CASSAZIONE
CIVILE, sez. III, 8 luglio 2010, n. 16149 - Pres. Di Nanni - Est. Segreto
Contratto in genere – Responsabilità
precontrattuale – Art. 1338 C.c. – Funzione – Tutela della parte fuorviata dall’ignoranza
di cause di invalidità del contratto – Limitazione ai soli casi di nullità del
contratto – Esclusione – Estensione
anche ai casi di nullità parziale, annullabilità e inefficacia del contratto – Configurabilità
– Promessa di vendita stipulata da un coniuge di un bene immobile oggetto di
comunione legale senza il consenso dell’altro coniuge – Responsabilità
precontrattuale ex art. 1338 c.c. del coniuge promittente venditore verso il terzo
promissario acquirente – Applicabilità.
(C.c. artt. 184, 1338, 1351, 1470)
L’art. 1338 c.c., finalizzato a tutelare
nella fase precontrattuale il contraente di buona fede ingannato o fuorviato
dalla ignoranza della causa di invalidità del contratto che gli è stata
sottaciuta e che non era nei suoi poteri conoscere, è applicabile a tutte le
ipotesi di invalidità del contratto, e pertanto non solo a quelle di nullità,
ma anche a quelle di nullità parziale e di annullabilità, nonché alle ipotesi
di inefficacia del contratto, dovendosi ritenere che anche in tal caso si
riscontra la medesima esigenza di tutela delle aspettative delle parti al
perseguimento di quelle utilità cui esse mirano mediante la stipulazione del
contratto medesimo. (Nella specie, la S.C. ha confermato la sentenza impugnata
nella parte in cui, in relazione alla stipulazione di un preliminare di
compravendita, aveva riconosciuto la responsabilità del promittente venditore
nei confronti del promissario acquirente, sul presupposto che questi aveva
fatto legittimo affidamento nella conclusione del contratto senza conoscere che
il bene era in comunione legale con il coniuge del promittente alienante).
… Omissis…
Svolgimento del processo
Con
atto di appello notificato il 17.1.2003 R.D. chiedeva la riforma della sentenza
del tribunale di Cassino depositata il 2.5.2002, che, decidendo sulla domanda
proposta da P.R., sottoscrittore di una proposta di vendita di un immobile di R.D.,
aveva dichiarato risolto il contratto preliminare e condannato il R.D. al
pagamento, a titolo di risarcimento di danni della somma di Euro 6.197,48,
oltre interessi e rivalutazione. La Corte territoriale, in riforma della
sentenza impugnata, dichiarava la nullità del contratto di acquisto dell’immobile
poiché esso non era in proprietà esclusiva dell’alienante R.D., ma anche in
comunione legale del coniuge M.R., che non aveva prestato il consenso alla
vendita; che il P.R. aveva diritto alla restituzione dell’assegno di L. 10
milioni, pagato alla stipula del contratto, e non alla restituzione della somma
portata dall’assegno, perché non incassato; che il P.R., avendo fatto legittimo
affidamento sulla conclusione del contratto, aveva diritto al risarcimento del
danno pari a L. 2 milioni (Euro 1.032,91) pagati al notaio per la stipula del
futuro atto e per la predisposizione della documentazione necessaria.
Avverso
questa sentenza ha proposto ricorso per cassazione il R.D.
Il
P.R. resiste con controricorso ed ha proposto ricorso incidentale, a cui
resiste il ricorrente con controricorso. Entrambe le parti hanno presentato
memoria.
Motivi della decisione
1.
Preliminarmente vanno riuniti i ricorsi.
Con
il primo motivo di ricorso il ricorrente lamenta la violazione dell’art. 112
c.p.c., poiché la sentenza impugnata non si è pronunziata sulla domanda di
restituzione delle somme da lui pagate in esecuzione della sentenza di primo
grado.
2.
Il motivo è fondato.
Nell’atto
di gravame R.D. aveva richiesto, all’esito della riforma della sentenza
impugnata, di condannare il P.R. alla restituzione della somma di L.
12.000.000, pagate in sede di esecuzione della sentenza di primo grado al fine
di evitare l’esecuzione forzata della stessa.
Sul
punto non essendosi pronunziata la sentenza impugnata, sussiste la violazione
dell’art. 112 c.p.c., per la mancata corrispondenza tra il chiesto ed il
pronunziato.
3.
Con il secondo motivo di ricorso il ricorrente lamenta la nullità della
sentenza per violazione dell’art. 112 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c.,
n. 4, ed in subordine per violazione dell’art. 2697 c.c., e vizio motivazionale
dell’impugnata sentenza su un punto decisivo, a norma dell’art. 360 c.p.c., nn.
3 e 5.
Assume
il ricorrente che è viziata da ultra petizione la sentenza impugnata nella
parte in cui, dopo aver dichiarato la nullità del contratto, l’ha condannato
alla restituzione dell’assegno di L. 10 milioni, consegnatogli dal P.R., mentre
questi aveva richiesto la condanna alla restituzione della somma di L. 10
milioni e non dell’assegno, sul presupposto che tale assegno era stato incassato.
Lamenta il ricorrente che la sentenza impugnata, in ogni caso, presenta una
motivazione viziata nella parte in cui presuppone che tale assegno gli sia
stato consegnato, mentre esso fu consegnato all’agente mobiliare, il quale a
sua volta ha dichiarato che lo custodiva su disposizione di esso R.D.
4.1.
Il motivo è infondato.
Va,
anzitutto osservato che in caso di mancanza di una causa adquirendi, sia in caso di nullità, annullamento, risoluzione
o rescissione di un contratto, che in caso di qualsiasi altra causa la quale
faccia venir meno il vincolo originariamente esistente, l’azione accordata
dalla legge per ottenere la restituzione di quanto prestato in esecuzione del
contratto stesso è quella di ripetizione di indebito oggettivo (Cass. civ.,
Sez. 3^, 12/12/2005, n. 27334).
4.2.
La sentenza impugnata ha correttamente interpretato la domanda di restituzione
del P.R., in conseguenza della ritenuta nullità del contratto. Essendo pacifico
che il P.R. aveva proposto la domanda di restituzione di quanto versato in
esecuzione del contratto, ed essendo risultato nel corso del giudizio che l’assegno
in questione non era stato incassato dal R.D., il giudice di appello ha
implicitamente interpretato la domanda di restituzione come rivolta al recupero
dell’assegno e non della somma da esso portata, poiché questo assegno non era
stato incassato. L’interpretazione della domanda giudiziale costituisce
operazione riservata al giudice del merito, il cui giudizio, risolvendosi in un
accertamento di fatto, è tuttavia censurabile in sede di legittimità quando sia
motivato in maniera incongrua e cioè senza riguardo all’intero contesto dell’atto
con alterazione del senso letterale, dovendosi tener conto, in tale operazione,
della formulazione testuale dell’atto nonché del contenuto sostanziale della
pretesa in relazione alle finalità che la parte intende perseguire, elemento
rispetto al quale non assume valore condizionante la formula adottata dalla
parte medesima (Cass. n. 22893 del 09/09/2008).
4.3.
Quindi non integra vizio di extrapetizione la condanna del giudice di appello
nei confronti del R.D. alla restituzione dell’assegno bancario e non della
somma da esso portata. Irrilevante, ai fini della disposta restituzione, è la
circostanza che l’assegno in questione fosse custodito dall’agente, come assume
il ricorrente, poiché tale custodia, effettuata per disposizione del R.D., non
privava lo stesso della disponibilità dell’assegno, e quindi non ne impediva la
restituzione.
5.
Con il terzo motivo di ricorso il ricorrente lamenta la nullità della sentenza
in violazione dell’art. 112 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 4; in
subordine violazione e falsa applicazione degli artt. 1337, 1338, e 2697 c.c.,
nonché dell’art. 1227 c.c., ed omessa, insufficiente e contraddittoria
motivazione su un punto decisivo a norma dell’art. 360 c.p.c., n. 5.
Assume
il ricorrente che erroneamente è stato condannato al risarcimento del danno
nella misura di L. 2 milioni, dopo che era stata dichiarata la nullità del
contratto, non esistendo alcuna sua responsabilità contrattuale.
Ritiene
il ricorrente che, ove si ritenesse che la corte abbia statuito la condanna
risarcitoria a titolo di responsabilità extracontrattuale, essa è incorsa in
ultrapetizione ex art. 112 c.p.c.,
non essendo stata proposta tale domanda.
Poi
lamenta il ricorrente che la corte territoriale non ha rilevato che incombeva
all’attore fornire la prova che egli aveva confidato nella validità del
contratto senza sua colpa, mentre tale prova non era stata fornita.
Infine
il ricorrente lamenta che nella fattispecie a tutto concedere vi era il
concorso di colpa dell’attore nella causazione del suo danno, perché avrebbe
potuto richiedere al notaio la restituzione della somma pagata di due milioni,
non essendo stato più stipulato l’atto notarile.
6.1.
Il motivo è in parte infondato ed in parte inammissibile. Va, anzitutto,
rilevato che la corte di appello ha ritenuto la nullità del contratto
preliminare per avere il R.D. venduto un bene in comunione legale con il
proprio coniuge. Questa Corte ha, per converso, affermato il principio secondo
cui la comunione legale, come affermato dalla Corte costituzionale con la
sentenza n. 311 del 1988, è una comunione senza quote nella quale i coniugi
sono solidalmente titolari di un diritto avente ad oggetto i singoli beni, con
la conseguenza che ciascun coniuge può disporre dell’intero bene,
configurandosi il consenso dell’altro coniuge come un negozio autorizzativo
diretto a rimuovere un limite all’esercizio del potere di disposizione sul bene
ed il cui difetto può essere fatto valere nei limiti di quanto disposto dall’art.
184 c.c. Il contratto preliminare di vendita, concluso da uno solo dei coniugi
in violazione dell’art. 180 c.c., non è inefficace né nullo per mancanza di
consenso del coniuge pretermesso, ma soltanto annullabile su domanda di quest’ultimo
ai sensi dell’art. 184 c.c., comma 1, se riguarda un bene immobile della
comunione legale. È inoltre irrilevante, ai fini dell’applicabilità del rimedio
di annullamento previsto dalla norma, la circostanza che dal contratto derivino
effetti meramente obbligatori. (Cass. civ., Sez. 2^, 13/05/2005, n. 10033).
Tuttavia, poiché sul punto la sentenza non è stata impugnata, costituisce
giudicato la pronunzia di nullità del contratto preliminare di vendita dell’immobile
rientrante nella comunione legale.
6.2.
Affermata tale nullità del contratto, va osservato che la corte di appello non
ha ritenuto che sussistesse una responsabilità risarcitoria del R.D. fondata su
tale contratto, come pare sostenere il ricorrente.
Per
quanto non indichi la corte espressamente la norma su cui fonda la
responsabilità risarcitoria del R.D., essa ha fondato la responsabilità
risarcitoria di questi sulla circostanza che il P.R. avesse “fatto legittimo
affidamento nella conclusione del contratto di compravendita” senza conoscere
che esso era in comunione legale con il coniuge dell’alienante.
Ciò
indica che la sentenza impugnata ha interpretato la domanda risarcitoria ed ha
sussunto la fattispecie nel paradigma della responsabilità precontrattuale di
cui all’art. 1338 c.c. Le norme degli artt. 1337 e 1338 c.c., mirano a tutelare
nella fase precontrattuale il contraente di buona fede ingannato o fuorviato da
una situazione apparente, non conforme a quella vera, e, comunque, dalla
ignoranza della causa d’invalidità del contratto che gli è stata sottaciuta, ma
se vi è colpa da parte sua, se cioè egli avrebbe potuto, con l’ordinaria
diligenza, venire a conoscenza della reale situazione e, quindi, della causa di
invalidità del contratto, non è più possibile applicare le norme di cui sopra
(cfr. Cass. civ., Sez. 1^, 06/04/2001, n. 5114).
6.3.
Secondo l’orientamento maggioritario della dottrina, che questa Corte ritiene
di dover condividere, non vi è alcun ostacolo di carattere generale avverso l’applicazione
dell’art. 1338 c.c., a tutte le ipotesi di invalidità del contratto.
Il
termine di invalidità si riferisce, quindi, non solo all’ipotesi della nullità,
ma anche dell’annullabilità e della nullità parziale. Tale norma disciplina anche
l’ipotesi di mancata comunicazione di una causa di inefficacia del contratto.
Ciò in quanto anche in tale ipotesi si riscontra la medesima esigenza di tutela
delle aspettative delle parti al perseguimento di quelle utilità cui esse
mirano tramite la stipulazione del contratto. Ne consegue che, sotto tale
aspetto, il motivo di ricorso è infondato.
6.4.
Va poi osservato che la responsabilità ex
art. 1338 c.c., che costituisce una specificazione della responsabilità
precontrattuale di cui all’articolo precedente, presuppone non solo la colpa di
una parte nell’ignorare la causa di invalidità del contratto, ma anche la
mancanza di colpa dell’altra parte nel confidare nella sua validità (Cass.
21/08/2004, n. 16508).
A
tal fine va osservato che non può configurarsi responsabilità per colpa in contrahendo allorquando la causa di
invalidità del negozio, nota a uno dei contraenti, e da questi in ipotesi
taciuta, derivi da una norma di legge che per presunzione assoluta deve essere
nota alla generalità dei cittadini, mentre il negozio concluso dal falsus procurator (che non è nullo e
neppure annullabile, ma inefficace nei confronti del dominus fino alla ratifica di questi) dà diritto all’altro
contraente solo al risarcimento del danno per avere confidato senza colpa nell’operatività
del contratto (Cass. 14/05/1997, n. 4258).
6.5.
Nella fattispecie non risulta dal ricorso se e con quale atto la questione
fattuale (e quindi di competenza del giudice di merito) circa il giusto
affidamento sulla validità del contratto sia stata sottoposta al giudice di
merito.
Ciò
comporta l’inammissibilità della censura, per inosservanza del principio dell’autosufficienza
del ricorso.
Tale
principio impone al ricorrente - qualora una determinata questione giuridica,
che implichi un accertamento di fatto, non risulti trattata in alcun modo nella
sentenza impugnata - l’onere di allegare l’avvenuta deduzione della questione
dinanzi al giudice di merito e di indicare, pena la statuizione di
inammissibilità per novità della censura, in quale atto del giudizio precedente
la questione sia sollevata così da consentire alla Corte di controllare la
veridicità di tale asserzione, prima di esaminare nel merito la questione
stessa (Cass. 02/10/2008, n. 24449).
7.1.
Egualmente infondata è la ritenuta violazione dell’art. 1227 c.p.c.
Anzitutto
la mancata richiesta al notaio di restituzione della somma inutilmente versata
per il futuro atto, mai poi rogato, astrattamente può identificare l’ipotesi di
cui all’art. 1227 c.c., comma 2 e non comma 1.
In
tema di risarcimento del danno, l’ipotesi del fatto colposo del creditore che
abbia concorso al verificarsi dell’evento dannoso (art. 1227 c.c., comma 1) va
distinta da quella (disciplinata dal comma 2 della medesima norma) riferibile
ad un contegno dello stesso danneggiato che abbia prodotto il solo aggravamento
del danno senza contribuire alla sua causazione, giacché - mentre nel primo
caso il giudice deve proporsi d’ufficio l’indagine in ordine al concorso di
colpa del danneggiato, sempre che risultino prospettati gli elementi di fatto
dai quali sia ricavabile la colpa concorrente, sul piano causale, dello stesso
- la seconda di tali situazioni costituisce oggetto di una eccezione in senso
stretto, in quanto il dedotto comportamento del creditore costituisce un autonomo
dovere giuridico, posto a suo carico dalla legge quale espressione dell’obbligo
di comportarsi secondo buona fede; ne consegue che la relativa eccezione non
può essere dedotta per la prima volta nel giudizio di cassazione (Cass. civ.,
Sez. 3^, 02/04/2001, n. 4799).
7.2.
Nella fattispecie, in violazione del principio di autosufficienza del ricorso,
dallo stesso non risulta se e quando ed in quale atto la predetta questione del
comportamento colposo del creditore fu sottoposta al giudice di merito.
8.
Stante il parziale accoglimento del ricorso, risulta assorbito il quarto motivo
di ricorso, relativo alla statuizione sulle spese del giudizio di appello.
9.
Il ricorso incidentale è inammissibile, per mancata esposizione dei fatti di
causa, a norma del combinato disposto dell’art. 371 c.p.c., comma 3, e art. 366
c.p.c., comma 1, n. 3.
Infatti
il controricorso, avendo la sola funzione di resistere all’impugnazione altrui
non richiede a pena di inammissibilità l’esposizione sommaria dei fatti di
causa, ben potendo richiamarsi ai fatti esposti nella sentenza impugnata ovvero
nel ricorso principale (Cass. 21.2.1996, n. 1341; Cass. 9.9.1997, n. 8746). Ove
tuttavia detto controricorso contenga anche un ricorso incidentale, per l’ammissibilità
di quest’ultimo, data la sua autonomia rispetto al ricorso principale, deve
sussistere l’esposizione sommaria dei fatti di causa ed è pertanto
inammissibile il ricorso incidentale (e non il controricorso) tutte le volte in
cui si limiti ad un mero rinvio all’esposizione del fatto contenuta nel ricorso
principale, potendo il requisito di cui all’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 3,
ritenersi sussistente, solo quando dal contesto dell’atto di impugnazione si
rinvengono gli elementi indispensabili per una precisa cognizione dell’origine
e dell’oggetto della controversia, dello svolgimento del processo e delle
posizioni assunte dalle parti, senza necessità di ricorso ad altre fonti (Cass.
S.U. 13.2.1998,n. 1513). Ai fini dell’inammissibilità alla mancata esposizione
dei fatti di causa va equiparata l’insufficienza della stessa (Cass. 23.5.2003,
n. 8154; Cass. 23.7.1994, n. 2796).
Nella
fattispecie neppure dal contenuto del controricorso emergono tutti questi
elementi suddetti relativi allo svolgimento dei fatti di causa.
10.
In definitiva va accolto il primo motivo del ricorso principale, vanno
rigettati il secondo ed terzo e va dichiarato assorbito il quarto. Va
dichiarato inammissibile il ricorso incidentale; va cassata in relazione al
motivo accolto l’impugnata sentenza. Non essendo necessari ulteriori
accertamenti fattuali, la causa può essere decisa nel merito a norma dell’art.
384 c.p.c., comma 1. Pertanto P.R. va condannato a restituire a R.D. la
differenza tra quanto da quest’ultimo pagato in esecuzione della sentenza di
primo grado e quanto oggetto della condanna di secondo grado.
Esistono
giusti motivi per compensare tra le parti le spese del giudizio di appello e di
questo di cassazione.
P.Q.M.
Riunisce
i ricorsi. Rigetta il secondo ed terzo motivo di ricorso e dichiara assorbito
il quarto ed accoglie il primo. Dichiara inammissibile il ricorso incidentale.
Decidendo la causa nel merito condanna P.R. a restituire a R.D. la differenza
tra quanto da quest’ultimo pagato in esecuzione della sentenza di primo grado e
quanto oggetto della condanna di secondo grado.
Compensa
tra le parti le spese del giudizio di appello e di questo di cassazione.
Così
deciso in Roma, il 11 giugno 2010.
Depositato in Cancelleria il 8 luglio 2010.