Giacomo Oberto

 

Giudice del Tribunale di Torino

Dottore di ricerca in diritto privato

Professore a contratto nell’Università di Torino

Segretario Generale dell’Unione Internazionale dei Magistrati

 

LA RACCOMANDAZIONE DEL CONSIGLIO D’EUROPA

SUL TEMA:

«INDIPENDENZA, EFFICIENZA E RESPONSABILITÀ DEI GIUDICI»

 

 

Sommario: 1. Considerazioni generali. Il contesto in cui si colloca la Raccomandazione ed i suoi tratti fondamentali. – 2. I Capitoli I), II) e III): profili generali; indipendenza esterna e indipendenza interna. – 3. I Capitoli IV), V) e VI): Consigli della Magistratura, efficienza e statuto del giudice. – 4. I Capitoli VII) e VIII): doveri, responsabilità e principi deontologici dei giudici.

 

 

 

1. Considerazioni generali. Il contesto in cui si colloca la Raccomandazione ed i suoi tratti fondamentali.

 

Il 23 ottobre 2008, su proposta della Direzione Generale dei Diritti Umani e Affari Giuridici, Comitato per la cooperazione legale (Directorate General on Human Rights and Legal Affairs - Committee on Legal Co-operation (CDCJ)), il Segretario Generale del Consiglio d’Europa decideva di costituire un «Group of Specialists on the Judiciary (CJ-S-JUD)». La commissione, composta da quindici esperti di diversi Paesi europei, tra cui lo scrivente, ricevette l’incarico di procedere all’elaborazione di una nuova versione della Raccomandazione Nr. R (94) 12, del Consiglio d’Europa, «sull’indipendenza, efficienza e ruolo dei giudici».

Nel dicembre 2009, al termine di un lavoro che si snodò nel corso d’un intero anno, il predetto comitato d’esperti provvide a finalizzare e a consegnare al Segretariato Generale la proposta di una nuova raccomandazione, dal titolo seguente: «Recommendation on Judges: Independence, Efficiency and Responsibilities». Il draft fu discusso in seno allo European Committee on Legal Co-operation (CDCJ), prima di passare al Comitato dei Ministri, che lo adottò il 17 novembre 2010, durante il 1098th meeting of the Ministers’ Deputies con alcune modifiche: nacque così la «Recommendation CM/Rec(2010)12 of the Committee of Ministers to Member States on Judges: Independence, Efficiency and Responsibilities».

Va innanzi tutto tenuto conto del fatto che la necessità di un nuovo strumento del Consiglio d’Europa in questo settore s’imponeva in considerazione del fatto che la Raccomandazione precedentemente in vigore, risalente al 1994, era ormai da tempo avvertita come bisognevole di aggiornamento, alla luce, da un lato, dell’accesso al Consiglio d’Europa di un consistente numero di nuovi Paesi del nostro Continente e, dall’altro, delle sempre più puntuali riflessioni svolte a livello internazionale sui temi attinenti all’indipendenza, allo status, alle diverse forme di responsabilità dei magistrati. Ciò anche sull’onda dell’approvazione, nell’ultimo decennio, di svariati documenti internazionali, molti dei quali promulgati sotto l’egida dello stesso Consiglio d’Europa: dalla Carta Europea sullo Statuto del Giudice, varata nel 1998, ai pareri del Consiglio Consultivo dei Giudici Europei (CCJE), ai rapporti e ai lavori della Commissione Europea sull’Efficacia della Giustizia (CEPEJ). Per non dire poi dell’attività svolta in tutti questi anni dallo stesso Consiglio d’Europa nei Paesi dell’Europa Centrale e Orientale, per assisterli, con svariate missioni di studio e di supporto, nella redazione di nuovi strumenti normativi, nonché nell’avvio della relativa attività di formazione iniziale e continua, anche attraverso il contributo fattivo alla creazione di Scuole, Accademie, Istituti e Centri di formazione per la magistratura al passo con i tempi e conformi agli standards internazionali sull’indipendenza del potere giudiziario.

Non potrà poi neppure tacersi il contributo prestato, in questo stesso periodo ed in questo medesimo settore, dall’Unione Internazionale dei Magistrati. Questa organizzazione, che ad oggi annovera ottanta membri (associazioni nazionali di magistrati dei cinque continenti, tra cui l’A.N.M.), tramite il suo Gruppo Regionale Europeo (l’Associazione Europea dei Magistrati), gode dello status di osservatore presso il CCJE e la CEPEJ (così come, del resto, accade per l’U.I.M. in relazione a determinati uffici delle Nazioni Unite). In tale veste essa ha partecipato con il MEDEL quale osservatore ai lavori della commissione CJ-S-JUD ed è più volte intervenuta nel corso degli ultimi quindici anni con l’elaborazione di documenti, risoluzioni, raccomandazioni, tanto a livello generale ed astratto, che con riguardo alle situazioni di singoli Paesi del nostro Continente.

Quanto sopra è del resto reso evidente dagli stessi consideranda della Raccomandazione del 2010, i quali citano expressis verbis le «Opinions of the Consultative Council of European Judges (CCJE)», così come «the work of the European Commission for the Efficiency of Justice (CEPEJ)» e la «European Charter on the statute for judges prepared within the framework of multilateral meetings of the Council of Europe».

Naturalmente, il punto di riferimento fondamentale – vero e proprio ubi consistam della Raccomandazione – continua ad essere il principio del diritto ad un «independent and impartial tribunal established by law», scolpito nell’art. 6 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali. Canone, questo, pure espressamente menzionato nel preambolo del nuovo strumento, unitamente alla considerazione per la quale la Raccomandazione del 1994 «needs to be substantially updated in order to reinforce all measures necessary to promote judges’ independence and efficiency, assure and make more effective their responsibility and strengthen the role of individual judges and the judiciary generally».

Il testo vero e proprio della Raccomandazione del 2010 s’articola nei seguenti otto distinti capitoli: I) Profili generali; II) Indipendenza esterna; III) Indipendenza interna; IV) Consigli della magistratura; V) Indipendenza, efficienza e risorse; VI) Status del giudice; VII) Doveri e responsabilità; VIII) Deontologia dei giudici.

Le principali novità, rispetto alla Raccomandazione del 1994 e, più in generale, rispetto alle altre dichiarazioni internazionali precedenti, possono essere, in poche parole, così riassunte: a) attribuzione di rilievo autonomo al profilo dell’indipendenza interna, di cui viene, tra l’altro, fornita per la prima volta una definizione a livello di testo internazionale; b) riconoscimento dell’essenzialità, nella tutela dell’indipendenza della magistratura, del ruolo svolto da organi quali il Consiglio Superiore della Magistratura, o il Consiglio di Giustizia, o il Consiglio Giudiziario, o simili, esistenti ormai in svariate realtà del nostro Continente; c) enfatizzazione del principio di inamovibilità ed esplicita condanna della pratica (conosciuta da alcuni sistemi) delle «prime nomine temporanee» (seguite, a distanza di alcuni anni, da apposite reappointment procedures); d) attribuzione di un ruolo determinante alla formazione (iniziale e continua) della magistratura; e) corretta enfatizzazione dell’efficienza (di cui viene fornita, anche qui per la prima volta in un documento internazionale, una precisa ed esaustiva definizione) dell’operato della magistratura; f) enucleazione di un autonomo capitolo sulla deontologia professionale, nell’ambito del quale trova acconcia collocazione la questione dei c.d. «codici etici».

 

 

2. I Capitoli I), II) e III): profili generali; indipendenza esterna e indipendenza interna.

 

Passando ad una rapida illustrazione di ciascuno dei citati capitoli, va innanzi tutto sottolineato come il primo, relativo ai profili di carattere generale, si occupi di definire il campo di applicazione della Raccomandazione, chiarendo come la stessa sia «applicabile a tutte le persone che esercitano funzioni giudiziarie, ivi comprese quelle concernenti questioni costituzionali» (art. 1). Lo strumento sarà inoltre applicabile, in linea di massima, anche ai «giudici non professionali, ad eccezione di quelle disposizioni in cui appaia chiaro dal contesto delle norme in questione che queste trovano applicazione soltanto ai giudici professionali» (art. 2). Nonostante chi scrive si sia strenuamente battuto (unitamente agli altri giudici membri – del tutto minoritari – di una commissione costituita per lo più da alti funzionari ministeriali) per l’estensione della Raccomandazione anche ai magistrati del Pubblico Ministero, essa sarà applicabile esclusivamente ai giudici, essendo sfortunatamente prevalsa nel comitato d’esperti l’interpretazione riduttiva del citato art. 6 della Convenzione, che limita l’espressione «Tribunal» al solo personale giudicante degli uffici giudiziari, senza peraltro tenere conto che, ben consapevole del fatto che una giustizia perfettamente indipendente presuppone necessariamente anche una pubblica accusa indipendente, lo stesso Consiglio d’Europa si è sentito in dovere, già da diversi anni, di affiancare ad un Consiglio consultivo dei giudici un Consiglio consultivo dei pubblici ministeri.

La Raccomandazione si volge quindi a fornire una definizione del concetto di «Judicial Independence», alla stregua di un «fundamental right, laid down in Article 6 of the Convention», soggiungendo peraltro subito che il suo scopo è quello di garantire ad ogni persona il diritto «to have their case decided in a fair trial, on legal grounds only and without any improper influence» (art. 3). Le rimanenti disposizioni del Capitolo I) si preoccupano poi di fissare altri principi-cardine, tra cui quello secondo il quale l’indipendenza della magistratura dovrebbe essere consacrata a livello costituzionale o, comunque, al più alto livello possibile della legislazione dei singoli Stati membri (art. 7), precisando anche che, laddove i giudici considerano che la loro indipendenza sia in pericolo, essi dovrebbero poter «have recourse to a council for the judiciary or another independent authority, or they should have effective means of remedy» (art. 8): il che è esattamente quanto, ad esempio, accade presso il C.S.M. italiano in relazione alle c.d. «pratiche a tutela». L’Explanatory Memorandum chiarisce poi sul punto (e trattasi di argomento sul quale lo scrivente ha molto insistito in sede di lavori preparatori) che tra gli altri «effective means of remedy» un ruolo fondamentale è svolto nei sistemi di Common Law dall’istituto del Contempt of Court, tramite il quale i giudici britannici sono in grado di «autoproteggersi» efficacemente da ogni forma di ingerenza esterna (cfr. art. 21 del citato Memorandum, secondo cui The Recommendation calls for all necessary measures to be taken to protect and promote the independence of judges. These measures could include laws such as the “contempt of court” provisions that already exist in some member states (Recommendation, paragraph 13)».

 

Il Capitolo II), dedicato all’indipendenza esterna, s’apre con una disposizione (art. 11), il cui compito è quello di chiarire che tale indipendenza non è una «prerogative or privilege granted in judges’ own interest», poiché trattasi di presidio «in the interest of the rule of law and of persons seeking and expecting impartial justice». Segue il principio secondo cui la legge dovrebbe prevedere sanzioni nei confronti di chiunque tenti di esercitare indebite influenze sui giudici (art. 14). 

Un altro tema affrontato da tale Capitolo (cfr. art. 18) attiene alle critiche svolte nei confronti delle decisioni di giustizia. Sul punto si specifica che i poteri legislativo ed esecutivo dovrebbero evitare critiche tali da minare l’indipendenza della magistratura, ovvero la pubblica fiducia nel potere giudiziario. Essi dovrebbero inoltre evitare ogni azione (fatta salva l’esternazione dell’intenzione di esercitare il diritto d’impugnazione) in grado di porre in dubbio la loro determinazione di conformarsi alle sentenze emesse dall’autorità giudiziaria. Anche il diritto all’informazione (art. 19) dovrebbe essere esercitato tenendo conto dei limiti imposti dall’indipendenza della magistratura. In tale contesto, la raccomandazione incoraggia la creazione di organi, all’interno degli uffici giudiziari, incaricati di intrattenere le relazioni con i mezzi d’informazione. D’altro canto, i giudici dovrebbero dare prova di riserbo nei loro rapporti con i media.

 

Il Capitolo III), come detto, s’occupa dell’indipendenza interna, definendola come l’indipendenza di ogni singolo giudice nell’esercizio delle sue funzioni giudiziarie (art. 22). Avuto riguardo ai sempre latenti rigurgiti – cui non sono purtroppo estranei ampi settori dello stesso potere giudiziario – di pericolose impostazioni favorevoli ad un inquadramento stratificato e verticistico di un potere che, tutto al contrario, è per definizione e deve rimanere «diffuso», fondamentale appare la regola secondo cui «Hierarchical judicial organisation should not undermine individual independence» (cfr. art. 22). Principio, questo, assai vicino a quello, pure espressamente consacrato, per cui le corti superiori non possono indirizzare istruzioni ai giudici «inferiori» sul modo in cui le controversie vanno decise (art. 23).

Una specifica disposizione fa poi salvo il diritto dei magistrati di formare e di iscriversi a organizzazioni professionali, i cui obiettivi siano quelli di salvaguardare l’indipendenza dei giudici, proteggere i loro interessi e promuovere le regole dello stato di diritto (art. 25).

 

 

3.  I Capitoli IV), V) e VI): Consigli della Magistratura, efficienza e statuto del giudice.

 

Ai Consigli della Magistratura è dedicato il Capitolo IV), il quale s’apre con l’affermazione per cui tali organi d’autogoverno «mirano a salvaguardare l’indipendenza della magistratura e dei singoli giudici e pertanto tendono a promuovere l’efficiente funzionamento del sistema giudiziario» (art. 26). Una constatazione, questa, dalla quale appare più che legittimo dedurre una netta manifestazione di favore del Consiglio d’Europa per lo stabilimento di siffatti organismi anche nei Paesi che ancora non li conoscono. Sarà opportuno citare a questo punto un altro documento di estremo interesse, di provenienza, questa volta, dell’Assemblea Parlamentare del Consiglio d’Europa, la quale, in data 30 settembre 2009, ha approvato una risoluzione (cfr. la Resolution 1685 (2009), «Allegations of politically motivated abuses of the criminal justice system in Council of Europe member states»), che ha espressamente invitato – oltre tutto in termini assai perentori – la Germania a dotarsi di un Consiglio Superiore della Magistratura.

Un tema di scottante attualità in Europa, quale quello della composizione di questi organi, è affrontato con la prescrizione secondo cui essi dovrebbero essere composti per non meno della metà da giudici eletti dai loro pari «from all levels of the judiciary» e con il rispetto del pluralismo all’interno del potere giudiziario (art. 27). La regola riecheggia da vicino non solo la Carta Europea sullo Statuto del giudice del 1998, ma anche la già ricordata risoluzione dell’Assemblea Parlamentare del Consiglio d’Europa, la quale ha, tra l’altro, invitato la Francia a (cfr. il punto 5.3.4.) «consider restoring a majority of judges and prosecutors within the Conseil supérieur de la magistrature or ensuring that the members appointed by political bodies also include representatives of the opposition and making the Conseil supérieur de la magistrature’s opinion binding also for decisions concerning prosecutors».

Capitale il principio, secondo cui «nell’esercizio delle loro funzioni, i Consigli della Magistratura non dovrebbero interferire con l’indipendenza di ogni singolo giudice» (art. 29): monito, questo, lapidario, di grande interesse e rigorosa pertinenza per l’Italia, ove il C.S.M. è venuto assumendo un ruolo che, nel disperdersi in una miriade di funzioni anche di modesto o assolutamente trascurabile rilievo, rischia, da un lato, di paralizzarne l’attività e, dall’altro, di dar luogo a forme di eccessiva e pericolosa invadenza nei confronti di un corpo di magistrati troppo sovente e da troppi soggetti (fuori e dentro il C.S.M.) considerato come un insieme di persone ogni aspetto della vita delle quali dovrebbe essere capillarmente «gestito», o quanto meno «monitorato» dall’alto, quasi si trattasse di soggetti capite minuti.

 

Anche il successivo Capitolo V) contiene numerose e rilevanti disposizioni.

Si comincia con la definizione del concetto di «efficienza della magistratura», qualificata come la capacità di «rendere decisioni di qualità in un termine ragionevole» (art. 31). L’ «efficient management of cases» viene altresì espressamente considerato alla stregua dell’oggetto di un preciso dovere non soltanto delle autorità preposte al funzionamento del sistema giudiziario, ma anche di ogni singolo giudice (cfr. art. 31 cit.). Peraltro la Raccomandazione si preoccupa di specificare che l’efficienza deve comunque essere raggiunta «nel rispetto dell’indipendenza e dell’imparzialità dei giudici» (art. 32).

Parte essenziale di tale Capitolo è costituita dalla menzione del primario dovere degli Stati di porre al servizio della giustizia le risorse necessarie (art. 33), così come di promuovere il ricorso a metodi alternativi di soluzione delle controversie (art. 39) e di fare in modo che i Consigli della Magistratura e, più in generale, gli stessi uffici giudiziari, nonché le organizzazioni professionali dei magistrati abbiano la possibilità di esprimere il loro parere nel processo d’allestimento del bilancio per la giustizia (art. 40). Particolare attenzione è prestata a temi quali l’«electronic case management» e le «information communication technologies» (art. 37) o alla sicurezza dei giudici contro possibili atti di violenza (art. 38).

 

Il Capitolo VI) contempla lo statuto del giudice.

Qui trovano acconcia collocazione alcune disposizioni già presenti nella Raccomandazione del 1994 ed in particolare il riferimento alla necessità che tutte le decisioni concernenti la selezione e la carriera dei giudici siano basate su «objective criteria pre-established by law or by the competent authorities». I criteri sono così enumerati: «qualifications, skills and capacity required to adjudicate and apply the law while respecting human dignity» (art. 44). Pure in relazione all’autorità incaricata di assumere decisioni sul reclutamento e la carriera dei magistrati viene ripetuta la regola secondo cui tale organo dovrebbe essere composto per almeno la metà da giudici scelti dai loro pari e comunque essere indipendente dall’esecutivo e dal legislativo (art. 46). Anche laddove disposizioni di legge prescrivono che sia il Capo dello Stato, o il governo o il potere legislativo ad assumere decisioni in tale campo, il reclutamento dei giudici dovrebbe essere effettuato vuoi da un Consiglio della Magistratura, vuoi da un organo indipendente, composto «in substantial part from the judiciary»: siffatti organi dovrebbero poter emettere raccomandazioni che l’autorità preposta alla selezione dovrebbe in pratica (e automaticamente) seguire (art. 47). In ogni caso dovrebbe essere assicurato il diritto per i candidati di ricorrere contro una decisione di rigetto (art. 48).

L’inamovibilità costituisce un aspetto fondamentale dell’indipendenza dei giudici. Seguendo sul punto l’opinione N. 1 del CCJE (approvata nel 2001 sulla base di un progetto preliminare predisposto dallo scrivente, in qualità di esperto incaricato dal Consiglio d’Europa), la Raccomandazione chiaramente evidenzia come il concetto di «inamovibilità» sia qualcosa di ulteriore rispetto a quella che i giuristi di Common Law riduttivamente traducono con il termine tenure. Mentre infatti quest’ultima espressione denota il diritto di un giudice di conservare la propria carica sino al pensionamento (fatte salve, ovviamente, eventuali misure disciplinari, che nei sistemi di matrice anglosassone, a differenza che da noi, costituiscono eventi di assoluta rarità), l’inamovibilità pone il giudice al riparo dal rischio di essere trasferito «to another judicial office without consenting to it, except in cases of disciplinary sanctions or reform of the organisation of the judicial system» (cfr. art. 52).

Al tema, poi, del trattamento economico dei giudici sono dedicati tre articoli, che pongono correttamente in luce lo stretto legame che siffatto argomento presenta con la garanzia dell’indipendenza della magistratura. Così viene stabilito, tra l’altro, che la remunerazione dei giudici dovrebbe essere commisurata al tipo di professione da essi esercitata ed alle relative responsabilità, oltre che essere «sufficient to shield them from inducements aimed at influencing their decisions» (art. 54). Quanto mai rilevante (di fronte ad alcuni infelici esperimenti tentati da taluni governi europei negli ultimi anni) la disposizione (art. 55) che bandisce, siccome fonti di possibili «difficulties for the independence of judges», tutti i sistemi che pongano in collegamento «la remunerazione delle funzioni giudiziarie con il rendimento del lavoro».

Nonostante gli sforzi dello scrivente, in sede di lavori preparatori, per attribuire al tema della formazione un rilievo più esteso, la Raccomandazione contiene due soli articoli dedicati a questo argomento. Nondimeno appare chiaramente stabilito l’obbligo degli Stati di fornire ai giudici «theoretical and practical initial and in-service training, entirely funded by the State».

La recente storia della magistratura europea ha sperimentato i tentativi (falliti, per quanto attiene, quanto meno, all’Italia) di taluni governi di trasformare la Scuola della Magistratura in una sorta di «esamificio permanente» e di utilizzare la formazione continua alla stregua di una forma di valutazione dei giudici: valutazione cui, beninteso, nessun magistrato deve sottrarsi, ma che deve trovare idonea collocazione ed articolato espletamento nell’ambito di attività di tipo diverso dalla formazione, la quale è e deve restare, invece, espressione di un’esigenza e di una spontanea e libera aspirazione nascente dagli stessi «discenti». Per questo, l’art. 58 del Memorandum esplicativo contiene l’indicazione secondo cui «In-service training assessment should not be used as a form of integrated assessment of the judge». Questa conclusione è il frutto di un’attività di persuasione svolta in modo particolarmente insistente dallo scrivente in seno al gruppo d’esperti, sulla scorta, del resto, dell’autorevole avallo del parere reso dal CCJE nell’opinion N. 4 sul tema della formazione.

Un altro caposaldo della formazione dei magistrati viene poi consacrato dall’art. 57, a mente del quale la formazione iniziale e continua deve essere erogata da un’ «independent authority», incaricata di assicurare che «initial and in-service training programmes meet the requirements of openness, competence and impartiality inherent in judicial office».

Il Capitolo si chiude poi con il tema della valutazione professionale dei giudici, stabilendo che siffatta attività deve svolgersi alla luce (ancora una volta) di «objective criteria». Tali criteri dovrebbero essere resi pubblici dalle competenti autorità, mentre la procedura di valutazione dovrebbe comunque consentire ai giudici di esprimere il loro punto di vista sia sull’attività svolta, che sulla valutazione espressa dagli organi competenti, così come consentire loro di eventualmente impugnare i giudizi espressi «before an independent authority or a court» (art. 58).

 

 

4.  I Capitoli VII) e VIII): doveri, responsabilità e principi deontologici dei giudici.

 

Il Capitolo VII) ha poi ad oggetto doveri e responsabilità dei giudici.

Interessante al riguardo è l’enucleazione di una serie di doveri disciplinarmente rilevanti, ad instar di quanto effettuato nel corso della pluridecennale attività della Sezione Disciplinare del C.S.M. italiano e successivamente trasfusi in disposizioni legislative. Espressamente vengono menzionati doveri quali quello di dar prova di indipendenza ed imparzialità, e di agire ed apparire anche all’esterno come persone libere da «any improper external influence on the judicial proceedings» (art. 60). I giudici debbono inoltre astenersi dal decidere le controversie loro sottoposte nei casi (e solo in quelli) in cui l’astensione è prescritta dalle norme di procedura (art. 61). Anche il dovere di diligenza e di rispetto di un «reasonable time» viene posto correttamente in evidenza (art. 62), unitamente a quelli di motivare le loro decisioni «in language which is clear and comprehensible» e di incoraggiare le parti a raggiungere un accordo transattivo (art. 64). L’aggiornamento e la formazione professionali sono inoltre presi in considerazione alla stregua di precisi doveri di ogni giudice, nella formula secondo cui essi «should regularly update and develop their proficiency» (art. 65).

Sul versante delle procedure disciplinari la proposta pone correttamente in evidenza che l’attività di interpretazione della legge, la valutazione dei fatti e delle prove compiuta dai giudici non può dar luogo a responsabilità civile o disciplinare, ad eccezione dei casi di dolo o colpa grave (art. 66). D’altro canto, un’eventuale responsabilità del giudice non può aprire la via ad un’azione diretta del cittadino contro il giudice stesso, bensì ad un’azione di rivalsa dello Stato, nel caso di previa condanna di quest’ultimo (art. 67). La Raccomandazione impone, per la celebrazione dei processi disciplinari, il rispetto di una serie di garanzie: dalla attribuzione di tale competenza ad un’autorità indipendente o ad un tribunale, al diritto di proporre appello, alla necessaria proporzionalità tra violazione e sanzione (art. 69).

Fondamentale, infine, il principio secondo cui i giudici non possono essere ritenuti responsabili in caso di riforma o modifica delle loro decisioni da parte di una corte superiore (art. 70). Disposizione, questa, quanto mai opportuna, di fronte alla sempre latente tentazione di taluni magistrati d’appello d’impancarsi a novelle… «maestrine dalla penna rossa» (e… blu!), ritenendosi investiti di missioni quasi divine di «correzione» degli «errori» (che sovente altro non sono se non diversi punti di vista) dei primi giudici.

 

       Chiude la Raccomandazione il Capitolo VIII), dedicato all’etica giudiziaria.

Anche siffatto Capitolo è venuto a portare una novità di rilievo nel panorama dei documenti internazionali sulla magistratura. La redazione dei tre articoli che lo compongono è stata particolarmente laboriosa e costituisce il frutto di interminabili discussioni in cui la commissione d’esperti incaricati di redigere il progetto preliminare si è impelagata al fine di distinguere la deontologia dai doveri disciplinarmente rilevanti. Il tutto complicato dalla visione della questione prevalente nella parte orientale del nostro Continente, in cui, come noto, i codici di etica giudiziaria sono norme dotate di efficacia vincolante, la cui violazione determina sic et simpliciter responsabilità disciplinare. Alla fine è prevalso il punto di vista propugnato con vigore dallo scrivente, costituito dalla predisposizione di una norma di carattere generale (l’art. 72, nella specie), nella quale, dopo l’affermazione-cardine secondo cui «Judges should be guided in their activities by ethical principles of professional conduct» viene immediatamente inserita la «cerniera» rispetto alle regole disciplinari, concepita ed espressa nei termini seguenti: «These principles not only include duties sanctioned by disciplinary measures, but offer guidance to judges on how to conduct themselves».

In altre parole, l’idea che si è voluta rendere è che molti dei doveri etici dei magistrati sono anche (e prima ancora) doveri disciplinarmente rilevanti, ma che taluni doveri etici appartengono esclusivamente a tale categoria e, come tali, non possono dar luogo a responsabilità disciplinare. Un successivo articolo contiene poi un espresso richiamo ai codici deontologici («These principles should be laid down in codes of judicial ethics»), che hanno per scopo il rafforzamento della giustizia e della fiducia dei cittadini nei giudici rispetto all’elaborazione dei quali «judges should play a leading role» (art. 73).

L’articolo successivo, che conclude la Raccomandazione (art. 74), chiarisce che i giudici dovrebbero potersi rivolgere ad organi interni alla Magistratura al fine di ricevere consiglio su questioni attinenti all’etica professionale.

 

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