressamente, o anche solo implicitamente (il caso
della prestazione una tantum è il più
evidente) le parti non abbiano escluso siffatta eventualità.
[22] Cfr. ad es. Cass., 1° marzo 1991, n. 2180: «Il
divieto per i coniugi di disciplinare in anticipo i loro rapporti patrimoniali
per l’eventualità del divorzio non riguarda solo la predeterminazione
dell’assegno, ma comprende gli accordi economici parimenti rientranti nel
regime patrimoniale del divorzio (nella specie, trattavasi di accordo
accessorio alla separazione, ma funzionalmente collegato anche al divorzio, con
il quale erano concessi in godimento alla moglie beni mobili ed immobili del
marito), sussistendo anche per tali accordi le ragioni di ordine pubblico del
divieto (attitudine ad influire sulle determinazioni delle parti in ordine allo
status personale). Il principio non
resta escluso dalla possibilità, introdotta dall’art. 4 della legge 6 marzo
1987 n. 74 (che ha novellato l’art. 4 della legge 1 dicembre 1970 n. 898), di
proporre congiuntamente la domanda di divorzio, poiché, in questa evenienza, le
intese raggiunte dalle parti sul relativo assetto economico attengono ad un
divorzio che esse hanno già deciso di conseguire, e, quindi, non semplicemente
prefigurato». V. inoltre Cass., 11 agosto 1992, n. 9494, che si è espressa per
la nullità di un’intesa, denominata «atto di transazione», con cui, in sede di
separazione, il marito, a tacitazione di ogni pretesa della moglie a titolo di
mantenimento, si impegnava a farle trasferire la proprietà di un appartamento;
da parte sua la moglie dichiarava di essere stata completamente soddisfatta di
ogni pretesa, anche futura, per mantenimento, rinunciando espressamente ad ogni
assegno ed «a pretendere alcunché in caso di divorzio, rinunciando quindi anche
all’assegno di cui all’art. 5 Comma 3 della Legge 1 dicembre 1970 n. 898». Cfr.
poi anche Cass., 10 gennaio 2012, n. 1084, che ha ritenuto nulla una scrittura,
avente ad oggetto il trasferimento, dal marito alla moglie, di un immobile e il
versamento di una somma quale definizione transattiva delle pretese vantate
dalla moglie sul patrimonio del marito, laddove il patto (concluso in sede di
separazione con valenza anche per il futuro divorzio) aveva la funzione di
porre fine alla controversia insorta tra i coniugi circa la divisione di tale
patrimonio, alla cui formazione la moglie vantava di avere contribuito anche
mediante cessione di beni personali. Per la giurisprudenza di merito v. Trib.
Varese, 29 marzo 2010, cit., in cui, come già ricordato, l’accordo dichiarato
nullo prevedeva testualmente quanto segue: «La casa coniugale, della quale i
ricorrenti sono comproprietari, verrà posta in vendita, anche per l’eventuale
tramite di un mediatore, al prezzo di euro 230.000,00», mentre la successiva
domanda giudiziale era diretta alla «nomina di un mediatore che si occupi, così
come stabilito dall’art. 2 dell’omologa di separazione, della vendita della
casa cointestata ai coniugi».
[23] Così si esprime Betti,
Teoria generale del negozio
giuridico, in Trattato di diritto
civile, diretto da Filippo Vassalli, Torino, 1950, p. 304 ss. (si noti che
la prima edizione della Teoria generale
del negozio giuridico risale al 1943), seguito da un certo numero di autori
e di sentenze: v. in particolare Manca,
voce Accordi, in Noviss. dig. it.,
I, Torino, 1957, p. 145 ss.; V.M. Trimarchi, voce Accordo (teoria gen.), in Enc. dir., I, Milano, 1958, p. 300; Barbero, Sistema istituzionale del diritto privato italiano, I, Torino,
1955, p. 327; in giurisprudenza v. Cass., 3 marzo 1936, n. 740, in Giur. it., 1936, I, 1, c. 303; in Foro it., 1936, I, c. 518; Cass., 25
settembre 1978, n. 4277, in Foro it.,
1979, I, c. 718, con nota di Jannarelli;
Trib. Milano, 10 novembre 1982, in Dir.
fam. pers., 1982, p. 1358, con nota di Nappi;
Trib. Napoli, 13 marzo 1989, in Dir.
fam. pers., 1990, p. 135; in Dir. e
giur., 1990, p. 590; in Giur. merito,
1989, I, p. 1105 (la pronuncia risulta datata 14 febbraio 1989 in Vita notar., 1988, p. 1236 e in C.E.D. – Corte di cassazione, Arch.
MERITO, pd. 891023); Trib. Latina, 14 aprile 1988, in Dir. fam. pers., 1989, p. 137.
[24] Art. 1420 c.c.: v. in particolare Rescigno, Consenso, accordo, convenzione, patto, (la terminologia legislativa
nella materia dei contratti), in Riv.
dir. comm., 1988, I, p. 12; cfr. inoltre Osti,
voce Contratto, in Noviss. dig.
it., IV, Torino, 1959, p. 477, che vede nel contratto il «tipico strumento
tecnico giuridico della collaborazione economica fra i soggetti»; per
l’applicazione di tali principi alla materia in esame cfr. Doria, «Negozio» di separazione consensuale dei coniugi e revocabilità del
consenso, nota a Trib. Napoli, 13 marzo 1989, in Dir. fam. pers., 1990, p. 507 s.; Delconte,
Il rapporto tra omologazione del giudice
e consenso dei coniugi nella separazione consensuale, in Arch. civ., 1992, p. p. 641; Sala, La rilevanza del consenso dei coniugi nella separazione consensuale e
nella separazione di fatto, in Riv.
trim. dir. proc. civ., 1996, p. 1038 s. Si noti che nella categoria dei
contratti plurilaterali a comunione di scopo rientrano a pieno titolo quasi
tutti gli esempi solitamente indicati dalla dottrina qui contestata, quali
«il negozio di fondazione di società
cooperative o di persone giuridiche aventi scopi mutualistici (artt. 2511-12) o
di associazione, e il negozio di fusione delle società commerciali (...); il
consorzio a scopo di ricomposizione fondiaria previsto dall’art. 850 e altresì
il consorzio industriale» (così Betti, op. cit., p. 304 ss.).
[25] Negano rilevanza alla categoria dell’accordo, quanto
meno nel diritto privato patrimoniale, Scognamiglio,
Dei contratti in generale, in
Commentario del codice civile Scialoja-Branca, Bologna-Roma, 1970, p. 14 s.; Santoro-Passarelli, Dottrine generali del diritto civile, Napoli, 1978, p. 213 s.; Rescigno, Consenso, accordo, convenzione, patto, cit., p. 12; Doria,
«Negozio» di separazione
consensuale dei coniugi e revocabilità del consenso, cit., p. 507 s.; Sala, La rilevanza del consenso dei coniugi nella separazione consensuale e
nella separazione di fatto, cit., p. 1038 ss.
[26] Jemolo, Il matrimonio, in Trattato di diritto civile, diretto da Filippo Vassalli, Torino,
1950, p. 376 s.; condivide espressamente tale conclusione Andrioli, Commento al codice di procedura civile, IV, Napoli, 1964, p. 340;
v. inoltre Delconte, op. cit., p. 641; sul tema delle norme
contrattuali applicabili all’accordo di separazione cfr. Oberto, I contratti della crisi coniugale, I, cit., p. 193 ss.; Id., La
natura dell’accordo di separazione consensuale e le regole contrattuali ad esso
applicabili, in Fam. dir., 1999,
p. 601 ss., ivi, 2000, p. 86 ss.
[27] Cfr. Oberto, I contratti della crisi coniugale, I e II, citt. Sull’artificiosità
della distinzione tra accordo e contratto v. ivi, I, cit., p. 204 ss.
[28] Cfr. Oberto, I contratti della crisi coniugale, I, cit., p. 705 ss.
[29] Sul punto ha argutamente notato l’amico Carlo Rimini,
nel corso di un recente convegno, che i b.o.t. hanno durata piuttosto breve,
ciò che lascia trasparire un certo qual scetticismo sulla tenuta dell’unione da
parte di quegli stessi nubendi che di lì ad un solo giorno sarebbero andati a
celebrare…
[30] Sul carattere non liberale, neppure a titolo di
donazione indiretta, dell’attribuzione patrimoniale a favore del coniuge,
caratterizzata dalla presenza di una sorta di «riserva d’uso» (o di couso) da
parte di chi tale attribuzione effettua e sui suoi rapporti con le teorie
germaniche dell’unbenannte Zuwendung,
degli ehebezogene Rechtsgeschäfte eigener
Art e della presupposizione (argomento, questo, che non è possibile
approfondire in questa sede), si fa rinvio ad Oberto,
Il regime di separazione dei beni tra
coniugi. Artt. 215-219, in Il codice
civile. Commentario fondato e già diretto da Schlesinger, continuato da
Busnelli, Milano, 2005, p. 372 ss.
[31] Per uno studio storico Oberto, I contratti
della crisi coniugale, I, cit., p. 66 ss.; Id.,
Gli accordi sulle conseguenze
patrimoniali della crisi coniugale e dello scioglimento del matrimonio nella
prospettiva storica, Nota a Cass., 20 marzo 1998, n. 2955, in Foro it., 1999, I, c. 1306 ss.; Id.,
I precedenti storici del principio di libertà contrattuale nelle convenzioni
matrimoniali, in Dir. fam. pers.,
2003, p. 535 ss.; Id., La comunione legale tra coniugi, nel Trattato di diritto civile e commerciale,
già diretto da Cicu, Messineo e Mengoni, continuato da Schlesinger, I, Milano,
2010, p. 3 ss., 49 ss. Sul tema v. anche ampiamente Magagna, I patti
dotali nel pensiero dei giuristi classici. Per l’autonomia privata nei rapporti
patrimoniali tra i coniugi, Padova, 2002, passim.
[32] Cfr. ad es. Oberto,
I contratti della crisi coniugale, I,
cit., p. 66 ss.
[33] Rolandino,
Summa artis notariae, Augustae
Taurinorum, 1594, p. 226 ss. Analogamente cfr. de
Ferrariis, Practica aurea,
Venetiis, 1575, f. 133 s.
[34] Cfr. la sentenza del 20 giugno 1612 di cui riferisce Giurba, Decisionum novissimarum Consistorii Sacrae Regiae Conscientiae Regni
Siciliae volumen primum, Panormi, 1621,
p. 398 ss.
[35] Cfr. Malaurie e Aynès, Les régimes matrimoniaux, Paris, 2007, p. 89,
p. 325 s.: «les époux peuvent adopter un régime alternatif, c’est-à-dire
différent suivant la cause de dissolution : décès ou divorce. C’est l’objet de
la clause de reprise dans une communauté universelle, dite souvent ‘clause
alsacienne’, prévoyant qu’en cas de divorce, les époux pourront reprendre leurs
apports. Techniquement, cette clause est un avantage matrimonial, une clause de
partage ; si bien qu’elle ne modifie pas le régime de communauté universelle.
En pratique, il s’agit bien d’en revenir à la communauté d’acquêts, si le
mariage est un échec».
[36] Brun-Wauthier, Régimes matrimoniaux et régimes patrimoniaux des couples non mariés,
Orléans, 2009, p. 267.
[37] Sulla clause
alsacienne v. i riferimenti in Oberto,
La comunione legale tra coniugi, I,
cit., p. 386, nota 171; II, Milano, 2010, p. 1671, nota 198.
[38] Nel senso che «Ne
porte pas atteinte au principe de l’immutabilité des conventions matrimoniales
la clause par laquelle, dans le cadre d’un régime de communauté universelle,
chaque époux reprendrait, en cas de dissolution de la communauté par divorce,
les biens tombés dans la communauté de son chef» v. App. Colmar, 16 maggio 1990, in Rép. Defrénois,
1990, p. 1361, con nota di Champenois; in JCP, 1991, éd. N.,
II, p. 17, con nota di Simler. Ancora
vent’anni dopo la validità della clausola è stata ribadita da Cass.1ère
civ., 17 novembre 2010, n° 09-68292, la quale ha affermato che la stessa «ne
confère aucun avantage matrimonial», confermando l’avviso della dottrina,
secondo cui «loin de conférer un avantage, son effet est de faire obstacle à ce
qu’un avantage matrimonial se réalise» (Simler,
La validité de la clause de liquidation
alternative de la communauté universelle menacée par le nouvel article 265 du
Code civil, in JCP, N 2005, 1265).
Anche per
Cass.1ère civ., 17 janvier 2006, la clausola è valida, costituendo
«un aménagement des règles du partage (le bien repris est commun), qui ne
porte pas atteinte à l’immutabilité ou à
l’unicité du régime matrimonial».
[39] La disposizione testé
citata apre il varco a nuove audacie applicative, sempre nel segno di
un’ampliata libertà negoziale: «Dans l’hypothèse dans laquelle les époux
auraient prévu une communauté universelle avec attribution intégrale au
survivant, ils pourraient prévoir une double clause : une clause de reprise des
apports en cas de divorce et une clause d’exclusion de reprise des apports en
cas de décès. On pourrait, également, songer à la clause qui exclurait, dans le
contrat de mariage portant adoption du régime de participation aux acquêts, le
calcul de la créance de participation en cas de dissolution du mariage par
divorce. Les époux préféreront organiser par anticipation une telle modulation,
plutôt que d’opérer un changement de régime, plus onéreux, durant leur mariage»
(Brun-Wauthier, op. loc. ultt.
citt).
[40] Cfr. ad es. Cass., 18 settembre 2012, n. 15640. Qui
la Corte ha ritenuto valida la scrittura privata con cui i coniugi, dopo aver
acquistato per quote uguali un immobile, intervenuta la crisi coniugale e
separatisi di fatto, avevano emesso una «ricognizione attributiva delle quote
di comproprietà sul bene», esplicitando che la contitolarità era ripartita per
la quota di 1/7 in favore del marito e per la quota di 6/7 in favore della
moglie, impegnandosi reciprocamente a formalizzare con atto notarile, a
semplice richiesta, detta ricognizione.
[41] La Cassazione
ha riconosciuto la validità – per esempio – di un impegno con cui uno dei
coniugi, in vista di una futura separazione consensuale (e dunque non nel
contesto di quest’ultima), prometteva di trasferire all’altro la proprietà di
un bene immobile «anche se tale sistemazione patrimoniale avviene al di fuori
di qualsiasi controllo da parte del giudice... purché tale attribuzione non sia
lesiva delle norme relative al mantenimento e agli alimenti» (Cass., 5 luglio
1984, n. 3940, in Dir. fam. pers.,
1984, p. 922). Ancora, potrà citarsi il caso in cui si è ammessa la validità di
una transazione preventiva, con la quale il marito si obbligava espressamente,
in vista di una futura separazione consensuale, a far conseguire alla moglie la
proprietà di un appartamento in costruzione, allo scopo di eliminare una
situazione conflittuale tra le parti (Cass., 12 maggio 1994, n. 4647, in Fam. dir., 1994, p. 660, con nota di Cei; in Vita notar., 1994, p.
1358; in Giust. civ., 1995, I, p.
202; in Dir. fam. pers., 1995, p.
105; in Nuova giur. civ. comm., 1995,
I, p. 882, con nota di Buzzelli;
in Riv. notar., 1995, II, p. 953).
Irrilevanti appaiono le obiezioni sollevate in proposito (cfr. Quadri, Autonomia dei coniugi e intervento giudiziale nella disciplina della
crisi familiare, in Familia,
2005, p. 12) evidenziando l’ovvia differenza tra separazione e divorzio,
rappresentata dalla perdurante esistenza del vincolo matrimoniale nella prima
ipotesi, che si caratterizzerebbe così per il suo carattere di situazione
«aperta», rispetto alla seconda. È infatti pacifico che anche la separazione dà
vita ad uno status familiare:
pertanto, se le intese preventive sono da considerarsi nulle in quanto dirette
a «fare mercimonio» di uno status
indisponibile al di fuori del momento solennizzato dalla instaurazione della
relativa procedura di fronte al giudice, non si riesce a comprendere per quale
ragione le obiezioni sollevate contro tali accordi in contemplation of divorce
non dovrebbero poi valere se riferite alla separazione. Per non dire poi della
giurisprudenza di legittimità favorevole agli accordi preventivi in tema di
conseguenze economiche della pronunzia di annullamento del matrimonio (Cass.,
13 gennaio 1993, n. 348, in Corr. giur.,
1993, p. 822 con nota di Lombardi;
in Giur. it., 1993, 1, 1, c. 1670 con
nota di Casola; in Nuova giur. civ. comm., 1993, I, p. 950,
con note di Cubeddu e di Rimini; in Vita notar., 1994, p. 91, con nota di Curti; in Contratti,
1993, p. 140, con nota di Moretti).
Proprio questa ultima decisione viene, inspiegabilmente, definita come «assai
singolare» dalla sentenza qui in commento.
[42] Commentando questa stessa decisione, anche Fiorini, La Corte dovrebbe individuare una linea univoca in grado di orientare
le decisioni degli operatori, Nota a Cass., 21 dicembre 2012, n. 23713, in Guida dir., n. 4, 19 gennaio 2013, p.
28, rileva che «Prescindendo (…) dall’effettiva persistenza dell’originario
credito all’indennizzo del marito (tenuto conto che quest’ultimo ha goduto anch’egli
della casa familiare ristrutturata a sue spese), si avverte una contraddizione
proprio all’interno della pronuncia, laddove si ammette da un lato che le parti
possano escludere il loro originario rapporto di credito-debito dal regime di
contribuzione reciproca previsto per legge e, dall’altro, si ritiene
l’operazione posta in essere estranea alla fattispecie dei patti
prematrimoniali».
[43] Apprendo
questa informazione dalla lettura della decisione di merito confermata dalla
sentenza qui in commento, vale a dire App. Ancona, 14 marzo 2007, n.
104, in causa R.G. n. 432/2006, inedita, la cui motivazione mi è stata gentilmente fornita dall’avv. Marta Lettieri.
[44] Cfr. App.
Ancona, 14 marzo 2007, cit.
[45] Da notare
che, in questo peculiare contesto, gli aggettivi «prematrimoniale» e
«postmatrimoniale» assumono, paradossalmente, significati equivalenti, nel
senso che l’intento è sempre quello di disciplinare ciò che succederà con (e
dopo) lo scioglimento del vincolo (e ciò spiega il «post-»), pur potendo talora
siffatti accordi (nell’intento di perseguire la medesima finalità) essere
conclusi prima della celebrazione delle nozze (e ciò spiega il «pre-»).
[46] Cfr. App.
Ancona, 14 marzo 2007, cit.
[47] Per la
trattazione del tema si fa rinvio a Oberto,
I contratti della crisi coniugale, I,
cit., p. 605 ss.; Id., Contratti prematrimoniali e accordi
preventivi sulla crisi coniugale, cit., p. 83 s.
[48] Per la
trattazione del tema si fa rinvio a Oberto,
I contratti della crisi coniugale, I,
cit., p. 605 ss.; Id., Contratti prematrimoniali e accordi
preventivi sulla crisi coniugale, cit., p. 83 s.
[49] Il tema è
stato ampiamente sviluppato in Oberto,
La comunione legale tra coniugi, II,
cit., p. 1794 ss., cui si fa rinvio anche per i necessari richiami dottrinali e
giurisprudenziali.
[50] Per la
concreta individuazione di tale momento, in relazione ai procedimenti della
crisi coniugale, cfr. Oberto, La comunione legale tra coniugi, II,
cit., p. 1800 ss.
[51] Si noti che, ex art. 40, terzo comma, c.p.c., la
proposizione della domanda ex art.
2932 c.c., in assenza di declaratoria di inammissibilità, avrebbe dovuto
condurre ad escludere… l’udienza presidenziale! Il tema è approfondito in Oberto, La comunione legale tra coniugi, II, cit., p. 1799.
[52] Sul punto,
infatti, la decisione d’appello (App. Ancona, 14 marzo 2007, cit.) afferma
quanto segue: «Osserva pregiudizialmente la Corte che, nella specie, non
è stata tempestivamente eccepita o rilevata la incompetenza del giudice adito
(ossia del giudice dello scioglimento del matrimonio) in ordine alla
definizione dei rapporti patrimoniali fra i coniugi, che siano diversi da
quelli inerenti gli obblighi di natura assistenziale; tali questioni
patrimoniali, estranee all’ambito di quelle inerenti agli obblighi
assistenziali, non appartengono alla competenza camerale della procedura di
scioglimento o di cessazione degli effetti civili del matrimonio, ed andavano
quindi devolute alla competenza del Tribunale in via di rito ordinario, al di
fuori della procedura speciale; ma, in carenza di tempestiva eccezione o
rilievo, la predetta questione di competenza è attualmente preclusa».
[53] Così recita,
testualmente, il dispositivo di App. Ancona, 14 marzo 2007, cit.
[54] Cfr. App.
Ancona, 14 marzo 2007, cit. La conclusione appare conforme all’indirizzo
seguito dalla giurisprudenza di legittimità: cfr. ad es. Cass., 30 novembre
2007, ad avviso della quale la presenza di irregolarità amministrative che
rendono non commerciabile l’immobile oggetto di preliminare di vendita blocca
la domanda diretta ad ottenere la conclusione del contratto attraverso sentenza
costitutiva ex art. 2932 c.c. V.
inoltre Cass., 19 agosto 2011, n. 17436, secondo cui «La disposizione del
secondo comma dell’art. 18 della legge 28 febbraio 1985, n. 47 – che sancisce
la nullità degli atti tra vivi aventi ad oggetto il trasferimento, la
costituzione o lo scioglimento della comunione di diritti reali relativi a
terreni, quando ad essi non sia allegato il certificato di destinazione
urbanistica contenente le prescrizioni urbanistiche riguardanti l’area
interessata – comporta l’esigenza di allegazione del detto certificato per la
stipulazione del contratto definitivo o per la sentenza di esecuzione specifica
dell’obbligo di concludere il contratto definitivo, di cui all’art. 2932 cod.
civ. Pertanto, poiché la sentenza emessa a norma dell’art. 2932 cod. civ.
postula l’accertamento dei requisiti di validità del contratto non concluso,
incombe sull’attore l’onere di provare la sussistenza delle condizioni
richieste per un valido trasferimento, producendo il certificato in parola».
Secondo Cass., 18 luglio 2011, n. 15734 «La sanzione della nullità prevista
dall’art. 40 della legge 28 febbraio 1985, n. 47 con riferimento a vicende
negoziali relative ad immobili privi della necessaria concessione edificatoria
trova applicazione nei soli contratti con effetti traslativi e non anche con
riguardo ai contratti con efficacia obbligatoria, quale il preliminare di
vendita, come si desume dal tenore letterale della norma, nonché dalla
circostanza che successivamente al contratto preliminare può intervenire la
concessione in sanatoria degli abusi edilizi commessi o essere prodotta la
dichiarazione prevista dalla stessa norma, ove si tratti di immobili costruiti
anteriormente al 1° settembre 1967, con la conseguenza che in queste ipotesi
rimane esclusa la sanzione di nullità per il successivo contratto definitivo di
vendita, ovvero si può far luogo alla pronunzia di sentenza ex art. 2932 cod. civ.» (la decisione
rende peraltro chiaro che la sentenza costitutiva può essere ottenuta solo in
presenza dei requisiti di validità del trasferimento).
[55] La corte
d’appello afferma testualmente: «omessa, in questa sede, la pronuncia ex art. 2932 c.c. propriamente
costitutiva del trasferimento, per il quale dunque la parte interessata dovrà
eventualmente attivarsi in separata sede, sulla scorta dell’accertamento
(operato in questa sede) della validità ed efficacia dell’impegno de quo». Ma il diritto ad ottenere
l’esecuzione forzata in forma specifica può essere esercitato tramite la
proposizione di un petitum che la
parte aveva già proposto in sede divorzile; petitum
che è stato, come detto, rigettato. Né l’emanazione di una sentenza di
accertamento sembra poter costituire autonoma e novativa ragione di applicazione
del rimedio ex art. 2932 c.c.,
connesso ad un dovere di fonte negoziale.
[56] Cass., 21 dicembre 1987, n. 9500, in Riv. dir. civ., 1989, II, p. 233, con
nota di Chianale; in Riv. notar., 1989, II, p. 210; in Giust. civ., 1988, I, p. 1237, con nota
di Costanza; in Corr. giur., 1988, p. 146 ss. con nota
di V. Mariconda: «Allorché taluno,
in sede di separazione coniugale consensuale, assume l’obbligo di provvedere al
mantenimento di una figlia minore, impegnandosi a tal fine a trasferirle un
determinato bene immobile, pone in essere con il coniuge un contratto
preliminare a favore di terzo. Quando poi in esecuzione di detto obbligo,
dichiara per iscritto di trasferire alla figlia tale bene, avvia il processo
formativo di un negozio che, privo della connotazione dell’atto di liberalità,
esula dalla donazione ma configura una proposta di contratto unilaterale,
gratuito e atipico, che, a norma dell’art. 1333 c.c., in mancanza del rifiuto
del destinatario entro il termine adeguato alla natura dell’affare, e stabilito
dagli usi, determina la conclusione del contratto stesso e, quindi,
l’irrevocabilità della proposta».
[57] Chianale, Obbligazioni di dare e atti traslativi solvendi
causa, in Riv. dir. civ., II, 1989,
p. 238: «Il padre si obbliga verso il coniuge a trasferire un bene alla figlia,
per adempire l’obbligo legale del suo mantenimento; questo sarebbe un
preliminare a favore del terzo. Ma preliminare di che cosa? Risponde la Corte:
è preliminare non di donazione, né di vendita, ma di un negozio traslativo solvendi causa. Ovvero: il negozio in
cui vi è l’assunzione di un’obbligazione è il preliminare dell’atto di
adempimento di quella obbligazione. In realtà nel verbale di separazione non vi
è alcun preliminare ma una dichiarazione negoziale con cui il genitore si
obbliga a compiere un atto traslativo
solvendi causa. Secondo la Corte, il negozio in cui si esplica l’autonomia
contrattuale è il secondo, che opera il trasferimento; e così il negozio che
obbliga a trasferire viene inquadrato nell’area dei negozi preparatori.
L’argomentazione va invece capovolta: l’atto di autonomia è il primo, con cui
il genitore si obbliga a dare; il secondo negozio è un atto meramente
solutorio, il cui compimento è coercibile in forma specifica ex art. 2932». Per un commento alla pronunzia
in esame cfr. anche Costanza, Art. 1333 e trasferimenti immobiliari solutionis
causa, nota a Cass., 21 dicembre 1987, n. 9500, in Giust. civ., 1988, I, p. 1241 ss.; V. Mariconda, Art. 1333 e trasferimenti immobiliari,
nota a Cass., 21 dicembre 1987, n. 9500, in Corr.
giur., 1988, p. 146 ss.; Id., Il
pagamento traslativo, in Contr. impr.,
1988, p. 735 ss.; Sciarrone Alibrandi,
Pagamento traslativo e art. 1333 c.c., in Riv.
dir. civ., 1989, II, p. 525 ss.; Gazzoni,
Babbo Natale e l’obbligo di dare, Nota
a Cass., 9 ottobre 1991, n. 10612, in Giust.
civ., I, 1991, p. 2895; Maccarone,
Obbligazione di dare e adempimento
traslativo, in Riv. notar., 1994,
I, p. 1319 ss.; Di Majo, Causa e imputazione negli atti solutori,
in Riv. dir. civ., 1994, I, p. 781 ss.
[58] Oberto, Prestazioni
«una tantum» e trasferimenti tra coniugi in occasione di separazione e divorzio,
Milano, 2000, p. 267 ss.
[59] Cass., 21 dicembre 1987, n. 9500, cit.
[60] In questo senso cfr. V. Mariconda, Art. 1333 e trasferimenti immobiliari,
cit., p. 149 ss.; Id., Il
pagamento traslativo, cit., p. 758 s.; Camardi,
Principio consensualistico, produzione e
differimento dell’effetto reale, in Contr.
impr., 1998, p. 595 ss.; cfr. anche Dogliotti,
Separazione e divorzio, Torino, 1995,
p. 11, in senso dubitativo e con specifico riferimento all’ipotesi dei
trasferimenti in favore dei figli.
[61] Sacco, Il contratto, Torino, 1975, p. 44 ss.; Bianca, Diritto civile, III, Il
contratto, Milano, 1987, p. 264; Sacco
e De Nova, Il contratto, I, nel Trattato
di diritto civile, diretto da Sacco, Torino, 2004, p. 75 ss.; cfr. anche Rimini, Il problema della sovrapposizione dei contratti e degli atti
dispositivi, Milano, 1995, p. 288 s.; Sesta,
Contratto a favore di terzo e
trasferimento dei diritti reali, in Riv.
trim. dir. e proc. civ., 1993, p. 956; Maccarone,
Considerazioni d’ordine generale sulle
obbligazioni di dare in senso tecnico, in Contr. impr., 1998, p. 665 ss.
[62] Cfr. Sciarrone
Alibrandi, Pagamento traslativo e
art. 1333 c.c., cit., p. 535 ss.,
cui si fa rinvio per gli ulteriori richiami dottrinali.
[63] Proposto da V.
Mariconda, Art. 1333 e trasferimenti immobiliari,
cit., p. 151; Id., Il
pagamento traslativo, cit., p. 764.
[64] L’obiezione vale anche, ad avviso di chi scrive, a
contrastare l’opinione secondo la quale il ricorso all’art. 1333 c.c. in
relazione agli effetti reali sarebbe ammesso «quando il consenso all’acquisto è
espresso in sede di programmazione dell’acquisto medesimo, mediante un
contratto che lo prevede quale effetto di un futuro atto di trasferimento, a
sua volta previsto come dovuto, e che nella stessa sede si provvede a
giustificare sul piano della causa» (così Camardi,
Principio consensualistico, produzione e
differimento dell’effetto reale, cit., p. 596), dal momento che in tal caso
verrebbe meno l’ostacolo che si frappone all’utilizzo della procedura
semplificata per l’acquisto dei diritti reali, costituito dal fatto che
l’acquisizione di un diritto su di un bene può accompagnarsi ad oneri e rischi
in capo al titolare (Camardi, op. loc. ultt. citt.). Il problema,
invero, non è costituto tanto dalla possibilità che l’acquisto si dimostri
oneroso, quanto dall’assoluta impossibilità di documentare (e, prima ancora, di
costituire) con la certezza dello scritto (e il discorso vale, ovviamente,
tanto per la scrittura privata che per l’atto pubblico) l’an e il quando
dell’acquisto stesso.
[65] Costanza,
Art. 1333 e trasferimenti immobiliari solutionis
causa, cit., p. 1242 s.; Maccarone,
Obbligazione di dare e adempimento
traslativo, cit., p. 1329.
[66] Sciarrone
Alibrandi, Pagamento traslativo e
art. 1333 c.c., cit., p. 525 ss.,
544 ss.; Gazzoni, Babbo Natale e l’obbligo di dare, cit.,
p. 2900; De Paola, Il diritto patrimoniale della famiglia
coniugale, I, Milano, 1991, p. 238, nota 242, il quale non esclude peraltro
neppure la via contrattuale; Gazzoni,
Trascrizione del preliminare di vendita e
obbligo di dare, in Riv. notar., 1997, p. 42 ss., che trae argomenti
dal termine atto impiegato dall’art.
2645-bis, commi secondo e terzo,
c.c.; per una rassegna delle variegate opinioni in tema di atto traslativo solutionis causa si rinvia a V. Mariconda,
Il pagamento traslativo, cit., p. 740
ss.; sui rapporti tra pagamento traslativo e condictio indebiti cfr. Gallo,
Arricchimento senza causa e quasi contratti
(i rimedi restitutori), nel
Trattato di diritto civile, diretto
da Sacco, Torino, 1996, p. 124 ss.
[67] In senso contrario cfr. Carresi, Il contratto
con obbligazioni del solo proponente, in Riv. dir. civ., 1974, I, p. 393 ss.; Sacco, Il contratto,
cit., p. 46 ss.; Maccarone, Considerazioni d’ordine generale sulle
obbligazioni di dare in senso tecnico, cit., p. 660 ss.; favorevoli invece
alla struttura unilaterale dell’atto traslativo solvendi causa appaiono L. Ferri, Della trascrizione immobiliare, in Commentario del codice civile, diretto da Scialoja e Branca,
Bologna-Roma, 1955, p. 80 s.; Benatti,
Il pagamento con cose altrui, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1976, p. 480
ss.; Moscati, Pagamento dell’indebito, in Commentario
del codice civile, diretto da Scialoja e Branca, Bologna-Roma, 1981, p.
200; Gazzoni, Babbo Natale e l’obbligo di dare, cit., p. 2900; Sacco e De
Nova, Il contratto, I, cit.,
p. 80 s. (peraltro a condizione che sussista «un interesse precostituito e
tipico dell’oblato all’appropriazione»); Gazzoni,
Trascrizione del preliminare di vendita e
obbligo di dare, cit., p. 19 ss., 41 ss.
[68] In questo senso cfr. A. Ceccherini, Crisi
della famiglia e rapporti patrimoniali, cit., p. 132; Oberto, I trasferimenti mobiliari e immobiliari in occasione di separazione e
divorzio, in Fam. dir., 1995, p.
166.
[69] Chianale, Obbligazioni di dare e atti traslativi solvendi
causa, cit., p. 238; A. Ceccherini,
Crisi della famiglia e rapporti
patrimoniali, cit., p. 132; Rimini,
Il problema della sovrapposizione dei
contratti e degli atti dispositivi, cit., p. 291; Dogliotti, Separazione
e divorzio, cit., p. 11; A. Ceccherini, I rapporti patrimoniali nella crisi della famiglia e nel fallimento,
Milano, 1996, p. 211; per la giurisprudenza v., ancorché in obiter, Cass., 2 dicembre 1991, n.
12897, in relazione all’impegno assunto dal marito a costituire un diritto
d’usufrutto in favore della moglie separata su di un alloggio.
[70] Sul tema si fa rinvio a Oberto, Prestazioni «una tantum» e trasferimenti tra coniugi in
occasione di separazione e divorzio, cit., p. 277 ss., anche per i
necessari approfondimenti in tema di esecuzione in via coattiva dell’impegno a
trasferire in favore della prole.