CASSAZIONE CIVILE, sez. II, sent. 25 marzo 2013,
n. 7480 - Pres. Oddo - Rel. Mazzacane
Convivenza more uxorio – Acquisto di un immobile operato da entrambi i
conviventi con denaro della sola donna – Donazione indiretta – Configurabilità – Mancato rispetto
della forma solenne prevista per le donazioni – Irrilevanza – Provenienza del denaro da attività di
prostituzione esercitata dalla donna – Rilevanza di tale situazione in relazione ad una possibile ripetibilità
dell’attribuzione liberale così effettuata – Esclusione.
(C.c. artt. 782, 809, 1343, 1418; l.notar. art. 48; l. 28 febbraio 1958,
n. 75, art. 3)
L’attribuzione patrimoniale effettuata dalla
convivente che, nel corso della relazione paramatrimoniale, ha proceduto all’acquisto
di un immobile in comunione con il partner
per quote uguali, pur avendo sborsato l’intero prezzo per l’acquisto, è
qualificabile alla stregua di una donazione indiretta della quota dell’immobile
stesso. Tale liberalità è valida malgrado il mancato rispetto delle forme
solenni previste per la donazione, inapplicabili alla donazione indiretta.
Nessuna forma d’invalidità è poi riconducibile al fatto che il denaro impiegato
per l’acquisto fosse stato conseguito dalla donna quale provento della sua
attività di prostituta, atteso che tale profilo attiene ad una fase pregressa
rispetto alla donazione, che è invece frutto dello spirito di liberalità con il
quale la donna aveva inteso arricchire il suo convivente.
ORIENTAMENTI GIURISPRUDENZIALI |
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Conformi |
Sulla ravvisabilità della liberalità indiretta nel caso del pagamento del prezzo per l’acquisto di un bene effettuato da un terzo, tra le decisioni più recenti: Cass., 31 gennaio 1989, n. 596; Cass., 6 maggio 1991, n. 4986; Cass., Sez. Un., 5 agosto 1992, n. 9282; Cass., 8 febbraio 1994, n. 1257; Cass., 22 giugno 1994, n. 5989; Cass., 29 maggio 1998, n. 5310; Cass., 22 settembre 2000, n. 12563; Cass., 6 aprile 2001, n. 5122; Cass., 26 agosto 2002, n. 12486. Sulla forma della liberalità indiretta, tra le decisioni più recenti: Cass., 10 aprile 1999, n. 3499; Cass., 21 gennaio 2000, n. 642; Cass., 29 marzo 2001, n. 4623; Cass., 16 marzo 2004, n. 5333; Cass., 3 novembre 2009, n. 23297; Cass., 17 novembre 2010, n. 23215. |
Difformi |
Non si rinvengono specifici precedenti difformi |
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Omissis ...
Con atto di citazione del 9-12-1986 L.R. quale erede di D.R. [erroneamente indicato in sentenza come D.T.: n.d.a.] conveniva in giudizio dinanzi al Tribunale di Roma C.D.G. chiedendo lo scioglimento della comunione esistente tra le parti sull’appartamento sito in (omissis), e la condanna della convenuta alla corresponsione in proprio favore della metà del valore di un preteso fitto da calcolare in base alla normativa sull’equo canone.
L’attrice asseriva che il suddetto immobile era stato acquistato da D.R. insieme alla D.G. allorché i due erano conviventi, e che il proprio diritto di comproprietà su di esso le era pervenuto per successione “mortis causa”.
Costituendosi in giudizio la convenuta eccepiva di aver acquistato il suddetto bene, all’epoca consistente in una soffitta abusiva priva di servizi ed abitabilità, esclusivamente con denaro proprio, non avendo il R. [erroneamente indicato in sentenza come T.: n.d.a.] alcuna disponibilità economica; aggiungeva di aver provveduto personalmente alla trasformazione della soffitta in appartamento e, sempre con denaro proprio, di aver pagato la sanatoria dell’abuso edilizio; deduceva che la cointestazione al R. per ragioni sentimentali dell’immobile doveva comunque essere qualificata una donazione nulla per non essere stata redatta alla presenza di testimoni come richiesto dagli artt. 47-48 della L. 16-12-1913 n. 89 ed in difetto del consenso del beneficiario, e per illiceità del motivo della supposta accettazione sanzionato dall’art. 3 della L 28-2-1958 n. 75; la D.G. chiedeva quindi il rigetto delle domande attrici ed in via riconvenzionale l’accertamento della sua esclusiva proprietà in ordine al predetto immobile, ed in subordine del suo diritto all’incremento di valore conseguito dall’appartamento a seguito della trasformazione e del successivo condono.
Il Tribunale adito con sentenza del 13-8-1999 respingeva la domanda riconvenzionale della D.G., dichiarava aperta la successione di D.R., dichiarava che l’eredità era costituita dalla quota di 1/2 del predetto appartamento, dichiarava che tale quota si era devoluta per successione in favore dell’attrice, disponeva lo scioglimento della comunione, disponeva la vendita dell’immobile al pubblico incanto al prezzo di lire 107.000.000 con attribuzione del ricavato in ragione di metà per ciascuna delle parti, disponeva con separata ordinanza le modalità della vendita, accertava il diritto della D.G. a percepire dalla R. la somma di lire 5.000.000 quale incremento di valore dell’immobile, condannava la D.G. al pagamento in favore della R. della somma di lire 11.400.500 quale quota parte dei frutti civili relativi al godimento del bene oltre interessi legali e respingeva la domanda della convenuta per il rimborso degli oneri condominiali.
Proposto gravame da parte della D.G. cui resisteva la R. la Corte di Appello di Roma con sentenza del 7-2-2006 ha rigettato l’impugnazione.
Per la cassazione di tale sentenza la D.G. ha proposto un ricorso affidato a cinque motivi; la R. non ha svolto attività difensiva in questa sede.
Motivi della decisione
Con il primo motivo la ricorrente, deducendo violazione degli artt. 115 e 166 c.p.c., 2697-1100-936 e 713 c.c. nonché vizio di motivazione, assume che l’oggetto della controversia era costituito dallo scioglimento di una comunione ordinaria dove era necessario preliminarmente accertare se la quota del bene in contestazione fosse validamente entrata nel patrimonio del defunto del quale la controparte si dichiarava erede; spettava quindi alla R. provare sia la sua qualità di erede, sia il fatto che la quota del bene suddetta fosse entrata nel patrimonio del defunto; in ogni caso l’incremento di valore (e non soltanto il rimborso dei costi) doveva essere accreditato per intero all’esponente.
La ricorrente sostiene che vi era prova documentale in atti di aver corrisposto interamente il prezzo di acquisto dell’appartamento in questione, ed aggiunge che solo in sede della stipula notarile del 27-5-1981 l’esponente aveva consentito che il bene venisse cointestato al R.
Con il secondo motivo la D.G., denunciando violazione degli artt. 115 e 116 c.p.c., 2697 secondo comma c.c. e vizio di motivazione, censura la sentenza impugnata per aver ritenuto non provato l’acquisto dell’immobile per cui è causa da parte dell’esponente esclusivamente con denaro proprio, laddove sulla base delle prove testimoniali era emersa inconfutabilmente la circostanza che D.R. non lavorava e che si era confessato debitore della D.G. stessa, secondo le dichiarazioni del teste B.; né in senso contrario poteva attribuirsi rilievo all’esito dell’interrogatorio formale reso dalla stessa L.R.
Con il terzo motivo la ricorrente, denunciando violazione degli artt. 115-116 e 213 c.p.c. e vizio di motivazione, assume che erroneamente la Corte territoriale ha ritenuto irrilevante l’indagine circa l’appartenenza dei fondi, la traenza e l’incasso degli assegni occorsi per l’acquisto dell’immobile per cui è causa considerandola in contrasto con la tesi dell’appellante circa l’esistenza di una donazione in favore del R.; in realtà proprio dalla completezza della prova in ordine alla totale appartenenza alla D.G. delle somme spese per l’acquisto del bene, per la sua trasformazione e per il condono si confermava la donazione di esso in favore del R.
Con il quarto motivo la D.G., deducendo violazione degli artt. 115 e 116 c.p.c., 2697-1418-1343 e 2035 c.c., 185 c.p., 3 L. 28-2-1958 n. 75 e vizio di motivazione, rileva come fatto provato dalle deposizioni dei testi assunti che l’esponente traeva i propri guadagni dal fatto che si accompagnava con uomini che la retribuivano per tale compagnia, e che questa attività veniva svolta con il consenso del convivente R.; pertanto quest’ultimo, quale beneficiario e sfruttatore dei guadagni della D.G., aveva posto in essere un comportamento costituente reato e dunque “contra legem”, e ed era quindi tenuto alla restituzione delle somme provenienti da tale attività; invece il giudice di appello aveva ignorato tali risultanze ed aveva stravolto il principio di diritto in tema di negozio nullo per illiceità della causa.
Le enunciate censure, da esaminare contestualmente per ragioni di connessione, sono infondate.
La Corte territoriale, premesso che la stessa D.G. aveva dedotto di aver effettuato una donazione in favore del R. (da intendersi avente ad oggetto il denaro corrispondente alla metà del prezzo dell’immobile per cui è causa, donazione della quale l’appellante chiedeva dichiararsi la nullità per illiceità della causa, trattandosi di denaro proveniente da attività svolta “contra bonos mores”), ha ritenuto che, anche qualora la provenienza del denaro e la consapevolezza della medesima da parte del R. potessero ritenersi provate, l’accertata illiceità della causa e la conseguente nullità del negozio avrebbero escluso la possibilità per l’appellante di chiedere la rimozione degli effetti del medesimo, ed in particolare la ripetizione del denaro donato o la restituzione del bene con esso conseguito alla stregua del principio “in pari causa turpitudinis melior est condicio possidendi”.
Il Collegio ritiene che tale motivazione sia erronea, ma che il dispositivo sia conforme al diritto, con la conseguenza che in questa sede occorre soltanto correggere la motivazione stessa ai sensi dell’art. 384 ultimo comma c.p.c.
Premesso che non risulta essere stato oggetto di contestazione almeno in grado di appello il fatto che L.R. fosse erede di D.R. , si osserva che, secondo la stessa prospettazione dell’attuale ricorrente, l’intestazione in favore del R. di una quota pari alla metà dell’immobile predetto al momento dell’acquisto del bene per cui è causa da parte della D.G. doveva essere qualificata una donazione; se questo è quindi il negozio che giustifica l’acquisto da parte del R. della quota dell’immobile stesso, non appare fondata la tesi della ricorrente in ordine alla pretesa nullità di tale donazione indiretta per illiceità della causa; infatti il fatto che il denaro impiegato per l’acquisto del bene provenisse dalla attività di prostituzione della D.G. è ininfluente al riguardo in quanto attinente ad una fase pregressa rispetto alla donazione, che in effetti è stato il frutto dello spirito di liberalità con il quale l’attuale ricorrente intese beneficare il R. [erroneamente indicato in sentenza come T.: n.d.a.], all’epoca suo convivente; al riguardo è irrilevante la circostanza che quest’ultimo traesse dei guadagni dall’attività di meretricio della D.G. una volta che resta incontestato, ed anzi è stato dedotto dalla stessa ricorrente, che essa con l’intestazione al R. [erroneamente indicato in sentenza come T.: n.d.a.] della metà dell’immobile acquistato aveva voluto effettuare una donazione di tale quota in favore di quest’ultimo, da ricondurre quindi ad un atto di piena autonomia negoziale; il riferimento generico quindi all’attività del R. [erroneamente indicato in sentenza come T.: n.d.a.] di sfruttamento della prostituzione è irrilevante rispetto a questo specifico atto di donazione, oggetto semplicemente di accettazione da parte di quest’ultimo.
Con il quinto motivo la ricorrente, denunciando violazione degli artt. 115 e 116 c.p.c., 782 c.c., 47 e 48 L. 16-12-1913 n. 89 nonché vizio di motivazione, censura la sentenza impugnata per non aver ravvisato la nullità della suddetta donazione per difetto di forma, in assenza di testimoni.
La censura è infondata.
Premesso che nella fattispecie ricorre una donazione indiretta, ovvero l’acquisto di un immobile posto in essere per spirito di liberalità per quanto riguarda l’intestazione della quota parte di esso in favore del R. [erroneamente indicato in sentenza come T.: n.d.a.], acquisto che ha prodotto il medesimo effetto di una donazione contrattuale, è agevole rilevare che per la validità delle donazioni indirette non è richiesta la forma dell’atto pubblico, essendo sufficiente l’osservanza delle forme prescritte per il negozio tipico utilizzato per realizzare lo scopo di liberalità, dato che l’art. 809 c.c., nello stabilire le norme sulle donazioni applicabili agli altri atti di liberalità realizzati con negozi diversi da quelli previsti dall’art. 769 c.c., non richiama l’art. 782 c.c., che prescrive l’atto pubblico per la donazione (Cass. 29-3-2001 n. 4623; Cass. 16-3-2004 n. 5333).
Il ricorso deve quindi essere rigettato; non occorre emettere alcuna pronuncia sulle spese del presente giudizio, non avendo la parte intimata svolto attività difensiva in questa sede.
P.Q.M.
La
Corte rigetta il ricorso.