Giacomo Oberto

 

 

FAMIGLIA DI FATTO E CONVIVENZE:

TUTELA DEI SOGGETTI INTERESSATI

E REGOLAMENTAZIONE DEI RAPPORTI PATRIMONIALI

IN VISTA DELLA SUCCESSIONE (*)

 

 

 

Sommario: 1. La tutela del convivente more uxorio superstite. Impostazione del problema. – 2. Caratteristiche dei negozi post mortem ed esigenze di tutela del convivente superstite. – 3. Negozi post mortem tra conviventi more uxorio: il contratto a favore di terzo. – 4. Negozi post mortem tra conviventi more uxorio: rendita vitalizia e mantenimento vitalizio. – 5. Negozi post mortem diretti ad assicurare l’acquisto della proprietà su beni o somme di denaro: acquisto en tontine, acquisto «incrociato», riconoscimenti di debito. – 6. Famiglia di fatto e trust. – 7. Famiglia di fatto e vincolo di destinazione ex art. 2645-ter c.c. Impostazione del problema. – 8. Art. 2645-ter c.c. ed effetti traslativi. Critica dell’opinione dominante. – 9. Vicende traslative disposte dall’autonomia delle parti in relazione all’art. 2645-ter c.c. – 10. Conclusioni.

 

 


 

1. La tutela del convivente more uxorio superstite. Impostazione del problema.

 

«Concubina non succedit ab intestato ejus concubinario, nec e contra, quia in ista successione requiritur justum matrimonium et hoc non verificatur in concubina; legatum tamen concubinae fieri potest a privato». Così, a cavallo tra XV e XVI secolo, Filippo Decio [1] riassumeva la tutela successoria dei soggetti coinvolti in quella aggregazione sociale che oggi chiamiamo famiglia di fatto, rispondendo negativamente alla questione se il passo del Codex di Giustiniano relativo ai (pur modestissimi, in allora) diritti successori del coniuge superstite [2] fosse estensibile ai concubinarii. Dopo cinque secoli la situazione italiana, come ognuno potrà ben comprendere, non è poi sostanzialmente diversa da quella descritta dall’illustre maestro del Guicciardini, ma il tema delle relazioni giuridiche tra conviventi more uxorio ha assunto dimensioni tali da non poter essere concentrato in una breve relazione di poche pagine. Sia consentito quindi, in apertura, un sintetico richiamo a precedenti studi dello scrivente, nei quali potranno rinvenirsi – oltre ai richiami storici – i necessari riferimenti alla dottrina italiana e straniera, nonché alla giurisprudenza [3].

Dovrà qui, innanzi tutto, sommariamente ribadirsi che i rapporti patrimoniali all’interno del faux ménage appaiono riconducibili, ad instar di quanto avviene per la famiglia legittima, alla diarchia tra «regimi legali» e «regimi convenzionali». Alla prima categoria possono ascriversi rimedi di diritto comune delle obbligazioni, quali la soluti retentio conseguente al riconoscimento del carattere di atto di adempimento di obbligazione naturale proprio delle prestazioni patrimoniali tra conviventi [4], nonché l’azione di ingiustificato arricchimento, per le prestazioni (vuoi in denaro, vuoi in lavoro, vuoi in natura), sulla cui ammissibilità in subiecta materia sussistono peraltro in dottrina e giurisprudenza non poche perplessità [5].

Anche il tema dei regimi convenzionali, e dunque dei contratti di convivenza, appare oggi assumere, specie alla luce delle esperienze straniere e dei dibattiti de iure condendo di casa nostra, proporzioni quanto mai estese [6]. Tra i multiformi aspetti che compongono quest’ultimo argomento sarà qui d’uopo soffermarsi sui soli profili attinenti alla tutela post mortem del convivente.

In effetti, una delle clausole di cui all’estero, già prima dell’introduzione di apposite normative a tutela della convivenza, veniva e viene ancora con maggior frequenza raccomandato l’inserimento nei contratti di convivenza concerne proprio la previsione di effetti giuridici destinati a prodursi dopo la morte di uno dei contraenti e a beneficio dell’altro, quale strumento al fine di assicurare la tranquillità economica del partner superstite [7]. Nel nostro ordinamento, però, la proposta viene inevitabilmente a scontrarsi con il divieto dei patti successori [8], il quale, come noto, investe non soltanto i negozi con cui un soggetto dispone della propria successione, bensì anche quelli con i quali ci si obbliga a istituire erede taluno [9], come in quei casi, su cui la giurisprudenza ha già avuto modo di pronunziarsi, che vedevano la promessa di istituzione di erede scambiarsi con l’impegno della controparte di accudire alle faccende domestiche del de cuius [10], ovvero di fornire a quest’ultimo alloggio e assistenza per il resto dei suoi giorni [11].

Ma non basta. La dottrina e la giurisprudenza dominanti vanno da tempo affermando la nullità non solo del patto successorio, ma anche del testamento che vi abbia dato esecuzione, dal momento che la presenza di un impegno a testare in un determinato modo escluderebbe la spontaneità dell’atto di ultima volontà, pur restando salva la possibilità (per il vero assai remota) di una convalida ex art. 590 c.c. [12]. La gravità di tali conseguenze deve indurre dunque alla massima attenzione circa l’eventuale predisposizione in un contratto di convivenza di effetti destinati a operare sul patrimonio di una delle parti dopo la sua morte. Al riguardo, c’è da chiedersi quale sia l’interesse dei partners a concludere un patto successorio e in quale modo lo stesso possa essere soddisfatto mediante negozi che non siano vietati, né direttamente, né mediante la regola della frode alla legge.

 

 

2. Caratteristiche dei negozi post mortem ed esigenze di tutela del convivente superstite.

 

Sul primo interrogativo posto nel precedente paragrafo va detto che l’interesse in discorso sembra essere quello di operare trasferimenti di diritti che godano, a un tempo, delle due caratteristiche dell’irrevocabilità, da un lato, e della operatività dal momento della morte del dante causa dall’altro [13]. E’ chiaro che il primo dei due obiettivi potrebbe essere agevolmente raggiunto mercé il contratto (si pensi soprattutto alla donazione), che presenta però anche l’«inconveniente» di determinare la perdita immediata dei diritti trasferiti, mentre il secondo potrebbe essere conseguito con il testamento, che peraltro è un atto per sua natura revocabile usque ad vitae supremum exitum.

I requisiti comunemente indicati come caratteristici dei patti successori istitutivi (o confermativi) sono, come noto, i seguenti: a) che la convenzione sia stipulata prima dell’apertura della successione; b) che con essa il promittente abbia inteso provvedere in tutto o in parte alla propria successione, privandosi così dello ius poenitendi; c) che l’acquirente abbia contrattato o stipulato come avente diritto alla successione stessa; d) che i diritti oggetto del patto facciano parte di una successione ancora da aprirsi; e) che l’acquisto avvenga successionis causa, e non ad altro titolo [14]. Di particolare importanza appare dunque quest’ultimo elemento, posto che i contratti di cui si discute sono sicuramente stipulati prima dell’apertura della successione e (almeno generalmente) su diritti destinati a far parte della stessa. Occorre perciò chiedersi se vi siano atti destinati a produrre effetti (o, quanto meno, taluni effetti) solo dopo la morte del titolare dei diritti alienati, ma che possano ciò non di meno qualificarsi come inter vivos.

Al riguardo è stata individuata una nuova categoria di negozi tra vivi, definiti post mortem, nei quali l’evento del decesso di uno dei contraenti non è considerato o elevato dalle parti a causa dell’attribuzione, bensì è ritenuto un mero requisito condizionante la produzione degli effetti definitivi propri del negozio, senza escludere la produzione di effetti limitati o prodromici, peculiari al contratto sottoposto a condizione sospensiva, consistenti nell’aspettativa tutelata dalla legge (art. 1356 c.c.) dell’acquisto del diritto. Non è questa la sede per una disamina dei singoli istituti, né del fondamento o del futuro del divieto ex art. 458 c.c. [15]: sarà sufficiente, ai fini della presente indagine, un richiamo a quei rimedi che maggiormente si prestano a soddisfare le esigenze di tipo successorio proprie della coppia di fatto.

Si è già avuto modo di dire che la donazione pura e semplice è (problemi di riduzione a parte) l’istituto destinato a realizzare nel migliore dei modi l’interesse del beneficiario, in quanto atto, a differenza del testamento, essenzialmente irrevocabile (se non nelle circoscritte ipotesi dell’ingratitudine e della sopravvenienza di figli); essa presenta peraltro la già segnalata controindicazione di privare immediatamente il donante della disponibilità dei beni donati, cui il disponente in vita non intende invece rinunziare. Quest’effetto indesiderato può essere, almeno in parte, evitato per mezzo della donazione con riserva di usufrutto a vantaggio del donante (art. 796 c.c.), la cui validità è fuori discussione, in quanto in essa il trasferimento della proprietà è immediato [16]. Dibattuta è invece la possibilità di sottoporre gli effetti di una donazione alla morte del disponente: tale eventualità va però negata, tanto con riguardo alla cosiddetta donatio mortis causa, la quale non si distingue da un patto successorio istitutivo a titolo gratuito [17], quanto con riferimento alla liberalità sottoposta alla condizione della morte (si moriar) o della premorienza (si praemoriar) del donante [18], la cui invalidità andrebbe comunque affermata sotto il profilo della frode alla legge [19].

Un espediente ugualmente poco produttivo al fine di eludere in qualche modo le aspettative dei legittimari potrebbe essere costituito dalla… trasformazione del convivente in legittimario mediante adozione, ovviamente a condizione che di tale atto sussistano i presupposti. Il rimedio è però sconsigliabile per il suo carattere intimamente irreversibile: in caso di rottura, invero, i partners si vedrebbero condannati, paradossalmente, a restare uniti per il futuro da un rapporto (a differenza del matrimonio, addirittura) indissolubile [20].

 

 

3. Negozi post mortem tra conviventi more uxorio: il contratto a favore di terzo.

 

Uno strumento che può consentire di raggiungere lecitamente risultati sostanzialmente analoghi a quelli di un patto successorio è costituito dal contratto a favore di terzo con prestazione da effettuarsi dopo la morte dello stipulante (art. 1412 c.c.), e – in particolare – dall’assicurazione sulla vita a favore di un terzo (art. 1920 ss. c.c.). In entrambi i casi, infatti, la causa dell’acquisto da parte del terzo (cioè il convivente superstite) è rappresentata non già dalla morte dello stipulante, ma dal contratto. Inoltre, ogni dubbio in punto frode alla legge è eliminato dall’evidente diversità di «risultati giuridici» rispetto al patto successorio, posto che il rapporto contrattuale intercorre non già fra il beneficiario e lo stipulante, ma tra quest’ultimo e il promittente. Per giunta, il diritto acquistato, stando almeno all’opinione prevalente, non proviene dal patrimonio dello stipulante, ma è un rapporto autonomo che trae la sua origine dal contratto e che si trasmette al terzo inter vivos [21].

La tranquillità del convivente «debole» ben potrà, dunque, essere garantita anche per il periodo successivo alla morte del partner per mezzo di un contratto di assicurazione sulla vita di quest’ultimo, l’impegno a sottoscrivere (magari reciprocamente) il quale può essere assunto nel contratto stesso di convivenza [22]. Con riferimento a quest’ultima clausola andrà osservato che un eventuale inadempimento rispetto a tale obbligo esporrebbe gli eredi del soggetto inadempiente al risarcimento dei danni verso il superstite, che potrebbe così richiedere a essi il pagamento della somma che avrebbe ottenuto qualora il de cuius avesse concluso l’assicurazione.

Sempre in relazione al contratto a favore di terzi e a quello di assicurazione sulla vita, si potrebbe suggerire di inserire nello stesso contratto di convivenza (per iscritto) quella rinunzia al potere di revoca del beneficio attribuito al terzo prevista dagli artt. 1412 e 1921, c. 2, per il caso la prestazione debba essere effettuata dopo la morte dello stipulante, e che, secondo taluni, costituirebbe un’eccezione al divieto dei patti successori [23]; ad essa dovrebbe accompagnarsi, nell’atto medesimo, la dichiarazione del beneficiario di voler profittare del beneficio, dichiarazione che, ai sensi delle disposizioni testé citate, produce l’effetto di paralizzare un’eventuale revoca [24].

Ancora nell’ambito delle disposizioni a favore di terzo potrebbe suggerirsi la costituzione di un deposito bancario con intestazione del libretto di risparmio nominativo al terzo, ma con riserva in capo al solo costituente della facoltà di effettuare prelevamenti, e con conferimento del diritto di prelievo all’intestatario sospensivamente subordinato alla morte del primo: il marchingegno è già uscito indenne da almeno un vaglio giurisprudenziale [25]. Un’ulteriore applicazione del contratto a favore di terzi può poi essere ravvisata nella costituzione di una rendita vitalizia a vantaggio del convivente, oppure di un vitalizio alimentare, in relazione ai quali occorrerà però avere l’accortezza di pattuire espressamente l’intrasmissibilità del potere di revoca agli eredi dello stipulante [26].

Non va però trascurato che tutti i negozi in questione – come del resto ogni disposizione a favore di terzi compiuta animo donandi – assumono il carattere di donazioni indirette e sono quindi assoggettabili a riduzione.

 

 

4. Negozi post mortem tra conviventi more uxorio: rendita vitalizia e mantenimento vitalizio.

 

A prescindere dallo schema del negozio a favore di terzo, ci si può chiedere se la tranquillità economica del convivente superstite possa essere assicurata mediante una rendita vitalizia o un vitalizio alimentare stipulato direttamente tra le parti. Come illustrato in altra sede [27], la dottrina italiana pare orientata a individuare quale contenuto dei contratti di convivenza l’obbligo di corresponsione di somme di denaro a titolo di mantenimento da parte del partner più abbiente in favore di quello più bisognoso [28]. Ma c’è da chiedersi se invece non convenga optare per forme negoziali più collaudate, quali per esempio il contratto di mantenimento vitalizio [29]. Si tratta della convenzione con la quale una parte attribuisce all’altra il diritto di esigere, vita natural durante, di essere mantenuta, quale corrispettivo dell’alienazione di un bene mobile o immobile o della cessione di un capitale [30]. Più precisamente, l’obbligo del vitaliziante consiste non già nel versamento di somme di denaro, ma nella corresponsione, in natura, di vitto, alloggio vestiario e assistenza medica, anche se la prassi conosce altre pattuizioni di carattere accessorio [31].

Proprio l’appartenenza di tali prestazioni al novero di quelle di fare, anziché di dare, ha da sempre indotto la dottrina maggioritaria a evidenziare l’atipicità del contratto in esame rispetto alla rendita vitalizia, secondo una tesi che riscuote ora anche il consenso della Suprema Corte, e che pare senz’altro preferibile, anche in considerazione del cospicuo numero di altri elementi differenziatori nei riguardi della figura regolata dall’art. 1872 ss. c.c. [32].

Nell’ambito dei rapporti tra conviventi more uxorio il contratto di mantenimento vitalizio potrebbe però assumere un ulteriore connotato caratterizzante, idoneo ad allontanarlo definitivamente dalla rendita vitalizia. Nello schema negoziale potrebbe infatti mancare la cessione della proprietà di determinati beni dal vitaliziato al vitaliziante, (specie quando uno dei due difettasse dei mezzi necessari per un’operazione del genere). In tal caso la controprestazione, a fronte dell’impegno del vitaliziante, potrebbe essere costituita da un obbligo reciproco di assistenza materiale, oppure potrebbe mancare del tutto. Ma a questo punto occorre ammettere che il primo caso non sembra differire di molto dal contratto di contribuzione che si è cercato di enucleare in altra sede [33], mentre nel secondo appare inevitabile riconoscere la presenza di una donazione. Proprio per questo, la previsione dell’obbligo di mantenimento a carico di una soltanto delle parti, senza alcuna controprestazione, richiede necessariamente il rispetto della forma solenne, ex art. 782 c.c. [34].

Non va trascurato poi che un accordo del genere di quello in oggetto potrebbe dar luogo a sospetti di contrarietà al buon costume, inducendo a ritenere che la controprestazione per l’impegno a mantenere sia in realtà costituita dal consenso alle relazioni sessuali; appare quindi consigliabile che nel contratto di convivenza l’eventuale obbligo di mantenimento assunto da uno dei contraenti a vantaggio dell’altro venga posto in corrispondenza biunivoca con un reciproco dovere di contribuzione, ovvero con un’altra prestazione a carico del beneficiario, che potrà essere costituita dalla cessione di un capitale, ovvero dalla prestazione di lavoro domestico, o ancora dalla messa a disposizione di certi beni [35], usando peraltro l’accortezza, qualora vi sia sproporzione tra le prestazioni, di osservare la forma solenne prevista per la donazione.

Un problema legato a siffatto tipo di negozi riguarda la possibilità della previsione di eventuali limiti d’ordine temporale all’obbligo di contribuzione o di mantenimento così fissato. In proposito, si può innanzi tutto ritenere valida anche un’espressa subordinazione degli effetti del vincolo obbligatorio alla durata del rapporto di fatto, in quanto una clausola del genere verrebbe a concretare una condizione risolutiva ordinariamente (e non meramente) potestativa. Inutile dire che una siffatta cautela appare consigliabile per il partner che figuri quale unico (o prevalente) obbligato e voglia porsi al riparo dal rischio di dover continuare ad adempiere anche dopo la rottura del legame. Come si è invero dimostrato in altra sede, la presupposizione non sembra poter giocare alcun ruolo nel contesto dei rapporti tra conviventi [36].

Assai più delicato appare invece l’aspetto della possibilità di pattuire una durata minima del periodo di corresponsione della contribuzione (consistente eventualmente anche nella prestazione lavorativa, specie se domestica) o del mantenimento, indipendentemente dalla durata del ménage e dunque anche dopo la rottura di quest’ultimo o la morte del convivente «forte». Una simile clausola – una delle poche in grado di costituire una vera garanzia per il convivente «debole» – potrebbe infatti venirsi a scontrare con quel principio generale d’ordine pubblico che fa divieto ai soggetti di assumere vincoli giuridici di durata eccessiva. L’ammissibilità di un impegno del genere apparirebbe dunque a prima vista collegata al rispetto di convenienti limiti di tempo, la cui concreta estensione dovrebbe essere di volta in volta accertata, tenute in considerazione le particolarità del caso concreto. Peraltro, proprio l’indiscussa validità del contratto vitalizio di mantenimento induce ad affermare che una prestazione di tipo contributivo-assistenziale possa essere efficacemente assunta anche per un numero considerevole di anni, ovvero per tutta l’esistenza del beneficiario; l’unico limite sarà dunque costituito dalla durata della vita del creditore della prestazione.

       La validità di impegni assunti al fine di garantire «vita natural durante» la tranquillità economica di uno dei conviventi e di porlo quindi al riparo dalle conseguenze della rottura del ménage, così come della morte del partner, è stata del resto già riconosciuta dalla giurisprudenza, tanto di legittimità, che di merito: nel primo caso si trattava di un caso di comodato concesso dal convivente alla sua compagna, per tutta la vita di quest’ultima, salvo che essa di sua iniziativa avesse posto fine al ménage. La fattispecie ha costituito l’occasione per la Corte Suprema di affermare che la  convivenza more uxorio tra persone in stato libero «non costituisce causa di illiceità e, quindi, di nullità di un contratto attributivo di diritti patrimoniali collegato a detta relazione, in quanto tale convivenza, ancorché non disciplinata dalla legge, non contrasta né con norme imperative, non esistendo norme di tale natura che la vietino, né con l’ordine pubblico, che comprende i principi fondamentali informatori dell’ordinamento giuridico, né con il buon costume, inteso, a norma delle disposizioni del codice civile (vedi artt. 1343, 1354), come il complesso dei principi etici costituenti la morale sociale di un determinato momento storico» [37].

       Nel secondo caso un giudice di merito [38], in relazione ad un contratto di usufrutto vitalizio su di un immobile, esclusa la natura donativa dell’attribuzione, ha ammesso la validità del negozio in oggetto e la sua idoneità pertanto a costituire validamente il diritto reale in questione in capo all’usufruttuaria e dunque per tutta la vita di costei, a prescindere dalla rottura del legame affettivo e di convivenza, nel frattempo intervenuta [39].

 

 

5. Negozi post mortem diretti ad assicurare l’acquisto della proprietà su beni o somme di denaro: acquisto en tontine, acquisto «incrociato», riconoscimenti di debito.

 

Abbandonando le figure negoziali tendenti ad assicurare forme di rendita o comunque diritti di godimento (obbligatori o reali) a favore del convivente superstite e tornando al problema dell’individuazione dei modi in cui sia eventualmente possibile predisporre forme di acquisto della proprietà di beni in capo al partner, ci si imbatte subito in due rimedi suggeriti in Francia, ma che non sembrano avere ancora suscitato interesse da noi. Il primo concerne il cosiddetto acquisto en tontine, con cui si pattuisce, all’atto della stipula di un contratto di acquisto da parte di entrambi i conviventi, che il primo di essi a morire si considererà come non fosse mai stato titolare del diritto, che si riterrà invece come sin ab initio trasferito in capo al solo superstite. Un medesimo avvenimento, cioè la morte di uno dei due partners, fungerebbe così, al contempo, da condizione risolutiva dell’acquisto in capo al premorto e sospensiva del trasferimento in capo all’altro. La clausola, non prevedendo (a differenza di quella detta daccroissement, colpita da nullità), un trasferimento mortis causa, sfugge al divieto dei patti successori [40].

In Italia l’unico precedente in termini sembra costituito da un’ormai remota pronunzia di legittimità [41], che ha ricondotto alla figura del patto successorio vietato «l’atto con il quale due soggetti comprino in comune la proprietà di un immobile, contestualmente pattuendo che la quota ideale di comproprietà da ciascuno acquistata debba successivamente pervenire a chi di essi sopravviva, in quanto quest’ultimo acquista l’altra quota non dall’originario venditore che l’aveva già alienata al soggetto premorto, ma direttamente dal medesimo, al di fuori delle prescritte forme di successione mortis causa». Dalla lettura della massima non è dato evincere se il trasferimento post mortem della quota fosse o meno dotato di carattere retroattivo. La motivazione, del resto, contiene un unico fugace accenno (si tratta, in particolare, dell’uso del verbo «ritrasferire») dal quale si può comprendere che le parti avevano previsto un trasferimento successivo della quota del premoriente al superstite [42].

L’altro espediente suggerito dalla pratica d’Oltralpe è costituito dall’acquisto «incrociato» in capo, rispettivamente, all’uno e all’altro dei conviventi, della nuda proprietà su di una metà del bene e dell’usufrutto sulla rimanente metà. Ne consegue che, alla morte del primo degli acquirenti, il superstite acquista la proprietà piena della quota di cui era nudo proprietario, mentre rimane usufruttuario dell’altra quota, così evitando di perdere la disponibilità del bene stesso [43].

Con notevole cautela deve poi essere accolto l’ulteriore suggerimento, conosciuto da tempo dalla prassi francese, relativo al rilascio di dichiarazioni di debito da parte di un convivente a vantaggio dell’altro [44], così che, al momento dell’apertura della successione, quest’ultimo «possa assumere la posizione di creditore nei confronti di quel compendio dal quale è escluso come erede» [45]. Di tutta evidenza appare infatti la necessità di evitare che le predette dichiarazioni si trasformino in facile strumento di ricatto ai danni del partner che le ha rilasciate. Così, se ne potrebbe ipotizzare un’emissione vicendevole e su identiche somme, di modo che gli atti ricognitivi finirebbero con l’«annullarsi» reciprocamente qualora uno dei due intendesse farne uso in vita dell’altro. In tal caso occorrerebbe però anche adottare accorgimenti idonei a evitare che le «controdichiarazioni» confessorie in possesso del convivente deceduto per primo cadessero in mani estranee (si pensi a eventuali altri eredi). La soluzione migliore sembra quella di affidare le stesse a un depositario (per esempio a un notaio) scelto di comune accordo, con l’impegno da parte di quest’ultimo di farne consegna al convivente superstite oppure, durante la vita di entrambi, soltanto sulla base di una richiesta congiunta.

 

 

6. Famiglia di fatto e trust.

 

       Non è raro rinvenire nella letteratura più recente il richiamo al ruolo che la previsione di un trust potrebbe svolgere al fine di assicurare le fonti di sostentamento della famiglia di fatto, finché essa è in atto, nonché la tranquillità economica del convivente superstite, dopo la morte di uno dei partners. Non è certo questa la sede per affrontare la vexata quaestio circa l’ammissibilità del trust interno, che in altra sede si è ritenuto di dover risolvere in senso negativo [46], pur dandosi atto dei non pochi argomenti che sembrerebbero militare in senso opposto, non ultimo quello – sicuramente ad effetto – dell’estrema «duttilità» dell’istituto di common law, che, proprio nell’esperienza dei paesi anglosassoni, ha saputo dimostrare come famiglia legittima e famiglia di fatto altro non siano che due facce di una stessa medaglia [47].

       Così si è ipotizzato il caso dell’uomo che intenda provvedere alla propria compagna non abbiente, senza tuttavia fare danno alla propria famiglia legittima e, al tempo stesso, commisurando le elargizioni alle effettive necessità della convivente: il ricorso al trust sarebbe qui consigliato di fronte alla constatazione secondo cui  nessun negozio conosciuto nel nostro ordinamento sarebbe in grado di assicurare tali finalità [48]. La conclusione non sembra però condivisibile: invero, ogni attribuzione effettuata (direttamente come indirettamente) alla convivente andrà a diminuire il patrimonio del disponente, così riducendo le «aspettative» (di fatto) dei futuri eredi legittimi e dunque «facendo danno alla famiglia legittima»; d’altro canto, anche la finalità di «commisurare le elargizioni alle effettive necessità della compagna», ben può essere soddisfatta mercé la stipula di un contratto di mantenimento, in cui si abbia l’accortezza di predeterminare il quantum delle prestazioni in relazione ai redditi e ai patrimoni delle parti [49].

       Taluno ha poi anche prospettato un complesso caso pratico di trust finalizzato ad eseguire l’obbligazione naturale gravante su un convivente dotato di un patrimonio assai più consistente di quello della propria compagna [50]. Nella specie il ricorso al trust è però stato erroneamente presentato come l’unico rimedio in grado di superare l’ostacolo posto dall’incoercibilità delle obbligazioni naturali, laddove è chiaro che, da un lato, la creazione di un trust non è certo coercibile, se il soggetto che dovrebbe assumere la veste di settlor non intende dar luogo a tale attribuzione, e, dall’altro, una volta che il convivente «forte» intende adempiere, questi ben può obbligarsi mercé la stipula di un contratto di convivenza, nei modi e nelle forme in altra sede descritti [51].

       Ancora, si è proposto di «abbinare» la creazione di un trust a contratti quali l’assicurazione sulla vita o il deposito bancario: la designazione di un fiduciario quale beneficiario della polizza sulla vita, infatti, garantirebbe il settlor che l’arricchimento del beneficiario avvenga attraverso la corresponsione di utili prodotti in forza di un’oculata amministrazione delle somme dovute dall’assicuratore [52]. Peraltro, ad avviso di chi scrive, sembra difficile comprendere per quale ragione, supponendo che il beneficiario sia persona maggiorenne e capace di amministrarsi, non sia più idoneo, per il conseguimento degli scopi perseguiti dal disponente, oltre che meno oneroso, prevedere l’attribuzione della prestazione direttamente in capo al convivente superstite…

       D’altro canto, sempre secondo lo studio appena citato, l’intestazione di un deposito bancario ad un bare trustee, a beneficio prima del disponente e poi del partner superstite di questi, risolverebbe i problemi relativi al residuo non prelevato in vita, di cui il titolare dovrebbe disporre per testamento (nel caso di cointestazione di conto bancario congiunto semplice con il partner, nel quale gli intestatari possono ritirare l’intera somma congiuntamente e, disgiuntamente, solo una porzione pari alla propria quota), eliminando altresì i rischi di un prelevamento totale da parte del partner (nel caso di conto congiunto solidale) [53].

       A ben vedere, però, sembra quanto mai inopportuno affidare ad un soggetto estraneo l’amministrazione di un conto corrente che, verosimilmente, dovrebbe servire a fornire la necessaria base economica e finanziaria del ménage, con tutto quello che siffatta soluzione comporta, anche dal punto di vista di una gestione quotidiana che appare assai difficile predeterminare nell’atto istitutivo del trust in tutti i sui molteplici (e sovente inaspettati) risvolti.

       A parte le specifiche perplessità sulla reale necessità, utilità e convenienza economica di un trust nelle situazioni testé delineate, ove si ritenesse (contrariamente all’opinione dello scrivente) di poter superare le riserve d’ordine generale sull’ammissibilità di un trust interno (riserve che dovrebbero però venir meno nel caso di trust costituito in presenza di un effettivo elemento di estraneità), potrebbero dunque ipotizzarsi trusts anche nella famiglia di fatto. Il costituente (uno dei conviventi, o entrambi, ovvero anche un terzo) potrebbe così segregare parte del proprio patrimonio, dettando al trustee norme a beneficio dell’unione di fatto e magari provvedere anche in ordine all’eventuale scioglimento di quest’ultima.

       E proprio in contemplation di una possibile rottura si dovrebbero inserire apposite previsioni volte a disciplinare la sorte dei cespiti patrimoniali, magari prevedendo una qualche forma di «ultrattività» del trust a tutela della parte debole e/o della prole. In ogni caso – a scanso di pericolosi equivoci – sarebbe opportuno individuare in maniera esplicita e certa le situazioni nelle quali la convivenza si dovrebbe considerare come venuta meno (invio di una lettera, fissazione di residenze anagrafiche distinte, ecc.).

       Con specifico riguardo al profilo della cessazione della convivenza, va aggiunto che una delle ragioni per le quali parte della dottrina raccomanda la creazione di trusts tra conviventi è rappresentata dalla possibilità di far assumere ad essi una valenza post mortem, il che peraltro – a parte la questione del possibile contrasto con il divieto dei patti successori, quanto meno sotto l’angolo visuale della frode alla legge – può porre problemi in relazione al tema della tutela dei legittimari. Al riguardo si precisa in dottrina che, mentre nel negozio di trasferimento dei beni dal settlor al trustee non è rintracciabile alcuna liberalità, per mancanza dell’animus donandi in capo al primo e dell’elemento oggettivo dell’arricchimento in capo al secondo, costituirebbe, invece, donazione indiretta l’attribuzione che il settlor attua a favore del beneficiario [54]. Tuttavia, la stessa dottrina ammette che assai problematica appare la tutela dei legittimari nelle diverse fattispecie che la pratica propone [55].

Sono, invece, sicuramente soggetti a riduzione da parte dei legittimari quei trusts che siano stati costituiti per testamento: d’altro canto, le norme nazionali sulle successioni sono fatte esplicitamente salve dall’art. 15 della Convenzione de L’Aja. Comunque, si consiglia l’inserimento, nell’atto istitutivo, di una clausola di salvaguardia che faccia obbligo, al fiduciario o al beneficiario finale del patrimonio, di garantire i diritti dei legittimari del disponente, ove lesi al momento della sua morte, integrando automaticamente, con beni o denaro, pur nei limiti del valore del trust, la quota loro riservata dalla legge. Ma, come si è avuto modo di vedere [56], la tutela del convivente superstite sembra attuabile anche mercé negozi o istituti maggiormente «collaudati» nel nostro ordinamento.

 

 

7. Famiglia di fatto e vincolo di destinazione ex art. 2645-ter c.c. Impostazione del problema.

 

E’ noto che l’art. 39-novies della l. 23 febbraio 2006, n. 51, di conversione con modifiche del d.l. 30 dicembre 2005, n. 273 («Recante definizione e proroga di termini, nonché conseguenti disposizioni urgenti. Proroga di termini relativi all’esercizio di deleghe legislative») è venuto ad introdurre nel nostro ordinamento l’art. 2645-ter c.c., volto a consentire «atti di destinazione per la realizzazione di interessi meritevoli di tutela» [57]. A prescindere dalle gravi questioni generali di inquadramento dell’istituto e dai suoi collegamenti con il trust, che formeranno oggetto di apposito e separato studio dello scrivente [58], va detto che alcuni tra i primi commentatori non hanno esitato a ravvisare nella disposizione la possibilità di creare vincoli in favore della famiglia di fatto: da disposizioni sulla casa familiare, alla protezione del patrimonio destinato ad alimentare le risorse del ménage, alla creazione di un vero e proprio fondo patrimoniale tra conviventi [59].

Il vero problema posto dalla norma consiste peraltro nella identificazione delle facoltà concesse al «conferente»: vale a dire se, mercé l’istituto in oggetto, sia possibile esclusivamente prevedere la costituzione di un vincolo su beni di proprietà del costituente medesimo, ovvero se la norma ammetta anche l’effettuazione di trasferimenti di diritti in capo ad un distinto «esecutore della destinazione» e, soprattutto, se tale soggetto possa ulteriormente vincolarsi a trasferire, una volta giunto a scadenza il periodo di durata del vincolo stesso, i beni ad un soggetto distinto, secondo quanto avviene nelle ipotesi di trust non autodichiarato [60]. E’ evidente che la risposta positiva ad un siffatto interrogativo consentirebbe di dar vita non solo ad un vero e proprio «fondo patrimoniale tra conviventi» – ciò che sicuramente appare possibile, avuto riguardo alla incontestabile rispondenza a criteri di meritevolezza di un vincolo ex art. 2645-ter c.c. in favore del ménage di fatto – ma addirittura di prevedere attribuzioni di cespiti patrimoniali in occasione di determinati eventi, quali la cessazione del vincolo o la morte del partner «forte».

Peraltro, i concetti di «destinazione per un determinato periodo» e di «vincolo», contenuti nella norma novellamente introdotta nel nostro codice civile, sono ben distinti da quello di «trasferimento di un diritto». Un bene può essere vincolato ad uno scopo senza essere trasferito ad un soggetto diverso dal suo titolare, come avviene, ad esempio, nel fondo patrimoniale su beni dei coniugi o nel trust autodichiarato, nel quale è lo stesso costituente a porsi quale trustee. Vincolo di destinazione significa che il bene può essere amministrato solo in vista della realizzazione di quello scopo e che tale bene è aggredibile dai soli creditori i cui diritti si fondano su atti di gestione compiuti in vista della realizzazione dello scopo medesimo. Ma tutto ciò, con il trasferimento dal costituente al trustee, che pure caratterizza il trust non autodichiarato, nulla ha a che vedere.

La prima e provvisoria conclusione alla quale sembra potersi pervenire sul punto è che l’art. 2645-ter c.c. si limita a prevedere la costituzione di un vincolo in maniera del tutto avulsa dal fatto che in vista di tale vincolo sia stato effettuato un trasferimento del diritto sul bene da vincolarsi, ovvero che le parti pattuiscano un ritrasferimento o un trasferimento ulteriore, una volta che il vincolo sia giunto a scadenza [61].

 

 

8. Art. 2645-ter c.c. ed effetti traslativi. Critica dell’opinione dominante.

 

Nonostante quanto si è illustrato nel paragrafo precedente, molti interpreti concordano nel ritenere che l’art. 2645-ter c.c. possa anche prevedere un momento traslativo. Più esattamente, mentre alcuni sembrano dare tale effetto quasi per scontato [62], altri cercano di fornire dimostrazioni al riguardo, sovente appoggiandosi alle ambiguità della formulazione normativa. Così, si è affermato che siffatta conclusione trarrebbe conferma dal fatto che il testo «considera normale l’eccedenza della durata del vincolo rispetto alla vita del disponente, perché chiama “conferente” il disponente e, infine, perché consente a terzi interessati di agire per l’attuazione della finalità dell’ “atto di destinazione” anche dopo la morte del “conferente” e, dunque, necessariamente, anche dopo la morte del conferente». Non solo. La legge, oltre a parlare di «conferente» e di «beni conferiti», attribuisce al conferente il potere di agire per l’adempimento dello scopo, così dando a intendere che, non potendosi immaginare che il conferente convenga in giudizio se stesso, dovrebbe ritenersi scontato l’intervento di un terzo soggetto, cui il diritto sul bene vincolato andrebbe trasferito [63].

Cominciamo dal termine [64] «conferente» e da quello, ad esso riferito, «beni conferiti». Sotto il profilo strettamente etimologico andrà notato che il verbo conferire, dal latino confero, deriva da cum-ferre: le espressioni in oggetto denotano dunque un atto traslativo (ferre) compiuto con altri soggetti. La conferma balza agli occhi sol che si ponga mente a fenomeni quali i conferimenti del diritto societario (cfr. ad es. artt. 2253, 2343 ss., 2440 c.c.), o il conferimento per la costituzione di fondi di garanzia (art. 2548 c.c.), ma anche il conferimento negli ammassi (art. 837 c.c.), oppure qualora si pensi al verbo «conferire», impiegato dalle norme (cfr. artt. 737, 739, 740, 751 c.c.) in tema di collazione (termine che deriva, a sua volta, proprio dal verbo conferre). La giurisprudenza impiega dal canto suo questa medesima terminologia per denotare l’inserimento, in comunione convenzionale tra coniugi, di uno o più beni che, in assenza di convenzione, sarebbero rimasti personali ex art. 179, lett. a), c.c. [65].

Altrettanto sicuramente può però rimarcarsi che, nel linguaggio corrente, il verbo «conferire» e il sostantivo «conferimento» possono essere riferiti anche ad un semplice atto di sottoposizione a vincolo, pure in assenza di trasferimento della proprietà sul bene vincolato, come dimostrato da una florida messe di pronunzie di legittimità, che, senza alcuna difficoltà, parlano di «conferimento» (e/o di «beni conferiti») in fondo patrimoniale [66], come del resto già si diceva per la dote, che parimenti si sostanziava in un mero vincolo [67] e, a quanto pare, si comincia a dire pure per il trust autodichiarato [68]. Quanto sopra dimostra che – anche senza necessariamente supporre lapsus freudiani del legislatore [69] – l’impiego dei termini in discorso non tradisce necessariamente l’intento di richiamare una vicenda traslativa di diritti, ben potendo riferirsi anche alla sola volontà di denotare la costituzione di un vincolo.

Per quanto attiene poi al fatto che il legislatore mostrerebbe di considerare normale l’eccedenza della durata del vincolo rispetto alla vita del disponente [70], va detto che non sussistono difficoltà nel riconoscere che il vincolo si trasmetta agli eredi del titolare del diritto vincolato: ma ciò non ha nulla a che vedere con la natura traslativa o meno del fenomeno descritto dall’art. 2645-ter c.c. Del resto non si riesce a comprendere perché mai un ipotetico «trustee all’italiana» ex art. 2645-ter c.c. dovrebbe essere dotato di una longevità maggiore di quella del costituente (pardon: conferente). Proprio l’ipotesi (pure essa «fisiologica») della premorienza di tale soggetto rispetto al momento di cessazione del vincolo, ben lungi dal risolvere il problema adombrato, pone, anzi, il quesito della trasmissibilità agli eredi di quest’ultimo.

Venendo alla legittimazione attiva concessa al conferente medesimo, si è asserito [71] che anche tale elemento confermerebbe gli effetti traslativi (o anche traslativi) della vicenda descritta nell’art. 2645-ter c.c., poiché non avrebbe senso legittimare il costituente ad agire contro se stesso. Qui si può però obiettare, in primis, che il riferimento all’azione del costituente ben può intendersi come riferita ad un’actio mandati del costituente stesso contro il mandatario che il medesimo abbia eventualmente incaricato di attuare lo scopo [72]. D’altra parte, come messo in luce in dottrina, «la previsione di una sistematica legittimazione attiva del conferente potrebbe (…) anche indicare che il conferente, essendo sempre altresì gestore del fondo destinato, ha il potere di attivarsi per la realizzazione del fine di destinazione contro qualunque soggetto terzo che tenti di impedirla» [73].

Concludendo sul punto, ben può concordarsi con chi afferma che la norma non pare offrire elementi testuali decisivi in un senso o nell’altro, poiché utilizza ora termini neutri al riguardo (beni «destinati»; «vincolo di destinazione»; «fine di destinazione»), ora termini ambivalenti, in quanto evocano l’immagine di un trasferimento di beni («conferente»; beni «conferiti»), ma vengono inseriti in un contesto in cui mai viene menzionata l’esistenza di un soggetto gestore che sia diverso dal soggetto autore della destinazione [74]. Proprio per questo motivo, anzi, se si considera che «profilo statico» (attinente alla costituzione del vincolo) e «profilo dinamico» (relativo al momento traslativo) sono concetti ben distinti e che l’idea stessa di un vincolo limitato nel tempo appare esclusivamente compatibile (in assenza di ulteriori elementi, magari propri della cultura di common law, ma inesistenti nel caso di specie) con l’erogazione di redditi (oltre che con l’utilizzo diretto) dei beni vincolati, dovrà necessariamente concludersi che il predetto vincolo non può ritenersi di per sé [75], per la sua struttura, finalizzato alla traslazione di diritti dominicali sui beni medesimi.

 

 

9. Vicende traslative disposte dall’autonomia delle parti in relazione all’art. 2645-ter c.c.

 

La conclusione di cui sopra – secondo cui costituzione di un vincolo e trasferimento del diritto sul bene già vincolato, o da vincolarsi, sono vicende radicalmente distinte tra di loro, mentre l’art. 2645-ter c.c. sembra far riferimento alla sola prima delle due, con conseguente differenziazione rispetto al trust – non risolve ancora di per sé sola l’ulteriore quesito circa la possibilità che le parti prevedano un trasferimento in vista dell’attuazione del vincolo, avvalendosi (non già della norma testé citata, ma) delle regole generali sull’autonomia privata. La questione rievoca gli accaniti dibattiti sull’idoneità del consenso a riprodurre nel diritto italiano questo effetto, tipicamente conosciuto dagli atti costitutivi di trust (almeno, di quelli non autodichiarati) nel diritto anglosassone [76]. Ad essa si farà cenno in altra sede [77], mentre qui non si potrà far altro che rilevare come l’esistenza di un articolo quale il 2645-ter c.c., ancorché non delineante di per sé – come si è visto – una fattispecie traslativa, possa oggi porsi quale idonea causa al trasferimento operato in funzione del vincolo di destinazione meritevole di tutela e costituito con il rispetto delle regole previste dalla disposizione.

In altre parole, mentre in precedenza il trasferimento in funzione della costituzione di un vincolo da trust, non coperto dall’operatività della Convenzione de L’Aja, per effetto del disposto del suo art. 4, non poteva ritenersi sorretto da idonea causa, se non ricorrendo alla controversa tesi della causa fiduciae, può ora dirsi che la translatio dominii compiuta in funzione della costituzione di un vincolo quale quello (malamente) descritto dall’art. 2645-ter c.c. sia giustificata, proprio perché diretta a porre in essere un vincolo (questa volta espressamente) riconosciuto dalla legge. Trattasi dunque di trasferimento causalizzato dall’art. 2645-ter c.c., in quanto posto in essere per raggiungere lo scopo meritevole di tutela e perché attuato verso un soggetto incaricato, in base ad un apposito mandato (e/o di un contratto d’opera, visto che il più delle volte non si tratterà certo solo di porre in essere atti giuridici), di porre in essere tutti i comportamenti ritenuti idonei al fine di ottenere il conseguimento dello scopo sperato.

Strettamente collegata al problema dell’effetto traslativo è la questione dell’eventuale ritrasferimento del diritto dominicale – una volta trascorso il periodo di durata, o che si sia verificata la morte del beneficiario – dall’ «attuatore» al costituente, o a un terzo, ovvero ancora dallo stesso costituente (e contemporaneamente «attuatore», o dagli eredi di quest’ultimo) ad un terzo. E’ noto che questo aspetto è uno dei profili salienti dei trusts, che sovente prevedono proprio la duplice figura del beneficiario immediato e del beneficiario finale: il primo dei quali è costituito dal soggetto che s’avvantaggia del vincolo di durata, mentre il secondo (che può anche coincidere con il primo) è la persona cui andrà trasferita la proprietà dei beni (già) vincolati [78].

Ancora una volta i sostenitori della ammissibilità del trust interno non sembrano mostrare dubbi sulla liceità di una siffatta pattuizione [79], al punto da spingersi ad ipotizzare la trascrivibilità immediata, nel caso di mandato senza rappresentanza ad acquistare, del «vincolo di destinazione dei beni a beneficio del mandante. Senza, quindi, necessità di attendere l’eventuale inadempimento del mandatario al fine di trascrivere la domanda di esecuzione in forma specifica dell’obbligo di ritrasferimento»; si assicurerebbe in tal modo «al mandante una tutela reale almeno a partire dal momento in cui l’acquisto è effettuato ad opera del mandatario» [80].

Ma, a parte il dubbio [81], più che legittimo, che la novella si occupi veramente del mandato senza rappresentanza e della causa fiduciae, tutto quanto si può ricavare (e con una certa fatica!) dall’art. 2645-ter c.c. è – come si è visto – l’ammissibilità di un trasferimento strumentale ad un vincolo e non certo quella di un vincolo strumentale ad un (ri)trasferimento. Il vincolo di cui si discute, infatti, per la sua intrinseca temporaneità non può esaurirsi se non in un impiego del bene perché il suo reddito (o il suo uso temporaneo) realizzi scopi meritevoli di tutela denunziati nell’atto costitutivo: tale impiego non può dunque risolversi un un’attribuzione definitiva del diritto dominicale (o di altri diritti reali) una volta esaurita la funzione per cui il vincolo era stato creato.

 

 

10. Conclusioni.

 

In base a quanto sopra illustrato rimane dunque evidenziata un’importante ragione di distinzione della fattispecie descritta dall’art. 2645-ter c.c. rispetto al trust, nel quale, come già ricordato, il fenomeno del ritrasferimento al settlor o del trasferimento ad un soggetto distinto dal trustee costituisce un elemento naturale del trust non autodichiarato [82]. Un elemento che peraltro viene sovente a porre, con riguardo alla nostra legislazione, seri problemi di compatibilità con taluni istituti del diritto successorio (e di ammissibilità stessa del trust, ai sensi dell’art. 15 della Convenzione de L’Aja): la clausola di ritrasferimento, se legata alla morte del trustee, potrebbe invero incorrere in nullità per violazione del divieto dei patti successori e, se contenuta in una disposizione mortis causa, per violazione dell’ordo successivus.

Deve dunque darsi per confermato che, in assenza di disposizioni normative che espressamente si occupino della successione del convivente, il testamento costituisce l’unico modo per operare il trasferimento mortis causa di diritti dall’uno all’altro dei partners, mentre il ricorso ai negozi post mortem sopra enucleati [83] potrà valere, per lo più, per assicurare la tranquillità economica della parte «debole», mercé negozi a favore di terzo che il convivente «forte» avrà dovuto avere l’accortezza di stipulare in vita. Tanto il trust (sempre, beninteso, che si ritenga l’istituto ammissibile, pur in difetto di elementi di internazionalità della fattispecie), quanto il vincolo ex art. 2645-ter c.c., infine, paiono adatti ad assicurare quella sicurezza economica cui si è appena fatto riferimento più attraverso l’erogazione di redditi (derivanti dal capitale vincolato) o la messa a disposizione dei beni vincolati (si pensi alla casa d’abitazione), che non attraverso la traslazione post mortem della proprietà su cespiti determinati.

Così ad esempio, il già più volte menzionato «fondo patrimoniale tra conviventi», grazie all’elevato livello di «duttilità» dello strumento ex art. 2645-ter c.c. rispetto a quello delineato dagli artt. 167 ss. c.c. [84] (ecco, finalmente, una conseguenza positiva della tecnica legislativa da paese del Terzo Mondo che sembra caratterizzare il legislatore italiano del terzo millennio!), ben potrebbe spingersi a prevedere l’erogazione del mantenimento di uno dei membri del ménage de fait, anche dopo la rottura di quest’ultimo, o dopo la morte del compagno, per tutta la vita del superstite.

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SOMMARIO

 



(*) Relazione presentata al convegno sul tema «Donazioni e successioni nell’evoluzione civilistica e fiscale. Tutela dei legittimari e circolazione dei beni. Assetti patrimoniali e pianificazione fiscale», organizzato da Paradigma – Ricerca e cultura d’impresa, svoltosi a Milano nei giorni 3 e 4 ottobre 2006 e a Roma nei giorni 20 e 21 novembre 2006.

[1] Decio, In Primam Secundamque Digesti Veteris. Item in Primam ac Secundam Codicis Partem Commentaria, Lugduni, 1547, f. 251.

[2] Cfr. l. maritus, C., de carboniano edicto (C. 6. 18. 1.).

[3] Oberto, I regimi patrimoniali della famiglia di fatto, Milano, 1991; Id., Partnerverträge in rechtsvergleichender Sicht unter besonderer Berücksichtigung des italienischen Rechts, in FamRZ, 1993, p. 1 ss.; Id., Le prestazioni lavorative del convivente more uxorio, Padova, 2003; Id., I contratti di convivenza tra autonomia privata e modelli legislativi, in Contr. impr./Eur., 2004, p. 17 ss.; Id., Contratti di convivenza e diritti del minore, in Dir. fam. pers., 2006, p. 240 ss.; Id., Contratto e famiglia, in Aa. Vv., Temi e problemi del contratto, a cura di Roppo, Milano, 2006 (in corso di stampa), cap. VI.

[4] Cfr. Oberto, I regimi patrimoniali della famiglia di fatto, cit., p. 83 ss.

[5] Cfr. Oberto, I regimi patrimoniali della famiglia di fatto, cit., p. 105 ss.; Id., Le prestazioni lavorative del convivente more uxorio, cit., p. 43 ss.

[6] Per i richiami cfr. Oberto, I regimi patrimoniali della famiglia di fatto, cit., p. 151 ss.; Id., I contratti di convivenza tra autonomia privata e modelli legislativi, cit., p. 17 ss.

[7] Cfr. ad es. Kunigk, Die Lebensgemeinschaft, Rechtliche Gestaltung von ehelichem und eheähnlichem Zusammenleben, Stuttgart, 1978, p. 128. Per i sistemi di common law v. Weitzman, Legal regulation of Marriage: Tradition and Change, in California Law Review, 62, 1974, p. 1253. Per una più approfondita disamina della questione e per i necessari rinvii cfr. Oberto, I regimi patrimoniali della famiglia di fatto, cit., p. 295 ss.; per la dottrina successiva cfr. del Prato, Patti di convivenza, in Familia, 2002, p. 986 s.; Coppola, La successione del convivente more uxorio, in Familia, 2003, p. 695 ss.

[8] Gazzoni, Dal concubinato alla famiglia di fatto, Milano, 1983, p. 165. E’ chiaro che ci si intende qui riferire ai soli patti successori istitutivi (detti anche confermativi), ex art. 458, prima parte, c.c.

[9] Cfr. per tutti Ferri, Successioni in generale, nel Commentario al codice civile, a cura di Scialoja e Branca, Bologna-Roma, 1964, p. 83 ss.; Grosso e Burdese, Le successioni. Parte generale, Torino, 1977, p. 94; De Giorgi, Patto successorio, in Enc. Dir., XXXII, Milano, 1982, p. 535. Nello stesso senso è orientata la giurisprudenza: v. Cass., 10 aprile 1964, n. 835, in Giust. civ., 1964, I, p. 1604; Cass., 24 luglio 1971, n. 2477, in Rep. Foro it., 1971, voce «Successione ereditaria», 31; Cass., 21 aprile 1979, n. 2228, in Rep. Foro it., 1979, voce «Successione ereditaria», 55.

[10] Cass., 10 aprile 1964, n. 835, cit.; cfr. anche Cass., 8 marzo 1985, n. 1896, in Rep. Foro it., 1985, voce «Lavoro (rapporto)», 1985, 496. Nello stesso senso v. in dottrina De Giorgi, Patto successorio, cit., p. 542 s.; Palazzo, I negozi trans-morte nellambito familiare, in Aa. Vv., I trasferimenti patrimoniali nellambi­to della famiglia. Aspetti civili e tributari. Convegno organiz­zato dal comitato Regionale Notarile della Sicilia, Taormina 20 e 21 novembre 1987, Palermo, 1987, p. 95 s.

[11] Cass., 6 gennaio 1981, n. 63, in Rep. Foro it., 1981, voce «Successione ereditaria», 20.

[12] De Giorgi, Patto successorio, cit., p. 547. In giurisprudenza v. Cass., 22 febbraio 1974, n. 527, in Rep. Foro it., 1974, voce «Successione ereditaria», 20.

[13] Diversa è la posizione di Palazzo, Autonomia contrattuale e successioni anomale, Napoli, 1983, p. 3 e passim, secondo cui l’interesse che giustificherebbe la conclusione dei patti successori sarebbe rivolto a realizzare trasferimenti soggetti ad una qualche forma di revoca da parte del disponente. Sembra invece che, almeno nella maggior parte dei casi, il desiderio di colui che intende disciplinare la propria successione con un atto inter vivos – specie se in favore di una persona cui il disponente è legato da speciali vincoli di carattere affettivo – sia quello non già di lasciarsi aperto uno spiraglio per un eventuale pentimento, bensì di operare un trasferimento dotato della definitività, anche se non immediatamente efficace. L’atto idoneo a soddisfare mortis causa, con disposizione però revocabile, il trasferimento di diritti è invece sicuramente costituito dal testamento.

[14] Cfr. Giannattasio, Delle successioni. Disposizioni generali. Successioni legittime, nel Commentario a cura di magistrati e docenti, Torino, 1971, p. 2821; De Giorgi, Patto successorio, cit., p. 535; cfr. anche Cass., 22 luglio 1971, n. 2404, in Foro it., 1972, I, c. 700.

[15] Per la dottrina che negli ultimi anni ha iniziato ad interrogarsi su un possibile superamento del divieto dei patti successori v. Lenzi, Il problema dei patti successori tra diritto vigente e prospettive di riforma, in Riv. notar., 1989, p. 1209 ss.; Rescigno, Trasmissione della ricchezza e divieto dei patti successori, in Vita notar., 1993, p. 1281 ss.; Rescigno, Attualità e destino dei patti successori, in Aa.Vv., La trasmissione familiare della ricchezza. Limiti e prospettive di riforma del sistema successorio, Padova, 1995, p. 1 ss.;  Caccavale e Tassinari, Il divieto dei patti successori tra diritto positivo e prospettive di riforma, in Riv. dir. priv., 1997, p. 74 ss.; Roppo, Per una riforma del divieto dei patti successori, in Riv. dir. priv., 1997, p. 5 ss.; Ieva, Il trasferimento dei beni produttivi in funzione successoria: patto di famiglia e patto d’impresa. Profili generali di revisione del divieto dei patti successori, in Riv. notar., 1997, p. 1371 ss.; Dogliotti, Rapporti patrimoniali tra coniugi e patti successori, in Fam. dir., 1998, p. 293 ss.; Zoppini, Il patto di famiglia (linee per la riforma dei patti per le successioni future), in Aa. Vv., Studi in memoria di Salis, Torino, 2000, II, p. 1265 ss. Giudica «inevitabile alla luce del quadro europeo» l’abolizione del divieto dei patti successori anche S. Patti, Regime patrimoniale della famiglia e autonomia privata, in Familia, 2002, p. 312. Per uno studio comparatistico del divieto dei patti successori v. Zoppini, Le successioni in diritto comparato, in Aa. Vv., Trattato di diritto comparato, a cura di Sacco, Torino, 2002, p. 155 ss.

[16] Cfr. De Giorgi, Patto successorio, cit., p. 536; Palazzo, Autonomia contrattuale e successioni anomale, cit., p. 50 ss.; Id., I negozi trans-morte nellambito familiare, cit., p. 79 ss.

[17] De Giorgi, Patto successorio, cit., p. 536 s.; Cass., 9 aprile 1947, n. 526, in Mon. trib., 1947, p. 143; Cass., 27 settembre 1954, n. 3136, in Giust. civ., 1955, I, p. 244. Suggerisce un’applicazione della donazione con riserva di usufrutto al campo dei rapporti tra conviventi more uxorio Mazzocca, La famiglia di fatto. Realtà attuale e prospettive, Roma, 1989, p. 114 ss.

[18] Torrente, Variazioni sul tema della donazione «mortis causa», in Foro it., 1959, I, c. 580; De Giorgi, Patto successorio, cit., p. 536 ss.

[19] Invero, la semplice costituzione di un’aspettativa di diritto a beneficio del donatario non sembra discostarsi di molto da quello che è l’effetto tipico del fenomeno successorio, vale a dire il trasferimento di un diritto per effetto del decesso di un soggetto: risulterebbe così evidente quell’identità di «risultati giuridici» che (a differenza della semplice identità di «risultati economici») determina l’illiceità della causa ex art. 1344 c.c.: v. Scognamiglio, Dei contratti in generale, nel Commentario al codice civile, a cura di Scialoja e Branca, Bologna-Roma, 1970, p. 345; nel senso della nullità per fraus legi sembrano orientati anche De Giorgi, Patto successorio, cit., p. 536 ss. e Ieva, I fenomeni c.d. parasuccessori, in Riv. notar., 1988, I, p. 1190 s.

[20] Per un approfondimento delle questioni legate all’adozione del convivente e per gli ulteriori rinvii cfr. Oberto, I regimi patrimoniali della famiglia di fatto, cit., p. 316 ss.

[21] De Giorgi, Patto successorio, cit., p. 538 ss.; Palazzo, Autonomia contrattuale e successioni anomale, cit., p. 76 ss; Id., I negozi trans-morte nellambito familiare, cit., p. 92 ss.; Ieva, I fenomeni c.d. parasuccessori, cit., p. 1149 ss.; cfr. inoltre Majello, Linteresse dello stipu­lante nel contratto a favore di terzi, Napoli, 1962, p. 201 s.; Moscarini, I negozi a favore di terzo, Milano, 1970, p. 219 s.

[22] In questo senso v. Kunigk, Die Lebensgemeinschaft, Rechtliche Gestaltung von ehelichem und eheähnlichem Zusammenleben, cit., p. 128.

[23] Sull’argomento cfr. Palazzo, I negozi trans-morte nellambito familiare, cit., p. 93; Ieva, I fenomeni c.d. parasuccessori, cit., p. 1155.

[24] Nel caso di assicurazione sulla vita a favore del convivente superstite, poi, la rinunzia del contraente e la dichiarazione del beneficiario vanno comunicate all’assicuratore: cfr. art. 1921, secondo comma, c.c.

[25] Cfr. Trib. Catania, 5 marzo 1958, in Banca, borsa, tit. cred., 1961, II, p. 311, con nota di Majello, che ha negato che l’espediente possa ritenersi in violazione del divieto dei patti successori; sull’argomento cfr. anche Nicolò, Disposizioni di beni «mortis causa» in forma «indiretta», in Riv. notar., 1967, I, p. 641 ss., secondo cui invece la pattuizione in esame sarebbe nulla per frode alla legge.

[26] Palazzo, Autonomia contrattuale e successioni anomale, cit., p. 95; Id., I negozi trans-morte nellambito familiare, cit., p. 96 ss.

[27] Oberto, I regimi patrimoniali della famiglia di fatto, cit., p 241 ss.; Id., I contratti di convivenza tra autonomia privata e modelli legislativi, cit., p. 49 ss.

[28] Cfr. Mazzocca, op. cit., p. 92; cfr. inoltre Gazzoni, Dal concubinato alla famiglia di fatto, cit., p. 165.

[29] E’ il suggerimento di Calò, Contratto di mantenimento e proprietà temporanea, nota a Cass., 11 novembre 1988, n. 6083, in Foro it., 1989, I, c. 1171. Per una serie di indicazioni pratiche al riguardo cfr. Peirano, Clausole in tema di contratto di mantenimento, in Notariato, 1995, p. 611 ss. V. inoltre lo studio n. 4089, approvato dalla Commissione Studi del Consiglio Nazionale del Notariato il 25 marzo 2003, dal titolo Contratto di mantenimento a favore del terzo «post mortem».

[30] V. per tutti Calò, Contratto di mantenimento e proprietà temporanea, cit., c. 1165; Andreoli, La rendita vitalizia, in Trattato di diritto civile, diretto da Vassalli, Torino, 1958, VIII, p. 47 ss. Per un caso di contratto di mantenimento tra conviventi in Germa­nia v. BGH, 29 giugno 1973, in NJW, 1973, p. 1645, che ha affermato la validità di un accordo con cui un uomo aveva trasferito alla propria convivente la proprietà di un immobile, riservandosi il diritto vitalizio d’abitazione sullo stesso, in cambio dell’im­pegno della convivente di assisterlo e curarlo per il resto dei suoi giorni (nella specie la Sittenwidrigkeit è stata esclusa perché il negozio non appariva direttamente rivolto a remunerare le prestazioni sessuali della convivente, tenuto conto, da un lato, della durata del rapporto e, dall’altro, che l’onere della prova dell’immoralità gravava sull’attore).

[31] Tali prestazioni accessorie possono avere natura patrimoniale (cfr. per esempio il caso risolto da Cass., 11 novembre 1988, n. 6083, in Foro it., 1989, I, c. 1168, in cui il vitaliziante si era impegnato verso il vitaliziato ad effettuarne «il trasporto in macchina in città italiane, della Francia o della Svizzera» e a «ospitare parenti ed amici del vitaliziato in caso di malattia»), ma anche non patrimoniale (si pensi all’impegno di prestare assistenza morale, o compagnia ovvero, ancora, di convivere con il vitaliziato), sulle quali ultime si addensano però i dubbi di validità già prospettati, tanto con riferimento alla possibilità per tali prestazioni di formare oggetto di rapporto obbligatorio e di contratto, ex artt. 1174, 1321 c.c., quanto, soprattutto, con riguardo agli aspetti d’ordine pubblico per l’eventuale lesione della libertà personale del vitaliziante.

[32] Per i richiami cfr. Oberto, I regimi patrimoniali della famiglia di fatto, cit., p. 242 ss.

[33] Cfr. Oberto, I regimi patrimoniali della famiglia di fatto, cit., p. 242 ss.

[34] Si tratterebbe in particolare di donazione di prestazioni periodiche, ai sensi dell’art. 772 c.c. Nel senso che tra le prestazioni di cui alla norma citata possono rientrare «quelle che hanno funzione alimentare, di beneficenza o di soccorso» cfr. Carnevali, Gli atti di liberalità e la donazione contrattuale, in Trattato di diritto privato, diretto da P. Rescigno, VI, Torino, 1982, p. 468. V. inoltre Cass., 29 novembre 1986, n. 7064, in Rass. dir. civ., 1988, p. 199 ss., che ha affermato la nullità, per mancato rispetto della forma solenne, di un contratto per scrittura privata, denominata «transazione», con cui una parte si era obbligata a versare all’altra una determinata somma mensile per tutta la durata della vita di quest’ultima.

[35] Si pensi alla casa d’abitazione e al relativo arredo, all’automobile, ecc.

[36] Per una disamina della questione cfr. Oberto, I regimi patrimoniali della famiglia di fatto, cit., p. 139 ss.; Id., Le prestazioni lavorative del convivente more uxorio, cit., p. 83 ss.

[37] Cfr. Cass., 8 giugno 1993, n. 6381, in Nuova giur. civ. comm., 1994, I, p. 339, con nota di Bernardini.

[38] Trib. Savona, 7 marzo 2001, in Fam. e dir., 2001, p. 529, con nota di Dogliotti.

[39] Si noti che la decisione ammette in astratto (e in obiter) la possibilità per il nudo proprietario di far valere in tal caso la presupposizione, con conseguente risoluzione del contratto, una volta venuta meno la convivenza. Per una critica di questo (solo) punto della decisione v. Oberto, Le prestazioni lavorative del convivente more uxorio, cit., p. 83 ss. Sulla astratta possibilità di costituire, purché nei limiti di forma previsti dalla legge per costituzione di diritti reali immobiliari e per gli atti di liberalità, un diritto reale di abitazione in favore del convivente v. l’affermazione in obiter contenuta in Trib. Palermo, 3 febbraio 2002, in Gius, 2003, p. 1506.

[40] Cfr. Cass., ch. mixte, 27 novembre 1970, in D., 1971, p. 81; Cass. Civ., 11 janvier 1983, ivi, 1983, p. 501; Aa. Vv., Couple et modernité, 84ème congrès des notaires de France, La Baule, 29 mai - 1er juin 1988, Malesherbes, 1988, p. 403 ss.; Morin, La clause daccroissement, in D., 1971, Chron., p. 55 ss.; Chappert, Droit d’usage et d’habitation et pacte tontinier, in Defrénois, 1999, n. 6, p. 330 ss.  Per avere un’idea del successo che Oltralpe ha avuto questa clausola basterà digitare l’espressione «achat en tontine» o quella «pacte tontinier» in qualsiasi motore di ricerca su Internet.

[41] Cfr. Cass., 18 agosto 1986, n. 5079, in Rep. Foro it., 1986, voce «Successione ereditaria», 33.

[42] Per uno studio italiano sul tema v. Calogero, «Tontine»  e  «achat tontinier». Ovvero, di una interessante vicenda francese, in Riv. dir. civ., 2000, II, p. 743 ss.

[43] Aa. Vv., Couple et modernité, cit., p. 408.

[44] La giurisprudenza d’Oltralpe suole riconoscere in tali atti delle donazioni dissimulate: v. Cass. Civ., 2 février 1966, in Bull. civ., 1966, I, n. 84, p. 63; Cass.. Civ., 8 julliet 1975, ivi, 1975, I, n. 225, p. 190; Cass. Civ., 22 octobre 1975, ivi, 1975, I, n. 291, p. 243; cfr. inoltre Aa. Vv., Couple et modernité, cit., p. 433.

[45] Cfr. Mazzocca, op. cit., p. 113.

[46] Cfr. Oberto, Trust e autonomia negoziale nella famiglia, in Fam. dir., 2004, p. 201 ss., 310 ss.; Id., Il regime di separazione dei beni tra coniugi. Artt. 215-219, in Il codice civile. Commentario fondato e già diretto da Piero Schlesinger, continuato da Francesco Donato Busnelli, Milano, 2005, p. 183 ss.; Id., Il trust familiare, disponibile al sito web seguente:

http://utenti.lycos.it/giacomo305604/milano11giugno2005trust/relazionemilano.htm.

[47] Cfr. Oberto, Trust e autonomia negoziale nella famiglia, cit., p. 203.

[48] Cfr. Lupoi, Lettera a un notaio conoscitore dei trust, in Riv. notar., 2001, p. 1168.

[49] Su cui v. per tutti Oberto, I regimi patrimoniali della famiglia di fatto, cit., p. 242 ss.; Id., I contratti di convivenza tra autonomia privata e modelli legislativi, cit., p. 49 ss.

[50] Cfr. Tarissi de Jacobis, Esecuzione di un’obbligazione morale, già disponibile al seguente indirizzo web:

http://www.il-trust-in-italia.it/TrustInterni2002/Liberali/Tarissi%20t.htm. Favorevole alla applicazione del trust alla famiglia di fatto è anche Cenni, Trust e fondo patrimoniale, in Aa. Vv., Il trust nel diritto delle persone e della famiglia. Atti del convegno.  Genova, 15 febbraio 2003, a cura di Dogliotti e Braun, Milano, 2003, p. 111 ss.; Ead., Il fondo patrimoniale, in Trattato di diritto di famiglia, diretto da P. Zatti, III, Regime patrimoniale della famiglia, a cura di Franco Anelli e Michele Sesta, Milano, 2002, p. 648. Per una panoramica delle questioni relative all’impiego del trust nell’ambito delle relazioni giuridiche familiari cfr. F. Patti, I trusts: problematiche connesse all’attività notarile, cit., p. 547 ss.; Dogliotti e Piccaluga, I trust nella crisi della famiglia, in Fam. e dir., 2003, p. 301 ss.; Aa. Vv., Il trust nel diritto delle persone e della famiglia. Atti del convegno. Genova, 15 febbraio 2003, a cura di Dogliotti e Braun, cit.; Viglione, Vincoli di destinazione nell’interesse familiare, Milano, 2005, p. 65 ss.

[51] Cfr. per tutti Oberto, I regimi patrimoniali della famiglia di fatto, cit., p. 151 ss.; Id., I contratti di convivenza tra autonomia privata e modelli legislativi, p. 31 ss.

[52] Così Coppola, op. cit., p. 739.

[53] Così, se si è ben compreso, Coppola, op. loc. ultt. citt.

[54] Sul punto v., anche per i richiami, Coppola, op. cit., p. 742 s.

[55] Cfr. Moscati, Trust e tutela dei legittimari, in Riv. dir. comm., 2000, I, p. 13 ss.; Lupoi, Trusts, Milano, 2001, p. 667 s.

[56] Cfr. supra, §§ 3 ss.; v. inoltre Oberto, I regimi patrimoniali della famiglia di fatto, cit., p. 295 ss.; Id., I contratti di convivenza tra autonomia privata e modelli legislativi, p. 80 ss.

[57] Più esattamente, secondo la disposizione in esame, «Gli atti in forma pubblica con cui beni immobili o beni mobili iscritti in pubblici registri sono destinati, per un periodo non superiore a novanta anni o per la durata della vita della persona fisica beneficiaria, alla realizzazione di interessi meritevoli di tutela riferibili a persone con disabilità, a pubbliche amministrazioni, o ad altri enti o persone fisiche ai sensi dell’articolo 1322, secondo comma, possono essere trascritti al fine di rendere opponibile ai terzi il vincolo di destinazione; per la realizzazione di tali interessi può agire, oltre al conferente, qualsiasi interessato anche durante la vita del conferente stesso. I beni conferiti e i loro frutti possono essere impiegati solo per la realizzazione del fine di destinazione e possono costituire oggetto di esecuzione, salvo quanto previsto dall’articolo 2915, primo comma, solo per debiti contratti per tale scopo».

[58] Lo studio è in fase di elaborazione, in previsione della relazione che lo scrivente dovrà presentare al convegno in tema di vincoli di destinazione ex art. 2645-ter c.c., organizzato per il giorno 18 novembre 2006 dal Consiglio Notarile di Torino e dalla Scuola di Notariato «Franco Lobetti Bodoni» di Torino. Per i primi commenti sull’art. 2645-ter c.c. v. Bartoli, Prime riflessioni sull’art. 2645 ter c.c. e sul rapporto fra negozio di destinazione di diritto interno e trust, in Corr. merito, 206, p. 697 ss.; M. Bianca, L’atto di destinazione: problemi applicativi, testo dattiloscritto agli atti del Convegno sul tema «Atti notarili di destinazione dei beni: Articolo 2645 ter c.c.», organizzato dal Consiglio Notarile di Milano il 19 giugno 2006; De Nova, Esegesi dell’art. 2645 ter cod. civ., testo dattiloscritto agli atti del Convegno sul tema «Atti notarili di destinazione dei beni: Articolo 2645 ter c.c.», cit.; D’Errico, Trascrizione del vincolo di destinazione, testo dattiloscritto agli atti del Convegno sul tema «Atti notarili di destinazione dei beni: Articolo 2645 ter c.c.», cit.; Fanticini, L’articolo 2645-ter del codice civile: “Trascrizione di atti di destinazione per la realizzazione di interessi meritevoli di tutela riferibili a persone a persone con disabilità, a pubbliche amministrazioni, o ad altri enti o persone fisiche”, in Aa. Vv., La tutela dei patrimoni, a cura di Montefameglio, Santarcangelo di Romagna, 2006, p. 327 ss.; Franco, Il nuovo art. 2645-ter cod. civ., in Notariato, 2006, p. 315 ss.; Gazzoni, Osservazioni sull’art. 2645 ter, disponibile alla pagina web seguente: http://www.judicium.it/news_file/news_glo.html; Lupoi, Gli “atti di destinazione” nel nuovo art. 2645-ter cod. civ. quale frammento di trust, in Trusts e attività fiduciarie, 2006, p. 169 ss.; Petrelli, La trascrizione degli atti destinazione, dattiloscritto agli atti del Convegno organizzato a Firenze dalla Associazione Italiana Giovani Notai il 24 giugno 2006 sul tema «Gli atti di destinazione e la trascrizione dopo la novella» (l’articolo è in corso di pubblicazione in Riv. dir. civ., 2006). 

[59] In quest’ultimo senso v. in particolare Fanticini, op. cit., p. 343.

[60] Sul punto si fa rinvio per tutti a Lupoi, I trust nel diritto civile, nel Trattato di diritto civile, diretto da Sacco, Torino, 2004, p. 237 ss., 277 ss.

[61] In questo senso sembra anche orientata la circolare n. 5/2006 della Direzione dell’Agenzia del Territorio, del 7 agosto 2006, la quale rimarca, testualmente, quanto segue: «Quanto ai profili di merito, sembra opportuno ribadire preliminarmente la circostanza che detti atti di destinazione producono soltanto effetti di tipo “vincolativo”. Come già in parte accennato, infatti, i beni oggetto degli atti di destinazione, pur venendo “segregati” rispetto alla restante parte del patrimonio del “conferente” – al fine di garantire la realizzazione degli interessi meritevoli di tutela cui è preordinato il vincolo – restano comunque nella titolarità giuridica del “conferente” medesimo».

[62] Ad avviso di De Nova, op. cit., p. 3 «Non sembra vi sia ragione di escludere che l’art. 2645 ter possa applicarsi anche ad un atto con cui il disponente trasferisce la proprietà dei beni a persona che li amministri a favore di terzi beneficiari, e così ad un negozio bilaterale»; nello stesso senso v. M. Bianca, op. cit., p. 7 ss., secondo cui il costituente può anche operare un trasferimento della proprietà ad un terzo «attuatore della destinazione»; D’Errico, Trascrizione del vincolo di destinazione, loc. cit.; Fanticini, op. cit., p. 330, che vede nella nuova figura codicistica il riferimento ai negozi traslativi atipici. Possibilista al riguardo parrebbe anche Busani, I notai ammettono il trust interno, in Il Sole 24-ore del 23 febbraio 2006, per il quale nella nuova norma codicistica «non c’è (...), anche se non la si può escludere a priori, alcuna attività traslativa». Contra Gazzoni, op. cit., § 7, il quale nega che l’art. 2645-ter c.c. possa riferirsi a vicende traslative.

[63] Cfr. Lupoi, Gli “atti di destinazione” nel nuovo art. 2645-ter cod. civ. quale frammento di trust, cit., p. 170. Si noti che, anche prima della novella del 2006, D’Errico, Trust e destinazione, in Aa. Vv., Destinazione di beni allo scopo. Strumenti attuali e tecniche innovative, Milano, 2003, p. 221 sottolineava «la struttura trinaria del negozio di destinazione: disponente è il soggetto che destina beni allo scopo, gestore è il soggetto investito dell’amministrazione di beni finalizzata a quegli scopi, beneficiario è il soggetto nel cui interesse è disposta la destinazione».

[64] «Freudiano», secondo Gazzoni, op. cit., § 1, è «il termine conferente, riferito a chi destina il bene, perché costui, ovviamente, non conferisce un bel niente rimanendo proprietario, onde è esclusa la nascita di un distinto ente».

[65] Cfr. Cass., 4 febbraio 2005, n. 2354, in Foro it., 2005, I, c. 1735; in Fam. e dir., 2005, p. 237, con nota di V. Carbone.

[66] Cfr. Cass., 15 gennaio 1990, n. 107; Cass., 18 marzo 1994, n. 2604; Cass., 9 aprile 1996, n. 3251; Cass., 2 settembre 1996, n. 8013; Cass., 2 dicembre 1996, n. 10725; Cass., 5 giugno 2003, n. 8991; Cass., 18 luglio 2003, n. 11230; Cass., 23 settembre 2004, n. 19131; Cass., 7 marzo 2005, n. 4933; Cass., 31 maggio 2006, n. 12998.

[67] Cass., 20 maggio 1977, n. 2096.

[68] Di «beni conferiti in trust» parla anche Trib. Bologna, 1 ottobre 2003, in Trusts e attività di fiduciarie, 2004, p. 67 ss.

[69] Secondo quanto invece ritenuto (come si è visto) da Gazzoni, op. cit., § 1, le cui conclusioni in parte qua appaiono peraltro pienamente condivisibili.

[70] Cfr. Lupoi, Gli “atti di destinazione” nel nuovo art. 2645-ter cod. civ. quale frammento di trust, cit., p. 170.

[71] Cfr. Lupoi, Gli “atti di destinazione” nel nuovo art. 2645-ter cod. civ. quale frammento di trust, cit., p. 170.

[72] Secondo Gazzoni, op. cit., § 7, è possibile «che il conferente concluda un autonomo contratto di gestione con un terzo, assumendo i costi e attribuendo i poteri. Si stipulerebbe allora, parallelamente al contratto di destinazione, un contratto di mandato, onde l’azione che l’art. 2645 ter c.c. attribuisce al conferente per la realizzazione dell’interesse, sarebbe appunto l’actio mandati».

[73] Cfr. Bartoli, Prime riflessioni sull’art. 2645 ter c.c. e sul rapporto fra negozio di destinazione di diritto interno e trust, cit., p. 701, il quale rileva ulteriormente che, «Quanto poi alla previsione della concorrente legittimazione ad agire di “qualsiasi interessato”, occorre preliminarmente considerare che il termine “interessato” potrebbe riferirsi sia ad un soggetto beneficiario in senso tecnico del negozio di destinazione, sia ad un soggetto che, pur non essendo beneficiario in senso tecnico di detto negozio, destinato a riceverne vantaggi eventuali, sia ad un soggetto cui il conferente abbia attribuito, nel negozio di destinazione, il ruolo di controllore dell’attività del gestore, sia infine al soggetto gestore».

[74] Cfr. Bartoli, Prime riflessioni sull’art. 2645 ter c.c. e sul rapporto fra negozio di destinazione di diritto interno e trust, in p. 701.

[75] Il significato ed i limiti dell’inciso «di per sé» saranno chiariti nel paragrafo immediatamente successivo.

[76] Cfr. per tutti Mariconda, Contrastanti decisioni sul trust interno: nuovi interventi a favore, ma sono nettamente prevalenti gli argomenti contro l’ammissibilità, in Corr. giur., 2004, p. 57 ss.

[77] Ci si riferisce al già citato studio in preparazione sui rapporti tra art. 2645-ter c.c. e trust.

[78] Sul tema v. per tutti Lupoi, I trust nel diritto civile, cit., p. 292 ss., 317 ss.

[79] Cfr. Lupoi, Gli “atti di destinazione” nel nuovo art. 2645-ter cod. civ. quale frammento di trust, cit., p. 172 s., il quale osserva al riguardo quanto segue: «Guardando al momento finale, quando il vincolo cessa, nel diritto dei trust è perfettamente possibile che i beni in trust tornino al disponente o ai suoi eredi o comunque a un soggetto diverso da quello in favore dei quale erano stati vincolati net corso del trust. Questo è ciò che normalmente avviene nei trust interni per sostenere persone con disabilità: durante la vita delle persone con disabilità il reddito dei beni è al loro servizio e, se necessario, lo sono anche i beni stessi (alienabilità dei beni in trust), ma successivamente il trustee trasferisce i beni o i beni residui ad altri soggetti (usualmente gli altri figli del disponente) e il trust cessa. Il vincolo, quindi, non è andato a vantaggio del soggetto, titolare dei beni vincolati né nella vigenza del vincolo né alla sua cessazione. Questa configurazione potrebbe non essere necessariamente richiesta per gli “atti di destinazione” perché non sembra esservi incompatibilità fra il vincolo e la patrimonializzazione, in capo al soggetto proprietario, alla cessazione del vincolo medesimo. Infatti, il disponente che vincoli i beni per un breve periodo e, al termine, sia vivo riacquista la pienezza della posizione dominicale. Lo stesso potrebbe accadere al diverso soggetto al quale il disponente abbia trasferito i beni con il patto che, alla cessazione del vincolo, i beni gli appartengano pienamente (vi è una analogia con il fedecommesso assistenziale)».

[80] Così Petrelli, La trascrizione degli atti destinazione, cit., p. 8.

[81] Su cui v. anche Lupoi, Gli “atti di destinazione” nel nuovo art. 2645-ter cod. civ. quale frammento di trust, cit., p. 170.

[82] Sul fatto che nel trust vi possano essere, rispetto ad un medesimo vincolo di destinazione, beneficiari immediati e beneficiari finali, v. Lupoi, L’atto istitutivo di trust, Milano, 2005, p. 94 ss.; Petrelli, Formulario notarile commentato, III, 1, Milano, p. 1024, 1036; Id., La trascrizione degli atti destinazione, cit., p. 13.

[83] Cfr. supra, §§ 3 ss.

[84] Che è, ovviamente, comunque inapplicabile alla famiglia di fatto.