Giudice del Tribunale di Torino
Dottore di ricerca in diritto privato
Professore a contratto nell’Università di Torino
Segretario Generale dell’Unione Internazionale dei
Magistrati
LA RACCOMANDAZIONE DEL CONSIGLIO
D’EUROPA
SUL TEMA:
«INDIPENDENZA, EFFICIENZA E
RESPONSABILITÀ DEI GIUDICI»
Sommario: 1. Considerazioni generali. Il contesto in cui si colloca la Raccomandazione ed i suoi tratti fondamentali. – 2. I Capitoli I), II) e III): profili generali; indipendenza esterna e indipendenza interna. – 3. I Capitoli IV), V) e VI): Consigli della Magistratura, efficienza e statuto del giudice. – 4. I Capitoli VII) e VIII): doveri, responsabilità e principi deontologici dei giudici. |
Il 23 ottobre 2008, su proposta della Direzione
Generale dei Diritti Umani e Affari Giuridici, Comitato per la cooperazione
legale (Directorate General on Human
Rights and Legal Affairs - Committee on Legal Co-operation (CDCJ)), il
Segretario Generale del Consiglio d’Europa decideva di costituire un «Group of
Specialists on the Judiciary (CJ-S-JUD)». La commissione, composta da quindici
esperti di diversi Paesi europei, tra cui lo scrivente, ricevette l’incarico di
procedere all’elaborazione di una nuova versione della Raccomandazione Nr. R
(94) 12, del Consiglio d’Europa, «sull’indipendenza, efficienza e ruolo dei
giudici».
Nel dicembre 2009, al termine di un lavoro che si
snodò nel corso d’un intero anno, il predetto comitato d’esperti provvide a
finalizzare e a consegnare al Segretariato Generale la proposta di una nuova
raccomandazione, dal titolo seguente: «Recommendation on Judges: Independence,
Efficiency and Responsibilities». Il draft
fu discusso in seno allo European
Committee on Legal Co-operation (CDCJ),
prima di passare al Comitato dei Ministri, che lo adottò il 17 novembre 2010,
durante il 1098th meeting of
the Ministers’ Deputies con alcune modifiche: nacque così la
«Recommendation CM/Rec(2010)12 of the Committee of Ministers to Member States
on Judges: Independence, Efficiency and Responsibilities».
Va innanzi tutto tenuto conto del fatto che la
necessità di un nuovo strumento del Consiglio d’Europa in questo settore
s’imponeva in considerazione del fatto che la Raccomandazione precedentemente in
vigore, risalente al 1994, era ormai da tempo avvertita come bisognevole di
aggiornamento, alla luce, da un lato, dell’accesso al Consiglio d’Europa di un
consistente numero di nuovi Paesi del nostro Continente e, dall’altro, delle
sempre più puntuali riflessioni svolte a livello internazionale sui temi
attinenti all’indipendenza, allo status,
alle diverse forme di responsabilità dei magistrati. Ciò anche sull’onda
dell’approvazione, nell’ultimo decennio, di svariati documenti internazionali,
molti dei quali promulgati sotto l’egida dello stesso Consiglio d’Europa: dalla
Carta Europea sullo Statuto del Giudice, varata nel 1998, ai pareri del
Consiglio Consultivo dei Giudici Europei (CCJE),
ai rapporti e ai lavori della Commissione Europea sull’Efficacia della
Giustizia (CEPEJ). Per non dire poi
dell’attività svolta in tutti questi anni dallo stesso Consiglio d’Europa nei
Paesi dell’Europa Centrale e Orientale, per assisterli, con svariate missioni
di studio e di supporto, nella redazione di nuovi strumenti normativi, nonché
nell’avvio della relativa attività di formazione iniziale e continua, anche
attraverso il contributo fattivo alla creazione di Scuole, Accademie, Istituti
e Centri di formazione per la magistratura al passo con i tempi e conformi agli
standards internazionali
sull’indipendenza del potere giudiziario.
Non potrà poi neppure tacersi il contributo prestato,
in questo stesso periodo ed in questo medesimo settore, dall’Unione
Internazionale dei Magistrati. Questa organizzazione, che ad oggi annovera
ottanta membri (associazioni nazionali di magistrati dei cinque continenti, tra
cui l’A.N.M.), tramite il suo Gruppo Regionale Europeo (l’Associazione Europea
dei Magistrati), gode dello status di
osservatore presso il CCJE e la CEPEJ (così come, del resto, accade per
l’U.I.M. in relazione a determinati uffici delle Nazioni Unite). In tale veste
essa ha partecipato con il MEDEL
quale osservatore ai lavori della commissione CJ-S-JUD ed è più volte intervenuta nel corso degli ultimi quindici
anni con l’elaborazione di documenti, risoluzioni, raccomandazioni, tanto a
livello generale ed astratto, che con riguardo alle situazioni di singoli Paesi
del nostro Continente.
Quanto sopra è del
resto reso evidente dagli stessi consideranda
della Raccomandazione del 2010, i quali citano expressis verbis le «Opinions of the Consultative Council of
European Judges (CCJE)», così come «the work of the European Commission for the
Efficiency of Justice (CEPEJ)» e la «European Charter on the statute for judges
prepared within the framework of multilateral meetings of the Council of
Europe».
Naturalmente, il punto di riferimento fondamentale –
vero e proprio ubi consistam della
Raccomandazione – continua ad essere il principio del diritto ad un
«independent and impartial tribunal established by law», scolpito nell’art. 6
della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle
libertà fondamentali. Canone, questo, pure espressamente menzionato nel
preambolo del nuovo strumento, unitamente alla considerazione per la quale la
Raccomandazione del 1994 «needs to be substantially updated in order to
reinforce all measures necessary to promote judges’ independence and
efficiency, assure and make more effective their responsibility and strengthen
the role of individual judges and the judiciary generally».
Il testo vero e proprio della Raccomandazione del 2010
s’articola nei seguenti otto distinti capitoli: I) Profili generali; II)
Indipendenza esterna; III) Indipendenza interna; IV) Consigli della magistratura;
V) Indipendenza, efficienza e risorse; VI) Status
del giudice; VII) Doveri e responsabilità; VIII) Deontologia dei giudici.
Le principali novità, rispetto alla Raccomandazione
del 1994 e, più in generale, rispetto alle altre dichiarazioni internazionali
precedenti, possono essere, in poche parole, così riassunte: a) attribuzione di
rilievo autonomo al profilo dell’indipendenza interna, di cui viene, tra
l’altro, fornita per la prima volta una definizione a livello di testo
internazionale; b) riconoscimento dell’essenzialità, nella tutela
dell’indipendenza della magistratura, del ruolo svolto da organi quali il
Consiglio Superiore della Magistratura, o il Consiglio di Giustizia, o il
Consiglio Giudiziario, o simili, esistenti ormai in svariate realtà del nostro
Continente; c) enfatizzazione del principio di inamovibilità ed esplicita
condanna della pratica (conosciuta da alcuni sistemi) delle «prime nomine
temporanee» (seguite, a distanza di alcuni anni, da apposite reappointment procedures); d) attribuzione
di un ruolo determinante alla formazione (iniziale e continua) della
magistratura; e) corretta enfatizzazione dell’efficienza (di cui viene fornita,
anche qui per la prima volta in un documento internazionale, una precisa ed
esaustiva definizione) dell’operato della magistratura; f) enucleazione di un
autonomo capitolo sulla deontologia professionale, nell’ambito del quale trova
acconcia collocazione la questione dei c.d. «codici etici».
2. I Capitoli I), II) e III): profili generali;
indipendenza esterna e indipendenza interna.
Passando ad una rapida illustrazione di ciascuno dei
citati capitoli, va innanzi tutto sottolineato come il primo, relativo ai
profili di carattere generale, si occupi di definire il campo di applicazione
della Raccomandazione, chiarendo come la stessa sia «applicabile a tutte le
persone che esercitano funzioni giudiziarie, ivi comprese quelle concernenti
questioni costituzionali» (art. 1). Lo strumento sarà inoltre applicabile, in
linea di massima, anche ai «giudici non professionali, ad eccezione di quelle
disposizioni in cui appaia chiaro dal contesto delle norme in questione che
queste trovano applicazione soltanto ai giudici professionali» (art. 2).
Nonostante chi scrive si sia strenuamente battuto (unitamente agli altri
giudici membri – del tutto minoritari – di una commissione costituita per lo
più da alti funzionari ministeriali) per l’estensione della Raccomandazione
anche ai magistrati del Pubblico Ministero, essa sarà applicabile
esclusivamente ai giudici, essendo sfortunatamente prevalsa nel comitato
d’esperti l’interpretazione riduttiva del citato art. 6 della Convenzione, che
limita l’espressione «Tribunal» al solo personale giudicante degli uffici
giudiziari, senza peraltro tenere conto che, ben consapevole del fatto che una
giustizia perfettamente indipendente presuppone necessariamente anche una
pubblica accusa indipendente, lo stesso Consiglio d’Europa si è sentito in
dovere, già da diversi anni, di affiancare ad un Consiglio consultivo dei
giudici un Consiglio consultivo dei pubblici ministeri.
La Raccomandazione si volge quindi a fornire una
definizione del concetto di «Judicial Independence», alla stregua di un
«fundamental right, laid down in Article 6 of the Convention», soggiungendo
peraltro subito che il suo scopo è quello di garantire ad ogni persona il
diritto «to have their case decided in a fair trial, on legal grounds only and
without any improper influence» (art. 3). Le rimanenti disposizioni del
Capitolo I) si preoccupano poi di fissare altri principi-cardine, tra cui
quello secondo il quale l’indipendenza della magistratura dovrebbe essere
consacrata a livello costituzionale o, comunque, al più alto livello possibile
della legislazione dei singoli Stati membri (art. 7), precisando anche che,
laddove i giudici considerano che la loro indipendenza sia in pericolo, essi
dovrebbero poter «have recourse to a council for the judiciary or another
independent authority, or they should have effective means of remedy» (art. 8):
il che è esattamente quanto, ad esempio, accade presso il C.S.M. italiano in
relazione alle c.d. «pratiche a tutela». L’Explanatory
Memorandum chiarisce poi sul punto (e
trattasi di argomento sul quale lo scrivente ha molto insistito in sede di
lavori preparatori) che tra gli altri «effective means of remedy» un ruolo
fondamentale è svolto nei sistemi di Common
Law dall’istituto del Contempt of
Court, tramite il quale i giudici britannici sono in grado di
«autoproteggersi» efficacemente da ogni forma di ingerenza esterna (cfr. art.
21 del citato Memorandum, secondo cui
The Recommendation calls for all
necessary measures to be taken to protect and promote the independence of
judges. These measures could include laws such as the
“contempt of court” provisions that already exist in some member states (Recommendation,
paragraph 13)».
Il Capitolo II), dedicato all’indipendenza esterna,
s’apre con una disposizione (art. 11), il cui compito è quello di chiarire che
tale indipendenza non è una «prerogative or privilege granted in judges’ own
interest», poiché trattasi di presidio «in the interest of the rule of law and
of persons seeking and expecting impartial justice». Segue il principio secondo
cui la legge dovrebbe prevedere sanzioni nei confronti di chiunque tenti di
esercitare indebite influenze sui giudici (art. 14).
Un altro tema affrontato da tale Capitolo (cfr. art.
18) attiene alle critiche svolte nei confronti delle decisioni di giustizia.
Sul punto si specifica che i poteri legislativo ed esecutivo dovrebbero evitare
critiche tali da minare l’indipendenza della magistratura, ovvero la pubblica
fiducia nel potere giudiziario. Essi dovrebbero inoltre evitare ogni azione
(fatta salva l’esternazione dell’intenzione di esercitare il diritto
d’impugnazione) in grado di porre in dubbio la loro determinazione di
conformarsi alle sentenze emesse dall’autorità giudiziaria. Anche il diritto
all’informazione (art. 19) dovrebbe essere esercitato tenendo conto dei limiti
imposti dall’indipendenza della magistratura. In tale contesto, la raccomandazione
incoraggia la creazione di organi, all’interno degli uffici giudiziari,
incaricati di intrattenere le relazioni con i mezzi d’informazione. D’altro
canto, i giudici dovrebbero dare prova di riserbo nei loro rapporti con i media.
Il Capitolo III), come detto, s’occupa
dell’indipendenza interna, definendola come l’indipendenza di ogni singolo
giudice nell’esercizio delle sue funzioni giudiziarie (art. 22). Avuto riguardo
ai sempre latenti rigurgiti – cui non sono purtroppo estranei ampi settori
dello stesso potere giudiziario – di pericolose impostazioni favorevoli ad un
inquadramento stratificato e verticistico di un potere che, tutto al contrario,
è per definizione e deve rimanere «diffuso», fondamentale appare la regola
secondo cui «Hierarchical judicial organisation should not undermine individual
independence» (cfr. art. 22). Principio, questo, assai vicino a quello, pure
espressamente consacrato, per cui le corti superiori non possono indirizzare
istruzioni ai giudici «inferiori» sul modo in cui le controversie vanno decise
(art. 23).
Una specifica disposizione fa poi salvo il diritto dei
magistrati di formare e di iscriversi a organizzazioni professionali, i cui
obiettivi siano quelli di salvaguardare l’indipendenza dei giudici, proteggere
i loro interessi e promuovere le regole dello stato di diritto (art. 25).
3. I Capitoli
IV), V) e VI): Consigli della Magistratura, efficienza e statuto del giudice.
Ai Consigli della Magistratura è dedicato il Capitolo
IV), il quale s’apre con l’affermazione per cui tali organi d’autogoverno
«mirano a salvaguardare l’indipendenza della magistratura e dei singoli giudici
e pertanto tendono a promuovere l’efficiente funzionamento del sistema
giudiziario» (art. 26). Una constatazione, questa, dalla quale appare più che
legittimo dedurre una netta manifestazione di favore del Consiglio d’Europa per
lo stabilimento di siffatti organismi anche nei Paesi che ancora non li
conoscono. Sarà opportuno citare a questo punto un altro documento di estremo
interesse, di provenienza, questa volta, dell’Assemblea Parlamentare del
Consiglio d’Europa, la quale, in data 30 settembre 2009, ha approvato una
risoluzione (cfr. la Resolution 1685
(2009), «Allegations of politically motivated abuses of the criminal justice
system in Council of Europe member states»), che ha espressamente invitato –
oltre tutto in termini assai perentori – la Germania a dotarsi di un Consiglio
Superiore della Magistratura.
Un tema di scottante attualità in Europa, quale quello
della composizione di questi organi, è affrontato con la prescrizione secondo
cui essi dovrebbero essere composti per non meno della metà da giudici eletti
dai loro pari «from all levels of the judiciary» e con il rispetto del
pluralismo all’interno del potere giudiziario (art. 27). La regola riecheggia
da vicino non solo la Carta Europea sullo Statuto del giudice del 1998, ma
anche la già ricordata risoluzione dell’Assemblea Parlamentare del Consiglio
d’Europa, la quale ha, tra l’altro, invitato la Francia a (cfr. il punto
5.3.4.) «consider
restoring a majority of judges and prosecutors within the Conseil supérieur de la magistrature or ensuring that the members
appointed by political bodies also include representatives of the opposition
and making the Conseil supérieur de la
magistrature’s opinion binding also for decisions concerning prosecutors».
Capitale il principio, secondo cui «nell’esercizio
delle loro funzioni, i Consigli della Magistratura non dovrebbero interferire
con l’indipendenza di ogni singolo giudice» (art. 29): monito, questo,
lapidario, di grande interesse e rigorosa pertinenza per l’Italia, ove il
C.S.M. è venuto assumendo un ruolo che, nel disperdersi in una miriade di
funzioni anche di modesto o assolutamente trascurabile rilievo, rischia, da un
lato, di paralizzarne l’attività e, dall’altro, di dar luogo a forme di
eccessiva e pericolosa invadenza nei confronti di un corpo di magistrati troppo
sovente e da troppi soggetti (fuori e dentro il C.S.M.) considerato come un
insieme di persone ogni aspetto della vita delle quali dovrebbe essere
capillarmente «gestito», o quanto meno «monitorato» dall’alto, quasi si
trattasse di soggetti capite minuti.
Anche il successivo Capitolo V) contiene numerose e
rilevanti disposizioni.
Si comincia con la definizione del concetto di
«efficienza della magistratura», qualificata come la capacità di «rendere
decisioni di qualità in un termine ragionevole» (art. 31). L’ «efficient
management of cases» viene altresì espressamente considerato alla stregua
dell’oggetto di un preciso dovere non soltanto delle autorità preposte al
funzionamento del sistema giudiziario, ma anche di ogni singolo giudice (cfr.
art. 31 cit.). Peraltro la Raccomandazione si preoccupa di specificare che
l’efficienza deve comunque essere raggiunta «nel rispetto dell’indipendenza e
dell’imparzialità dei giudici» (art. 32).
Parte essenziale di tale Capitolo è costituita dalla
menzione del primario dovere degli Stati di porre al servizio della giustizia
le risorse necessarie (art. 33), così come di promuovere il ricorso a metodi
alternativi di soluzione delle controversie (art. 39) e di fare in modo che i
Consigli della Magistratura e, più in generale, gli stessi uffici giudiziari,
nonché le organizzazioni professionali dei magistrati abbiano la possibilità di
esprimere il loro parere nel processo d’allestimento del bilancio per la
giustizia (art. 40). Particolare attenzione è prestata a temi quali
l’«electronic case management» e le «information communication technologies»
(art. 37) o alla sicurezza dei giudici contro possibili atti di violenza (art.
38).
Il Capitolo VI) contempla lo statuto del giudice.
Qui trovano acconcia collocazione alcune disposizioni
già presenti nella Raccomandazione del 1994 ed in particolare il riferimento
alla necessità che tutte le decisioni concernenti la selezione e la carriera
dei giudici siano basate su «objective criteria pre-established by law or by
the competent authorities». I criteri sono così enumerati: «qualifications, skills
and capacity required to adjudicate and apply the law while respecting human
dignity» (art. 44). Pure in relazione
all’autorità incaricata di assumere decisioni sul reclutamento e la carriera
dei magistrati viene ripetuta la regola secondo cui tale organo dovrebbe essere
composto per almeno la metà da giudici scelti dai loro pari e comunque essere
indipendente dall’esecutivo e dal legislativo (art. 46). Anche laddove
disposizioni di legge prescrivono che sia il Capo dello Stato, o il governo o
il potere legislativo ad assumere decisioni in tale campo, il reclutamento dei
giudici dovrebbe essere effettuato vuoi da un Consiglio della Magistratura,
vuoi da un organo indipendente, composto «in substantial part from the
judiciary»: siffatti organi dovrebbero poter emettere raccomandazioni che l’autorità
preposta alla selezione dovrebbe in pratica (e automaticamente) seguire (art.
47). In ogni caso dovrebbe essere assicurato il diritto per i candidati di
ricorrere contro una decisione di rigetto (art. 48).
L’inamovibilità costituisce un aspetto fondamentale
dell’indipendenza dei giudici. Seguendo sul punto l’opinione N. 1 del CCJE (approvata nel 2001 sulla base di
un progetto preliminare predisposto dallo scrivente, in qualità di esperto
incaricato dal Consiglio d’Europa), la Raccomandazione chiaramente evidenzia
come il concetto di «inamovibilità» sia qualcosa di ulteriore rispetto a quella
che i giuristi di Common Law
riduttivamente traducono con il termine tenure.
Mentre infatti quest’ultima espressione denota il diritto di un giudice di
conservare la propria carica sino al pensionamento (fatte salve, ovviamente,
eventuali misure disciplinari, che nei sistemi di matrice anglosassone, a
differenza che da noi, costituiscono eventi di assoluta rarità),
l’inamovibilità pone il giudice al riparo dal rischio di essere trasferito «to
another judicial office without consenting to it, except in cases of
disciplinary sanctions or reform of the organisation of the judicial system»
(cfr. art. 52).
Al tema, poi, del trattamento economico dei giudici
sono dedicati tre articoli, che pongono correttamente in luce lo stretto legame
che siffatto argomento presenta con la garanzia dell’indipendenza della
magistratura. Così viene stabilito, tra l’altro, che la remunerazione dei
giudici dovrebbe essere commisurata al tipo di professione da essi esercitata
ed alle relative responsabilità, oltre che essere «sufficient to shield them
from inducements aimed at influencing their decisions» (art. 54). Quanto mai
rilevante (di fronte ad alcuni infelici esperimenti tentati da taluni governi
europei negli ultimi anni) la disposizione (art. 55) che bandisce, siccome
fonti di possibili «difficulties for the independence of judges», tutti i
sistemi che pongano in collegamento «la remunerazione delle funzioni
giudiziarie con il rendimento del lavoro».
Nonostante gli sforzi dello scrivente, in sede di
lavori preparatori, per attribuire al tema della formazione un rilievo più
esteso, la Raccomandazione contiene due soli articoli dedicati a questo
argomento. Nondimeno appare chiaramente stabilito l’obbligo degli Stati di
fornire ai giudici «theoretical and practical initial and in-service training,
entirely funded by the State».
La recente storia della magistratura europea ha
sperimentato i tentativi (falliti, per quanto attiene, quanto meno, all’Italia)
di taluni governi di trasformare la Scuola della Magistratura in una sorta di
«esamificio permanente» e di utilizzare la formazione continua alla stregua di
una forma di valutazione dei giudici: valutazione cui, beninteso, nessun magistrato
deve sottrarsi, ma che deve trovare idonea collocazione ed articolato
espletamento nell’ambito di attività di tipo diverso dalla formazione, la quale
è e deve restare, invece, espressione di un’esigenza e di una spontanea e
libera aspirazione nascente dagli stessi «discenti». Per questo, l’art. 58 del Memorandum esplicativo contiene
l’indicazione secondo cui «In-service training assessment should not be used as
a form of integrated assessment of the judge». Questa conclusione è il frutto di un’attività di persuasione svolta in
modo particolarmente insistente dallo scrivente in seno al gruppo d’esperti,
sulla scorta, del resto, dell’autorevole avallo del parere reso dal CCJE nell’opinion N. 4 sul tema della formazione.
Un altro caposaldo della formazione dei magistrati
viene poi consacrato dall’art. 57, a mente del quale la formazione iniziale e
continua deve essere erogata da un’ «independent authority», incaricata di
assicurare che «initial and in-service training programmes meet the
requirements of openness, competence and impartiality inherent in judicial
office».
Il Capitolo si chiude poi con il tema della
valutazione professionale dei giudici, stabilendo che siffatta attività deve
svolgersi alla luce (ancora una volta) di «objective criteria». Tali criteri
dovrebbero essere resi pubblici dalle competenti autorità, mentre la procedura
di valutazione dovrebbe comunque consentire ai giudici di esprimere il loro
punto di vista sia sull’attività svolta, che sulla valutazione espressa dagli
organi competenti, così come consentire loro di eventualmente impugnare i
giudizi espressi «before an independent authority or a court» (art. 58).
4. I Capitoli
VII) e VIII): doveri, responsabilità e principi deontologici dei giudici.
Il Capitolo VII) ha poi ad oggetto doveri e
responsabilità dei giudici.
Interessante al riguardo è l’enucleazione di una serie
di doveri disciplinarmente rilevanti, ad
instar di quanto effettuato nel corso della pluridecennale attività della Sezione
Disciplinare del C.S.M. italiano e successivamente trasfusi in disposizioni
legislative. Espressamente vengono menzionati doveri quali quello di dar prova
di indipendenza ed imparzialità, e di agire ed apparire anche all’esterno come
persone libere da «any improper external influence on the judicial proceedings»
(art. 60). I giudici debbono inoltre astenersi dal decidere le controversie
loro sottoposte nei casi (e solo in quelli) in cui l’astensione è prescritta
dalle norme di procedura (art. 61). Anche il dovere di diligenza e di rispetto
di un «reasonable time» viene posto correttamente in evidenza (art. 62),
unitamente a quelli di motivare le loro decisioni «in language which is clear
and comprehensible» e di incoraggiare le parti a raggiungere un accordo
transattivo (art. 64). L’aggiornamento e la formazione professionali sono
inoltre presi in considerazione alla stregua di precisi doveri di ogni giudice,
nella formula secondo cui essi «should regularly update and develop their
proficiency» (art. 65).
Sul versante delle procedure disciplinari la proposta
pone correttamente in evidenza che l’attività di interpretazione della legge,
la valutazione dei fatti e delle prove compiuta dai giudici non può dar luogo a
responsabilità civile o disciplinare, ad eccezione dei casi di dolo o colpa
grave (art. 66). D’altro canto, un’eventuale responsabilità del giudice non può
aprire la via ad un’azione diretta del cittadino contro il giudice stesso,
bensì ad un’azione di rivalsa dello Stato, nel caso di previa condanna di
quest’ultimo (art. 67). La Raccomandazione impone, per la celebrazione dei
processi disciplinari, il rispetto di una serie di garanzie: dalla attribuzione
di tale competenza ad un’autorità indipendente o ad un tribunale, al diritto di
proporre appello, alla necessaria proporzionalità tra violazione e sanzione
(art. 69).
Fondamentale, infine, il principio secondo cui i
giudici non possono essere ritenuti responsabili in caso di riforma o modifica
delle loro decisioni da parte di una corte superiore (art. 70). Disposizione,
questa, quanto mai opportuna, di fronte alla sempre latente tentazione di
taluni magistrati d’appello d’impancarsi a novelle… «maestrine dalla penna
rossa» (e… blu!), ritenendosi investiti di missioni quasi divine di «correzione»
degli «errori» (che sovente altro non sono se non diversi punti di vista) dei
primi giudici.
Chiude la Raccomandazione il Capitolo
VIII), dedicato all’etica giudiziaria.
Anche siffatto Capitolo è venuto a portare una novità
di rilievo nel panorama dei documenti internazionali sulla magistratura. La
redazione dei tre articoli che lo compongono è stata particolarmente laboriosa
e costituisce il frutto di interminabili discussioni in cui la commissione
d’esperti incaricati di redigere il progetto preliminare si è impelagata al
fine di distinguere la deontologia dai doveri disciplinarmente rilevanti. Il
tutto complicato dalla visione della questione prevalente nella parte orientale
del nostro Continente, in cui, come noto, i codici di etica giudiziaria sono
norme dotate di efficacia vincolante, la cui violazione determina sic et simpliciter responsabilità
disciplinare. Alla fine è prevalso il punto di vista propugnato con vigore
dallo scrivente, costituito dalla predisposizione di una norma di carattere
generale (l’art. 72, nella specie), nella quale, dopo l’affermazione-cardine
secondo cui «Judges should be guided in their activities by ethical principles
of professional conduct» viene immediatamente inserita la «cerniera» rispetto
alle regole disciplinari, concepita ed espressa nei termini seguenti: «These
principles not only include duties sanctioned by disciplinary measures, but
offer guidance to judges on how to conduct themselves».
In altre parole, l’idea che si è voluta rendere è che
molti dei doveri etici dei magistrati sono anche (e prima ancora) doveri
disciplinarmente rilevanti, ma che taluni doveri etici appartengono
esclusivamente a tale categoria e, come tali, non possono dar luogo a
responsabilità disciplinare. Un successivo articolo contiene poi un espresso
richiamo ai codici deontologici («These principles should be laid down in codes
of judicial ethics»), che hanno per scopo il rafforzamento della giustizia e
della fiducia dei cittadini nei giudici rispetto all’elaborazione dei quali
«judges should play a leading role» (art. 73).
L’articolo successivo, che conclude la Raccomandazione
(art. 74), chiarisce che i giudici dovrebbero potersi rivolgere ad organi
interni alla Magistratura al fine di ricevere consiglio su questioni attinenti
all’etica professionale.