LIBERALITÀ INDIRETTA
TRA CONVIVENTI MORE UXORIO
E TENTATIVI DI RECUPERO DEL BENE
ALLA CESSAZIONE DEL RAPPORTO(*)
Abstract: La ex convivente di un uomo, opponendosi alla domanda divisoria proposta dall’erede di quest’ultimo, tenta di vedersi riconoscere la proprietà esclusiva di un immobile acquistato in comunione per quote uguali con il partner, allegando di averne corrisposto per l’intero, di tasca propria, il prezzo. L’operazione tendente al recupero della quota di metà del bene intestata all’ex convivente defunto viene però basata dalla stessa parte superstite sulla confessata esistenza di una donazione, nulla per mancato rispetto della forma solenne imposta dal codice civile (art. 782) e dalla legge notarile (art. 48). Il clamoroso autogoal in tal modo segnato dalla difesa della donna condanna quest’ultima all’inevitabile sconfitta: la Suprema Corte, nella decisione qui in commento, ha buon gioco a porre in luce come il codice (arg. ex art. 809) escluda la necessità del rispetto della predetta forma per la liberalità indiretta: negozio, questo, riscontrabile ogni qualvolta un soggetto fornisca animo donandi direttamente al terzo venditore il prezzo per un acquisto operato dal beneficato. Una volta provata (per incauta ammissione della stessa parte rivendicante per intero la proprietà del bene) la presenza dell’intento liberale retrostante ad un’operazione del genere, va dunque esclusa la possibilità di vedere riconosciuta una titolarità difforme a quella risultante dall’atto d’acquisto. Conclusione, questa, che deriverebbe comunque, prima ancora, dall’assenza di situazioni di interposizione reale o fittizia risultanti per iscritto. Da quanto sopra discende però anche l’impossibilità per la donante di recuperare i mezzi forniti per l’acquisto operato dal beneficato. Rimane da chiedersi se una diversa impostazione delle difese della donna avrebbe potuto condurre a risultati almeno in parte differenti. Proprio all’illustrazione di questa diversa prospettiva mira il presente scritto.
Sommario: 1. Il caso in esame e il (controproducente) richiamo all’istituto della donazione. – 2. L’impossibile salvezza delle pretese sul «profilo proprietario». – 3. L’inapplicabilità della presupposizione alla convivenza more uxorio. – 4. Il ricorso allo schema causale del mutuo (e le relative difficoltà). – 5. I contributi forniti per l’acquisto di beni e l’arduo percorso per il recupero degli stessi. Il ricorso allo schema causale della donazione (diretta) e le relative difficoltà. – 6. La soluzione proposta e l’applicazione delle norme in tema di ripetizione dell’indebito.
1. Il caso in
esame e il (controproducente) richiamo all’istituto della donazione.
«Il cliente non sa che molte volte, dopo una vittoria,
dovrebbe andare ad abbracciare commosso non il suo avvocato, ma l’avvocato
avversario»: mi piace pensare che Piero Calamandrei, la cui nobile salma è
costretta, di questi tristi tempi, a rivoltarsi più volte nella tomba [1], avrà forse trovato un po’ di conforto nel rinvenire
nella decisione che qui s’annota l’ennesima conferma della validità di quella
sua tagliente massima [2].
Nella
specie, una donna, ex convivente more
uxorio con un uomo, si oppone alla domanda divisoria proposta dall’erede di
quest’ultimo, rivendicando l’intera proprietà di un immobile acquistato in
comunione per quote uguali con il partner,
ma con denaro esclusivamente di sua provenienza. Per sostenere siffatta pretesa
la donna allega la presenza di una donazione da lei compiuta in favore del partner, nulla per difetto di forma,
nonché per contrarietà alla legge, per l’allegato sfruttamento della sua
attività di prostituta da parte dell’uomo e ai buoni costumi, perché l’immobile
sarebbe stato pagato con i proventi del meretricio. Ma l’ammissione circa la
presenza di un animus donandi,
contenuta nell’impostazione delle citate difese della donna, costituisce un
errore che pregiudica in modo per lei irrimediabile l’andamento della causa.
Ed invero, appartiene alle nozioni istituzionali del
diritto civile l’idea secondo cui il pagamento del prezzo direttamente al venditore
per l’acquisto effettuato in tutto o in parte da un terzo, ove compiuto animo donandi verso l’acquirente,
costituisca non già donazione (artt. 769 ss. c.c.), bensì liberalità indiretta
nei confronti di quest’ultimo [3], con conseguente esclusione (arg. ex art. 809 c.c.) della necessità del
rispetto della forma solenne prevista per le donazioni dagli artt. 782 c.c. e
48, l.notar. [4]. Mediante il negozio indiretto, come noto, le parti
perseguono uno scopo empirico che è «al di fuori della causa del negozio, ma
ciò avviene senza modificare, senz’alterare tale causa» [5]: causa che, nel caso in esame, era e rimaneva quella
della vendita, per la validità della quale, pertanto, non poteva richiedersi il
rispetto delle forme della donazione, né tanto meno l’eventuale liceità della
causa dei negozi tramite i quali l’erogatrice del prezzo s’era procurata il
denaro.
Per ciò che attiene, invero, alla supposta contrarietà
al buon costume, non è certo richiesto il possesso di approfondite cognizioni
giuridiche per cogliere la differenza tra il negozio (nella specie i… ripetuti negotia contra bonos mores) posti in
essere dalla donante al fine di conseguire la provvista necessaria per il
compimento dell’atto liberale, da un lato, e la liberalità, in sé considerata,
dall’altro. La circostanza che, anche in un caso del genere, si sia dovuti
arrivare addirittura in Cassazione, perché, dopo oltre ventisei anni, fosse solemniter sancito che… l’acqua calda è
calda e l’acqua fredda è fredda, la dice lunga sullo stato attuale della giustizia
in Italia e contribuisce a togliere ad ogni persona di buonsenso la più remota
illusione che i mali da cui è affetto il nostro sistema potranno mai trovare
soluzione [6].
Ci si potrebbe però chiedere, a questo punto, se il
caso della signora in questione, convenuta nel giudizio divisorio dall’erede
dell’ex compagno, avrebbe potuto trovare una qualche altra soluzione, per lei
meno negativa.
2.
L’impossibile salvezza delle pretese sul «profilo proprietario».
Cominciamo subito con il dire che, se anche avesse
prudentemente taciuto sul profilo della donazione, la ex convivente di cui qui
si parla non avrebbe comunque potuto rivendicare l’esclusiva titolarità del
bene immobile, per il solo fatto di averlo pagato interamente con denaro di sua
provenienza.
Sul punto va
posto in luce come in subiecta materia
– una volta esclusa ogni più remota possibilità di invocare per i conviventi le
norme in tema di comunione legale [7] – solo un intervento legislativo, ad instar di quanto da tempo suggerito
dallo scrivente [8], o, in alternativa, un’espressa previsione negoziale inter partes, vuoi nel contesto di un
contratto di convivenza [9], vuoi, di volta in volta, all’atto dell’effettuazione
della singola attribuzione patrimoniale [10], potrebbero venire a portare certezza sulla sorte
delle prestazioni di cui qui si discute, effettuate in costanza di rapporto
paraconiugale.
In assenza di quanto sopra, dovrà subito rimarcarsi
l’esistenza di profonde analogie con la situazione dei coniugi in regime di
separazione dei beni, quasi a riprova della circostanza che famiglia legittima
e famiglia di fatto null’altro sono ormai, se non due facce della stessa
medaglia.
In entrambi i casi infatti, il tentativo di ottenere, una
volta naufragato il legame affettivo, una esatta corrispondenza tra quello che
potremmo definire il «profilo proprietario» – o, se si preferisce,
l’intestazione dei beni [11] – e la provenienza degli esborsi
per l’effettuazione degli acquisti è destinato a sicuro insuccesso, per lo meno
ogni qualvolta l’unica prova che il rivendicante sappia fornire sia (come nel
caso di specie) quella del versamento del prezzo.
Sia chiaro: non che l’idea per cui proprietario è colui
che sborsa il denaro per l’acquisto sia in
thesi un concetto peregrino. A ben vedere, infatti, proprio questo è il
principio che nei sistemi di common law
presiede all’applicazione della teoria del trust
(implied, resulting o constructive trust), mediante il
ricorso da parte delle corti a procedimenti induttivi, se non addirittura a
vere e proprie finzioni, che, attingendo a piene mani dall’equity, hanno
finito con il riconoscere sovente ad un partner (così come al coniuge)
diritti dominicali su cespiti patrimoniali acquistati dall’altro in costanza di
rapporto [12].
E così, oltre Manica, così come oltre Oceano, il ricorso
del giudice al trust consente di riconoscere nei casi suddetti, in capo
al convivente (o al coniuge) «pretermesso», l’esistenza di un beneficial
interest su singoli cespiti (si tratta per lo più della casa d’abitazione)
acquistati dall’altro e a questi intestati. All’uopo è necessario accertare che
l’acquisto sia avvenuto (anche o esclusivamente) per effetto del contributo in
denaro o in lavoro del «convivente (o del coniuge) debole» e che era comune
intenzione delle parti attribuire tale interest al convivente non
titolare del bene acquistato [13]. Questa intenzione, e dunque
l’esistenza di un trust, ove non esplicitamente ammessa dal legal
owner, può essere desunta dalla condotta delle parti. Nel diritto di
matrice anglosassone esiste infatti un principio generale in base al quale,
quando un certo bene viene acquistato formalmente da un soggetto diverso da
colui che ha fornito il denaro necessario per l’acquisto, la beneficial
ownership «risulta» in favore di quest’ultimo (c.d. «presumption of
resulting trust») [14].
La stessa regola è stata estesa anche al caso di financial
contribution parziale per l’acquisto di determinati beni, come la casa
d’abitazione [15]. In tale ipotesi, alla parte che
ha contribuito viene riconosciuto un beneficial interest proporzionato
al valore del suo contributo rispetto al prezzo d’acquisto [16]. La giurisprudenza ha poi fatto
applicazione del principio attribuendo un beneficial interest al partner
che aveva con denaro proprio estinto alcuni ratei di un mutuo per l’acquisto
della casa dell’altro [17], così come – secondo
un’intuizione di Lord Denning – a quello che aveva fornito una direct
contribution by labour [18], o, ancora, aveva anticipato
parte del denaro necessario all’effettuazione della ristrutturazione o del
restauro della casa in cui si svolgeva la convivenza [19].
Peraltro, in questi due ultimi casi Lord Denning
raggiunse tale risultato non già desumendo dal comportamento delle parti la
sussistenza di un accordo sul (resulting)
trust, ma facendo derivare
quest’ultimo direttamente dall’equity,
in base a un principio che lo stesso giudice aveva già enunciato in una causa
precedente. Una vedova aveva corrisposto al genero una somma di denaro per
realizzare un ampliamento della casa di quest’ultimo (si trattava dell’aggiunta
di una camera da letto), in vista di un definitivo suo trasferimento presso la
famiglia della figlia, ma, dopo quindici mesi di convivenza, essendo insorti
dei contrasti, aveva mutato idea, chiedendo un indennizzo per l’esborso
affrontato [20]. L’istituto in esame prende il
nome di constructive trust.
Esso viene comunemente definito come un rimedio di equity in base al quale il giudice può
porre riparo a una situazione di ingiustificato arricchimento di una parte ai
danni dell’altra [21]. Lo stesso rimedio è alla base
della soluzione del caso Grant v. Edwards, in cui il convivente aveva
proceduto da solo all’effettuazione dell’acquisto della casa di abitazione
prospettando falsamente alla donna l’eventualità che, nel caso di
cointestazione dell’immobile, quest’ultimo avrebbe potuto essere almeno in
parte rivendicato dal marito di lei, con il quale essa aveva in corso la causa
di divorzio. La Court of Appeal del Regno Unito concesse alla donna una
quota di proprietà sull’immobile corrispondente alla metà in considerazione del
fatto che questa aveva fatto affidamento sulla falsa dichiarazione del partner,
sebbene la stessa non avesse versato neppure in parte il prezzo del bene.
Peraltro la convivente aveva pagato una parte dei ratei di mutuo, aveva
partecipato alle spese di gestione dell’immobile aveva svolto prestazioni di
lavoro ed aveva allevato i figli. La Corte derivò dall’affermazione dell’uomo,
secondo cui il motivo che avrebbe impedito la cointestazione sarebbe stato
rappresentato dal rischio di pretese del marito nel processo di divorzio,
l’«evidence of a common intention that Mrs Grant should have beneficial
interest (a half share) in the property» [22].
In Italia, così come del resto in tutti gli ordinamenti
di matrice romanistica, non sembra invece possibile riconoscere all’autore dei
contributi in oggetto una qualche forma di partecipazione all’acquisto operato
dal partner (così come dal coniuge in
separazione dei beni), nonostante un precedente giurisprudenziale assai citato
in dottrina [23]. Invero, il nostro sistema, che
pur conosce l’istituto della proprietà fiduciaria [24], non ne può ammettere una costituzione in via implicita,
sulla base del comportamento delle parti e dei loro reciproci rapporti, ma
presuppone invece sempre una chiara manifestazione di volontà, effettuata, per
i trasferimenti immobiliari, nelle forme prescritte dalla legge [25]. Lo stesso è a dirsi anche per
il mandato senza rappresentanza, istituto che pur si presterebbe in astratto
alla costruzione di una proprietà fiduciaria analoga al trust [26], ma la prova della cui
stipulazione non può certo essere desunta sulla base del semplice comportamento
delle parti consistente nella consegna di una somma di denaro in vista
dell’acquisto di un bene da usarsi in comune, ovvero nell’effettuazione di
lavori sulla cosa di proprietà del partner.
E’ evidente, del resto, la difficoltà di ravvisare nei rapporti
tra conviventi l’intento di costoro di vincolarsi giuridicamente: proprio la
scelta di sottrarsi alla sfera del diritto deve indurre a presumere l’assenza
di ogni animus contrahendi [27].
La considerazione esce rafforzata dall’esame di quella
giurisprudenza che, in materia di rapporti tra i coniugi in regime di
separazione, suole pretendere prove ben più rigorose che non quella della
semplice effettuazione di apporti in denaro da parte del non «intestatario» al
fine di affermarne la comproprietà sull’immobile acquistato dall’altro,
ritenendo invece sempre imprescindibile la presenza di un documento comprovante
l’interposizione reale o l’interposizione fittizia [28]; situazione che, in materia
immobiliare, deve risultare da idoneo atto scritto, solitamente assente: è noto
infatti che, nel momento in cui siffatti tipi di acquisto hanno luogo, le parti
non si curano mai, attesi i rapporti personali tra le stesse in atto, di
munirsi di un documento del genere.
3.
L’inapplicabilità della presupposizione alla convivenza more uxorio.
Per le stesse ragioni testé illustrate in merito alla
peculiarità dei rapporti endofamiliari non può accogliersi il suggerimento di
una parte della dottrina e della giurisprudenza tedesche, secondo cui le
contribuzioni in esame riposerebbero su di un «fondamento negoziale» (Geschäftsgrundlage),
costituito dal rapporto more uxorio, il cui venir meno consentirebbe al
loro autore di ripeterle, o comunque di ottenere una qualche sorta di revisione
del contenuto del negozio [30].
L’applicazione della teoria del Wegfall der
Geschäftsgrundlage – da noi nota come presupposizione – a rapporti
familiari non è ignota alla giurisprudenza tedesca, la quale vi ha fatto più
volte ricorso con riguardo a coppie coniugate in regime di separazione dei beni
[31]. Così, escluso il carattere
liberale delle contribuzioni in discorso [32], qualificate invece come
«attribuzioni patrimoniali innominate» (unbenannte Zuwendungen), o
«negozi giuridici para-matrimoniali sui generis» (ehebezogene
Rechtsgeschäfte eigener Art), se ne è affermata la ripetibilità, una volta
venuto meno, per effetto di divorzio, quel rapporto matrimoniale che ne
costituiva la base, peraltro richiedendosi l’ulteriore condizione che l’attribuzione
«superi la misura da ritenersi congrua in relazione al lavoro prestato» dal
beneficiario dell’atto sino al momento dello scioglimento del matrimonio [34]. La regola è stata ribadita,
almeno in un caso, anche per la contribuzione consistente nel lavoro fornito
personalmente dal marito nella costruzione di una casa di proprietà della
moglie. Il BGH, riconoscendo anche qui un besonderer familienrechtlicher Vertrag a titolo oneroso posto che
la prestazione era controbilanciata, almeno nell’intenzione delle parti, dalla
concessione della co-disponibilità dell’alloggio stesso, il cui fondamento
negoziale sarebbe venuto meno per effetto del sopravvenuto divorzio, è
pervenuto a una soluzione assai simile a quella raggiunta da Lord Denning [35] percorrendo vie molto diverse [36]. Successivamente la stessa Corte
ha applicato le medesime regole per un caso in cui il contributo della moglie
era consistito nella collaborazione prestata per diversi anni nell’impresa del
coniuge [37].
Ma l’applicazione della presupposizione – a parte le
obiezioni che a livello generale vengono autorevolmente prospettate sulla
trasferibilità dell’istituto al nostro ordinamento [38] – postula necessariamente, negli atti in esame, il
positivo accertamento di quella negozialità che, per altra via, si è invece
ritenuto di dover escludere, per lo meno in difetto di un espresso contratto di
convivenza [39] ed è proprio su questa
considerazione che la giurisprudenza tedesca si fonda per respingere le
opinioni della dottrina favorevole all’estensione alla convivenza more
uxorio della teoria della presupposizione.
Così, in un caso deciso nel 1996, il BGH ha negato
l’applicazione del Wegfall der Geschäftsgrundlage agli eredi dell’ex
convivente che chiedevano il pagamento della somma dovuta dalla compagnia
assicuratrice presso la quale il de cuius aveva stipulato
un’assicurazione sulla vita a favore della compagna, sostenendo il venir meno
del presupposto dell’attribuzione alla terza beneficiaria per effetto della
rottura del vincolo affettivo che aveva preceduto il decesso dello stipulante [40]. Ancora più esplicitamente, una
successiva decisione della stessa Corte Suprema Federale ha ribadito che di
presupposizione si può parlare soltanto laddove sussista una chiara volontà
negoziale in ordine alla produzione di effetti giuridici; volontà negoziale che
non può dedursi dal solo fatto che due persone abbiano deciso di convivere [41].
A quanto sopra esposto si può aggiungere ancora la
considerazione seguente. È noto che il carattere della presupposizione, da
soggettivo che era in origine, è andato progressivamente oggettivizzandosi [42], al punto che ora si tende a
negare rilievo a quelle situazioni di fatto sulla cui verificazione possa in
qualche modo influire la volontà delle parti [43]. E quest’ultimo è proprio il caso della convivenza more
uxorio, cui ciascuno dei partners può in ogni momento porre fine
mediante decisione unilaterale.
L’obiezione decisiva è però ancora un’altra. Non sembra
infatti che tra i conviventi possa affermarsi la sussistenza di una
presupposizione sulla durata del rapporto. Invero, chi effettua una prestazione
a titolo gratuito al convivente confidando nella futura utilizzazione in comune
del bene acquistato dal compagno, non può ragionevolmente presupporre, proprio
per l’assenza di vincoli giuridici al riguardo, che la comunione di vita
attualmente in atto proseguirà anche per il tempo a venire [44]. Né in proposito appare logico
invocare il parallelo con la promessa di matrimonio, che potrebbe rompersi
anche dopo breve tempo [45], atteso che in tal caso la
soluzione normativa – esplicitamente predisposta da una norma che, tra l’altro,
non appare analogicamente riferibile alla convivenza more uxorio [46] – è determinata dalla presenza
di un chiaro impegno a sottoporre i propri futuri rapporti patrimoniali a ben
precisi effetti giuridici, ciò che le parti di una union libre invece
chiaramente escludono.
L’idea che sta alla base di tali rilievi, del resto, è
nota da secoli alla dottrina: «Per quam differentiam concubinatus excluditur:
etsi enim in concubinatu cohabitandi animus adsit, poeniteri tamen dividique
possunt, etiam sine causa, si velint. Quod non est in matrimonio: nam qui
matrimonio coniunguntur, talem habent animum, ut perpetuo convivere velint,
scientes, quod, etsi eorum animus mutaretur, tamen, nisi lege ipsa censente,
resiliare non possunt» [47].
4. Il ricorso allo schema causale
del mutuo (e le relative difficoltà).
Una via assai «gettonata» in giurisprudenza appare essere
quella del ricorso allo schema causale del mutuo.
Sul punto sarà il caso di ricordare quella decisione di
legittimità del 2010 [48], la quale ha escluso che la
semplice consegna al venditore del prezzo di un immobile acquistato dal partner possa rappresentare la prova
della stipula di un mutuo tra i conviventi per l’importo versato, atteso che –
potendo una somma di danaro essere consegnata per varie cause – la
contestazione, ad opera dell’asserito mutuatario (nella specie: l’ex compagno),
della sussistenza di un’obbligazione restitutoria impone all’attore in
restituzione (nella specie: la ex convivente) di dimostrare per intero il fatto
costitutivo della sua pretesa, onere questo che si estende alla prova di un
titolo giuridico implicante l’obbligo della restituzione, mentre la deduzione
di un diverso titolo, ad opera del convenuto, non configurandosi come eccezione
in senso sostanziale, non vale ad invertire l’onere della prova.
Sulla medesima ratio
decidendi si fonda un successivo arresto con il quale, nel 2013, la Suprema
Corte ha ribadito che la semplice prova della datio di una somma di denaro tra conviventi, pur se basata sulla
confessione dell’uomo, non esonera la parte attrice ex mutuo nella specie la ex convivente dall’onere di dimostrare
l’assunzione, da parte dell’uomo, dell’impegno alla restituzione del detto
importo, rammentando che la dimostrazione della consegna di una somma di denaro
«non vale, di per sé, a fondare la richiesta di restituzione, allorquando,
ammessane la ricezione, l’accipiens
non confermi il titolo posto ex adverso
alla base della pretesa di restituzione, ed, anzi, ne contesti la legittimità».
Ed invero, nella specie, l’uomo «in sede di interrogatorio formale, lungi dal
confessare di avere ricevuto in prestito le somme … aveva riconosciuto soltanto
di averle ricevute, durante il periodo di convivenza …, in rimborso o in vista
delle spese straordinarie, da lui solitamente anticipate per esigenze
familiari, come acquisto di mobili, vacanze estive ed invernali, prima
comunione della figlia della [ex convivente]» [49].
Per una sentenza in un certo senso «parallela» a queste
due, relativamente, però, ad una coppia coniugata, potrà citarsi quella
decisione di legittimità del 2009 [50], che ha confermato la decisione
d’appello, la quale aveva rigettato l’istanza di condanna, presentata da una
coppia di coniugi nei confronti dell’ex genero, alla restituzione della somma
corrisposta alla figlia, all’epoca dei fatti ancora coniugata con il
resistente, per l’acquisto della casa coniugale. La Corte ha qui ribadito che,
specie in un contesto caratterizzato dalla solidarietà familiare, era
necessaria una prova «specifica e precisa» circa i termini della restituzione
del debito, non essendo all’uopo sufficienti le testimonianze acquisite, che
non avevano «saputo dare alcuna attendibile indicazione circa i tempi della
pattuita restituzione e della regolazione circa gli interessi».
La presenza di un contratto di mutuo nella dazione di una
somma per l’acquisto di un bene è stata talora riconosciuta dalla
giurisprudenza di merito, peraltro sulla base di risultanze istruttorie
piuttosto chiare in questo senso.
Così, ad esempio, il tribunale di Vicenza ha stabilito
nel 2010 che, sulla base delle prove raccolte durante la fase istruttoria (deposizioni
testimoniali sostanzialmente convergenti, lineari spiegazioni rese
dall’attrice, comportamento processuale del convenuto), poteva dirsi
adeguatamente comprovato l’assunto di una ex convivente, la quale asseriva di
avere concesso a favore del suo compagno la somma complessiva di lire 20
milioni, tra il 1995 ed il 1996, «a titolo di prestito per finanziarne
l’esecuzione di lavori edili di sistemazione all’immobile in proprietà che il
medesimo doveva sostenere».
Aggiunge significativamente la decisione che non «osta, a
livello logico, a tale ricostruzione dei fatti, ed alla loro qualificazione
giuridica conforme agli assunti attorei, la circostanza che la [ex convivente],
nonostante l’entità della somma data in prestito, non si fosse fatta rilasciare
alcuna ricevuta o ricognizione di debito sottoscritta dall’accipiens, risultando invero del tutto coerente con le condizioni
soggettive delle parti all’epoca che le elargizioni di danaro avvenissero sulla
fiducia, essendo a quel tempo [i contendenti] legati da un risalente vincolo
sentimentale» [51].
I principi di cui sopra non sono stati capovolti da una
successiva decisione di legittimità, che ha confermato le sentenze di merito
che avevano accolto la domanda di restituzione di una somma di denaro dalla ex
convivente all’ex convivente per la realizzazione di un immobile in vista del
matrimonio che non aveva avuto luogo. La Cassazione, invero, ribadendo il
principio secondo cui la semplice prova della dazione del denaro non dimostra
il titolo per la sua restituzione, ha rilevato che nella specie tale regola non
era applicabile, atteso che l’accipiens
non aveva eccepito un diverso titolo della dazione di denaro, non implicante
una obbligazione restitutoria (donazione valida o non revocabile, pagamento di
un debito, ecc.), ma un diverso titolo comunque implicante una obbligazione
restitutoria. Nella specie, infatti, l’accipiens
aveva ammesso di aver ricevuto il versamento a titolo fiduciario sul proprio
conto corrente bancario, al fine di consentire alla compagna di sottrarre la
relativa somma all’aggressione dei suoi creditori. Da quanto sopra è stato
fatto derivare che, di conseguenza, una volta provata dalla donna la dazione di
denaro, sull’accipiens gravava, in forza
dell’art. 2697 c.c., l’onere di provare di aver restituito il denaro, ma che
tale prova non era stata fornita [52].
È indiscutibile che un inquadramento nell’ambito della
donazione (diretta) del denaro permetterebbe, almeno il più delle volte, la
ripetizione dei finanziamenti erogati per acquisti o miglioramenti di beni di
proprietà esclusiva dell’altro sotto il profilo della nullità per mancato
rispetto della forma solenne che, nei casi di cui si discute, non è quasi mai
presente. Si tratta, in buona sostanza, dello stesso ragionamento seguito (senza
esito, come detto) dalla difesa della ex convivente nel caso qui in commento,
applicato però non all’attribuzione dell’immobile, bensì a quella del denaro.
Ma anche una simile ipotesi ricostruttiva appare viziata
alla radice.
Innanzi tutto il richiamo a tale istituto non sarebbe
ipotizzabile, per effetto della definizione di cui all’art. 769 c.c., in
relazione alle prestazioni consistenti in meri servizi, ma andrebbe limitato ai
soli diritti trasferiti (nella maggior parte dei casi: la proprietà di somme di
denaro), oppure a obbligazioni eventualmente assunte (si pensi a
un’espromissione conclusa con il debitore del partner). In secondo luogo
appare comunque assai problematico, per non dire impossibile, rinvenire la
presenza di un animus donandi in quegli atti diretti, sì, a rendere
possibile un acquisto esclusivamente in capo al ricevente, ma relativamente a
beni che, nell’intenzione del «donante», sarebbero destinati a servire a
entrambi: si pensi al caso classico della casa d’abitazione, o
dell’appartamento di villeggiatura, di un’automobile, del camper per le
vacanze, ecc.
Su questa linea sembra essersi posta, ancorché in maniera
ancora assai timida, una parte della giurisprudenza chiamata a pronunziarsi in
materia di attribuzioni tra coniugi effettuate durante il periodo della
convivenza. Ad esempio, in un caso risalente al 1980, l’attore agiva per la
restituzione di beni intestati alla moglie, in base alla considerazione che
questi, oggetto di donazione indiretta, dovevano essere destinati a vantaggio
della famiglia e alla normale convivenza dei coniugi. I giudici del merito
avevano escluso che incombesse alla donataria l’onere di provare lo spirito di
liberalità del donante, per poter trattenere i beni in questione nonostante la
sopravvenuta separazione giudiziale tra i coniugi, ritenendo che, per contro,
spettasse al donante dimostrare che la donazione fosse preordinata o
subordinata alle pretese finalità, divenute irrealizzabili o frustrate dalla
donataria. La Corte Suprema confermò questa decisione, così ammettendo, quanto
meno in astratto, la possibilità di dimostrare l’insussistenza di un animus
donandi per effetto della prova che i beni oggetto dell’attribuzione
sarebbero stati «destinati a vantaggio della famiglia e alla normale convivenza
dei coniugi» [53].
Andrà ancora aggiunto che, successivamente, una pronunzia
di merito ha mostrato di accogliere siffatta impostazione, con riguardo ad un
caso presentatosi proprio in relazione ad una famiglia di fatto. In proposito,
invero, il Tribunale di Firenze [54] ha ritenuto di dover escludere
il ricorso alla figura della donazione, in relazione ai contributi per un
acquisto immobiliare effettuato da uno solo dei partners «mancando lo
spirito di liberalità, laddove si debba ritenere, in assenza di prova
contraria, che colui che investe il proprio danaro in un bene primario come la
casa del proprio nucleo familiare ciò faccia, nella previsione che di quella
casa continuerà ad usufruire e non con l’intento di donarla alla sola altra
parte».
A riprova di queste conclusioni si pone infine anche la
corale esclusione del carattere donativo e liberale in relazione a tutte quelle
attribuzioni effettuate senza corrispettivo in seno ad una regolamentazione
pattizia della crisi coniugale [55]. Il tutto, poi, in un clima più
generale in cui la giurisprudenza sembra muoversi (anche al di là delle ipotesi
di attribuzioni endofamiliari) con i piedi di piombo nel dedurre la presenza di
un animus donandi semplicemente sulla
base di fenomeni di intestazione o cointestazione [56].
Ma proprio la tendenziale esclusione della presenza di un
animus donandi nelle fattispecie in
esame apre la via [57] apre la via ad una possibile
soluzione che, pur non muovendosi sul «piano proprietario», consentirebbe
quanto meno all’autore dell’attribuzione patrimoniale il recupero dell’esborso
a suo tempo effettuato, una volta naufragata l’unione sentimentale (suggellata
o meno dal vincolo matrimoniale).
6. La soluzione proposta e
l’applicazione delle norme in tema di ripetizione dell’indebito.
Va qui infatti ribadita la soluzione, già prospettata in
altre sedi [58], che, muovendo dalla
comparazione con i sistemi di common law
e con i rimedi adottati negli altri principali sistemi europei, ha concluso per
l’applicazione (una volta che l’indagine da svolgersi sul singolo caso concreto
dovesse escludere altre cause giustificatrici dello spostamento patrimoniale:
dal mandato, al negozio fiduciario, al mutuo, alla donazione, alla liberalità
indiretta) dell’azione di ripetizione dell’indebito, pure essa, a ben vedere,
espressione della regola generale del divieto di arricchimento senza giusta
causa.
Con riguardo, infatti, a tale tipo di prestazioni, va
chiarito che, se è vero che pure queste, come quelle di facere,
dovrebbero ritenersi irripetibili per effetto dell’obbligazione naturale in
adempimento della quale sono state compiute, resta sempre il fatto che il
mancato reciproco adempimento, da parte dell’accipiens, alla sua
obbligazione naturale determina un arricchimento ingiustificato in capo a
quest’ultimo [59]. Trova così risposta, senza la
necessità di ricorrere a istituti quali il trust o la presupposizione,
anche il grave problema del riequilibrio tra quelle prestazioni che dovessero
risultare «sbilanciate» per effetto di una imprevista rottura del legame: si
pensi al contributo effettuato per l’acquisto della casa o dell’automobile
destinate a un uso comune, anche se «intestate» a uno solo dei conviventi,
immediatamente seguito da un’improvvisa «fuga» del beneficiario dell’esborso.
Ma la conclusione non muta allorquando, pur in presenza
di un reciproco adempimento delle obbligazioni naturali, il vantaggio
attribuito da una parte all’altra esorbiti dai limiti di una normale
contribuzione e pertanto esuli dallo schema dell’obbligazione naturale. In tal caso,
infatti, trattandosi di prestazione di dare, e non sussistendo il rischio di
pervenire ad uno «scambio imposto», il peculiare rimedio che dovrà trovare
applicazione sarà quello dell’indebito oggettivo [60], pure esso, come si è appena
chiarito, espressione della regola generale del divieto di arricchimento senza
giusta causa [61].
La soluzione proposta, come altrove illustrato [62], non si può estendere alle
prestazioni di facere, per le quali
la volontà del prestatore di impoverirsi può raggiungere immediatamente e senza
ostacoli formali l’effetto desiderato di dar luogo ad un arricchimento
definitivo e irrecuperabile nella controparte. Nonostante ciò, come detto, il
rimedio dell’arricchimento può essere indicato come risolutivo in tutta una
serie di ipotesi, che si sono altrove illustrate [63].
Va pertanto ribadito come, nelle sue multiformi
applicazioni, il rimedio dell’arricchimento ingiustificato possa ergersi a
regime patrimoniale della famiglia di fatto, concorrendo con quello, parallelo,
dell’obbligazione naturale, ed eventualmente integrandolo. Invero, mentre
quest’ultimo sarà da solo sufficiente a governare i casi in cui il reciproco
dovere morale e sociale di contribuzione abbia ricevuto concreta e bilaterale
attuazione, il primo entrerà in gioco per ristabilire l’equilibrio alterato di
fatto dalla esecuzione soltanto unilaterale dell’obbligazione naturale,
contributiva e reciproca, tra conviventi.
Potrà ancora aggiungersi che proprio la via della
ripetizione dell’indebito sembra essere percorsa da una parte della
giurisprudenza di merito. Così, ad esempio, la corte d’appello di Genova, nel
2001, ha riconosciuto la parziale (nei limiti, ovviamente, della prova
raggiunta sui versamenti effettuati) fondatezza della domanda proposta da un ex
convivente che aveva corrisposto somme per l’acquisto e la ristrutturazione di
un alloggio che la ex convivente «si era poi intestato» [64]. Si è così deciso che «Si
attaglia alla fattispecie l’ipotesi disciplinata dall’art. 2033 c.c.: il
mancato verificarsi dello scopo vanifica la causa del pagamento, ed è, siccome
è noto, assolutamente irrilevante, per l’applicazione della norma in parola,
che la causa del negozio manchi all’origine, o venga meno successivamente (così
per tutte Cass. 88/4708) per essere il negozio annullato, sottoposto a
condizione o risolto, giacché il difetto della causa solutionis rileva in sé e per sé, legittimando il solvens alla ripetizione. Deve
conseguentemente concludersi che la teorica impostazione della domanda
principale dell’appellante è corretta» [65].
* L’autore intende dedicare il presente scritto alla
memoria di Milena Pini. Indimenticabile Presidente dell’A.I.A.F., l’Avv. Pini è
stata un esempio unico di dedizione allo studio ed al lavoro del Professionista
Legale, nel senso più vero ed alto del termine. Formidabile organizzatrice di
attività formative e profonda conoscitrice delle questioni giusfamiliari,
lascia un’impronta indelebile nella vita e nel ricordo di tutti i cultori del
diritto di famiglia.
[1] Basti pensare a recenti proposte di alcuni c.d.
«saggi», che – con buona pace del principio di separazione dei poteri, dei
documenti del Consiglio d’Europa e della giurisprudenza della Corte europea dei
diritti dell’uomo (cfr. da ultimo Oleksandr
Volkov v. Ukraine, 9 January 2013) – mirano a smantellare la preziosa
costruzione che lo stesso Calamandrei ed altri illustri Padri Costituenti
crearono a difesa dell’indipendenza e dell’autonomia della magistratura; sul
tema cfr. ad es. Ammatuna, Calamandrei, Candian, Carnelutti,
Danzi, Gorla, Longo, Jemolo, Peretti
Griva, Pilotti, Polistina, Raffaelli e Redenti,
Per l’ordine giudiziario, Milano,
1946. Si veda in particolare la proposta dello stesso Calamandrei (op. cit., p. 100 s.) che, riportando,
tra l’altro, anche la «giurisdizione disciplinare sui magistrati» al concetto
di «autogoverno della magistratura», prevedeva che l’ordine giudiziario dovesse
«provvedere da sé, e senza alcuna ingerenza del potere esecutivo, al proprio
governo».
[2] Cfr. Calamandrei,
Elogio dei giudici scritto da un avvocato, Firenze, 1989, p. 88.
[3] Sul tema v. per tutti Fr. Ferrara Sen., in Scritti giuridici, Milano, 1954, I, p.
409 ss.; Carraro, Il negozio in frode alla legge, Padova,
1943, p. 137, 211 ss.; Id., Il mandato ad alienare, Padova, 1947, p.
135 ss.; Torrente, La donazione, nel Trattato di diritto civile e commerciale, a cura di Cicu e Messineo,
Milano, 1956, p. 58 ss.; Biondi, Le donazioni, nel Trattato di diritto civile, diretto da Vassalli, Torino, 1961, p.
977 ss., 1028 ss.; Cariota Ferrara,
Il negozio giuridico nel diritto privato
italiano, Napoli, s.d. ma 1966, p. 261, 546, nt. 20; Messineo, Il contratto in genere, nel Trattato
di diritto civile e commerciale, diretto da Cicu e Messineo, Milano, 1972,
p. 543; Rescigno, Manuale del diritto privato italiano,
Napoli, 1975, p. 548; Torrente, Manuale di diritto privato, Milano,
1978, p. 995.
La giurisprudenza si è dovuta soprattutto cimentare
con il problema dell’individuazione dell’oggetto del conferimento in
collazione, ex art. 737 c.c. Al
riguardo andrà segnalato che le più recenti pronunce, superando un precedente –
peraltro non univoco – indirizzo (v. per esempio Cass., 11 novembre 1961, n.
2640; Cass., 11 maggio 1973, n. 1255; Cass., 19 ottobre 1978, n. 4711; Cass.,
28 febbraio 1987, n. 2147, in Vita not.,
1987, I, p. 847), hanno ritenuto necessario spostare, per così dire, l’attenzione
dall’impoverimento del donante all’arricchimento del donatario, per lo meno
tutte le volte in cui le parti, invece di porre in essere un trasferimento
diretto del denaro dal donante al donatario, ricorrono alla vendita come mero
strumento formale di trasferimento della proprietà del bene per l’attuazione di
un complesso procedimento di arricchimento del destinatario della detta
traslazione. Si ritiene pertanto oggi che il bene da conferire in collazione,
nel caso di acquisto da parte del donatario indiretto contro pagamento del
prezzo direttamente effettuato dal donante al terzo, sia appunto il bene e non
già il denaro impiegato per l’acquisto: cfr. Cass., 31 gennaio 1989, n. 596, in
Giur. it., 1989, I, 1, c. 1726, con
nota di Chianale, ed ibidem, 1989, I, 1, c. 1882, con note di
Tassoni e Bellelli, nonché in Nuova
giur. civ. comm., 1989, I, p. 752, con nota di Uglietti; in Giust.
civ., 1990, I, p. 1587, con nota di Pastore;
in Riv. not., 1989, II, p. 1163, con
nota di Di Mauro; Cass., 6 maggio
1991, n. 4986, in Giust. civ., 1991,
I, p. 2981; Cass., Sez. Un., 5 agosto 1992, n. 9282, in Foro it., 1993, I, c. 1544, con note di Fabiano e di De
Lorenzo; in Giust. civ., 1992,
I, p. 2991, con nota di Azzariti;
in Nuova giur. civ. comm., 1993, I,
p. 373, con nota di Regine; Cass.,
8 febbraio 1994, n. 1257, in Foro it.,
1995, I, c. 614, con nota di De Lorenzo;
Cass., 22 giugno 1994, n. 5989, in Giur.
it., 1995, I, 1, c. 1558, con nota di Masucci;
Cass., 29 maggio 1998, n. 5310; Cass., 22 settembre 2000, n. 12563; Cass., 6
aprile 2001, n. 5122; Cass., 26 agosto 2002, n. 12486. Per una rassegna del
variegato panorama dottrinale e giurisprudenziale cfr., oltre alle note testé
citate, Carnevali, Gli atti di liberalità e la donazione
contrattuale, in Trattato di diritto
privato, diretto da Rescigno, VI, Torino, 1982, p. 535 s.; Mengoni, Successione necessaria, Milano, 1992, p. 201 ss.; Id., Successioni,
in Riv. trim. dir. proc. civ., 1994,
p. 183 s.; v. inoltre Ragazzini, Sulla collazione dell’acquisto immobiliare effettuato
dal discendente con denaro dell’ascendente, in Riv. not., 1990, I, p. 991; Montesano,
Ancora in tema di collazione e oggetto
della donazione indiretta, in Vita
not., 1991, p. 167; Forchielli,
Acquisto dell’immobile con denaro del
defunto e certezza del diritto, in Contratto
e impresa, 1994, I, p. 47 ss.;
Formiggini, L’oggetto della
collazione nelle donazioni indirette, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1994, p. 769 ss.; Albanese, Due (antiche) questioni in tema di collazione: l’intestazione in nome
altrui; i frutti del bene ereditario, Nota a App. Catania, 23 marzo 2007,
in Fam. pers. succ., 2008, p. 243 ss.
A prescindere dalla specifica questione cui si è appena accennato una cosa è
però assolutamente certa: e cioè che la giurisprudenza non esita a collocare la
fattispecie nell’alveo della liberalità indiretta.
[4] In dottrina v. per tutti Torrente, La donazione,
cit., p. 424 s. Tra le decisioni più recenti sul tema, tutte orientate nello
stesso senso, v. Cass., 10 aprile 1999, n. 3499, in Giur. it., 1999, p. 2017; Cass., 21 gennaio 2000, n. 642, in Società, 2000, p. 697, con nota di Fanti; Cass. 29 marzo 2001, n. 4623;
Cass. 16 marzo 2004, n. 5333; Cass., 3 novembre 2009, n. 23297; Cass., 17
novembre 2010, n. 23215, in Giust. civ.,
2011, I, p. 649, con nota di D’Orso;
in Riv. notar., 2012, II, p. 439, con
nota di Martino.
[5] Torrente,
La donazione, cit., p. 60.
[6] A onor del vero dovrà sottolinearsi che tale ultimo
profilo era sfuggito – stando, almeno, a quanto è dato leggere nella decisione
di legittimità qui in commento – alla stessa corte d’appello, la quale aveva
respinto la domanda della donna facendo applicazione della regola di cui
all’art. 2035 c.c., peraltro storpiandone la massima, che suona infatti nel
modo seguente: in pari causa turpitudinis
melior est condicio possidentis (e non possidendi).
Sull’origine romanistica di tale regola e sui suoi sviluppi storici cfr. per
tutti Fr. Ferrara Sen., Teoria del negozio illecito nel diritto civile italiano, Milano,
1902, p. 281 ss. Per un paio di approfondite indagini transalpine sul tema, ove
la questione è resa dubbia dall’assenza di una disposizione nel Code di una norma equivalente all’art.,
2035 c.c., cfr. Ripert, La règle morale dans les obligations civiles,
Paris, 1935, p. 195 ss.; Saiget, Le contrat immoral, Paris, 1939, p. 16
ss.; Cardahi, L’exécution des conventions immorales et illicites, in Rev. int. dr. comp., 1951, p. 385 (ove
si rileva che la regola in esame, «qui est en honneur dans beaucoup de législations»,
«en France … s’impose au nom de la tradition»). In ogni caso è indubbio che
pure la considerazione di siffatto concetto istituzionale (ed in Italia
positivamente codificato) del diritto civile (nemo auditur turpitudinem suam alligans) avrebbe dovuto dissuadere
la difesa della ex convivente superstite dall’invocare l’istituto della
donazione e dal tirare in ballo la propria attività di prostituta.
[7] Il tema, non affrontabile in questa sede, è stato da
chi scrive approfondito altrove: cfr. Oberto,
La comunione legale tra coniugi, nel Trattato di diritto civile e commerciale,
a cura di Cicu-Messineo-Mengoni-Schlesinger, I, Milano, 2010, p. 298 ss.; Id., I
diritti dei conviventi. Realtà e prospettive tra Italia ed Europa, Padova,
2012, p. 59 ss.
[8] Cfr. Oberto,
Proposta di legge sul tema: disposizioni
in materia di accordi di convivenza, disponibile alla seguente pagina web: https://www.giacomooberto.com/convivenza/proposta.htm,
nonché in Id., Famiglia e rapporti patrimoniali. Questioni
d’attualità, Milano, 2002, p. 1057 ss. e in Id.,
I diritti dei conviventi. Realtà e
prospettive tra Italia ed Europa, cit., p. 367 ss.: «Art. 3 – 1.
Attribuzioni patrimoniali in favore del convivente - 1. In assenza di apposita
pattuizione, le attribuzioni patrimoniali effettuate fra i conviventi in
ragione della prestazione di reciproca contribuzione, nonché di assistenza
morale e materiale, compiute in qualunque forma in proporzione ai propri
redditi, alle proprie sostanze e alle proprie capacità di lavoro professionale
o casalingo, costituiscono adempimento di obbligazione naturale ai sensi
dell’art. 2034 c.c. 2. Salvo prova contraria, si presume che le attribuzioni
patrimoniali eccedenti la misura di cui sopra costituiscano a tutti gli effetti
donazioni, per la cui validità è richiesto il rispetto degli artt. 782 c.c. e
48, l. 16 febbraio 1913, n. 89 (“Sull’ordinamento del notariato e degli archivi
notarili”)». Inutile dire che la presunzione di cui al secondo comma potrebbe
anche essere di tipo diverso e mirare, tutto al contrario, anziché alla
tendenziale restituzione dell’arricchimento conseguito dall’accipiens (mercé la concessione
all’altra parte dell’actio nullitatis fondata sul presumibile
mancato rispetto del requisito formale), alla tendenziale conservazione
dell’utilità ricevuta, mediante l’espressa sanzione della relativa
irripetibilità (ma la prima soluzione appare forse più consona alla odierna
«liquidità» delle relazioni affettive).
[9] Sull’indiscutibile validità di intese preventive tra conviventi, tese
ad attribuire o a negare un determinato significato negoziale alle attribuzioni
invicem effettuate ed ai comportamenti che gli stessi terranno in
futuro, durante il ménage, sia nei reciproci rapporti, che con riguardo
all’attività negoziale verso terzi, cfr. Oberto,
I diritti dei conviventi. Realtà e prospettive tra Italia ed Europa,
cit., p. 161 ss.; v. inoltre Id., I
regimi patrimoniali della famiglia di fatto, cit., p. 280 s.
[10] Qualcosa di simile, in altri termini, a ciò che si è
suggerito in relazione ai coniugi, tramite l’inserimento, nel contesto di una
donazione (diretta), di una clausola risolutiva legata alla separazione o al
divorzio. Non vi è infatti
incertezza in dottrina sulla liceità della donazione, sia obnuziale che in
costanza di matrimonio, risolutivamente condizionata alla pronunzia di
divorzio: la condizione avente ad oggetto lo scioglimento del matrimonio per
divorzio (ma anche, è da ritenere, per separazione legale o di fatto), invero,
non può intendersi come divietante quello scioglimento, quindi non è illecita.
Essa non coarta una libertà fondamentale e preziosa, né può ipotizzarsi
costituisca una remora alla richiesta di divorzio, vista la perdita del
vantaggio conseguente alla donazione. Più semplicemente, è il fatto in sé,
eventuale e futuro, eletto a condizione, ad operare in termini risolutivi, come
del resto confermato dalla comparazione con l’ordinamento tedesco, in cui si
ammette la piena validità del negozio di trasferimento di un bene mobile da un
coniuge all’altro, con riserva di un Rückforderungsrecht
für den Fall der Scheidung (per approfondimenti e rinvii cfr. Oberto, Il regime di separazione dei
beni tra coniugi. Artt. 215-219, cit., p.
352; per una decisione di legittimità che conferma la validità di una clausola
legata al divorzio nel contesto di un accordo prematrimoniale v. Cass., 21
dicembre 2012, n. 23713, in Fam. dir.,
2013, p. 321, con nota di Oberto).
Allo stesso modo l’attribuzione liberale tra conviventi potrebbe essere
risolutivamente condizionata, in modo espresso, alla rottura del rapporto (sul
punto cfr. Oberto, I diritti dei conviventi. Realtà e
prospettive tra Italia ed Europa, cit., p. 119 s., 171 ss.).
[11] Sia chiaro che qui il termine «intestazione» viene
utilizzato semplicemente per indicare le risultanze dei pubblici registri
immobiliari (normalmente conformi alla reale titolarità dei diritti da essi
risultanti) e non già il differente fenomeno che va sotto il nome di
«intestazione di beni sotto nome altrui», legato a fenomeni interpositori. Su
quest’ultimo v., anche per gli ulteriori rinvii, Fr. Ferrara Sr., Della
simulazione nei negozi giuridici, Roma, 1922, p. 182 s.; Id., Interposizione
di persona e intestazione in altra persona, in Riv. dir. priv., 1937, p. 129 ss.; Messineo,
Dottrina generale del contratto,
Milano, 1952, p. 308; Valente, L’intestazione di beni sotto nome altrui:
concetto, natura, estensione ed effetti, Milano, 1958; Cariota Ferrara,
Il negozio giuridico nel diritto privato
italiano, cit., p. 546, nt. 20; Flamini,
Interposizione fittizia di persona o
intestazione di beni sotto nome altrui, Nota a Trib. Ascoli Piceno, 12
aprile
[12] Per una dettagliata illustrazione dei precedenti cfr.
Oberto, I regimi patrimoniali
della famiglia di fatto, Milano, 1991, p. 130 ss.; Id., Le prestazioni lavorative del convivente more
uxorio, Padova, 2003, p. 73 ss.; Id.,
Il regime di separazione dei beni tra coniugi. Artt. 215-219, in Il codice
civile. Commentario fondato e già diretto da Schlesinger, continuato da
Busnelli, Milano, 2005, p. 183 ss.
[13]
V. per tutti Parry, Cohabitation, London, 1981, p. 14 ss.; Olivier, The Mistress in Law, in
Current Legal Problems, 1978, p. 83 ss.; Pearl,
Rapports hors mariage, in Mariage et famille en question (l’évolution
contemporaine du droit anglais), sous la direction de H.A. Schwarz-Liebermann
von Wahlendorf, Lyon, 1979, p. 144 ss.; Finlay,
The Informal Marriage in Anglo-Australian
Law, in Eekelaar e Katz, Marriage and Cohabitation in Contemporary Societies, Toronto, 1980,
p. 164 ss.; Riddal, The Law of Trusts, London, 1987, p. 178
s., 182 s. Per un’analitica rassegna delle ipotesi di trust nelle relazioni
familiari (sia in presenza, che in assenza di matrimonio) cfr. Cretney e Masson, Principles of Family Law, London, 1997, p.
126 ss.
[14] «Where the home is conveyed
to a person other than the one who provided the purchase money, there is a
general rule that beneficial ownership ‘results’ to the one providing the
purchase money»: v. Parry, op. loc. citt. Peraltro la presumption of resulting trust è rebuttable by other evidence.
Sull’argomento cfr. inoltre Parker e
Mellows, The Modern Law of Trusts, London, 1970, p. 32; Ford e Lee,
Principles of the Law of Trust,
Melbourne, 1983, p. 951 ss.
[15]
Per un’applicazione del trust a un
conto intestato a uno solo dei conviventi, ma alimentato da versamenti di
provenienza di entrambi v. Paul v.
Constance, 1977, 1 Weekly Law Reports,
p. 527, in cui l’intenzione di costituire il trust venne tra l’altro dedotta dalle espressioni a più riprese
usate dal titolare del conto, il quale aveva più volte dichiarato alla
convivente: «The money is as much yours as mine».
[16] «The parties will have
proportionate beneficial interests equivalent to their contribution»: cfr. Parry, op. cit., p. 16; nello stesso senso cfr. Riddal, op. cit.,
p. 178 s.
[17] «Mortgage repayments will
count as contributions towards the purchase price»: cfr. Diwell v. Farnes, 1959, 1 Weekly
Law Reports, p. 624.
[18] Cooke v. Head, 1972, 1 Weekly Law Reports, 518 (Lord Denning),
in cui l’uomo aveva acquistato a proprio nome un terreno sul quale, con il
consistente aiuto della convivente (che «did a great deal of heavy work,
including mixing and carting cement»), aveva realizzato un bungalow. Il contributo della donna venne nella specie valutato in
un terzo del valore della proprietà (cfr. anche Cretney,
The Law Relating to Unmarried Partners
From the Perspective of a Law Reform Agency, in Eekelaar e Katz,
op. cit., p. 360). La regola trova
applicazione anche nei confronti delle coppie coniugate: v. per esempio Smith v. Baker, 1970, 1 Weekly Law Reports, p. 1160.
[19] Eves v. Eves, 1975, 1 Weekly Law Reports, p. 1338, in cui alla
convivente venne riconosciuto un interest
pari a un quarto del valore della proprietà.
[20] Hussey v. Palmer, 1972, 1 Weekly Law Reports, p. 1286.
[21] Cfr. Riddal, op. cit., p. 359 ss.; Parker e
Mellows, op. cit., p. 32; Heydon,
Gummow, Austin, Cases and
Materials on Equity and Trusts, Sydney, 1982, p. 634; Furmston, Law of Contract, London, 1986, p. 442 ss.; per gli U.S.A. cfr. Jay Folberg, Domestic Partnership: A No-fault Remedy for Cohabitors, in Eekelaar e Katz, op. cit., p.
349; sui rapporti tra constructive trust, equity ed unjust
enrichment cfr. Dawson, Unjust
Enrichment. A Comparative Analysis, Buffalo, 1999, p. 26 ss.; nel senso che il constructive trust è uno degli strumenti
attraversi i quali si attua l’obbligo restitutorio gravante sull’arricchito
cfr. P. Gallo, L’arricchimento senza causa, Padova,
1990, p. 473.
[22] Grant v.
Edwards, 1986, Ch 638, 1986, 2 All ER 426. Nel caso Burns v. Burns, 1984, Ch 317, 1984, 1
All ER 244, di poco precedente, la stessa Court of Appeal rigettò,
invece, la domanda della ex convivente che, pur non avendo contribuito
direttamente all’acquisto della casa compiuto dal solo uomo, aveva allevato la
prole, eseguito i lavori domestici e contribuito a delle spese di manutenzione
e di arredamento. In tale fattispecie la Corte decise che alla donna non spettava alcun beneficial
interest sulla casa, «in the absence of a financial contribution which
could be related to the acquisition of the property, for example to the
mortgage repayments».
Sovente compare anche l’implied trust, che, a somiglianza del resulting, viene ritenuto esistente sulla base del comportamento
delle parti, come implicitamente voluto dalle medesime. La stessa dottrina
inglese ammette peraltro che resulting,
constructive e implied trust «are
not easy to distinguish» (cfr. Parry,
op. loc. cit.; cfr. inoltre Ford e Lee,
op. cit., p. 989). Sotto la nuova
veste del constructive trust
l’istituto è stato con successo esportato anche in altri sistemi di common law, come, per esempio, in
Australia, Nuova Zelanda e Canada (cfr. Stenger,
Cohabitation and Constructive Trust -
Comparative Approaches, in Journal of
Family Law, 27 1988-89, p. 373 ss.; Bruch,
Nonmarital Cohabitation in the Common Law
Countries: A Study in Judicial-Legislative Interaction, in The American Journal of Comparative Law,
1981, p. 217, 221). Per la peculiare situazione degli Stati Uniti d’America,
ove l’applicazione dell’istituto del trust
alla materia dei rapporti tra conviventi risale a data addirittura anteriore
alle elaborazioni di Lord Denning v. i richiami in Oberto, Le prestazioni lavorative del convivente more
uxorio, cit., p. 41 s., nota 80.
[23]
Trib. Bari, 21 gennaio 1977, in Giur.
merito, 1978, p. 1156, e in Dir. fam.
pers., 1979, p. 86, con nota di Bessone,
secondo cui l’acquisto della casa di abitazione, con «intestazione» della nuda
proprietà alla donna e dell’usufrutto all’uomo, effettuato da uno dei
conviventi nel corso del rapporto, non configurerebbe «una ipotetica liberalità
dell’uomo nella forma di donazione indiretta». Esso possiederebbe invece «tutte
le connotazioni sociali e psicologiche di un affare familiare» e come tale
andrebbe «considerato come il risultato di una collaborazione tra i componenti
del nucleo familiare», e perciò compiuto «con mezzi appartenenti ad entrambi i
soggetti». Da queste premesse conseguirebbero, da un lato, la negazione della
sussistenza di una simulazione dell’«intestazione» a vantaggio della donna, e,
dall’altro, l’irrilevanza della contestuale dichiarazione di debito da
quest’ultima rilasciata in favore dell’uomo per la parte di prezzo relativa.
In realtà, il rigetto della domanda diretta a far
accertare la proprietà esclusiva dell’immobile in capo all’usufruttuario che
aveva pagato l’intero prezzo e basata sul solo fatto che la convivente non
aveva invece sborsato alcuna somma (ma anzi aveva rilasciato all’attore una
dichiarazione di debito per venti milioni di lire) avrebbe potuto e dovuto
essere argomentato sulla scorta di ben diverse considerazioni. Invero, la
«fittizietà dell’intestazione» di un dato bene immobile può essere, come noto,
solo il frutto di un’interposizione di persona, vuoi fittizia, vuoi reale. Ora,
nel primo caso l’attore avrebbe dovuto allegare e dimostrare una simulazione
relativa ai soggetti nel negozio d’acquisto del bene che, come tale, non
avrebbe potuto non coinvolgere anche il dante causa. In quest’ipotesi, tra
l’altro, si sarebbe ancora dovuto tenere presente che per l’interposizione
fittizia di persona in materia immobiliare il negozio dissimulato deve
risultare da apposito atto scritto concluso tra l’interponente e il terzo (cfr.
Cass., 22 aprile 1986, n. 2816, in Foro
it., 1986, I, c. 1830, con nota di Straziota).
Nel secondo caso, invece, si sarebbe dovuta allegare e dimostrare la
sussistenza di un mandato senza rappresentanza. Ma anche tale negozio, in
quanto avente ad oggetto un trasferimento immobiliare, avrebbe dovuto essere
conferito – in base a quella che autorevole dottrina ha definito «regola
ricevuta» – in forma scritta (cfr. Sacco,
Il contratto, nel Trattato di diritto civile, diretto da
Vassalli, Torino, 1975, p. 454 s.; cfr. inoltre Scognamiglio,
Dei contratti in generale, nel Commentario del codice civile
Scialoja-Branca, Bologna-Roma, 1970, p. 418; Vitucci,
Applicazioni e portata del principio di tassatività delle forme solenni,
in Quadrimestre, 1989, p. 62 s.). Per
la giurisprudenza, ferma sul punto ormai da più di trent’anni, v. Cass., 23
giugno 1980, n. 3939, in Arch. civ.,
1980, p. 900; Cass., 19 novembre 1982, n. 6239, in Giur. it., 1983, I, 1, c. 903; Cass., 30 gennaio 1985, n. 560, in Rep. Foro it., 1985, voce Giuramento in materia civile, n. 7. E’
evidente, dunque, che non si sarebbe potuta comunque ritenere sufficiente, al
fine di desumere la «fittizietà dell’intestazione», la semplice circostanza del
mancato pagamento del prezzo da parte della convivente, e del rilascio da parte
di quest’ultima di una dichiarazione di debito.
[24]
Sull’ammissibilità della proprietà fiduciaria e dei negozi fiduciari nel nostro
ordinamento cfr. Grassetti, Del negozio fiduciario e della sua
ammissibilità nel nostro ordinamento giuridico, in Riv. dir. comm., 1936, I, 345 ss.; Pugliatti,
Fiducia e rappresentanza indiretta,
in Riv. it. sc. giur., 1948, 226 ss.;
Lipari, Il negozio fiduciario, Milano, 1964, p. 411 ss.; Jaeger, La separazione del patrimonio fiduciario nel fallimento, Milano,
1968, p. 44; Santoro-Passarelli, Dottrine generali del diritto civile, Napoli, 1978, p. 179 ss.;
V.M. Trimarchi, voce Negozio fiduciario, in Enc. dir., XXVIII, Milano, 1978, p. 32
ss.; Carnevali, voce Intestazione fiduciaria, in Dizionari del diritto privato a cura di
Irti, Milano, 1980, p. 445 ss.; Sacco e
De Nova, Il contratto, in Trattato di
diritto privato diretto da Rescigno, 10, Torino, 1982, p. 324 ss.; Graziadei, Proprietà fiduciaria e proprietà del mandatario, in Quadrimestre, 1990, p. 1 ss.
[25]
Cass., 18 ottobre 1988, n. 5663, in Foro
it., 1989, I, c. 101, secondo cui il negozio traslativo che prevede
l’obbligo del fiduciario di trasferire beni immobili al fiduciante o ad altro
soggetto, da quest’ultimo designato, deve rivestire ad substantiam la forma scritta. La giurisprudenza è costante in
tal senso: cfr. Cass. 30 gennaio 1985, n. 560, in Rep. Foro it., 1987, voce Contratto
in genere, n. 295; in dottrina cfr. Galgano,
Il negozio giuridico, in Trattato di diritto civile e commerciale
a cura di Cicu e Messineo, continuato da Mengoni, Milano, 1988, p. 324 ss.
[26]
Sull’utilizzabilità del mandato senza rappresentanza al fine di realizzare una
proprietà fiduciaria v. per tutti Luminoso,
Mandato, commissione, spedizione, in Trattato di diritto civile e commerciale
a cura di Cicu e Messineo, continuato da Mengoni, Milano, 1984, p. 236 ss.,
241, 301 ss.; Santagata, Del mandato, nel Commentario del codice civile Scialoja-Branca, Bologna-Roma, 1985,
p. 264.
[27]
In Germania il BGH ha avuto modo di affrontare il problema della
possibilità di dedurre dal comportamento dei conviventi e dalla loro stessa
comunione di vita la conclusione di un mandato senza rappresentanza in
relazione, però, non all’acquisto di un bene, ma alla stipula di un contratto
d’appalto. Nel caso di specie il convivente, che aveva commissionato e pagato
una serie di lavori a imprese edili per ristrutturare la casa della convivente
e trasformarla in Gastwirtschaft,
aveva chiesto, dopo la rottura, l’applicazione della regola di cui al § 670 BGB
(in base a cui, analogamente a quanto disposto dall’art. 1720 c.c., il mandante
è obbligato a rimborsare al mandatario le spese affrontate nel corso
dell’esecuzione del mandato), asserendo di aver agito come mandatario della convivente
e pretendendo di essere tenuto indenne da quest’ultima di tutte le spese
affrontate. La Corte ha però negato che dal comportamento dei conviventi si
potesse ricavare la conclusione di un contratto di mandato per fatti
concludenti, affermando la regole per cui, nell’ambito di una convivenza more uxorio, «sind rechtliche Bindungen
und rechtlich-verbindliche Geschäfte in aller Regel nicht gewollt, sondern die
Ausnahme» e che pertanto «mangels besonderer Vereinbarung ist ... grundsätzlich
davon auszugehen, daß persönliche und wirtschaftliche Leistungen, die im
Interesse solcher Gemeinschaft liegen, nicht gegeneinander auf-oder
untereinander abgerechnet, sondern ersatzlos von demjenigen erbracht werden
sollen» (v. BGH, 3 ottobre 1983, in FamRZ,
1983, p. 1213). Del medesimo avviso è LG Aachen, 30 settembre 1987, ivi, 1987, p. 717: «Die nichteheliche
Lebensgemeinschaft selbst bildet keinen Kooperationsvertrag. Voraussetzung ist
vielmehr ein rechtlicher Bindungswille der Parteien. Im allgemeinen lehnen aber
die Partner einer nichtehelichen Lebensegemenischaft die Übernahme von
Pflichten ab. Deshalb stellt die nichteheliche Lebensgemeinschaft als solche
keine Rechtsgemeinschaft dar». Nello stesso senso in dottrina v. Schlüter e Belling, Die
nichteheliche Lebensgemeinschaft und ihre vermögensrechtliche Abwicklung,
in FamRZ, 1986, p. 409; Diederichsen, Rechtsprobleme der nichtehelichen Lebensgemeinschaft, in FamRZ, 1988, p. 894. La costruzione di
uno stillschweigend abgeschlossener
Kooperationsvertrag di cui a OLG Hamm, 28 gennaio 1983, in FamRZ, 1983, p. 494, è invece rimasta
isolata.
[28] L’argomento è stato sviluppato
in Oberto, Il regime di separazione dei
beni tra coniugi. Artt. 215-219, cit., p.
339 ss. Per una decisione di merito che fa applicazione di tali principi alla
famiglia di fatto cfr. App. Genova, 17 novembre 2007, in Leggi d’Italia professionale, archivio Corti di merito. La decisione, ribaltando la sentenza di primo
grado, che aveva dichiarato la ex convivente comproprietaria dell’immobile
acquistato dal solo compagno durante il ménage,
con denaro anche della donna, ha affermato doversi rilevare «che l’accertamento
che il compratore effettivo sia persona diversa da quella indicata nel contratto
(come nella specie era stato appunto addotto) comporta l’applicazione della
normativa sulla simulazione, con la conseguenza che la domanda rivolta ad
ottenere la dichiarazione di nullità per simulazione relativa (interposizione
fittizia) di un contratto di vendita immobiliare non può essere accolta ove
l’accordo simulatorio non risulti per atto scritto a norma dell’art. 1350 c.c. (cfr.
Cass., 3937/1977; 13459/2006; 21111/2004), e ciò anche tra coniugi (Cass.,
1482/1995); - nel caso in esame, tuttavia, non risulta formulata dalle parti
alcuna domanda di tal genere, né addotta alcuna prova di accordo simulatorio al
fine della dimostrazione del negozio dissimulato, né tantomeno risulta
effettuata la produzione in giudizio di alcun atto contenente la controdichiarazione
sottoscritta dalle parti o comunque dalla parte contro la quale è esibita (cfr.
Cass., 12487/2007; 21111/2004), sicché, in difetto dei requisiti richiesti
dalla legge per la prova del trasferimento immobiliare in capo alla L., le
domande da lei proposte debbono essere respinte». Entra invece,
inspiegabilmente, nel merito dell’accertamento della fonte dei versamenti (peraltro
per respingere, per difetto di prova, la rivendica dell’ex convivente che, nel
contraddittorio con l’erede della partner
defunta, asseriva aver integralmente pagato il prezzo dell’immobile acquistato
dal medesimo in comunione con la compagna e con questa per parti uguali
cointestato), Trib. Salerno, 21 giugno 2010, in Leggi d’Italia professionale, archivio Corti di merito.
[29]
Sull’inidoneità delle prestazioni di servizi a formare oggetto di donazione
cfr. Oberto, I diritti dei conviventi. Realtà e prospettive tra Italia ed Europa,
cit., p. 45 ss.
[30]
Cfr. in maniera particolare Lipp, Die nichteheliche Lebensgemeinschaft und das
bürgerliche Recht: eine dogmatisch-methodische Studie, in AcP, 1980, p. 597 ss. (il quale limita
peraltro l’applicabilità della teoria in esame ai soli negozi la cui esecuzione
sia ancora in corso all’atto dello scioglimento del legame); Schwab, Zivilrecht und nichteheliche Lebensgemeinschaft, in Die nichtheliche Lebensgemeinschaft,
Herausgegeben im Auftrag der Joachim Jungius-Gesellschaft der Wissenschaften
von Götz Landwehr, Göttingen, 1978, p. 66. In senso favorevole all’applicazione
della presupposizione alle prestazioni tra conviventi cfr. anche Hausmann, Nichteheliche Lebensgemeinschaften und Vermögensausgleich, München,
1989, p. 620 ss.; Grziwotz, Nichteheliche
Lebensgemeinschaft, München, 1999, p. 76 s. Per per una sentenza favorevole
all’applicazione della presupposizione al caso del contributo fornito da un
convivente all’altro in misura superiore al 50%, per l’acquisto di un bene
intestato ad entrambi in misura paritaria, cfr. BGH, 9 luglio 2008, disponibile alla pagina web seguente: http://www.recht-in.de/urteil/a_lang_leitsatz_xii_zr_39_06_bgh_urteil_145224.html.
Secondo la decisione, «Nach Beendigung einer nichtehelichen Lebensgemeinschaft
kommen wegen wesentlicher Beiträge eines Partners, mit denen ein Vermögenswert
von erheblicher wirtschaftlicher Bedeutung geschaffen wurde, nicht nur
gesellschafts-rechtliche Ausgleichsansprüche, sondern auch Ansprüche aus
ungerechtfertiger Bereicherung (§ 812 Abs. 1 Satz 2, 2. Alt. BGB) sowie nach
den Grundsätzen über den Wegfall der Geschäftsgrundlage in Betracht (Aufgabe
der bisherigen Rechtsprechung, vgl. etwa BGH Urteile vom 6. Oktober 2003 - II
ZR 63/02 - FamRZ 2004, 94 und vom 8. Juli 1996 - II ZR 193/95 - NJW-RR 1996,
1473 f.). Das kann auch dann der Fall sein, wenn die Partner Miteigentümer
einer Immobilie zu je ½ sind, der eine aber erheblich höhere Beiträge hierzu
geleistet hat als der andere». Da notare
che in motivazione si fa riferimento, ai fini dell’applicazione della presupposizione,
all’idea di un contratto di cooperazione giusfamiliare sui generis, ad instar di
quanto si ritiene accada tra coniugi.
[31]
L’applicazione della presupposizione viene invece, almeno di regola, esclusa
per le coppie sottoposte alla Zugewinngemeinschaft
(v. BGH, 3 dicembre 1975, in NJW,
1976, p. 328 e in BGHZ, 65, p. 320; BGH,
27 aprile 1977, in BGHZ, 68, p. 299; BGH,
26 novembre 1981, in BGHZ, 1982, p.
227), proprio perchè le regole del regime legale e del relativo procedimento di
Ausgleich in sede di scioglimento
sono ritenute costituire già di per sè una particolare estrinsecazione
normativa (eine spezielle gesetzliche
Ausprägung) dei principi sulla presupposizione.
[32] E
ciò sia in considerazione dell’assenza di un animus donandi, desunta dalla circostanza che l’acquisto era
servito «der Verwirklichung der ehelichen Lebensgemeinschaft», nonché del fatto
che comunque esisteva un contributo, seppure indiretto, da parte della moglie,
consistente nella prestazione di lavoro domestico: cfr. per esempio BGH,
7 gennaio 1972, in NJW, 1972, p. 580
e BGH, 26 novembre 1981, cit., che hanno escluso la natura di donazione
delle prestazioni consistenti, rispettivamente, nell’acquisto con denaro del
marito di titoli di credito cointestati e nell’acquisto di un bene immobile a
nome di entrambi, ma con assunzione del debito derivante dal mutuo bancario,
sia per il capitale che per gli interessi, da parte del solo marito.
[33]
La presupposizione viene, come noto, definita come quella circostanza esterna
che, pur senza essere espressamente prevista quale condizione sospensiva o
risolutiva del contratto, ne costituisce pur sempre un presupposto oggettivo.
In altri termini, si ritiene che determinate circostanze di fatto, estranee
alla volontà dei contraenti e non dedotte espressamente in condizione, abbiano
a tal punto determinato i contraenti a concludere quel certo negozio che
quest’ultimo non possa più ritenersi efficace qualora quei presupposti di fatto
vengano meno (cfr. Bianca, Diritto civile, III, Il contratto, Milano, 1984, p. 435 ss.).
Non è possibile in questa sede fornire sull’argomento
neppure una limitata panoramica delle opinioni dottrinali e dei precedenti
giurisprudenziali. Si vedano per tutti i lavori di Comporti, Rassegna di
dottrina e giurisprudenza sulla teoria della presupposizione, in Studi senesi, 1960, III, p. 492 ss.; Id., La
presupposizione nella dottrina e nella giurisprudenza italiane, in Giust. civ., 1985, II, 102 ss.; Pietrobon, L’errore nella dottrina del negozio giuridico, Padova, 1963, p. 505
ss.; Girino, voce Presupposizione, in Noviss.
Dig. it., XIII, Torino, 1966, p. 775 ss.; Cantelmo,
La presupposizione nella giurisprudenza
italiana, Milano, 1969; Roppo,
Orientamenti tradizionali e tenenze
recenti in tema di presupposizione, in Giur.
it., 1971, I, 1, c. 211; Bessone,
«Presupposizione» di eventi e circostanze
dell’adempimento, in Foro pad.,
1971, I, c. 806; Id., Orientamenti tradizionali e tendenze recenti
in tema di «presupposizione», in Giur.
it., 1972, I, 1, c. 211; Id., Adempimento e rischio contrattuale,
Milano, 1975, p. 63 ss.; Id., Rilevanza della presupposizione, le teorie
di Windscheid e di Oertmann, gli obiter dicta della giurisprudenza, in Foro
it., 1978, V, c. 281 ss.; Id.,
La finzione delle presupposizioni «comuni
ad entrambi i contraenti» e gli obiter dicta della giurisprudenza, in Riv.dir.
comm., 1978, II, p. 355; Perego,
La presupposizione come istituto
giurisprudenziale, in Riv. trim dir.
proc. civ., 1983, p. 735 ss.; Costanza,
La presupposizione nella giurisprudenza,
in Quadrimestre, 1984, p. 597 ss.
Per quanto concerne la giurisprudenza, va detto che la
Corte di Cassazione, dopo aver ammesso per la prima volta la presupposizione
nel 1932 (v. Cass., 15 febbraio 1932, n. 531, in Rep. Foro it., 1932, voce Obbligazioni e contratti, n. 57), ha
mostrato la sua piena adesione alla teoria in esame in un notevolissimo numero
di casi. Per i meno risalenti v. Cass., 6 luglio 1971, n. 2104, in Giur. it., 1973, I, 1, c. 282; Cass., 6
ottobre 1972, n. 2878, in Foro pad.,
1973, I, c. 361; Cass., 19 aprile 1974, n. 1080, in Foro it., 1975, I, c. 968; Cass., 17 maggio 1976, n. 1738, ivi, 1977, I, c. 2339; Cass., 6 dicembre
1974, n. 4070, in Rep. Foro it.,
1974, voce Contratto in genere, n.
172; Cass., 10 dicembre 1976, n. 4601, ivi,
1977, voce cit., n. 136; Cass., 8 luglio 1978, n. 3864, ivi, 1978, voce cit., n. 131; Cass., 24 gennaio 1980, n. 588, ivi, 1980, voce cit., n. 102; Cass., 9
maggio 1981, n. 3074, ivi, 1981, voce
cit., n. 194; Cass., 22 settembre 1981, n. 5168, in Foro it., 1982, I, c. 104; Cass., 9 febbraio 1985, n. 1064, in Mass. Giust. civ., 1985, c. 362; Cass.,
2 gennaio 1986, n. 20, ivi, 1986, c.
5; Cass., 15 maggio 1987, n. 4487, in Foro
pad., 1988, I, c. 399, e in Notiz.
giur. lav., 1988, p. 3; Cass., 15 dicembre 1987, n. 9272, in Foro it., 1988, I, c. 1579; Cass., 11
agosto 1990, n. 8200; Cass., 3 dicembre 1991, n. 12921; Cass., 23 gennaio 1992,
n. 728; Cass., 13 maggio 1993, n. 5460; Cass., 9 novembre 1994, n. 9304; Cass.,
5 gennaio 1995, n. 191; Cass., 28 gennaio 1995, n. 1040; Cass., 24 marzo 1998,
n. 3083; Cass., 21 novembre 2001, n. 14629; Cass., 9 dicembre 2002, n. 17534;
Cass., 23 settembre 2004, n. 19144; Cass., 29 settembre 2004, n. 19563; Cass.,
22 febbraio 2005, n. 3579; Cass., Sez. Un., 17 novembre 2005, n. 23242; Cass.,
11 marzo 2006, n. 5390, in Giust. civ.,
2006, I, p. 2331; in Contratti, 2006,
p. 1079, con nota di Ambrosoli;
Cass., 24 marzo 2006, n. 6631; Cass., 25 maggio 2007, n. 12235; Cass., 18
settembre 2009, n. 20245; Cass., 3 dicembre 2009, n. 25401.
[34] Cfr. BGH, 5 luglio 1974, in NJW, 1974, p. 2045; v. inoltre BGH,
8 luglio 1982, in BGHZ, 1984, p. 361 (in
relazione alla corresponsione di una somma di denaro da parte del marito per
l’acquisto della casa d’abitazione a nome della sola moglie). BGH, 29
maggio 1974, in NJW, 1974, p. 1554,
pur ammettendo in linea di principio l’assoggettamento delle prestazioni in
discorso ai principi della presupposizione, lo ha invece negato nella
fattispecie concreta. Per la giurisprudenza più recente cfr. BGH, 4 febbraio 1998, in FamRZ, 1998, p. 669, 670; BGH, 30 giugno 1999, in BGHZ, 142, p. 137, 150. In dottrina cfr. Graba, Das Familienheim bei Scheitern der Ehe,
in NJW, 1987, p. 1721 ss.; Heinle, Zwanzig Jahre „unbenannte Zuwendung“, in
FamRZ, 1992, p. 1256 ss.; Holzhauer, Schuld- und güterrechtlicher Ausgleich von
Zuwendungen unter Ehegatten, in BGHZ,
1982, p. 227 ss., in JuS, 1983, p.
830 ss.; Koch, Schulden und Scheidung, in FamRZ,
1994, p. 537 ss.; Kollhosser, Ehebezogene Zuwendungen und Schenkungen
unter Ehegatten, in NJW, 1994, p.
2313 ss.; Kotzur, Die Rechtsprechung zum Gesamtschuldnerausgleich unter Ehegatten, in
NJW, 1987, p. 817 ss.; Lipp, Ehegattenzuwendungen und Zugewinnausgleich, in JuS, 1993, p. 89 ss.; Pridik,
Zuwendungen unter Ehegatten,
in JA, 2004, p. 318 ss.; Waas, Zur Dogmatik der sogenannten „ehebezogenen
Zuwendungen“, in FamRZ, 2000, p.
453 ss.
[35] Cfr. supra, nel § precedente.
[36]
Cfr. BGH, 8 luglio 1982, cit. La decisione, enunciato il principio di
diritto, ha però lasciato aperto il problema della sussistenza nel caso di
specie di una pretesa in favore della parte attrice, affermando che la risposta
a tale interrogativo sarebbe dipesa dall’accertamento delle particolari
circostanze del caso, quali la durata del matrimonio, l’età delle parti, il
tipo e l’entità delle prestazioni eseguite, la misura dell’incremento
patrimoniale conseguitone, in relazione ai redditi e patrimoni reciproci.
Sull’argomento in esame e su quello, a esso in qualche modo collegato, della revocazione
delle donazioni tra coniugi per ingratitudine in caso di divorzio cfr. ancora Kühne, Schenkungen unter Ehegatten, insbesondere ihre Rückabwicklung nach der Scheidung, im deutschen
materiellen un internationalen
Privatrecht, in FamRZ, 1969, p. 371
ss. e, in giurisprudenza, BGH, 18 ottobre 1968, in FamRZ, 1969, p. 28 ss.; BGH, 22 novembre 1968, in FamRZ, 1969, p. 78; BGH, 15
febbraio 1966, in FamRZ, 1969, p.
409; BGH, 4 novembre 1987, in FamRZ,
1988, p. 481. Per la giurisprudenza più recente sul tema cfr. BGH, 4
febbraio 1998, in FamRZ, 1998, p. 669; v. inoltre Krause, Eheliches Güterrecht, al
sito web seguente: http://www.rak-freiburg.de/rak/fileadmin/dokumente/Referendare/Krause_Eheliches_Gueterrecht.pdf,
p. 50 ss.
[37] BGH, 13 luglio 1994, in BGHZ, 127, p. 48; in NJW, 1994, p. 2545, in JA 1995, p. 95.
[38]
Non è mancato infatti chi ha posto in dubbio la possibilità di estendere la sfera
di rilevanza dell’imprevisione al di là dei casi disciplinati dall’art. 1467
c.c.: cfr. Sacco e De Nova, Il contratto, in Trattato di
diritto privato diretto da Rescigno, 10, Torino, 1982, p. 335; nello stesso
senso v. anche qualche isolata pronunzia di legittimità, come per esempio
Cass., 6 maggio 1949, n. 1143, in Giur.
compl. Cass. civ., 1949, III, p. 471, che ha negato ogni rilievo alla
presupposizione invocata da un tale il quale, avendo venduto alla fidanzata del
figlio un immobile, richiedeva lo scioglimento del contratto per effetto della
mancata celebrazione del matrimonio. Contra,
nel senso che l’art. 1467 c.c. non esclude che vi possano essere altri casi di
presupposizione in relazione a situazioni non previste né prevedibili v. Bessone e D’Angelo, voce Presupposizione, in Enc. dir., XXXV, Milano, 1986, p. 341.
[39]
«Die Lehre vom Wegfall der Geschäftsgrundlage ist ... ein Mittel der
Vertragsanpassung und daher vom Ansatz her unanwendbar, wenn kein
Vertragsverhältnis besteht»: v. OLG
Hamm, 11 dicembre 1989, in FamRZ,
1990, p. 626, che ha escluso l’applicabilità dell’istituto della
presupposizione proprio al caso di spese effettuate da un partner per la costruzione di un immobile di proprietà dell’altro.
[40] Cfr. BGH, 8
luglio 1996, in NJW, 1996, p. 2727.
[41] Cfr. BGH, 25
settembre 1997, in NJW, 1997, p. 3371: «Geschäftsgrundlage sind nach
ständiger Rechtsprechung die bei Abschluß eines Vertrages zutage getretenen,
dem anderen Teil erkennbar gewordenen und von ihm nicht beanstandeten
Vorstellungen der einen Partei oder die gemeinsamen Vorstellungen beider
Parteien von dem Vorhandensein oder dem künftigen Eintritt bestimmter Umstände,
sofern der Geschäftswille der Parteien auf diesen Vorstellungen aufbaut …. Ein
solcher Vertrag liegt nicht in dem Umstand, daß zwei Partner sich zu einer
nichtehelichen Lebensgemeinschaft zusammenschließen. Regeln sie ihre
Beziehungen nicht besonders, so handelt es sich um einen rein tatsächlichen
Vorgang, der keine Rechtsgemeinschaft begründet».
[42]
La prima elaborazione della teoria della presupposizione è dovuta a Windscheid (cfr. Die Lehre des römischen Rechts von der Voraussetzung, Düsseldorf,
1850, p. 1 ss.; Id., Lehrbuch des Pandektenrechts, I,
Frankfurt a. M., 1882, p. 282 ss.), ad avviso del quale già il diritto romano avrebbe
riconosciuto la rilevanza della unentwickelte
Bedingung, attribuendo al soggetto interessato a eccepire l’evento in essa
dedotto l’exceptio doli. L’idea venne
poi ripresa e compiutamente sviluppata da Oertmann
(Die Geschäftsgrundlage. Ein neuer
Rechtsbegriff, Leipzig-Erlangen, 1921) e da Larenz
(Geschäftsgrundlage und
Vertragserfüllung, München und Berlin, 1963; Id., Lehrbuch des
Schuldrechts, I, München, 1987, p. 320 ss.), cui va anche imputato (come
sottolineano Bessone e D’Angelo, voce Presupposizione, cit., p. 326 ss.) il passaggio dalla iniziale
concezione soggettivistica a quella oggettivistica, attualmente prevalente.
[43]
Cass., 6 dicembre 1974, n. 4070, cit.; Cass., 17 maggio 1976, n. 1738, cit.;
Cass., 9 maggio 1981, n. 3074, cit.; Cass., 15 aprile 1981, n. 2278, cit.;
Cass., 24 gennaio 1980, n. 588, cit.; Cass., 15 maggio 1987, n. 4487, cit.;
Cass., 15 dicembre 1987, n. 9272, cit.; App. Firenze, 26 aprile 1966, in Foro pad., 1968, I, c. 669; App. Napoli,
27 febbraio 1982, in C.E.D.- Corte di
cassazione, Archivio merito, p.d.
820931; cfr. inoltre Costanza, La presupposizione nella giurisprudenza,
cit., p. 605 s.
[44]
Per queste conclusioni cfr. già Oberto,
I regimi patrimoniali della famiglia di fatto, cit., p. 139 ss. In senso
conforme cfr. Derleder, Vermögenskonflikte
zwischen Lebensgefährten bei Auflösung ihrer Gemeinschaft, in NJW,
1980, p. 548, il quale nota come «mit der Auflösung der ehelosen Verbindung
sehr viel eher gerechnet werden muß, als Ehegatten mit der Eheauflösung rechnen
müssen». Anche del Prato, Patti
di convivenza, in Familia, 2002, p. 978, sembra voler contestare
l’applicabilità del rimedio in esame alla convivenza more uxorio. Contra
Trib. Savona, 7 marzo 2001, in Fam. dir., 2001, p. 529, con nota di Dogliotti, che, in relazione ad un
contratto di usufrutto vitalizio su di un immobile, esclusa la natura donativa
dell’attribuzione, ha ammesso (peraltro solo in obiter) la possibilità per il nudo
proprietario di far valere la presupposizione, con conseguente risoluzione del
contratto, una volta venuta meno la convivenza. Per una critica a tale ultima
decisione cfr. Oberto, I diritti dei conviventi. Realtà e
prospettive tra Italia ed Europa, cit., p. 176 s.
[45] Così invece Grziwotz,
op. cit., p. 76 s.
[46] Sul punto cfr. Oberto,
I regimi patrimoniali della famiglia di fatto, cit., p. 73 s.
[47] Cfr. Mysingeri, Apotelesma, sive corpus
perfecuts scholiorum ad quatuor libros institutionum iuris civilis,
Venetiis, 1569, p. 38.
[48] Cfr. Cass., 22 aprile 2010, n. 9541.
[49] Cass., 13 marzo 2013, n. 6295.
[50] Cfr. Cass., 7 aprile 2009, n. 8386.
[51] Trib. Vicenza, 28 settembre 2010, in Leggi d’Italia professionale, archivio Corti di merito.
[52] Cfr. Cass., 24 maggio 2012, n. 8216.
[53] Cass., 13 maggio 1980, n. 3147, in Giust. civ., 1980, I, p. 2515.
[54] Cfr. Trib. Firenze, 12 febbraio 2000 (inedita, n.
594/2000, in procedimento n. 15/1997 R.G., A. c/ M.), su cui v. in dettaglio
già Oberto, Le prestazioni lavorative del convivente more uxorio, cit., p. 93
s. e ora anche Id., I diritti dei conviventi. Realtà e prospettive
tra Italia ed Europa, cit., p. 55 s.
[55] Cfr. al riguardo Cass., 27 ottobre 1972, in Foro it., 1973, I, c. 1878; in Giust. civ., 1973, I, p. 221; ivi, 1974, I, p. 173, con nota di Bergamini, Appunti sull’autonomia dei coniugi di disporre l’assetto dei loro
rapporti patrimoniali in concomitanza della separazione consensuale ed in vista
di un futuro divorzio; in Giur. it.,
1974, I, 1, c. 810; in Dir. fam. pers.,
1973, p. 60; in Riv. notar., 1973,
II, p. 495; Cass., 11 maggio 1984 , in Giust.
civ. Mass. 1984; Cass., 21 dicembre 1987, in Riv. dir. civ. 1989, II, p. 233; in Riv. notar. 1989, p. 210; in Giust.
civ. 1988, I, p. 1237; Cass., 23 dicembre 1988, in Giur. it., 1989, I, 1, c. 1320; Cass., 17 giugno 1992, in Dir. fam. pers., 1993, p. 70; App. Torino,
9 maggio 1980, in Giur. it., 1981, I,
2, c. 19; per una disamina più approfondita delle varie questioni e per
l’individuazione della causa delle attribuzioni qui ricordate si fa rinvio per
tutti a Oberto, I contratti
della crisi coniugale, I, Milano, 1999, p. 634 ss.
[56] Significativo è il caso risolto da Cass., 14 gennaio
2010, n. 468, secondo cui «La possibilità che costituisca donazione indiretta
l’atto di cointestazione, con firma e disponibilità disgiunte, di una somma di
denaro depositata presso un istituto di credito – qualora la predetta somma,
all’atto della cointestazione, risulti essere appartenuta a uno solo dei
contestatari può essere qualificato come donazione indiretta solo quando sia
verificata l’esistenza dell’animus donandi, consistente nell’accertamento
che il proprietario del denaro non aveva, nel momento della cointestazione,
altro scopo che quello della liberalità. (Nella specie il giudice di appello
aveva escluso l’esistenza dell’animus
donandi non ravvisabile in astratto
nella delegata da parte del titolare di un conto corrente a terzi per operare
sul conto medesimo e sul deposito titoli, ancorché senza obbligo di rendiconto,
essendo la delega stata conferita in occasione del ricovero del delegante in
ospedale a distanza di meno di un mese della morte e ciò – aveva sottolineato
il giudice a quo – per l’evidente
ragione che non avrebbe più potuto effettuare operazioni bancarie per le sue
gravi condizioni di salute. In applicazione del principio di cui sopra la
Suprema Corte ha confermato sul punto la pronuncia di merito)».
[57] A meno che, ovviamente, lo stesso autore
dell’attribuzione non sia così sprovveduto, come nel caso di cui alla decisione
qui in commento, da ammettere la presenza di una liberalità, così rendendo sostanzialmente
irrevocabile l’attribuzione effettuata.
[58] Cfr. Oberto,
I regimi patrimoniali della famiglia di
fatto, cit., p. 130 ss.; Id., Le prestazioni lavorative del convivente
more uxorio, cit., p. 73 ss.; Id.,
I diritti dei conviventi. Realtà e prospettive
tra Italia ed Europa, cit., p. 72 ss., nonché, per i coniugi in regime di
separazione dei beni, Id., Il regime
di separazione dei beni tra coniugi. Artt. 215-219, cit., p. 347 ss.
[59]
L’attribuzione è infatti stata eseguita sulla base dell’affidamento, noto alla
controparte, o comunque da questa conoscibile, che del bene conseguentemente
acquistato entrambi avrebbero usufruito.
[60]
Sempre che, naturalmente, il negozio non sia qualificabile alla stregua di una
donazione e di questa siano stati rispettati i requisiti formali.
[61]
In giurisprudenza un’apertura verso tale soluzione sembra rinvenibile in Cass.,
5 dicembre 1970, n. 2565: «Nel caso di mandato senza rappresentanza ad
acquistare beni immobili nullo per mancanza della forma scritta richiesta ad substantiam, colui che ha conferito
l’incarico non può rivendicare il bene acquistato dal mandatario e neppure può
agire contro di questi per il risarcimento dei danni conseguenti al mancato
ritrasferimento, in quanto non è sorto l’obbligo alla prestazione sostitutiva
di quella dedotta in contratto. Compete al mandante, in tal caso, solo il
diritto di ripetere dal mandatario ciò che gli ha prestato per la esecuzione
del mandato, in base alle norme sul pagamento dell’indebito».
[62] Cfr. Oberto,
I diritti dei conviventi. Realtà e
prospettive tra Italia ed Europa, cit., p. 45 ss., 54 ss.
[63] Cfr. Oberto,
I diritti dei conviventi. Realtà e
prospettive tra Italia ed Europa, cit., p. 41 ss., 54 ss.
[64] Cfr. App. Genova, 26 marzo 2001, in Leggi d’Italia professionale, archivio Corti di merito.
[65] L’appellante aveva, per l’appunto agito per la
ripetizione delle somme versate per l’acquisto e la ristrutturazione
dell’alloggio che la ex convivente si era all’epoca intestato. La corte ha
invece ritenuto «infondata … la pretesa riconvenzionale della [ex convivente],
di vedersi riconosciute prestazioni per vitto e alloggio, stante quanto si è
premesso sull’applicabilità dell’art. 2034 c.c. alle prestazioni di siffatta
natura tra ex conviventi» (potrà aggiungersi, per la cronaca, che il relativo
procedimento di cassazione è stato dichiarato estinto per riununzia agli atti
con ordinanza della Corte Suprema in data 7 ottobre 2005, n. 19520).