MODELLI EDUCATIVI
IDEOLOGICI, CULTURALI E RELIGIOSI
RISPETTO AL MINORE DI GENITORI IN CRISI
Sommario: 1. Introduzione. Modelli educativi
ideologici, culturali, religiosi e dovere di rispetto della vita privata e
familiare. – 2. Il divieto di discriminazioni basate
sull’orientamento sessuale e la sua proiezione sull’affidamento della prole
nella crisi del rapporto di coppia eterosessuale. – 3.
Il divieto di discriminazioni basate sulle scelte «di vita», ideologiche,
culturali e religiose e la sua proiezione sull’affidamento della prole nella
crisi del rapporto di coppia. – 4. Il ruolo della
volontà del minore nella determinazione del giudice. – 5.
Affidamento della prole e questioni religiose. In particolare: l’affidamento
al genitore testimone di Geova. – 6. Il contrasto su
scelte «di vita», ideologiche, culturali e religiose non influenti
sull’affidamento e l’intervento del giudice. – 7. Gli
accordi tra i coniugi in crisi sul tipo di educazione (ivi compresa quella religiosa)
da impartire ai figli e i poteri del giudice. – 8. Gli
accordi tra i coniugi sui moduli educativi legati a determinate scelte «di
vita», o di tipo ideologico, culturale o religioso nel contesto degli accordi
di carattere non patrimoniale. L’affidamento consensuale a terze persone. Le
clausole di natura patrimoniale a garanzia degli accordi di carattere non
patrimoniale. – 9.
La disciplina pattizia dei rapporti con la prole nella crisi della famiglia
di fatto. Gli elementi ricavabili dalla riforma sull’affidamento condiviso. –
10. Accordi sulla prole naturale, titolo esecutivo e
«omologazione». – 11. I problemi posti dalla
separazione della coppia omogenitoriale. |
Il tema del rilievo che i modelli educativi
ideologici, culturali e religiosi possono assumere rispetto al trattamento
giuridico del minore di genitori il cui rapporto sia entrato in crisi si
iscrive in quella assai più vasta area concettuale e giuridica che va sotto il
nome di «vita privata e familiare», con riguardo alla quale due rilevanti
strumenti di livello internazionale fondano un vero e proprio «diritto». Ci si
intende, naturalmente, riferire all’art. 8 della Convenzione europea per la
salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali [1], nonché all’art. 7 della Carta di Nizza [2].
Diffusa è l’opinione che la famiglia cui fa richiamo
tale ultimo articolo, specie alla luce del fondamentale principio di non discriminazione,
scolpito nell’art. 21 della medesima Carta europea [3], risponda ad una «nozione aperta», nell’intento di
capovolgere la regola in base alla quale la definizione di famiglia dovrebbe
necessariamente coincidere con il modello tradizionale, fondato sul matrimonio
(inteso, oltre tutto, come sola unione eterosessuale), e di introdurre, così,
il principio della libertà dei modelli familiari nell’ordinamento dell’Unione
Europea [4].
Pur nella perdurante assenza di un diritto europeo della famiglia [5], occorre constatare come si sia oggi in presenza di
un (ricco ed articolato) diritto europeo sulla
famiglia, di cui i regolamenti comunitari del settore [6], ma anche la giurisprudenza della Corte di Giustizia
e, soprattutto, della Corte Europea dei diritti dell’uomo costituiscono già una
poderosa ossatura. Proprio con riguardo alla giurisprudenza di Strasburgo, si è
esattamente rimarcato che, con specifico riferimento al diritto al rispetto
della vita familiare, si va, da qualche tempo, affiancando all’approccio
originario una nuova lettura dell’art. 8 cit., secondo cui tale norma non solo
vieta un’ingerenza ingiustificata nello svolgimento delle relazioni familiari,
ma impone ad ogni singolo stato di legiferare in materia (c.d. affirmative obligation, affirmative action), cioè di intervenire
laddove un’assenza di legislazione, una carenza di strumenti di tutela si
concretizza in un mancato rispetto della vita familiare; laddove, inoltre,
questa stessa carenza di regolamentazione non permette un normale svolgimento
di un determinato stile di vita familiare [7].
Significativa l’evoluzione della giurisprudenza della
Corte Europea con riguardo alla nozione stessa di famiglia. E’ noto che i
giudici di Strasburgo hanno, in un primo momento, privilegiato un’interpretazione
unitaria dell’art. 8 e dell’art. 12 della Convenzione, nel senso della tutela
dell’unica forma di vita familiare quale è quella fondata sul matrimonio,
inteso come unione di persone di sesso diverso [8]. Successivamente, in considerazione della natura
della Convenzione quale strumento vivente, da interpretare cioè in modo
evolutivo alla luce delle concezioni prevalenti negli Stati partecipanti, la
Corte ha orientato la propria lettura delle norme convenzionali in maniera più
ampia. Ha ritenuto cioè che alla base della famiglia di cui all’art. 8 della
Convenzione vi sia la cellula uomo-donna costituente un rapporto coniugale od
altra relazione affettiva che, pur se non riconducibile al matrimonio, ne
condivida gli aspetti essenziali. In applicazione del principio di effettività,
la Corte ha poi inteso far rientrare nell’ambito di applicazione dell’art. 8,
primo comma, oltre alle relazioni fondate sul matrimonio, soltanto i rapporti
affettivi costituiti da persone di diverso sesso conviventi more uxorio per un certo periodo di
tempo e connotati da un sufficiente carattere di stabilità – desumibile, ad
esempio, dalla coabitazione durevole e dalla nascita di figli – nonché dalla
volontà di costituire una famiglia [9].
Simile evoluzione nella giurisprudenza della Corte
europea rinviene del resto il suo parallelo nel percorso che lo stesso giudice
di Strasburgo ha compiuto in materia di rapporti genitori-figli, laddove esso
ha, fin da anni lontani, assicurato, in base all’art. 8, protezione ai rapporti
tra genitori e figli naturali [10], estendendo inoltre la tutela della vita familiare
oltre lo stretto ambito delle relazioni tra genitori e figli per abbracciare
quelle con i parenti [11].
Analogo percorso evolutivo non può dirsi ancora
integralmente compiuto dalla Corte europea con riguardo alle coppie composte da
soggetti del medesimo sesso [12], ancorché – come si vedrà tra breve [13] – alcune decisioni sembrino preludere ad un prossimo
riconoscimento della necessità di un’affirmative
action da parte degli Stati membri
anche in questo peculiare settore.
Rispetto della vita privata e familiare – specie in un
contesto in cui, come si è appena visto, la stessa nozione di «famiglia» appare
destinata ad allargarsi – significa dunque anche rispetto della pluralità dei
modelli educativi del minore, sempre, beninteso, nell’ambito della tutela
dell’interesse esclusivo della prole: un interesse che non può però non
conformarsi proprio con riguardo alla considerazione del predetto pluralismo.
E’ chiaro, poi, che la valutazione in concreto di tale interesse, anche secondo
la ormai consolidata lettura operata dalla giurisprudenza, non deve essere lo
strumento per introdurre nel giudizio standard
medi di valutazione o, ancor peggio, convinzioni personali del giudice. Esso
deve servire per soddisfare l’interesse di quel particolare minore (inteso,
quindi, quale individuo concreto, e non già alla stregua di una figura teorica
ed astratta), cresciuto ed educato all’interno di quel particolare nucleo
familiare (da avere, del pari, presente nella sua realtà concreta di pulsioni,
valori e progetti).
Rilevante diviene, a questo punto, la ricerca di quali
siano le differenti situazioni nelle quali diversi «stili di vita» e modelli
ideologici, culturali e religiosi nell’educazione della prole (o comunque
influenti sull’educazione della prole) possono venire a prospettarsi ed
eventualmente a confliggere tra di loro. Il primo di questi «stili di vita» o
«modelli culturali» [14] che può venire in considerazione come confliggente
rispetto a quello «tradizionale» attiene all’omosessualità di uno dei genitori:
al tema sarà dedicato il § immediatamente seguente. Si tratterà poi di
analizzare i modelli culturali fondati su altri particolari «stili di vita»,
nonché quelli legati all’appartenenza a confessioni religiose differenti. Una
volta esaminato l’atteggiamento dei giudici (italiani, stranieri e
sovranazionali) sul tema, si passerà infine a vedere se e quale spazio possano
avere gli accordi tra i genitori sui moduli educativi della prole, nell’ambito
tanto della famiglia legittima, che di quella di fatto.
Iniziando, dunque, dalla questione dell’omosessualità
di un genitore, va rimarcato come essa appaia strettamente legata al tema del
divieto di discriminazioni basate sull’orientamento sessuale. Il problema è
stato affrontato sia a livello sovranazionale, che sul piano della disciplina
interna. Per quanto riguarda il primo aspetto – fermo restando quanto posto in
luce in altra sede con riferimento alla Carta di Nizza ed alle altre
considerazioni attinenti agli interventi dell’Unione Europea [15] – sarà opportuno tenere presenti alcune prese di
posizione della Corte Europea dei diritti dell’uomo.
Se è vero, infatti, che la Corte di Strasburgo si è
(per lo meno sino ad ora) astenuta dall’estendere alle coppie omosessuali i
principi attinenti alla legislazione matrimoniale, con le conseguenti norme «di
favore» verso i nubendi, essa ha chiaramente preso posizione in senso contrario
all’applicazione di principi «di sfavore» (e dunque discriminatori) verso
genitori omosessuali.
Intendo riferirmi, in primo luogo, alla sentenza del
21 dicembre 1999, nel caso Salgueiro da
Silva Mouta v. Portugal [16]. Qui la Corte europea ha ritenuto che una decisione
della Corte d’appello di Lisbona, la quale aveva negato l’affidamento della
figlia minorenne al padre, motivando sulla base dell’omosessualità di
quest’ultimo e della sua convivenza con un altro uomo, costituisse violazione
degli artt. 8 e 14 della Convenzione [17].
Sarà interessante notare, poi, che il riscontro della
medesima violazione dell’art. 14 cit., «combiné avec l’article 8» si pone alla base
del successivo arresto del 22 gennaio 2008, con il quale i giudici di
Strasburgo hanno condannato la Francia nel caso E.B. v. France, dichiarando contrario alla Convenzione il diniego
dell’idoneità all’adozione deciso dalle autorità di uno Stato membro che
consente per legge al singolo di adottare, qualora tale diniego sia motivato
con la mancanza di un riferimento genitoriale del sesso opposto a quello
dell’aspirante genitore adottivo celibe o nubile [18].
In una battuta, il messaggio che arriva dalla Corte di
Strasburgo, se non può ricondursi ad una affirmative
action in favore dell’omogenitorialità, contiene pur sempre un chiaro e
netto fin de non recevoir opposto ad
ogni tentativo di considerare l’omosessualità e il desiderio di
omogenitorialità come ragione di trattamento deteriore. Dunque, in questi
termini, ed in questi limiti, parlare di «riconoscimento» e di «avallo» (nel
senso, per l’appunto, di accoglimento di rilevanti istanze di pari
trattamento), da parte della Corte europea, del fenomeno dell’omogenitorialità
non sembra poi così fuori luogo [19].
Passando all’esame della situazione italiana sul punto
qui in discussione, va ricordato che, in base ai principi sanciti agli artt.
155 ss. c.c. (così come risultanti dalla già ricordata riforma sull’affidamento
condiviso), l’affidamento ad un solo genitore è previsto alla stregua di una
situazione eccezionale e postula un giudizio non solo di «valore» nei riguardi
dell’affidatario, bensì anche un corrispondente giudizio di «disvalore»
(beninteso non in termini assoluti, bensì in relazione alle capacità educative
ed al possesso delle qualità tali da rendere quel soggetto idonea figura
genitoriale di riferimento) nei confronti del non affidatario [20]. Ma è chiaro che, nell’ambito di tali giudizi, nessun
rilievo può giocare la considerazione dell’orientamento sessuale del genitore,
sia esso o meno accompagnato da una situazione di convivenza con un partner del medesimo sesso.
Diverse
sono ormai le decisioni italiane che si collocano sulla linea tracciata dalla
sentenza della Corte di Strasburgo nel caso Salgueiro
da Silva Mouta, di cui si è appena detto.
Così, nel 2006 il tribunale di Napoli [21] ha preso chiaramente posizione in favore
dell’idoneità di un genitore omosessuale ad essere affidatario della prole minorenne,
utilizzando espressioni assai decise e che non hanno mancato di suscitare
reazioni (ingiustificatamente) perplesse di una parte della dottrina [22].
Beninteso, la relazione omosessuale del genitore potrà
in concreto, vale a dire in casi specifici, fondare un giudizio negativo
sull’affidamento o sull’idoneità genitoriale solo allorquando sia posta in
essere con modalità pericolose per l’equilibrato sviluppo psico-fisico del
minore. Tanto, però, può affermarsi anche per una relazione eterosessuale. A tal
proposito il tribunale di Napoli richiama opportunamente alcuni precedenti
giurisprudenziali, in cui la relazione extraconiugale (eterosessuale) del
genitore è stata valutata negativamente quanto alle conseguenze sulla prole [23]. Proprio questi rilievi consentono, a mio avviso, di
superare le preoccupazioni espresse in dottrina da chi teme che la discussione
sui temi in esame «rischi talvolta di trasformare i minori in un mezzo per la
promozione dei diritti degli adulti
omosessuali» [24]. In realtà, è più che evidente che la sacrosanta
rivendicazione di una parità di trattamento tra genitori (etero- o omosessuali
che siano) e di una perfetta indifferenza, sul piano delle caratteristiche
della genitorialità, dell’orientamento sessuale delle figure parentali, non può
attentare all’altrettanto sacrosanta affermazione del principio di assoluta primauté della tutela dell’interesse dei
minori coinvolti, ponendosi, anzi, quale strumento per un’effettiva
realizzazione, nel caso concreto, di questa tutela [25].
Una successiva decisione del tribunale di Bologna [26] ha stabilito che la condizione omosessuale di uno dei
genitori non giustifica e non consente di motivare la scelta restrittiva
dell’affidamento esclusivo all’altro. Nella specie, dopo otto anni di
matrimonio e la separazione consensuale, avvenuta nel 2006 perché il marito si
era scoperto gay, la bambina era
stata affidata alla madre, con la facoltà per il padre di vederla quando lo
desiderava, previo accordo. Allorquando il padre propose di portare la figlia
in vacanza sull’isola di Samos, in Grecia, la madre si oppose, affermando che
quella località sarebbe «notoriamente frequentata quasi esclusivamente da
omosessuali» (sic), con la
conseguenza che la figlia avrebbe potuto scoprire «l’omosessualità del padre
senza una graduale e adeguata preparazione». Da qui la decisione del padre di
chiedere l’affido condiviso, poi concesso dal tribunale. Per il tribunale
felsineo, «non vi è alcuna prova che l’isola di Samos costituisca meta
privilegiata del turismo omosessuale» e comunque «il Tribunale non ha motivo –
in assenza di pregiudizio per la figlia – di imporre al padre una località di
vacanza diversa da quella prescelta».
Il caso deciso dal tribunale di Bologna presenta la
peculiarità della richiesta della modificazione dell’affidamento della bambina:
da esclusivo alla madre a condiviso insieme al genitore omosessuale.
Applicando le norme sull’affidamento condiviso al caso
in questione, i giudici bolognesi hanno evidenziato come l’omosessualità del
genitore non sia un elemento ostativo al raggiungimento degli obiettivi della
riforma del 2006. Infatti, per derogare alla regola dell’affidamento condiviso,
occorre, secondo quanto stabilito anche dai supremi giudici di legittimità,
«che risulti nei confronti di uno dei genitori una sua condizione di manifesta
carenza o inidoneità educativa o comunque tale da rendere quell’affidamento in
concreto pregiudizievole per il minore» [27]. L’orientamento sessuale, dunque, non è
ricollegabile, di per sé, a condizione di carenza o inidoneità educativa,
mentre nel caso concreto, i giudici bolognesi hanno verificato la presenza di
interesse del genitore nei confronti della figlia [28].
Poiché unico criterio che deve orientare la
valutazione giudiziale è quello rappresentato dal best interest del minore, anche riguardo alla sfera delle scelte
personali e più intime del genitore – al pari di altri aspetti, legati alle
opzioni politiche, culturali o religiose – deve affermarsi la rigorosa
neutralità del giudice rispetto agli opposti sistemi di valori cui si ispiri la
condotta educativa dei genitori, con l’ovvio limite costituito dal pregiudizio
per la persona del figlio (artt. 330 e 333 c.c.) [29].
Da notare infine, sul tema dell’affidamento a genitore
omosessuale, che, per altro verso, rispetto al profilo esaminato sin qui nel
contesto del presente §, le «accuse» [30] di omosessualità rivolte da un genitore all’altro, al
fine di sollecitare interventi giurisdizionali restrittivi dell’esercizio dei
diritti inerenti alla posizione genitoriale (sul piano, cioè, dell’affidamento,
del collocamento della prole, dei diritti di visita, ecc.), non solo non
risultano essere mai state prese in considerazione ai fini dell’imposizione di
misure limitative nei confronti del genitore «accusato», bensì, tutto al
contrario, sono state talora valutate come elemento idoneo, in concorso con
altri, a determinare provvedimenti negativi nei confronti del genitore
«accusatore».
Sul punto è intervenuta la Cassazione [31], in relazione ad un caso in cui a sostegno della
propria richiesta di affidamento esclusivo (e, in subordine, di quello
condiviso), il padre aveva allegato l’inidoneità educativa della moglie, sul
presupposto di una pretesa relazione omosessuale dalla stessa intrattenuta con
un’amica. La richiesta del marito non ha però trovato accoglimento, in ragione
della assoluta infondatezza e del difetto di prova circa l’asserita relazione
intima della donna. Ma le meditate e assai condivisibili argomentazioni del
giudice del merito, nella decisione poi confermata dal S.C. – corredate dai
richiami all’art. 3 Cost., agli artt. 8 e 14 della Convenzione europea dei
diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali nonché all’art. 21 della Carta
dei diritti fondamentali dell’UE – inducono a ritenere che l’esito del giudizio
non sarebbe stato diverso, ove quella relazione fosse stata adeguatamente e
compiutamente dimostrata [32].
Nella fattispecie, il padre è risultato di per sé
(ovvero: senza che la conflittualità fra i genitori abbia interferito sulla decisione
di affidamento esclusivo), inidoneo alla condivisione dell’esercizio della
potestà genitoriale in termini compatibili con la tutela dell’interesse
primario del minore. La Cassazione ha infatti avallato il ragionamento seguito
dalla decisione d’appello, fondato sul «comportamento gravemente screditatorio
[da parte del padre] della capacità educativa della madre, adottato dal marito
con non provate accuse anche di sue relazioni omosessuali». Tale atteggiamento
è stato ritenuto fonte «di oggettiva inidoneità del padre alla condivisione
dell’esercizio della potestà genitoriale in termini compatibili con la tutela
dell’interesse primario del minore, mentre la madre aveva mostrato, invece,
disponibilità a favorire rapporti tra il padre e il figlio che allo stato
appare sereno e ben integrato scolasticamente» [33].
Il principio risulta tanto più condivisibile, ove si
ponga mente al fatto che, secondo quanto dimostrato dalla prassi, nei casi di
alto tasso di conflittualità tra i genitori, la condizione di omosessualità di
uno dei partners è sempre invocata
dall’altro come fattore idoneo a perturbare l’equilibrio psicofisico del minore
e dunque tale da giustificare l’affidamento esclusivo al genitore eterosessuale
[34].
Sulla stessa linea della Cassazione si pone un decreto
del giudice minorile di Catanzaro, con il quale il minore è stato affidato
esclusivamente alla madre in quanto il padre, pregiudicato ed alcolista, non
avrebbe costituito un modello educativo per il figlio, non solo per la condanna
per omicidio volontario, ma anche per aver più volte dimostrato atteggiamenti
discriminatori e razzisti contro omosessuali e drogati [35].
Veniamo ora a trattare delle scelte «di vita»,
ideologiche, culturali e religiose dei genitori, chiarendo innanzi tutto che le
divergenze sul punto possono dar luogo, in linea di principio, ai due seguenti
distinti tipi di conflitti.
(a) Il primo attiene alla scelta sul modello di
affidamento (se, cioè, congiunto ovvero esclusivo) ed eventualmente alla scelta
del genitore affidatario (nel caso, cioè, di affidamento esclusivo), o
collocatario (nel caso di affidamento congiunto), così come alle eventuali
prescrizioni attinenti alla concreta gestione del rapporto genitoriale nella
fase della crisi coniugale.
(b) Il secondo riguarda, invece, il contrasto su
singole decisioni di particolare interesse relative alla vita e all’educazione
della prole: dalla scelta se battezzare o meno il figlio, a quella se fargli o
meno seguire un tipo di scuola (laica, religiosa, ideologicamente orientata,
etc.) piuttosto che un’altra, se consentirgli di frequentare certi ambienti,
persone, etc.
Sul punto può senz’altro concordarsi con chi ha
affermato [36] che, in linea di principio, nessuna rilevanza, in
materia d’affidamento e diritto di visita, dovrebbero avere gli orientamenti
educativi dell’uno e dell’altro genitore, salvo che si possa prospettare un
pregiudizio per il minore, rilevante ex
artt. 330 e 333 c.c. Infatti, in un regime democratico e in una società
pluralista, si può chiedere ai genitori di non coartare la volontà dei figli,
ma non imporre contenuti educativi preordinati: ciò in forza dei principi
espressi dagli artt. 3 e 30 Cost. Deve, infatti, affermarsi la rigorosa
neutralità del giudice rispetto agli opposti sistemi di valori cui può
ispirarsi la condotta educativa dei genitori. In altri termini, il giudice non
può essere chiamato ad esprimere una preferenza tra i due genitori scegliendo
tra due morali e due concezioni della vita diverse o contrapposte.
Ciò anche nel caso in cui le scelte di vita operate
dal genitore possano apparire, da un punto di vista morale largamente diffuso,
riprovevoli, come nel caso dell’affidamento del figlio minore di una nota
pornodiva, nel quale la relativa ordinanza presidenziale ebbe a dichiarare tale
determinazione (l’affido, cioè, alla madre) conforme al principio codificato dall’art.
155 c.c., dell’«interesse materiale e morale del minore», la cui applicazione
induce a distinguere tra violazione degli obblighi matrimoniali ed «incapacità
educativa» [37]. In questo medesimo ordine di idee si è ritenuto non
costituire ostacolo all’affidamento l’attività di prostituta, spogliarellista e
entraineuse esercitata dalla madre,
qualora la medesima abbia sempre adempiuto ai propri doveri di genitrice e
abbia circondato del dovuto riserbo la sua attività, in modo da evitare che i
figli venissero a contatto con il torbido ambiente della prostituzione [38]. In questa stessa ottica va collocata la sentenza del
giudice minorile di Torino, che ha invece definito «comportamento
obiettivamente pregiudizievole» nei confronti del figlio di dieci anni quello
del padre che, a seguito di una lunga separazione dalla famiglia, ricompaia
nella vita del figlio dopo aver assunto identità femminile (transessualità),
causando grave turbamento nel bambino che non accetta una così sconcertante
figura di padre-madre, con fisico, abbigliamento, professione (spogliarellista)
del tutto diversi da quelli del normale modello paterno [39].
Numerose sono poi le decisioni che hanno ritenuto
possibile affidare la prole al genitore a cui sia stata addebitata la
separazione, o che abbia instaurato un nuovo rapporto affettivo o una
convivenza more uxorio con un’altra
persona [40]. Non si è, infatti, mancato di rilevare che la
circostanza della convivenza con un nuovo partner
non può essere considerata, alla stregua delle concezioni etiche dell’odierna
società, fatto moralmente censurabile [41]. Gli unici elementi comportamentali che la
giurisprudenza considera ostativi all’affidamento della prole, ma solo in
quanto idonei a turbare l’equilibrio e la serenità di vita del minore sono
rappresentati da turbe psichiche e instabilità caratteriale del genitore [42].
Quanto alla
scelta religiosa, andrà ribadito, con la dottrina [43], che il disegno costituzionale individua una società
pluralista; l’art. 30 Cost. e l’art. 147 c.c. impongono ai genitori di educare
i figli, ma non indicano (e neppure suggeriscono) alcuni contenuti educativi,
piuttosto che altri: tali contenuti devono pertanto rimanere liberi ed
incondizionati. L’unico limite è dato, secondo il disposto dell’art. 147 c.c.,
dal rispetto delle capacità, inclinazioni naturali, aspirazioni dei figli, in
una parola, dalla protezione della loro personalità. È evidente che allora il
conflitto di mentalità, le convinzioni morali, religiose, politiche, non
potrebbero mai rilevare, ai fini della scelta del genitore affidatario (a meno
che appunto il genitore sostenga il proprio credo, imponendolo al figlio contro
la volontà di questo: ad es. il minore – si tratterebbe evidentemente di un
adolescente con una certa consapevolezza – ha una propria fede religiosa ed è
costretto a seguire i riti di quella differente del genitore). Tale
orientamento è confermato anche nel diritto internazionale: la Convenzione sui
Diritti del Fanciullo (1989) riconosce il diritto-dovere dei genitori (o tutori
legali) di guidare il minore nell’esercizio
delle sue libertà di pensiero, di coscienza e religione che corrispondano allo sviluppo delle
sue capacità [44].
Ora, la giurisprudenza assolutamente prevalente
sottolinea che – di per sé – la fede religiosa professata dai genitori non
rientra tra le componenti che determinano il giudizio sulla maggiore attitudine
a curare gli interessi dei figli e quindi non può avere alcun rilievo, sia per
quel che attiene l’affidamento, o la modifica dell’affidamento dei figli, sia
per quel che concerne la determinazione delle modalità d’incontro tra figli ed
il genitore non affidatario [45]. Lontani sono i tempi in cui il caso «Poldino»
sollevò a livello nazionale una querelle,
posto che il genitore era stato escluso dall’affidamento perché «ateo perfetto»
[46].
Dunque, in assenza della prova di uno specifico
pregiudizio, il fatto che un bambino possa fare indirettamente proprie le
convinzioni del genitore affidatario, rientra nel classico e normale rapporto
tra genitori e figli; su tale terreno, l’altro genitore deve attivarsi non
perché sia «aumentato» il suo «tempo di presenza», ma per trasmettere al figlio
i propri valori, e meglio ancora, per aprire con lui uno spazio di discussione
sulle differenti opzioni esistenti nell’ambito familiare. In quest’ottica deve
condividersi l’atteggiamento di chi ritiene possibile l’affidamento dei figli
al genitore che ha aderito alla religione dei testimoni di Geova: tema, questo,
sul quale si avrà modo di tornare [47], non senza rilevare che già nel 1985 la Cassazione ha
avuto modo di stabilire che «Il comportamento di un coniuge, consistente nel
mutamento di fede religiosa (nella specie, da quella cattolica a quella dei
testimoni di Geova), nella partecipazione alle pratiche collettive nel nuovo
culto, nel dare l’opportunità ai figli minori di conoscere ed apprezzare tale
nuova fede al fine di una loro possibile conversione (indipendentemente da un
eventuale ricorso al giudice, a norma dell’art. 316 cod. civ., per risolvere il
contrasto con l’altro coniuge circa l’educazione religiosa della prole), si
ricollega all’esercizio dei diritti garantiti dall’art. 19 della Costituzione,
nonché dei poteri-doveri inerenti alla potestà genitoriale, e, nonostante la
sua inevitabile incidenza sull’armonia della coppia, non può essere considerato
come ragione di addebito della separazione, se ed in quanto non superi i limiti
di compatibilità con i concorrenti doveri di coniuge e di genitore, fissati
dagli artt. 143-147 cod. civ., e non determini quindi, con la violazione di
tali doveri, una situazione di improseguibilità della convivenza o di grave
pregiudizio per la prole» [48].
Peraltro le scelte religiose possono interferire, per
le modalità di «indottrinamento» sull’affidamento ed il diritto di visita;
infatti, occorre fornire al minore una scala di valori immuni da eccessi
fideistici, giova ribadire compatibili con una sua crescita equilibrata ed
integrata con l’ambiente circostante [49]. Occorre anche evitare che un genitore sostenga le
proprie convinzioni imponendole al figlio contro la volontà di questi, ad
esempio costringendo il minore a seguire i riti che non vuole: è, infatti,
evidente che, ove il minore sia già sufficientemente maturo, i genitori
dovranno attribuire prevalenza alla volontà del figlio. In tale caso il giudice
legittimamente può demandare ad un consultorio familiare il controllo
dell’attività pedagogica del genitore affidatario [50].
L’intervento del giudice non potrà però mai
concretarsi nell’individuazione della religione nella quale educare il minore,
privilegiando in base a tale opzione l’uno o l’altro genitore (che a quel credo
religioso aderisca). L’intervento giudiziario si concreterà in interdizioni,
ovvero nell’attribuzione del potere di decisione al genitore (al limite ad un
terzo) che sia più idoneo a curare l’interesse del figlio, come disposto in via
generale dall’art. 315 c.c., e qualunque sia la religione nella quale tale
genitore intenda crescere il minore [51]. Nel caso di appartenenza dei coniugi a confessioni
diverse e di sufficiente maturità della prole, potrà anche immaginarsi un
affido condiviso, che consenta ai figli un’educazione religiosa aperta alle due
diverse fedi, nel rispetto della libertà di orientamento religioso dei minori [52].
4. Il ruolo della volontà del minore nella
determinazione del giudice.
Nel presente contesto appare logico porsi poi
l’interrogativo sul ruolo che la volontà del minore può eventualmente giocare
nella determinazione del giudice, potendosi sul punto rilevare, con la più
autorevole dottrina, che qualora i genitori, anche se d’accordo, decidano di
educare il proprio figlio in questa o in quella religione (o all’ateismo),
l’ordinamento riconosce loro un potere di influire sull’educazione, che non può
rappresentare se non un avviamento, non essendo possibile alcuna coercizione,
fuor che nei primissimi anni, e dovendo ammettere che il figlio, ancor prima
della maggiore età, abbia «il diritto di scegliere la sua vita religiosa» [53].
Ora, un orientamento giurisprudenziale reputa
sostanzialmente irrilevante la preferenza espressa dal minore, specie
richiamandosi alla «naturale» avversione di questi nei casi di convivenza
dell’affidatario con altra persona [54] o anche sottolineando il contrasto della volontà
dichiarata dal minore con le risultanze della c.t.u. [55]. E’ però evidente che una regola generale non può
essere dettata sul punto, l’unica «stella polare» essendo ormai costituita
dalla considerazione per cui l’obbligo d’audizione del minore nei procedimenti
che lo concernono è sancito dall’art. 12, comma secondo, della Convenzione di
New York sui diritti del fanciullo del 20 novembre 1989, ratificata con legge
27 maggio 1991, n. 176, nonché dall’art. 6 della Convenzione di Strasburgo
sull’esercizio dei diritti del fanciullo del 25 gennaio 1996, ratificata con la
legge 20 marzo 2003, n. 77 e dall’art. 155-sexies,
primo comma, c.c. (introdotto dalla riforma del 2006 sull’affidamento
condiviso), secondo quanto del resto ribadito dalla nostra giurisprudenza di
legittimità [56].
Pertanto la giurisprudenza maggioritaria tende a
ritenere che la volontà espressa dalla prole adolescente costituisca un indice
di cui il giudice deve tener conto, sia pure con carattere non esclusivo,
dovendo concorrere con altri elementi [57]. Del resto, interesse del minore significa anche
(specie quando si tratti di soggetto particolarmente maturo) rispetto per
quanto è possibile della sua volontà e delle sue scelte, garanzia per lui di
uno spazio adeguato di libertà ed autonomia [58].
Analizzando in luce comparatistica l’ordinamento
britannico, si rileva similmente che la volontà del minore viene presa in
considerazione avuto riguardo alla sua età ed alle sua capacità cognitive. Allo
stesso modo della disciplina italiana, il giudice inglese deve tener conto di altri
fattori, come i bisogni fisici, emotivi ed educativi del figlio, gli effetti di
un cambiamento radicale nelle sue circostanze di vita, l’età, il sesso, il background ed altre caratteristiche
ritenute rilevanti [59]. Tra queste si tende anche ad includere
considerazioni di carattere religioso e culturale.
Così si afferma che il fermo convincimento di un
minore di voler vivere con uno dei genitori deve essere tenuto, alla luce delle
circostanze caratterizzanti il contesto familiare, in adeguata considerazione
ai fini dell’affidamento, e ciò sempre che sia manifestato in modo consapevole,
preciso, maturo e sorretto da motivazioni apprezzabili. Tale convincimento è
stato ritenuto presupposto sufficiente per modificare precedenti convenzioni
tra i coniugi sull’affidamento, ciò sempre al fine di evitare situazioni
incidenti negativamente sullo sviluppo del minore. Alcune pronunce, a fronte di
adolescenti che rifiutano d’incontrare il genitore non affidatario, prevedono
che gli incontri avvengano con le modalità prescelte dal minore medesimo, ciò
nel rispetto della sua volontà, ma con l’obiettivo di favorire il recupero del
rapporto parentale [60].
La setta dei testimoni di Geova ha dato luogo ad un
cospicuo numero di precedenti giurisprudenziali nelle materie qui in esame,
tanto in Italia, che all’estero. Innanzi tutto essi sono venuti alla ribalta
della cronaca per tutti quei casi in cui i genitori, che professavano quella
fede, si opponevano alle trasfusioni di sangue o ad altri interventi
indispensabili per la salute (e sovente per la stessa salvezza) del figlio
minore, in pericolo di vita. Sul punto non possono esservi dubbi: i genitori,
liberi di professare la loro fede e seguirne prescrizioni e divieti, non
possono coinvolgere un soggetto diverso da loro, il figlio minore, che ha una
sua dignità di persona, e rispetto al quale essi non esercitano solo diritti,
ma sono soprattutto soggetti a doveri (in
primis quello di salvaguardarne la salute e l’integrità psico-fisica),
mentre il figlio è titolare di un diritto preminente su ogni altro: vale a dire
quello ad uno sviluppo psico-fisico armonico e completo, e dunque a crescere ed
acquistare una serie di conoscenze e capacità, così da giudicare obiettivamente
e magari seguire (oppure non accettare), una volta adulto, le scelte dei
genitori. In tali casi vanno sicuramente approvati gli interventi ex art. 333 c.c., volti a limitare la
potestà dei genitori (che ponevano in essere un comportamento sicuramente
pregiudizievole per il figlio), ordinando la trasfusione pur contro la loro
volontà, e magari considerandoli personalmente responsabili per la malattia, o
nei casi più gravi, per la morte subita dal figlio a cagione del loro
atteggiamento omissivo [61].
Al di là di questi casi-limite si pone però il
problema dell’opportunità dell’affidamento del minore al genitore che professi
tale confessione religiosa, specie allorquando l’altro coniuge vi si opponga.
Sul punto va detto che non mancano precedenti di esclusione dall’affidamento,
con argomentazioni spesso inconsistenti o che mal dissimulano la profonda
intolleranza sempre ricorrente nella società, e dunque talora anche nelle
decisioni degli organi giudiziari, verso tutte le posizioni di minoranza [62].
Di contro, non mancano le decisioni che proclamano la
neutralità del giudice di fronte alle convinzioni religiose maturate dai
genitori, mostrando di prescindere totalmente dal fattore religioso nella
scelta dell’affidatario [63], salvo che sia fornita la prova del pregiudizio
subito, o subendo, dai figli per la loro partecipazione alla fede ed alle
pratiche confessionali di ciascuno dei genitori, ve ne sono altre che affermano
il diritto del genitore di proporre il proprio credo religioso al figlio [64] ed il diritto del figlio di praticare la nuova
religione, seguendo il genitore nell’attività di proselitismo e partecipando
alle riunioni religiose [65]. In altri provvedimenti, ancora, pur affidandosi il
figlio al genitore testimone di Geova, si afferma il diritto dell’altro
genitore di vigilare sull’educazione religiosa della prole, la quale ha il
diritto di essere educata nella religione cattolica, della quale ha ricevuto il
battesimo [66]. In altre fattispecie, infine, si è ritenuto
opportuno prevedere limitazioni a carico del coniuge affidatario, convertitosi
alla fede dei testimoni di Geova, imponendogli di non portare con sé la prole
alle riunioni di culto e di non condizionarne in alcun modo gli orientamenti e
le scelte religiose, talora subordinando al controllo periodico del consultorio
familiare l’educazione religiosa impartita dal genitore testimone di Geova [67].
Queste valutazioni non appaiono censurabili se (e
nella misura in cui) scaturiscono non da un giudizio di valore sul contenuto
dottrinale di una religione, ma dalla constatazione delle conseguenze dannose
provocate al minore dall’educazione religiosa che gli viene impartita [68].
L’inammissibilità di un intervento del giudice, in presenza
di un contrasto tra genitori separati o divorziati sull’educazione religiosa
della prole, non essendo possibile stabilire una gerarchia di valori tra le
diverse confessioni religiose, viene meno allorché la religione professata si
traduca in pratiche contrarie alla morale ed all’ordine pubblico [69]. La giurisprudenza ha, però, sempre escluso che la
religione dei testimoni di Geova sia in contrasto con l’ordine pubblico,
confermando in tal modo la tendenziale neutralità dei giudici in questo
delicato settore [70].
Sul tema potrà poi menzionarsi una decisione di
legittimità del 1995, la quale ha stabilito che «il comportamento di un coniuge
consistente nel mutamento di fede religiosa (nella specie, da quella cattolica
a quella dei testimoni di Geova), con correlativa partecipazione alle pratiche
del nuovo culto, si ricollega all’esercizio di diritti garantiti dall’art. 19
Cost. e non può avere rilevanza come motivo di addebito o come ragione
incidente sull’affidamento dei figli se ed in quanto non superi i limiti di
compatibilità con i concorrenti doveri di coniuge o di genitore, per le forme
di comportamento adottate» [71].
La sentenza chiudeva un procedimento di separazione
tra coniugi: la moglie lamentava che il marito, avendo abbracciato la fede
religiosa dei testimoni di Geova, avrebbe manifestato un progressivo
disinteresse nei suoi confronti. Il Tribunale aveva pronunciato la separazione
senza addebito, affidando il figlio al padre. La Corte d’appello aveva invece
disposto l’affidamento ai nonni paterni, affermando, tra l’altro, che essi
«sono di sicura fede cattolica».
La Cassazione, investita della questione, argomenta
con particolare equilibrio e ridimensiona pure l’affermazione della pronuncia
impugnata sulla «sicura fede cattolica» dei nonni paterni, che darebbe adito,
svincolata dal contesto in cui è collocata, a numerosi equivoci. In realtà, per
quanto pare di capire, tale affermazione non postulava, neppure per i giudici
di merito, una sorta di comparazione tra le due religioni, ovviamente estranea
alla materia dell’affidamento di figli, ma più semplicemente costituiva mezzo
per sdrammatizzare l’acuto conflitto, anche religioso, tra i due coniugi [72].
Come rilevato in dottrina, la Suprema Corte ribadisce
nella decisione, con particolare equilibrio, principi e concetti di libertà e
tolleranza, già solennemente affermati dalla Carta costituzionale, e che sono
(o dovrebbero essere) patrimonio comune di tutta la nostra società. Il
comportamento di un coniuge consistente nel mutamento della fede religiosa –
nella specie da quella cattolica a quella dei testimoni di Geova, ma potrebbe
essere qualsiasi altra confessione, o magari il procedimento inverso, dalla
fede dei testimoni di Geova a quella cattolica – si ricollega all’esercizio dei
diritti garantiti dall’art. 19 Cost. (là dove si precisa che tutti hanno
diritto di professare liberamente la propria fede religiosa, in qualsiasi
forma, individuale o associata, di farne propaganda, esercitare il relativo
culto, in privato come in pubblico, nei limiti del buon costume). Essa non può
rilevare come motivo di addebito, né come ragione incidente sull’affidamento
dei figli, tranne che la scelta religiosa superi i limiti di compatibilità «con
i concorrenti doveri di coniuge genitore» per le forme adottate. Ma tale
conseguenza evidentemente varrebbe per qualsiasi scelta, religiosa, politica
morale, ove con essa il coniuge tendesse a comprimere la libertà di scelta e il
conseguente comportamento dell’altro coniuge (con la pretesa che questi
professasse la medesima religione, esprimesse le medesime idee, ecc.) e pure,
per certi versi del figlio [73].
In quest’ottica va pure vista una decisione di merito
del 2006, la quale ha addebitato la separazione giudiziale al marito che,
essendosi convertito alla religione dei testimoni di Geova, non solo aveva
cercato di coartare la volontà della moglie (ad esempio allontanandola dalla
famiglia di origine) per conseguirne a sua volta la conversione, ma,
soprattutto – alla stregua di un’interpretazione assolutamente soggettiva e radicale
della sua nuova fede – aveva cominciato ad avere atteggiamenti oggettivamente
persecutori, se non terrorizzanti, nei confronti del figlio, bambino di circa 7
anni di età. Così, era giunto al punto di pretendere che il figlio non vedesse
i cartoni animati «dicendo che Geova l’avrebbe punito»; in una diversa
occasione, «scoperto» il figlio mentre commetteva una di tali azioni «proibite»
(leggere un giornaletto, vedere un cartone animato, giocare con le figurine
...) «prese una bacinella piena d’acqua e lavò il figlio con una spugnetta di
ferro da cucina, dicendo che doveva purificarlo». Il tribunale – anche sulla
scorta della c.t.u. (che pure aveva evidenziato il disagio psicologico del
minore) ha osservato che tali condotte, «assurde e paradossali, sono tanto più
dannose in quanto poste in essere nei confronti di un bambino in età ancora
tenera, che certo non poteva comprenderne il significato, ricavandone – inevitabilmente – un trauma». Il giudice ha
precisato che non intendeva certo censurare la conversione del resistente alla
religione dei testimoni di Geova, come a qualunque altra. Ha però rilevato che
le scelte religiose possono influire – per le modalità in cui si manifestano –
sull’addebito come sull’affidamento dei figli [74].
Con riferimento alle modalità di affidamento dei
minori e al diritto di visita, il tribunale, nella pronunzia appena citata, ha
osservato che i genitori devono fornire al bambino una scala di valori immuni
da eccessi fideistici, compatibili con una sua crescita equilibrata ed integrata
con l’ambiente circostante: non può, però, trascurarsi che la pratica di taluni
culti si manifesta in modo molto intenso, se non totalizzante. Da qui allora la
necessità di un intervento giudiziario. A maggior ragione occorre sanzionare la
condotta del genitore che sostenga le proprie convinzioni imponendole al figlio
contro la volontà di questi, es. costringendo il minore a seguire i riti che
non vuole; ciò è vero anche per il figlio in tenera età, nei cui confronti va
evitata ogni condotta possibile fonte di traumi. Il tribunale, proprio per
l’esigenza di salvaguardare i rapporti padre-figlio, ha così impartito al
padre, genitore non affidatario, la prescrizione di non condurre con sé il
figlio agli incontri, riunioni, pratiche religiose dei testimoni di Geova,
senza lo specifico consenso del minore stesso e della madre affidataria. Il
giudice ha inoltre imposto al padre di evitare di far partecipare il minore a
qualunque pratica religiosa che si svolga nella propria casa, e comunque non
dovrà condizionare in alcun modo gli orientamenti e le scelte religiose del
minore.
In questa medesima direzione si muove un successivo
provvedimento di merito [75], con il quale il giudice ha accolto la richiesta di
affidamento esclusivo del minore, da parte del coniuge estraneo alla
confessione dei testimoni di Geova, sulla considerazione che le pratiche
confessionali del genitore testimone di Geova e la conseguente soggezione del
minore alle tassative regole, ai rigorosi divieti collegati a tali pratiche
religiose, erano in concreto idonee ad arrecare al minore, nel presente e nel
futuro, danni non irrilevanti sul piano psicologico e formativo, impedendo allo
stesso di assimilare un regolare processo di socializzazione e di crescita
equilibrata [76].
Concludendo sul punto può dunque convenirsi con chi ha
affermato che anche questo settore del diritto ha subìto un profondo processo
di secolarizzazione [77] che ha largamente neutralizzato l’incidenza del
fattore religioso nelle sue articolazioni più delicate (come quelle che
riguardano l’addebito della separazione e la scelta del coniuge affidatario) o,
laddove ciò non fosse possibile (come nel caso, per esempio, in cui il
contrasto verta direttamente sull’educazione religiosa da impartire ai figli),
ha inibito al giudice qualsiasi intervento che implichi una valutazione
preferenziale di una religione rispetto a un’altra: principio quest’ultimo che
– pur non essendo costantemente applicato – non appare esposto a critiche
fondate su una corretta lettura della normativa vigente [78].
L’irrilevanza della diversità di credo religioso tra
coniugi separati ai fini dell’affidamento della prole è stata affermata anche
dalla Corte europea dei diritti dell’uomo con sentenza in data il 23 giugno
1993, in relazione al caso Hoffmann v.
Austria. Nella specie, la Corte Suprema austriaca aveva affidato i figli al
padre, cattolico, anziché alla madre, testimone di Geova, dopo che i giudici di
merito avevano ritenuto opportuno affidare i minori alla madre. Il caso è stato
sottoposto all’attenzione della Corte europea, che ha ritenuto censurabile la
decisione della Corte Suprema austriaca per aver introdotto tra gli elementi di
giudizio un’inaccettabile «distinzione basata fondamentalmente sulla sola
differenza di religione» violando così l’art. 8 (rispetto della vita familiare)
in connessione con l’art. 14 (discriminazione basata sulla religione) della
Convenzione europea [79].
Una ratio
decidendi simile è stata adottata dalla Corte europea nel caso Palau-Martinez v. France [80], nell’esaminare la decisione del giudice francese di
non concedere l’affidamento dei figli alla madre in quanto testimone di Geova.
Anche in questa controversia è stata rilevata una violazione dell’art. 8 CEDU
congiuntamente all’art. 14. Secondo l’analisi dei giudici di Strasburgo, la
Corte d’appello francese aveva accordato «une importance déterminante à la religion de la
requérante, critiquant sévèrement les principes d’éducation qui seraient
imposés par cette religion», risultando in una «différence de traitement fondée
sur la religion de la requérente». Tale trattamento è stato quindi classificato
dalla Corte europea come discriminatorio, in quanto non fondato su una
«justification objective et raisonnable». Come in Hoffmann, anche in questo caso la Corte non esclude del tutto le percezioni concernenti alcune fedi, ma tali
considerazioni devono essere valutate attentamente e con cura [81].
Si è avuto modo di dire [82] che, anche nei casi in cui le divergenze tra i
genitori sulle scelte «di vita», ideologiche, culturali e religiose non danno
luogo a problemi di affidamento, esse possono coinvolgere decisioni di
particolare interesse relative alla vita e all’educazione della prole: dalla
scelta se battezzare o meno il figlio, a quella se fargli o meno seguire un
tipo di scuola (laica, religiosa, ideologicamente orientata, etc.) piuttosto
che un’altra, se consentirgli di frequentare certi ambienti, persone, etc.
E’ noto che, ai sensi dell’art. 316, terzo comma,
c.c., «In caso di contrasto su questioni di particolare importanza ciascuno dei
genitori può ricorrere senza formalità al giudice indicando i provvedimenti che
ritiene più idonei». Il successivo quinto comma prevede che «Il giudice,
sentiti i genitori ed il figlio, se maggiore degli anni quattordici, suggerisce
le determinazioni che ritiene più utili nell’interesse del figlio e dell’unità
familiare. Se il contrasto permane il giudice attribuisce il potere di
decisione a quello dei genitori che, nel singolo caso, ritiene il più idoneo a
curare l’interesse del figlio» [83].
Prima della riforma sull’affidamento condiviso (l. 8
febbraio 2006, n. 54), dottrina e giurisprudenza prevalenti ritenevano che il
criterio di cui all’art. 316, quinto comma, c.c. trovasse applicazione anche ai
genitori separati o non (più) coniugati. A sostegno di tale soluzione si
osservava che l’art. 155 abrog. c.c. nulla statuiva in merito alla risoluzione
di eventuali disaccordi tra i genitori su questioni di particolare rilevanza
per il figlio [84]. La corrente formulazione dell’art. 155, terzo comma,
c.c., come è noto, prevede che le decisioni di «maggiore interesse per i figli
relative all’istruzione, all’educazione e alla salute» sono prese «di comune
accordo tenendo conto delle capacità, dell’inclinazione naturale e delle
aspirazioni dei figli». In caso di disaccordo la decisione «è rimessa al
giudice». Tuttavia, al di là del suo tenore letterale, non sembra che la
normativa dell’affidamento condiviso abbia introdotto un diverso criterio per
risolvere eventuali contrasti tra i genitori [85].
È, infatti, preferibile ritenere che il giudice
investito del disaccordo sorto tra i genitori relativamente ad una questione di
particolare importanza per il figlio – tra cui rientrano sicuramente non solo
l’educazione religiosa del minore [86], ma anche tutte le altre scelte qui in discussione –
non possa discostarsi (salvo ricorra una fattispecie riconducibile all’art. 333
c.c.) dalle proposte avanzate dai genitori [87]. Una diversa soluzione contrasterebbe con «il
carattere di forte autonomia riconosciuto alla famiglia, quale s’evince dalle
norme del nostro sistema» [88]. Ancora, un’interpretazione «estensiva» dell’art.
155, terzo comma, c.c. introdurrebbe una disparità di trattamento – di dubbia
legittimità costituzionale – per quanto attiene all’estensione dell’intervento
giudiziale in caso di contrasti tra genitori coniugati, nel qual caso il
giudice sarebbe tenuto a demandare la decisione ad un genitore (ex art. 316, quinto comma, c.c.) e
genitori separati o non (più) coniugati, nel qual caso, qualora si accogliesse
l’interpretazione letterale di cui all’art. 155, terzo comma, c.c., la
decisione sarebbe, appunto, integralmente «rimessa» al giudice. Soprattutto, si
porrebbe in contrasto con l’art. 30 Cost. che, come è noto, sancisce il diritto
(oltre che il dovere) dei genitori di educare i figli, anche se nati fuori dal
matrimonio [89].
Se si ritiene di condividere le considerazioni svolte,
non solo si dovrà convenire che la formulazione dell’art. 155, terzo comma,
c.c. è infelice nella parte in cui «rimette» al giudice la decisione circa la
soluzione del disaccordo determinatosi tra i genitori; soprattutto, per quanto
interessa in questa sede, si dovrà concordare che non vi sono differenze
sostanziali tra il criterio di cui all’art. 316, quinto comma, c.c. e quello di
cui all’art. 155, terzo comma, c.c. In un caso il giudice demanderà la
decisione al genitore che ritiene «il più idoneo a curare l’interesse del figlio»
(art. 316, quinto comma, c.c.); nell’altro deciderà direttamente il contrasto
facendo propria la proposta genitoriale che ritiene (maggiormente) conforme
all’«interesse del minore» (art. 155, terzo comma, c.c.) [90].
Questa soluzione, del resto, è in linea con il più
recente orientamento dottrinale favorevole a riconoscere più ampi spazi
all’autonomia dei privati nelle relazioni familiari [91].
Per ciò che attiene, infine, ai profili processuali,
non sembra che il sopra illustrato riferimento all’art. 316 c.c. (non abrogato
dalla riforma del 2006) determini, in pendenza di una procedura di separazione
personale o di divorzio, ovvero di modifica delle relative condizioni,
un’attribuzione della decisione al tribunale per i minorenni (organo,
quest’ultimo, individuato, come noto, dall’art. 38 disp. att. c.c. proprio in
relazione all’art. 316 cit.). Invero, già prima della riforma del 2006 la
giurisprudenza aveva riconosciuto la competenza del giudice della separazione
in ipotesi quali, ad esempio, il contrasto sulla scelta del prenome per il
figlio [92] o della iscrizione scolastica [93], o sulla scelta per l’insegnamento religioso da
impartire alla prole [94]. L’art. 709-ter
c.p.c., introdotto dalla riforma del 2006 sull’affidamento condiviso, appare chiaro
nel voler oggi rimettere comunque al «giudice del procedimento in corso» ogni
controversia insorta «tra i genitori in ordine all’esercizio della potestà
genitoriale o delle modalità dell’affidamento».
Ne deriva che, in caso di contrasto su questioni di
maggiore interesse vertenti in tema di scelte «di vita», ideologiche, culturali
e religiose coinvolgenti la prole minorenne, la norma sostanziale di
riferimento sarà data, per ciò che attiene ai poteri del giudice, dal combinato
disposto degli artt. 155, terzo comma, e 316, quinto comma, c.c., con la
conseguenza che, come detto, il giudice non potrà «imporre» una decisione
«sua», ma dovrà recepire quella del coniuge ritenuto più idoneo ad effettuare
la scelta in oggetto. Dal punto di vista processuale, essendo in corso un
procedimento di separazione o di divorzio, ovvero di modifica delle relative
condizioni, la decisione andrà emanata dal giudice di fronte al quale tale
procedimento è pendente. In caso contrario, sarà competente il tribunale per i
minorenni.
Considerazioni sul credo religioso dei genitori che
influisce sulla vita lato sensu del
minore possono sorgere (similmente a come visto per i testimoni di Geova) anche
in relazione a questioni culturali e rituali che abbiano ripercussioni mediche.
Si tratta, nel contesto della fede islamica (ma anche di quelle ebraica), della
necessità di circoncidere i figli maschi: nel Regno Unito le controversie tra
genitori divorziati e di fede mista (musulmana e non-musulmana) sono già state
sottoposte a giudizio. La tendenza del giudice è di distinguere tra
circoncisione medica, caso nel quale il consenso dei due coniugi non è
richiesto, e circoncisione rituale-religiosa, non necessaria dal punto di vista
medico, che richiede il consenso espresso di entrambi i genitori. Ad esempio,
in una disputa tra genitori separati e di fede diversa (madre musulmana, padre
indù), il giudice inglese respinse, mantenendo lo status quo, la richiesta della madre di poter circoncidere il
figlio per ammetterlo a tutti gli effetti nella comunità islamica, anche se
fino a quel momento il minore era stato educato da indù [95]. La Corte dichiarò che la circoncisione non era in the best interest del figlio, che i
minori di tradizioni religiose diverse potevano scegliere quale fede
abbracciare e che dovessero essere educati traendo da entrambe le culture
religiose dei genitori.
Nell’ordinamento statunitense il ruolo del giudice nei
contrasti sulle scelte «di vita», ideologiche, culturali e religiose dei
genitori separati o divorziati sta assumendo gradualmente un’importanza
cruciale, dal momento che si opera in assenza di un chiaro riferimento
legislativo nazionale. In più, il mosaico di decisioni (a seconda di ciascuno
stato) non permette di sviluppare un case-law lineare: il giudice ha quindi il
compito delicato di bilanciare il diritto di ciascun genitore di poter educare
i figli secondo le proprie convinzioni (riconducibile al Primo Emendamento) con
il c.d. best interest of the child [96]. I parametri impiegati nel giudicare i casi di
disaccordo sull’educazione religiosa sono quindi l’esistenza di un danno reale
o sostanziale per il minore (actual or
substantial harm) o il rischio di un danno.
Nella casistica si trovano decisioni che ammettono una
doppia educazione religiosa dei figli nel rispetto di delle tradizioni di
entrambi i genotori (Munoz v. Munoz, 79 Wash. 2d 810, 489 P.2d 1133 [1971], nel caso di una coppia di genitori
di cui uno Mormone e l’altro Cattolico) in quanto non vi è un danno per il minore, anche nei casi in cui le attività sociali del figlio vengano limitate, se non
influiscono sulla salute fisica e psicologica del minore (Pater v. Pater, 63 Ohio St. 3d 393, 588 N.E. 2d
794 [1992]: genitore Testimone di Geova). La limitazione disposta dal giudice
sulle scelte educative di un genitore si ha invece laddove il danno al minore
consiste in atti fisici o minacce verbali dettate da questioni religiose (Kendall
v. Kendall, 426 Mass. 238, 687 N.E.2d 1228 [1997], nel caso di un padre che
si opponeva in vari modi allo stile di vita ebreo ortodosso dei figli, che
seguivano il credo materno).
In alcuni casi si arriva anche a prediligere
l’impostazione religiosa del genitore affidatario (custodial parent), ed il giudice dispone che genitore non
affidatario segua le scelte dell’ex coniuge nell’educare i figli. Si hanno
quindi dei casi in cui il giudice impone al genitore non affidatario (di solito
il padre) di restare coerente con le scelte educative della madre affidataria:
condizione per poter usufruire dei c.d. visiting
rights può allora diventare il fatto di portare i figli a messa la domenica
(Johns v. Johns, 53 Ark. App. 90, 918 S.W. 2d 728
[1996]). Un rationale equiparabile si
trova nei casi in cui i entrambi i genitori sono affidatari (joint custody): entrambi i genitori
possono educare i figli secondo il proprio credo, in quanto condividono in
egual misura l’affidamento (Zummo v. Zummo, 394 Pa. Super. 30, 574 A.2d
1130 [1990], in cui la corte decise che i figli fossero educati secondo il
credo cattolico dal padre e secondo il rito ebraico dalla madre).
E’ giunto ora il momento di
occuparsi degli accordi di separazione consensuale sui moduli educativi e
religiosi, nonché dei rapporti tra tali decisioni autonome e potere officioso
del giudice.
La questione – che si
inserisce nel contesto del più vasto tema delle intese concernenti la prole
nella crisi coniugale [97] – fu molto discussa in passato, ancorché con riguardo
ai coniugi non separati, essendo d’uso, a cavallo tra XIX e XX secolo, nel caso
di matrimonio tra persone di religione diversa, l’accordo tra le rispettive
famiglie nel senso di individuare in base a criteri predeterminati la religione
in cui i figli avrebbero dovuto essere cresciuti (di solito si trattava di
quella della madre; oppure si conveniva di educare i figli maschi nella
religione del padre e le figlie femmine in quella della madre). La soluzione
allora costantemente affermata, circa la nullità di queste intese, per il fatto
di porsi in contrasto con la regola che rimetteva in via esclusiva al
marito-padre-padrone il potere di assumere in via esclusiva tale tipo di
decisioni [98], non è sicuramente più sostenibile [99].
Il problema si pone del
resto oggi in relazione a qualsiasi tipo di determinazione attinente
all’educazione della prole: dalla decisione di fare frequentare un determinato
istituto piuttosto che un altro, a quella di inviare il figlio ad un soggiorno,
magari di lunga durata, all’estero, e così via. Al riguardo non potrà che
confermarsi l’inesistenza di «canoni» di validità predeterminati, al di là
della regola generale dell’interesse, nel caso concreto, dei minori in questione,
con conseguente validità di ogni tipo di accordo al riguardo che in concreto
non appaia lesivo di siffatto interesse.
Una certa eco ebbe a
suscitare, anni fa, una decisione di merito [100], che negò la possibilità di recepire in sentenza
l’accordo dei coniugi contenente l’obbligo per l’affidatario «di astenersi
dall’indottrinare i figli nel credo del gruppo dei testimoni di Geova».
L’errore che inficiava la pronuncia nasceva – ad avviso dello scrivente – dal
fatto di fondarsi sul falso presupposto secondo cui gli accordi di separazione
personale dovrebbero contenere esclusivamente «obbligazioni», cioè a dire
rapporti giuridici caratterizzati dalla patrimonialità, ciò che condurrebbe
irrimediabilmente all’immediata conclusione dell’invalidità di ogni intesa ...
sullo stesso affidamento e sul diritto di visita. La vivace reazione della
dottrina [101] comprova la crescente sensibilità circa la necessità
di riconoscere che le parti «hanno diritto a stabilire, nell’esercizio della
propria autonomia, le condizioni della separazione, ed ad ottenere effetti
giuridici conformi a queste determinazioni» [102].
Del resto, come esattamente
osservato dalla stessa dottrina, non è affatto vero che le norme del diritto di
famiglia manchino di sanzione; è vero, invece, che la sanzione si atteggia nei
modi peculiari del diritto di famiglia, che sono diversi da quelli propri del
diritto patrimoniale delle obbligazioni [103]. Così si è ricordato che, secondo una decisione della
Cassazione [104] «I comportamenti successivi [alla separazione legale]
potranno eventualmente rilevare ai fini del mutamento delle condizioni della
separazione, così come saranno valutabili in sede penale e potranno
eventualmente fondare la richiesta di inibitoria dell’uso del cognome, ai sensi
dell’art. 156-bis c.c. Quanto all’ipotesi
del grave pregiudizio per la prole, che certamente può emergere anche durante
la separazione dei genitori, esclusa la sua utilizzabilità ai fini del
mutamento del titolo, soccorrono gli specifici strumenti di tutela previsti
dagli artt. 155, ult. cpv., 330 e 333 c.c.» [105].
Ora, se si tiene presente
quanto illustrato in altra sede [106] sulla piena validità di intese d’ordine personale inter coniuges sulla «gestione» del
rapporto con la prole, occorrerà partire dalla considerazione per cui, già
prima della riforma del 2006, sarebbe stato errato ritenere escluso in linea di
principio ogni intervento dell’autonomia privata in questo settore. Era infatti
lo stesso legislatore a costringere expressis
verbis, nelle procedure contenziose, il giudice a «tenere conto»
dell’accordo tra i genitori in punto affidamento e contributo al mantenimento
dei figli [107]. E, se è vero che i provvedimenti potevano già allora
(così come, ovviamente, ancora oggi possono) poi divergere dagli accordi e
dalle domande delle parti [108], quell’obbligo di «tener conto» sembrava tradursi
quanto meno in un dovere di motivazione delle ragioni per le quali l’intesa
eventualmente era disattesa [109]: motivazioni che non avrebbero potuto trovare altro
punto di riferimento se non quello dell’eventuale violazione dei canoni
fondamentali espressi dagli artt. 30 Cost., 147 e 148 c.c. [110], o della regola dell’ «interesse del minore».
Per questo motivo appariva e continua ad apparire
condivisibile l’omologazione concessa da un giudice di merito ad un accordo di
separazione consensuale che, nel caso di un figlio affidato alla madre
convivente con un uomo di fede islamica, aveva stabilito che «i genitori si
obbligano ad impartire al figlio l’educazione nella religione cattolica con
divieto assoluto di istruirlo o metterlo in contatto con persone o esperienze
attinenti ad altre religioni. La violazione di questo impegno comporterà
mutamento dell’affidamento di fatto» [111]. Inutile dire, peraltro, che la previsione di
mutamento dell’affidamento non si sarebbe potuta ritenere vincolante per il
giudice, nel caso in cui tale avvicendamento, per le più varie ragioni, si
fosse concretamente dovuto ritenere non conforme all’interesse del minore.
Questi risultati ricevono
oggi conferma dalla normativa in tema di affidamento condiviso. In forza di
queste disposizioni, invero, il giudice è obbligato a «Prende(re) atto, se non
contrari all’interesse dei figli, degli accordi intervenuti tra i genitori»
(cfr. art. 155, secondo comma, c.c.). D’altro canto, i coniugi possono liberamente
sottoscrivere accordi in merito al mantenimento dei figli (come stabilito
dall’art. 155, quarto comma, c.c.), eventualmente anche in deroga al criterio
di proporzionalità scolpito nell’art. 148 c.c. [112].
Nella procedura di
separazione consensuale ed in quella di divorzio su domanda congiunta, poi,
nessun dubbio sussiste sul fatto che tra le «condizioni» di cui parlano gli
artt. 711, terzo comma, c.p.c. e 4, sedicesimo comma, l.div. [113], possano rientrare tutti gli accordi, di carattere
tanto personale che patrimoniale, diretti alla «gestione» del rapporto con la
prole: dall’affidamento, alla disciplina del diritto di visita e delle relative
modalità, alla fissazione del contributo per il mantenimento, ad ogni altro
aspetto che possa concernere l’esercizio del diritto-dovere di mantenere,
istruire ed educare i figli. La circostanza che il tribunale, come si è visto
in altra sede [114], non possa in alcun caso – neppure in questa materia,
pur così delicata – sostituire d’ufficio clausole dell’accordo, dovendosi invece
limitare, qualora ritenga l’intesa in contrasto con gli interessi della prole,
nella procedura di separazione, a rifiutare allo stato l’omologazione e, in
quella di divorzio, a rimettere le parti dinanzi al presidente con rito
contenzioso, rafforza l’opinione che il legislatore abbia inteso valorizzare
l’autonomia delle parti, compatibilmente con il carattere inderogabile dei
principi in gioco.
Ma quando si parla di
inderogabilità dev’essere ben chiaro che tale concetto esiste e si giustifica
in relazione ai principi fondamentali della materia, vale a dire quelli che
impongono, da un lato, ai genitori i diritti-doveri ex artt. 30 Cost., 147 e 148 c.c. e fondano, dall’altro, la regola
dell’ «interesse del minore»; ciò che comporta la nullità di ogni intesa
diretta ad escludere o limitare l’operatività di tali principi o che comunque
si ponga in contrasto con essi. Come si è già accennato, questo non significa
però ancora che, per il solo fatto di essere permeata da principi fondamentali
inderogabili, la materia in esame sia per ciò stesso interamente sottratta alla
negozialità delle parti, secondo quanto invece solennemente proclamato da
alcune decisioni di legittimità [115].
In altri termini,
esattamente come la non derogabilità delle disposizioni che regolamentano gli
aspetti personali dello status
matrimoniale nulla toglie alla negozialità del matrimonio [116], l’imperatività dei principi che regolano la materia
dei rapporti relativi alla prole nella fase della crisi coniugale nulla sottrae
alla negozialità delle intese in esame, come dimostrato dal fatto che la legge
stessa mostra di voler far discendere dall’accordo delle parti (le «condizioni»
della separazione e del divorzio) gli effetti giuridici dalle stesse voluti,
alla condizione che il rispetto dei canoni inderogabili sia garantito. Anche
gli accordi in discussione si iscrivono, dunque, in quella più generale area di
libertà negoziale che va riconosciuta ai coniugi in crisi: tema, quest’ultimo,
che non potrà qui essere sviluppato nella sua ormai sconfinata ampiezza.
Rinviando pertanto alle relative trattazioni [117], dovrà solo dirsi che a siffatte intese, sicuramente
dotate di carattere negoziale, andranno applicate – quanto meno in linea di
massima – le norme contrattuali [118]. Ai negozi in esame andrà dunque riconosciuta piena
validità ed efficacia, ogni qual volta si possa accertare che essi non tendono
già a derogare ai principi inderogabili predetti, bensì a disciplinare le
concrete modalità di esercizio dei diritti-doveri in questione, nel rispetto
dell’interesse della prole.
Pienamente ammissibili, in
conclusione, risultano gli accordi sul tipo di educazione da impartire alla
prole, con particolare riferimento all’educazione religiosa, accordi, che –
oltre a rientrare sicuramente tra le «condizioni della separazione e del
divorzio» ex artt. 711 c.p.c. e 4,
sedicesimo comma, l. div. – appaiono consigliabili anche per evidenti ragioni
d’opportunità [119].
Gli accordi tra i coniugi sui moduli educativi legati
a determinate scelte «di vita», o di tipo ideologico, culturale o religioso, si
collocano nel più vasto alveo degli accordi di carattere non patrimoniale. Con
specifico riferimento a questi ultimi andrà subito ribadita la natura di negozio
familiare tipico degli stessi. Tipico, perché – come più volte ricordato –
previsto e disciplinato [120] da ben precise disposizioni di legge, quali gli artt.
158 c.c., 711 c.p.c. e 4, sedicesimo comma, l. div., mentre la validità
dell’intesa sarà legata al rispetto, come già anticipato, del canone
dell’esclusivo interesse della prole.
Sulla scorta di quanto testé
osservato potrà ancora aggiungersi che la considerazione del carattere non
necessariamente patrimoniale delle condizioni della separazione e del divorzio
relative alla prole deve senz’altro indurre a ritenere ammissibili altri tipi
di accordi aventi ad oggetto un facere
non fungibile. A titolo d’esempio si potranno citare le seguenti clausole,
sottoposte all’esame dello scrivente, tratte da un accordo da trasfondersi in
pronuncia di divorzio su domanda congiunta.
«(...) La madre [genitore
non affidatario] potrà inoltre:
- Telefonare al bambino
almeno una volta alla settimana e far telefonare dal bambino almeno una volta
alla settimana.
- Essere consultata per ogni
decisione riguardante l’educazione, gli studi, ecc. Conoscere la data della
Prima Comunione e della Cresima.
- Poter seguire il figlio
personalmente durante eventuali ricoveri
ospedalieri o malattie di lunga durata ed inoltre in ogni caso in cui il padre
non possa seguirlo personalmente».
E’ evidente che il rispetto
di tali pattuizioni non potrà essere assicurato a mezzo esecuzione forzata,
bensì esclusivamente tramite i già citati rimedi consistenti nella richiesta di
una modifica giudiziale delle condizioni concordate, ovvero dell’emanazione di
provvedimenti incidenti sull’esercizio della potestà, sempre che le parti non
ritengano di munire siffatti accordi di vere e proprie clausole penali, secondo
quanto verrà suggerito tra breve; il tutto, beninteso, a condizione che i patti
in discorso non siano contrastanti con quello che è, nel caso concreto,
l’esclusivo interesse del minore e senza mai dimenticare che, come diceva
Jemolo [121], «nessun giudice può far nascere l’affetto dove non
c’è».
A conferma di questa regola potrà citarsi il
precedente di legittimità che ha riconosciuto la liceità dell’accordo dei
coniugi in ordine all’affidamento del figlio minore a parenti, «il quale deve
ritenersi consentito ove non ricorrano fatti e comportamenti che evidenziano
una inosservanza dei doveri inerenti alla potestà dei genitori, od un abuso
dei relativi poteri, o comunque una situazione pregiudizievole per il figlio
medesimo» [122]. E, se è vero che, nel caso di specie, l’accordo era
stato raggiunto tra i coniugi prima dell’inizio della crisi coniugale e il
problema della sua liceità era stato sottoposto al giudice solo da un coniuge
al fine di farlo valere quale causa di addebitabilità della separazione
all’altro, è altrettanto vero che le considerazioni svolte dai giudici di
legittimità prendono un respiro ben più ampio.
L’affidamento consensuale a terze persone (specie se
non parenti stretti) va comunque previsto con estrema cautela. Invero, esso,
oltre a configurarsi, già in relazione alla previsione giudiziale, alla stregua
di un intervento a carattere assolutamente eccezionale [123], viene sostanzialmente a concretare una deroga –
rimessa alla volontà delle sole parti – alle regole che presiedono
all’affidamento minorile a terzi, secondo quanto stabilito dagli artt. 1 ss.,
l. 4 maggio 1983, n. 184, ancorché
siffatta deroga debba ritenersi autorizzata anche nella separazione consensuale
e nel divorzio su domanda congiunta.
La conclusione circa la liceità (nei limiti testé
delineati) dell’affidamento consensuale a terze persone sembrava potesse essere
desunta, prima della riforma del 2006, dalle disposizioni che legittimavano (e
continuano, ovviamente, a legittimare) l’inserimento, negli accordi di
separazione e divorzio, delle «condizioni relative alla prole», così lasciando
intendere che tali condizioni ben potevano (e ancora possono) presentare
contenuto analogo ai relativi provvedimenti giudiziali (cfr. le versioni
anteriori alla riforma sull’affidamento condiviso degli artt. 155, sesto comma,
c.c. e 6, ottavo comma, l. div.) sempre, beninteso, in presenza di una precisa
corrispondenza della soluzione agli interessi del minore [124].
Venendo alla considerazione del sistema attuale,
sebbene la riforma sull’affidamento condiviso non faccia menzione
dell’affidamento a terze persone, è da ritenere che la scomparsa del previgente
sesto comma dell’art. 155 c.c. (secondo cui «In ogni caso il giudice può per
gravi motivi ordinare che la prole sia collocata presso una terza persona o,
nella impossibilità, in un istituto di educazione»), decretata dalla riforma
del 2006, non impedisce al giudice – chiamato comunque ad adottare i
provvedimenti relativi alla prole con esclusivo riferimento all’interesse
morale e materiale di essa (art. 155, comma secondo, prima parte, c.c.) – di
disporre il collocamento dei figli minori presso terze persone, per esempio i
nonni o altri parenti nell’eventualità che nessuno dei genitori sia in grado di
occuparsi adeguatamente dei figli.
Come stabilito in precedenza dalla giurisprudenza di
legittimità, si tratta del resto di un affidamento che il giudice può disporre
utilizzando quei larghi poteri che la legge gli attribuisce in contemplazione
dell’esclusivo e superiore interesse del minore [125]. Del resto, nonostante le discordi opinioni
dottrinali sul punto [126], la giurisprudenza intervenuta dopo l’entrata in
vigore della l. 2006/54, ha fatto talvolta applicazione dell’affidamento a
terze persone, conformemente, a tacer d’altro, alla locuzione contenuta
nell’art. 155 c.c., che consente al giudice di adottare «ogni altro
provvedimento relativo alla prole». Così, ad esempio, una pronunzia di merito
ha valorizzato la costruzione di una categoria di provvedimenti atipici che il
giudice è abilitato ad assumere nell’interesse del minore, ai sensi del secondo
comma dell’art. 155 c.c., affidando il minore ai nonni [127].
Sempre in tema di accordi sull’affidamento sarà il
caso di precisare brevemente che, diversamente da quanto affermato in dottrina [128] e statuito in giurisprudenza [129], non può ritenersi consentito – né al giudice, né
alle parti – l’affidamento del nascituro
concepito. Se è vero, infatti, che la posizione del concepito è presa in
considerazione dagli artt. 462 e 784 c.c., è altrettanto vero [130] che le disposizioni citate hanno carattere assolutamente
eccezionale, come messo in risalto dallo stesso art. 1 c.c.
Le norme in materia di affidamento della prole hanno
per presupposto l’esistenza di un «figlio» e tale – giuridicamente parlando –
il nascituro ancora non è. Né d’altro canto – per ciò che attiene precipuamente
alle intese ex artt. 158 c.c. e 4,
sedicesimo comma, l. div. – sembra possibile fare richiamo ai principi in
materia di libertà contrattuale, non vertendosi qui nel campo dei rapporti
patrimoniali. Per questo stesso motivo dovrà invece darsi diversa soluzione al
problema della possibilità di prevedere statuizioni di tipo sia personale che
patrimoniale in vista della futura nascita di un figlio, laddove tale evento
(unitamente all’affidamento) potrà essere dedotto in condizione di una o più
distinte attribuzioni patrimoniali: le parti potranno, in altri termini,
accordarsi sull’ammontare dell’assegno dovuto, così dando luogo alla nascita di
un’obbligazione sospensivamente condizionata all’evento della nascita, oltre
che dell’affidamento in favore del coniuge (o ex tale) beneficiario della
prestazione.
Il riconoscimento della
natura di negozio familiare all’accordo relativo ai figli, in tutti gli aspetti
in cui il medesimo può manifestarsi, consente anche di estendere ad esso – come
già si è accennato – la disciplina in materia contrattuale. Di grande utilità
in proposito, di fronte alla comprovata maggior sensibilità di tanti genitori
(e dei rispettivi legali) ai profili pecuniari rispetto a quelli affettivi,
potrebbe manifestarsi l’inserimento di una o più clausole penali a garanzia
dell’adempimento di uno o più degli obblighi assunti in materia di affidamento
(«ordinario», congiunto o alternato che sia) e di diritto di visita. Per
esempio, potrebbero prevedersi vere e proprie penalità di mora per ogni giorno
di ingiustificato ritardo nella «consegna» o nella «riconsegna» (per usare i
brutti termini in voga nell’ambiente) del minore. Oppure, si potrebbe prevedere
il pagamento di una somma di denaro, nel caso il figlio dovesse essere messo a
contatto da un genitore con alcune scelte «di vita», concordemente valutate
come inadatte, in contrasto con l’accordo dei coniugi, ritenuto in sede di
omologazione della separazione consensuale (o di recepimento nel contesto di
una sentenza di divorzio su domanda congiunta) pienamente conforme
all’interesse del minore.
Come detto in altra sede, in
relazione alle clausole di carattere non patrimoniale inter coniuges [131], non vengono in questo caso in considerazione
preoccupazioni attinenti alla necessità di garantire il rispetto di diritti
inderogabili della persona, quale quello della libertà in merito a decisioni di
carattere strettamente personale, facendo, anzi, «premio» su ogni altra
considerazione la necessità di salvaguardare in primo luogo l’interesse della
prole.
Nulla sembra dunque ostare
ad un’applicazione analogica delle disposizioni in tema di clausola penale
contenute nella disciplina del contratto in generale (artt. 1382 ss. c.c.). Sia
quindi consentito rivolgere in questa sede un invito ai pratici a provare ad
inserire siffatto genere di clausole negli accordi diretti a disciplinare le
conseguenze della crisi coniugale con riguardo alla prole minorenne.
L’operazione potrebbe, quanto meno, assumere il valore d’un ballon d’essai per saggiare le reazioni
al riguardo della giurisprudenza, mentre è sicuro che le statistiche
registrerebbero un assai più diffuso rispetto delle intese raggiunte e, forse,
anche una diminuzione dei procedimenti esecutivi in un campo così delicato [132].
Molte
delle considerazioni sopra svolte e delle conclusioni in precedenza raggiunte
sul tema degli accordi tra coniugi in crisi risultano riferibili anche alla
materie delle intese tra genitori non coniugati e, in particolare, tra i membri
di un ménage de fait, nel momento in
cui tale formazione sociale giunga a scioglimento.
E’ noto che
in Italia non esiste una disciplina organica della famiglia di fatto, ma sono
rinvenibili varie norme sparse nei campi più disparati. Peraltro, chi scrive,
sin da quando ha iniziato ad occuparsi della materia, ha sempre sostenuto
l’ammissibilità di simili negozi sulla base del principio di libertà
contrattuale, come del resto ritenuto dalla stessa Corte di cassazione nel 1993
[133]. Ma qui il problema sta
nel fatto che l’ubi consistam di
queste intese, da rinvenirsi nell’art. 1322 c.c., presuppone, per l’appunto, la
natura contrattuale delle medesime. La natura contrattuale dell’accordo
presuppone però a sua volta, ex art.
1321 c.c., il carattere patrimoniale della prestazione.
Instaurando
un paragone con il campo d’indagine dei contratti della crisi coniugale,
occorre osservare che le due situazioni a confronto appaiono molto diverse. In
relazione, invero, ai contratti della crisi coniugale, risultano disponibili
riferimenti normativi precisi: l’art. 711 c.p.c. e l’art. 4, sedicesimo comma,
della legge sul divorzio parlano di «condizioni» della separazione e di
«condizioni» del divorzio, con un termine molto ampio (quello, appunto, di
«condizioni»), nel quale possono farsi rientrare profili non solo di carattere
patrimoniale, ma anche di natura personale, ivi compresi i rapporti relativi
alla prole. Sul versante delle intese tra conviventi more uxorio, invece, si è legati al concetto di patrimonialità
della prestazione. Per questo un intervento legislativo sarebbe auspicabile,
anche se – come si vedrà tra breve – più di un semplice spunto è ricavabile,
già de iure condito, dalla riforma
del 2006 sull’affidamento condiviso.
Con ogni probabilità, quando si tratta di rapporti con la prole naturale,
è necessario distinguere due profili: quello, che potremmo chiamare «genetico»,
attinente alla costituzione del rapporto parentale, da quello «funzionale»,
relativo alla gestione del rapporto medesimo. Per comprendere quanto sopra si
potrà citare un esempio piuttosto clamoroso. Nel 1986 la Corte Suprema Federale
tedesca [134]
pronunziò una decisione estremamente interessante in materia di azione di
responsabilità da inadempimento contrattuale proposta da un uomo che aveva
convissuto per alcuni anni con una donna, con l’accordo di non procreare; in
particolare, la donna si era impegnata a fare uso di strumenti contraccettivi.
Evidentemente l’accordo non venne rispettato, visto che nacque un figlio e
quindi (forse anche per questa ragione!) l’unione si ruppe. La donna citò l’ex
convivente, che venne condannato al pagamento del mantenimento del figlio
minore.
A questo punto l’uomo convenne in giudizio la donna, chiedendo che questa
venisse condannata a rimborsagli quanto alla stessa pagato per il mantenimento
del minore, a titolo di risarcimento del danno per violazione dell’obbligo
contrattualmente assunto di non procreare. I giudici dei vari gradi del
giudizio rigettarono la richiesta, affermando che tale accordo era contrario ai
principi fondamentali di quello che noi in Italia chiameremmo «ordine pubblico»
e che i tedeschi esprimono con l’ampia figura dei gute Sitten (buoni costumi), attesa la violazione del principio di
libertà personale nella sfera più intima. Potrà essere interessante aggiungere
che, svariati anni dopo, il Tribunale di Milano, con una sentenza del 19 novembre
2001, ha affermato lo stesso principio, in un caso esattamente identico, che si
differenzia dal primo solo per la maggiore fantasia dell’avvocato italiano, che
non solo aveva proposto l’azione di responsabilità ex contractu, ma aveva anche, in subordine, presentato una domanda
di responsabilità aquiliana per violazione del principio del neminem laedere, sotto il profilo del
(preteso) diritto soggettivo assoluto ad avere rapporti sessuali con una donna,
senza quelle… fastidiose conseguenze rappresentate dalla nascita di figli non
desiderati [135].
Tutto questo per dire che bisogna tenere distinto il profilo «genetico»,
dell’instaurazione del legame di filiazione, da quello della gestione del
rapporto genitoriale con la prole minorenne. Qui, in effetti, il discorso
cambia, perché viene in gioco un elemento diverso, costituito, in primo luogo,
dall’art. 317-bis c.c. Norma, questa,
di tutt’altro che agevole lettura, ma che con un po’ di fantasia e con tanta
buona volontà possiamo intendere come una disposizione che autorizza
l’interprete a riconoscere la validità di una forma di accordo di separazione
consensuale tra persone conviventi more
uxorio. Sul punto potrà citarsi un importante obiter dictum della Corte di cassazione, in una sentenza di ormai
diversi anni fa [136],
secondo cui l’intervento del tribunale per i minorenni previsto dall’articolo
317-bis c.c. avrebbe carattere
«meramente eventuale e successivo».
E in effetti, la citata norma parte dal presupposto che due persone
convivano. In questo caso vi è un esplicito rinvio all’art. 316 c.c., che
contiene, per l’appunto, il principio dell’accordo: la base normativa di
siffatta intesa negoziale risulta pertanto riconosciuta. Nel caso, invece, di
disaccordo, o comunque nel caso in cui l’accordo sia in contrasto con
l’interesse del minore, interviene il giudice. E’ vero quindi che l’intervento
giudiziale è visto soltanto come dispiegantesi in una fase successiva, posto
che la disposizione non prevede, almeno espressamente, un procedimento di
omologa delle condizioni della separazione della rottura della convivenza more uxorio, come è invece stabilito
dall’art. 158 c.c. per le famiglie fondate sul matrimonio. Siffatto
riconoscimento della validità e dell’efficacia delle intese inter partes è desumibile, come detto,
dall’art. 317-bis, atteso che da
questa disposizione può evincersi che è rimessa in prima battuta alla volontà
delle parti la regolamentazione dei profili attinenti alla gestione della
potestà sui figli minori, personali o patrimoniali che siano. E’ peraltro
chiaro che, se questa intesa dovesse rivelarsi, in ipotesi, contraria agli
interessi del minore e ai principi inderogabili scolpiti negli artt. 147 e 148
c.c., il tribunale per i minorenni ben potrebbe e dovrebbe intervenire,
assumendo i provvedimenti necessari, senza essere in alcun modo vincolato dagli
accordi presi dai genitori.
Questi risultati ricevono conferma dalle disposizioni della normativa in
tema di affidamento condiviso, estensibili anche alla famiglia di fatto, per
effetto dell’art. 4, secondo comma, l. 8 febbraio 2006, n. 54. In forza di
queste norme (come si è già visto) il giudice è obbligato a «Prende(re) atto,
se non contrari all’interesse dei figli, degli accordi intervenuti tra i
genitori» (cfr. art. 155, secondo comma, c.c.). D’altro canto, i conviventi
possono liberamente sottoscrivere accordi in merito al mantenimento dei figli
(come stabilito dall’art. 155, quarto comma, c.c.), eventualmente anche in
deroga al criterio di proporzionalità scolpito nell’art. 148 c.c. (e sempre che
– il problema si pone del resto in termini identici con riguardo alla crisi
coniugale – tale facoltà di deroga non venga un giorno colpita da declaratoria
di incostituzionalità, nel caso si dovesse ritenere il citato criterio di
proporzionalità munito di garanzia costituzionale, ex art. 30 Cost.).
Fermo restando quanto illustrato in questo §, ne deriva quindi che anche
tra genitori ex conviventi more uxorio sarà possibile assumere
determinazioni di comune accordo sulle scelte «di vita», o di tipo ideologico, culturale
o religioso nell’educazione della prole, negli stessi termini e con il rispetto
dei medesimi limiti che si sono illustrati in relazione ai coniugi in crisi.
10. Accordi sulla prole naturale, titolo
esecutivo e «omologazione».
Se è vero
che, come si è osservato in chiusura del § precedente, anche
i genitori ex conviventi more uxorio possono concludere accordi
sulle scelte «di vita», o di tipo ideologico, culturale o religioso
nell’educazione della prole, negli stessi termini e con il rispetto dei
medesimi limiti che si sono illustrati in relazione ai coniugi in crisi, è
altrettanto vero che le procedure e le «strutture formali» attraverso le quali
siffatti accordi possono concretamente esprimersi ed assumere vigore
differiscono notevolmente.
Qui non si tratta, soltanto, di una questione di competenza, sebbene
siffatto tema abbia (motivatamente, di fronte alla schizofrenica situazione
normativa) scatenato torrenziali interventi dottrinali e giurisprudenziali [137]. La
vera questione è che, come noto, il nostro diritto processuale non conosce una
procedura di separazione per la famiglia di fatto. A ben vedere, sfrondando
il dibattito di tutti gli orpelli, il quesito fondamentale è il seguente: se
abbiamo una coppia che si separa e la coppia è coniugata, si perviene alla
confezione di un documento (il verbale di separazione consensuale) munito di
forza esecutiva; nel caso invece della famiglia di fatto si giunge ad ottenere,
a tutto concedere, a un documento che – ancorché vincolante per le parti – non può
essere posto alla base di un’azione esecutiva. Ciò, ovviamente, a meno che il
tribunale non intenda in qualche modo recepire l’accordo in un suo
provvedimento o emanare una decisione che assuma i caratteri di una sorta di
decreto di «omologazione» analogo a quelli che il tribunale ordinario emana ai
sensi dell’art. 158 c.c.
Il
riconoscimento della tendenziale ammissibilità degli accordi dei genitori
naturali, conviventi o non conviventi more
uxorio, sulla regolamentazione di tutti gli aspetti della potestà
genitoriale, sia nella situazione di eventuale convivenza, sia in quella di
un’eventuale separazione, forma precipuo oggetto di una ricca giurisprudenza di
merito (che sarà citata tra breve in nota), la quale si è trovata a fare i
conti con il seguente problema concreto: come si può, una volta constatata la
presenza di un accordo tra i genitori, «inchiodare» le parti alle loro
responsabilità, ed ottenere uno strumento che ci garantisca dal rischio che una
di esse cambi successivamente idea?
La
questione pone, ad avviso dello scrivente, un problema di legittimità
costituzionale. La Consulta, lo sappiamo, si è già occupata della materia,
respingendo le questioni che le erano state proposte. Peraltro, se andiamo a
leggere le due sentenze del 1996 e del 1997 [138], dobbiamo constatare
che, in realtà, la questione non era stata presentata sotto questo angolo
visuale. Ciò che si era chiesto alla Corte costituzionale era di decidere se
rispondesse a criteri di razionalità il fatto che i figli legittimi sono, per
così dire, «gestiti» dal tribunale ordinario, mentre quelli naturali lo sono
(ma solo limitatamente ai profili personali) dal tribunale per i minorenni. E
qui la Consulta ha avuto buon gioco a dire che si tratta di un problema di
discrezionalità del legislatore, il quale può sbizzarrirsi ad individuare varie
forme di competenza, attribuendole ora ad un giudice piuttosto che ad un altro.
A ciò s’aggiunga che, nel caso dell’assegno per il minore naturale e dei
relativi rapporti patrimoniali, l’azione è vista come azione tra genitori e non
involge direttamente la posizione, come soggetto processuale, del minore: non
deve dunque destare «scandalo» il fatto che ad occuparsene sia il tribunale
ordinario, mentre per i profili personali è competente il tribunale per i minorenni.
La
questione potrebbe invece essere (ri)proposta sotto questo altro angolo
visuale: un medesimo tipo di accordo, caratterizzato dalla vincolatività
scaturente dall’art. 1372 c.c. [139], può essere garantito
dalla presenza di un titolo esecutivo (il verbale ex art. 158 c.c.) se concerne la prole legittima, laddove ciò non
accade se quello stesso tipo d’intesa riguarda invece la prole naturale.
Ovviamente
si potrà obiettare che esistono dei rimedi, miranti a determinare la creazione
di un titolo esecutivo: l’accordo sulla prole naturale può (almeno per ciò che
concerne i profili patrimoniali) essere fatto valere in sede di procedimento
contenzioso ordinario, ovvero essere posto alla base di una richiesta per
decreto ingiuntivo. Taluno ha posto anche in luce che l’intesa potrebbe essere
recepita da un atto notarile (o, secondo quanto disposto dalla l. 80/2005,
essere racchiusa in una scrittura privata autenticata), così acquistando
efficacia di titolo esecutivo ex art.
474 c.p.c., per le obbligazioni aventi ad oggetto pagamento di somme di denaro.
Ma tutti quelli appena indicati sono espedienti costosi, che presuppongono una
parte ben assistita ed avvisata, e che comunque marcano una ingiustificata
disparità di trattamento, fondata sul solo fatto di appartenere alla categoria
dei figli legittimi, piuttosto che a quella dei figli naturali.
La
soluzione pratica potrebbe essere reperita sfruttando addirittura alcune
indicazioni date dalla stessa Corte costituzionale che, per almeno due volte,
ha respinto domande dirette ad ottenere l’estensione – per via di pronunzie di
accoglimento – ai figli naturali di rimedi concessi a tutela di quelli
legittimi, affermando poi, in buona sostanza (cioè per via di decisioni
interpretative di rigetto), l’applicabilità ai primi di norme dettate per i
secondi. Mi riferisco alla sentenza n. 166 del 1998 [140], sull’art. 155 c.c. e
alla n. 99 del 1997, in materia di sequestro ex art. 156 c.c. [141].
Una volta
tracciata la via dell’«interpretazione adeguatrice» degli artt. 155 c.c. (ora
art. 155-quater c.c., direttamente
applicabile, tra l’altro, alla famiglia di fatto ex art. 4, secondo comma, l. 8 febbraio 2006, n. 54), relativamente
al diritto di abitazione nella casa familiare, e 156 c.c., sullo strumento del
sequestro, non si vede perché non si potrebbe ipotizzare una ripetizione del
medesimo ragionamento anche per la procedura di cui all’art. 158 c.c.,
riconoscendone la riferibilità anche alla «separazione» della famiglia di fatto
ed in tal modo avallando una prassi che nei tribunali ha già preso piede [142]. A tutto ciò
s’aggiunga, infine, che la riforma sull’affidamento condiviso ha introdotto il
già mentovato dovere del giudice (anche nel caso di procedure relative alla
famiglia di fatto) di «prendere(re) atto, se non contrari all’interesse dei
figli, degli accordi intervenuti tra i genitori» (cfr. art. 155, secondo comma,
c.c.). Questa disposizione viene così a munire di ulteriore, difficilmente
discutibile, fondamento l’operazione ermeneutica che si è qui tentato di
proporre ed argomentare.
11. I problemi posti dalla separazione
della coppia omogenitoriale.
Peculiari
problemi sono, infine, posti dalla separazione della coppia omogenitoriale,
vale a dire di quella coppia omosessuale nella quale (nei modi più vari) sia
sorto un rapporto di filiazione, o si siano sviluppate relazioni privilegiate
tra un/una compagno/a e il figlio dell’altro/a [143].
Qui è
indiscutibile che il fondamento normativo circa l’ammissibilità di intese
sull’affidamento (condiviso o esclusivo) e sulle relative modalità di gestione
del rapporto genitoriale non appare riferibile al caso in cui la potestà
risulti giuridicamente in capo ad una sola persona. Sarà opportuno ricordare
che tale fondamento, nel caso di bigenitorialità, legittima o naturale che sia,
va riscontrato vuoi nella disciplina in materia di separazione personale tra
coniugi (cfr. art. 711 c.p.c., laddove si fa riferimento alle «condizioni della
separazione consensuale»), vuoi in quella del divorzio (cfr. art. 4, sedicesimo
comma, l.div., laddove si fa riferimento alle «condizioni inerenti alla prole e
ai rapporti economici») [144], vuoi, infine,
nell’estensione del riconoscimento della validità ed efficacia delle intese
sulla prole anche al campo della filiazione fuori dal matrimonio (cfr. i
riferimenti agli «accordi» tra i coniugi, rinvenibili negli artt. 155, secondo,
terzo e quarto comma, 155-quater cpv.
e 155-sexies cpv. c.c. e applicabili
alla filiazione naturale per effetto dell’art. 4 cpv., l. n. 54/2006) [145].
Nulla
esclude, però, che, nell’ambito dei poteri/doveri che costituiscono l’essenza
della potestà genitoriale, il titolare di tale situazione decida di riconoscere
comunque un ruolo al proprio ex partner,
a condizione che ciò non venga in conflitto (cela va sans dire) con il fondamentale e già richiamato principio
della tutela dell’interesse esclusivo del minore. Con l’ulteriore precisazione
che eventuali deleghe della potestà non potrebbero avere effetto verso i terzi,
in assenza di una normativa analoga a quella che, come si è detto in altra sede
[146], esiste Oltralpe [147].
Nel caso
di contrasto tra le parti è invece evidente che il partner non genitore non potrà far valere alcun diritto (e
corrispondentemente, non sarà sottoposto ad alcun dovere giuridico) verso il
minore figlio dell’altro. Non va però dimenticato che il criterio cardine per
la soluzione dei problemi in cui un minore può essere coinvolto nella crisi
della coppia è pur sempre quello del suo esclusivo interesse. In nome di tale
interesse, il giudice [148] deve ritenersi
legittimato a disporre un affidamento anche a favore di un estraneo e tale
«estraneo» ben potrebbe essere proprio il «genitore di fatto».
Come del
resto riconosciuto in dottrina [149], per quanto paradossale
possa sembrare, l’unica tutela della genitorialità omosessuale è assicurata
proprio nel caso di contrasto tra i partners
o di dissenso dell’altro genitore del minore [150]: in tali casi, infatti,
può essere chiesto al tribunale per i minorenni un provvedimento limitativo
della potestà del genitore che con il suo comportamento pregiudichi l’interesse
del figlio minore. A sostegno dell’illustrata soluzione può invocarsi mutatis mutandis quell’orientamento
giurisprudenziale che utilizza l’art. 333 c.c. per consentire i contatti tra
nipoti e nonni cui il genitore esercente la potestà (perché unico genitore
vivente o affidatario esclusivo) o il parente affidatario del minore impedisca
di frequentare i nipoti [151].
In
applicazione degli amplissimi poteri concessi al tribunale per i minorenni, nel
contesto della citata procedura, il partner
potrebbe addirittura richiedere l’affidamento del minore, posto che, come
riconosciuto dalla stessa giurisprudenza di legittimità, l’intervento ai sensi
del ricordato articolo del codice civile consente l’eventuale affidamento a
terze persone, diverse da un genitore biologico [152].
E’ da
notare, infine, che una soluzione del genere rinviene un suo preciso pendant nell’ambito della disciplina
della rottura della coppia eterosessuale (coniugata o meno), in merito ai
rapporti rispetto ai figli di entrambi i membri della coppia stessa. Come si è
già avuto modo di dire, infatti [153], la scomparsa del
previgente sesto comma dell’art. 155 c.c., decretata dalla riforma del 2006
(secondo cui «In ogni caso il giudice può per gravi motivi ordinare che la
prole sia collocata presso una terza persona o, nella impossibilità, in un
istituto di educazione») non impedisce al giudice – chiamato comunque ad
adottare i provvedimenti relativi alla prole con esclusivo riferimento
all’interesse morale e materiale di essa (art. 155, comma secondo, prima parte,
c.c.) – di disporre il collocamento dei figli minori presso terze persone, per
esempio i nonni o altri parenti nell’eventualità che nessuno dei genitori sia
in grado di occuparsi adeguatamente dei figli. Anche sotto questo profilo,
quindi, omo- ed etero-genitorialità mostrerebbero di essere null’altro che due
facce della stessa medaglia.
Con queste
ulteriori precisazioni e limitazioni dovrà concludersi nel senso che anche
nell’ambito di una relazione omogenitoriale dovranno ritenersi trasferibili le
conclusioni illustrate nei §§ precedenti sulle scelte «di vita», o di tipo
ideologico, culturale o religioso nell’educazione della prole e sui relativi
accordi.
[1] Art. 8: «Diritto al rispetto della vita privata e
familiare. – 1. Ogni persona ha diritto al rispetto della sua vita privata e
familiare, del suo domicilio e della sua corrispondenza. 2. Non può esservi
ingerenza di una autorità pubblica nell’esercizio di tale diritto a meno che
tale ingerenza sia prevista dalla legge e costituisca una misura che, in una
società democratica, è necessaria per la sicurezza nazionale, per la pubblica
sicurezza, per il benessere economico del paese, per la difesa dell’ordine e
per la prevenzione dei reati, per la protezione della salute o della morale, o
per la protezione dei diritti e delle libertà altrui». La norma va però anche
letta in relazione al successivo art. 12, a mente del quale, «Diritto al
matrimonio. – Uomini e donne, in età matrimoniale, hanno il diritto di sposarsi
e di fondare una famiglia secondo le leggi nazionali che regolano l’esercizio
di tale diritto».
[2] Art. 7: «Rispetto della vita privata e della vita
familiare. – Ogni individuo ha diritto al rispetto della propria vita privata e
familiare, del proprio domicilio e delle sue comunicazioni». Cfr. anche il
successivo art. 9: «Diritto di sposarsi e di costituire una famiglia. – Il
diritto di sposarsi e il diritto di costituire una famiglia sono garantiti
secondo le leggi nazionali che ne disciplinano l’esercizio».
[3] Art. 21: «Non discriminazione. – 1. È vietata
qualsiasi forma di discriminazione fondata, in particolare, sul sesso, la
razza, il colore della pelle o l’origine etnica o sociale, le caratteristiche
genetiche, la lingua, la religione o le convinzioni personali, le opinioni
politiche o di qualsiasi altra natura, l’appartenenza ad una minoranza
nazionale, il patrimonio, la nascita, gli handicap, l’età o le tendenze
sessuali. 2. Nell’ambito d’applicazione del trattato che istituisce la Comunità
europea e del trattato sull’Unione europea è vietata qualsiasi discriminazione
fondata sulla cittadinanza, fatte salve le disposizioni particolari contenute
nei trattati stessi».
[4] Sul tema v. in generale Caggia, Il rispetto
della vita familiare, in Fam. dir.,
2002, p. 212 ss.; v. inoltre Oberto,
Problemi di coppia, omosessualità e
filiazione, in Dir. fam. pers.,
2010 (in corso di pubblicazione).
[5] La possibilità di un diritto della famiglia europeo è
prospettata da Boele - Woelki, The road towards a European Family Law,
in E.J.C.L., November, 1997; Hamilton, Standley e Hodson, Family Law in Europe, London-Dublin-Edinbourg, 1995; Jareborg, Towards Universal Law: Trends in national, European and International
Lawmaking, Uppsala, 1995; Massip,
L’harmonisation du droit des personnes et
de la famille : la contribution de la CIEC, in La Commission Internationale de l’Etat Civil, Strasbourg, 1992; Rieg, L’harmonisation européenne du droit de la famille. Mythe ou realité ?
Conflicts et harmonisation, Fribourg, 1990. Nel panorama italiano, v. i
materiali raccolti in Aa. Vv., Separazione,
divorzio e affidamento dei minori: quale diritto per l’Europa? Atti del
Convegno, Bologna, 17-18 aprile 1998, a cura di M. Sesta, Milano, 2000, nonché, per i profili patrimoniali, Oberto, La comunione coniugale nei suoi profili di diritto comparato,
internazionale ed europeo, in Dir.
fam. pers., 2008, p. 367 ss.; Id.,
La comunione legale tra coniugi, in Trattato di diritto civile e commerciale,
già diretto da Cicu, Messineo e Mengoni e continuato da Schlesinger, I, Milano,
2010, p. 205 ss.
[6] Cfr. il Regolamento (CE) n. 2201/2003 del Consiglio,
del 27 novembre 2003, relativo alla competenza, al riconoscimento e
all’esecuzione delle decisioni in materia matrimoniale e in materia di
responsabilità genitoriale, che abroga il regolamento (CE) n. 1347/2000; v.
inoltre il successivo Regolamento (CE) n. 4/2009 del Consiglio, del 18 dicembre
2008, relativo alla competenza, alla legge applicabile, al riconoscimento e
all’esecuzione delle decisioni e alla cooperazione in materia di obbligazioni
alimentari.
[7] La nuova lettura dell’art. 8 della Convenzione è
descritta da Kleijkamp, Family Life and Family Interests. A
Comparative Study on the Influence of the European Convention of Human Rights
on Dutch Family Law and the Influence of the United States Constitution on
American Family Law, London, 1999, p. 28, secondo la quale questo approccio
riflette una concezione sociale dei diritti umani in accordo alla quale vi è un
dovere dello Stato di assumere qualsiasi iniziativa necessaria per promuovere
la dignità e il valore umano. Cfr. anche Caggia,
Il rispetto della vita familiare,
cit., p. 212 ss.
[8] L’insegnamento tradizionale della Corte europea dei
diritti dell’uomo è che «In the Court’s opinion, the right to marry guaranteed
by Article 12 (Art. 12) refers to the traditional marriage between persons of
opposite biological sex. This appears also from the wording of the Article
which makes it clear that Article 12 (Art. 12) is mainly concerned to protect
marriage as the basis of the family» (cfr. Corte europea dei diritti dell’uomo,
Rees v. United Kingdom, 17 ottobre
1986, par. 49-51).
[9] Con riferimento all’equiparazione delle coppie
conviventi more uxorio con quelle
coniugate, la Corte europea dei diritti dell’uomo si è espressa nel senso che
«Article 8 applies to the “family life” of the “illegitimate” family as well as
to that of the “legitimate” family. (…) it is clear that the applicants, the
first and second of whom have lived together for some fifteen years (…)
constitute a “family” for the purposes of article 8. They are thus entitled to
its protection, notwithstanding the fact that their relationship exists outside
marriage. The notion of the “family” (…) is not confined solely to
marriage-based relationships and may encompass other the de facto “family” ties where the parties are living together
outside of marriage»: cfr. Corte europea dei diritti dell’uomo, 13 giugno 1979,
Marckx v. Belgium, par. 31 e par. 56;
Corte europea dei diritti dell’uomo, Johnston
and Others Case, 18 dicembre 1986, par. 55; Corte europea dei diritti
dell’uomo, 26 maggio 1994, Keegan v.
Ireland, par. 44.
[10] Sul principio di eguaglianza tra figli legittimi e
naturali cfr. Corte europea dei diritti dell’uomo, 13 giugno 1979, Marckx v. Belgium, cit.; v. inoltre
Corte europea dei diritti dell’uomo, 29 novembre 1991, Vermeire v. Belgium; Corte europea dei diritti dell’uomo, 18
dicembre 1986, Johnston et al. v. Ireland;
Corte europea dei diritti dell’uomo, 28 ottobre 1987, Inze v. Austria; Corte europea dei diritti dell’uomo, 1° febbraio
2000, Mazurek v. France, in D., 2000, p. 332, con nota di Thierry; tale ultima decisione ha
censurato – per violazione degli artt. 8 e 14 – la discriminazione a danno dei
figli adulterini contenuta nell’art. 760 c.c. fr., che attribuiva ad essi un
quota ereditaria pari alla metà di quella spettante ai figli legittimi. A
questa sentenza ha risposto il legislatore francese con la l. n. 2001/1135 del
3 dicembre 2001, che ha eliminato ogni residua differenza tra figli legittimi e
naturali. Sul tema v. in dottrina per tutti Ferrando,
Genitori e figli nella giurisprudenza
della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, in Fam. dir., 2009, p. 1049 ss.
[11] Il citato caso Markx
v. Belgium (1979) è esemplare in quanto in esso erano in questione non solo
le norme del codice civile belga che subordinavano l’accertamento della
filiazione nei confronti della madre nubile ad un riconoscimento da parte di
questa e quelle che limitavano i diritti successori del figlio, ma anche le
norme che limitavano gli effetti del riconoscimento ai soli rapporti tra la
madre ed il figlio (con l’esclusione dei parenti). La Carta di Nizza
espressamente indica la «nascita» tra le circostanze che non consentono un
trattamento giuridicamente differenziato dei figli (art. 21). In alcuni dei
giudizi nei quali i ricorrenti denunciavano la violazione dell’art. 8 della
Convenzione da parte di quegli Stati che, nelle loro legislazioni, trattavano
in modo discriminatorio i figli naturali rispetto ai figli legittimi (cfr. il
già citato caso Markx v. Belgium) o
che non prevedevano, sul piano processuale, la costituzione del padre naturale
in sede di dichiarazione dello stato di adottabilità del figlio (cfr. Keegan v. Ireland, dove si è affermato
che un legame con il figlio, equivalente ad una relazione familiare, continua
esistere anche se, al tempo della nascita del figlio, i genitori avevano smesso
di coabitare o il loro rapporto si era concluso), la Corte europea dei diritti
umani si è soffermata nel definire il contenuto da attribuire all’espressione
generica di «vita familiare» in modo da stabilire se il caso concreto poteva
essere ricondotto in tale contesto e, quindi, eventualmente beneficiare della
tutela garantita dalla norma. Da notare che, dalla lettura delle decisioni, si
apprende che la definizione di vita familiare, accolta nella sua
giurisprudenza, non si limita a comprendere la famiglia legittima, ma si
allarga fino ad abbracciare le relazioni tra soggetti di fatto conviventi.
L’accertamento dell’esistenza di una convivenza e, quindi, di una relazione
riconducibile ad un fenomeno di «vita familiare» rispetto al modello
tradizionale di famiglia, è un’indagine di fatto che investe elementi
determinanti come l’esistenza di una relazione di lungo periodo, l’impegno
nella gestione del ménage, il
reciproco affidamento nell’assistenza dell’altro partner, l’eventuale concepimento di un figlio. Nella dottrina
italiana, per una definizione di «famiglia» orientata a far emergere gli
elementi sostanziali della relazione, cfr. Barcellona,
voce Famiglia, in Enc. dir., XVI, Milano, 1967, p. 789, il
quale sottolinea che la caratteristica delle «relazioni familiari non è tanto
la struttura estrinseca della fonte quanto la tutela giuridica di quegli
interessi fondamentali al reciproco rispetto, alla fedeltà, alla non ingerenza
di terzi estranei, alla coesione e all’unità del gruppo, che si manifestano
unicamente nell’ambito di questo tipo di comunità sociale». Su questo punto,
nella perdurante inerzia del legislatore, Ferrando,
op. loc. ultt. citt., si augura, più
che condivisibilmente, che, nel nuovo clima di collaborazione tra Corti europee
e nazionali, la Corte costituzionale si interroghi sulla perdurante validità
dell’orientamento fino ad ora seguito in tema di parentela naturale. Se ciò
avvenisse, ben potrebbe, tra l’altro, evidenziarsi ulteriormente quel ruolo dei
giudici, quali «costruttori di passerelle tra i diversi ordinamenti», ben posto
in luce da Cassese, I tribunali di Babele. I giudici alla
ricerca di un nuovo ordine globale, Roma, 2009, p. 3 ss., 41 ss. (cfr.
anche Id., Il diritto globale. Giustizia e democrazia oltre lo Stato, Torino,
2009, p. 136 ss., 146).
[12] Cfr. Fantetti,
Famiglia, individui e convivenza, in Fam. pers. succ., 2009, p. 342. Osserva Long, Il diritto italiano della famiglia alla prova delle fonti
internazionali, Milano, 2006, p. 187 che sia la Corte europea dei diritti
dell’uomo, sia la Corte di Giustizia CE manifestano una grande cautela nell’estendere
ai conviventi omosessuali i diritti riconosciuti alle coppie eterosessuali.
Secondo la Corte del Lussemburgo, infatti, «allo stato attuale del diritto
nella Comunità, le relazioni stabili tra due persone dello stesso sesso non
sono equiparate alle relazioni tra persone coniugate o alle relazioni stabili
fuori del matrimonio tra persone di sesso opposto» (cfr. Corte di Giustizia CE,
17 febbraio 1998, Lisa Grant v.
South-West Trains, http://www.hrcr.org/safrica/equality/Grant_South-West%20Trains.htm,
par. 38). La consolidata giurisprudenza della Corte di Strasburgo rifiuta, dal
canto suo, di riconoscere l’esistenza di una «vita familiare» tra omosessuali,
ritenendo invece sempre applicabile alle questioni concernenti gli omosessuali
l’art. 8 sotto il profilo del diritto al rispetto della «vita privata».
[14] E’ evidente che in una società civile, matura ed
evoluta parlare dell’omosessualità come di uno «stile di vita» o di un «modello
culturale» avrebbe valenza identica a quella del ragionamento di chi volesse
legare simili etichette al fatto di essere alti un metro e settanta, o di avere
gli occhi azzurri. Ma è altrettanto inutile dire che, purtroppo, è con un
modello di società assai diverso che, piaccia o meno, abbiamo quotidianamente a
che fare.
[15] Cfr. per tutti Oberto,
Problemi di coppia, omosessualità e
filiazione, cit.
[16] Corte europea dei diritti dell’uomo, 21 dicembre 1999,
ricorso n. 33290/96, in JCP, 2000, I,
p. 203, n. 11, Chron., con nota di Sudre.
[17] Art. 14: «Divieto di discriminazione. – 1. Il
godimento dei diritti e delle libertà riconosciuti nella presente Convenzione
deve essere assicurato senza nessuna discriminazione, in particolare quelle
fondate sul sesso, la razza, il colore, la lingua, la religione, le opinioni
politiche o di altro genere, l’origine nazionale o sociale, l’appartenenza a
una minoranza nazionale, la ricchezza, la nascita o ogni altra condizione».
Come già rimarcato in altra sede (cfr. Oberto,
Problemi di coppia, omosessualità e
filiazione, cit.), questa condanna da parte di Strasburgo, la pronunzia
lusitana sembrava veramente «essersela andata a cercare». La decisione oggetto
di contestazione era, invero, ricorsa ad espressioni quali: «la figlia deve
vivere all’interno (…) di una famiglia tradizionale portoghese», oppure: «qui
non è il caso di accertare se l’omosessualità sia o meno una malattia o se essa
sia un orientamento sessuale verso le persone del medesimo sesso. In entrambi i
casi si è in presenza di una anormalità e un minore non deve crescere all’ombra
di situazioni anormali». Di fronte a questi rilievi la Corte europea ha avuto
partita facile nell’affermare che «ces passages de l’arrêt litigieux, loin de
constituer de simples formules maladroites ou malheureuses, comme le soutient
le Gouvernement, ou de simples obiter
dicta, donnent à penser, bien au contraire, que l’homosexualité du
requérant a pesé de manière déterminante dans la décision finale». Siffatta
conclusione risultava poi confermata dal fatto che la corte d’appello di
Lisbona, decidendo sul diritto di visita del padre, lo aveva messo in guardia
dal tenere un comportamento che consentisse alla minore di comprendere «che suo
padre viveva con un altro uomo in condizioni simili a quelle di due coniugi».
La Corte europea ha quindi stabilito che il giudice portoghese aveva operato
una «distinction dictée par des considérations tenant à l’orientation sexuelle
du requérant, distinction qu’on ne saurait tolérer d’après la Convention», così
negando «l’existence d’un rapport raisonnable de proportionnalité entre les
moyens employés et le but visé» e facendo tra l’altro riferimento al caso Hoffmann v. Austria, nel quale si era
ritenuta la violazione del combinato disposto degli artt. 8 e 14 della
Convenzione da parte di una decisione della Corte Suprema austriaca, che aveva
ritenuto rilevanti nella decisione sull’affidamento di un minore considerazioni
di tipo religioso (nella specie, l’appartenenza della madre ai testimoni di
Geova: v. infra, § 5).
[18] Corte europea dei diritti dell’uomo, 22 gennaio 2008,
in Nuova giur. civ. comm., 2008, I,
p. 667, con nota di Long. Rimarca Long, I giudici di Strasburgo socchiudono le porte dell’adozione agli
omosessuali, Nota a Corte europea dei diritti dell’uomo, 22 gennaio 2008,
in Nuova giur. civ. comm., 2008, I,
p. 672 s., lamentando che tale decisione sia stata fraintesa dai media, che il thema decidendum, come nel precedente caso Fretté v. France, era costituito «dal diritto a essere valutati
idonei all’adozione e non il diritto all’adozione, cioè a essere abbinati a un
bambino adottabile dopo l’accertamento dell’idoneità: l’inesistenza di tale
diritto indifferentemente dalle modalità scelte per vivere la propria vita di
coppia costituisce infatti principio ormai consolidato in tutti i Paesi
dell’Europa occidentale». Sta però di fatto che ciò che appare (gravemente)
discriminatorio verso l’orientamento omosessuale è proprio la negazione del
diritto ad essere valutati idonei all’adozione, per via di tale orientamento.
Tale ultima decisione costituisce un’importante novità, atteso che, nel
precedente caso Fretté v. France
(Corte europea dei diritti dell’uomo, 26 febbraio 2002, parr. 38, 42), la
medesima Corte europea dei diritti dell’uomo aveva ritenuto, con una
maggioranza di soli quattro voti contro tre, che il rifiuto al ricorrente
dell’idoneità all’adozione non integrasse un trattamento ingiustificatamente
discriminatorio poiché, sebbene l’esclusione fosse avvenuta a causa della sua
omosessualità, tale trattamento differenziato perseguiva il fine legittimo di
proteggere il benessere e i diritti dei minori adottandi e non eccedeva il
margine di apprezzamento da riconoscere agli Stati contraenti, in assenza di un
orientamento comune tra gli ordinamenti giuridici europei e anche all’interno
della comunità scientifica in questa materia. Si è esattamente rilevato in
dottrina che le differenze tra tale affaire,
giunta a decisione nel 2002, e quella E.B.
v. France, del 2008, «non sono tali da giustificare di per sé una decisione
opposta» (Long, I giudici di Strasburgo socchiudono le porte
dell’adozione agli omosessuali, cit., p. 673). Concordo con tale giudizio,
ritenendo però personalmente erronea la decisione del caso Fretté. Sul tema, se la decisione del 2008 costituisca o meno un
avallo della Corte europea all’omogenitorialità andrei cauto nel fornire, come
pure è stato fatto in dottrina (Così Long,
op. loc. ultt. citt.), una risposta
negativa. Nessuna affermazione, certo, arriva da Strasburgo sul diritto di un
omosessuale, in quanto partner del
genitore biologico, ad adottare il figlio dell’altro, in forza del rapporto di
convivenza (formalizzata o meno) con quest’ultimo. Una vigorosa affermazione,
invece, discende dal «combinato disposto» delle sentenze Salgueiro da Silva Mouta ed E.B.,
circa la non rispondenza ai principi della Convenzione europea di pratiche
discriminatorie che trovino la propria «giustificazione» sull’orientamento
sessuale del genitore (attuale o «potenziale» che sia).
[19] Inutile dire che il profilo delle discriminazioni in
base alla sexual orientation tocca
non solo l’aspetto della genitorialità. Si pensi, ad esempio, al tema del
ricongiungimento familiare, sia nei casi riguardanti cittadini extraeuropei
soggiornanti in Italia, sia in relazione alle ipotesi che vedono protagonisti
cittadini comunitari o italiani, laddove la vigente disciplina italiana
espressamente esclude le coppie non unite in matrimonio dall’esercizio di tale
diritto. Nel primo caso, infatti, l’art. 29, d.lgs. 286/1998 (T.U. in materia
di immigrazione e trattamento dello straniero), espressamente limita al
«coniuge» dello straniero residente la possibilità di ottenere il ricongiungimento
familiare, escludendo dai beneficiari il partner
non coniugato. Analoga impostazione si desume dalla disciplina del
ricongiungimento familiare dei cittadini comunitari di cui alla direttiva
recepita con d.lgs. 6 febbraio 2007, n. 30: l’art. 2, 1° co., lett. b) n. 2),
infatti, esclude dalla nozione di familiare rilevante ai fini della libera
circolazione il partner che abbia
contratto con il cittadino europeo un’unione registrata sulla base della
legislazione di uno Stato membro, se la legislazione dello Stato membro
ospitante non equipara l’unione registrata al matrimonio; a quanto pare, il
medesimo principio riguarda anche i familiari di cittadini italiani non aventi
la cittadinanza italiana, in forza del disposto dell’art. 23 d.lgs. 30/2007.
Sul punto potrà rilevarsi che la Corte d’appello di
Firenze, con provvedimento del 6 dicembre 2006, ha stabilito che poiché il
nostro ordinamento subordina il rilascio del permesso di soggiorno per motivi
familiari alla qualità di «familiare» del soggetto richiedente, il
provvedimento dell’autorità neozelandese che riconosce a due persone del
medesimo sesso la qualifica di partners
di fatto, cioè di conviventi, e non di familiari, non costituisce titolo idoneo
perché possa essere rilasciato il permesso di soggiorno ai sensi del d.lgs. n.
286/1998 (cfr. App. Firenze, 6 dicembre 2006, in Fam. dir., 2007, p. 1040, con nota di Pascucci).
La predetta decisione è stata confermata dalla Suprema
Corte (cfr. Cass., 17 marzo 2009, n. 6441, in Fam. dir., 2009, p. 454, con nota di Acierno; in Corr. giur.,
2010, p. 91, con nota di Nascimbene).
Secondo, invero, la Cassazione, «In tema di diritto dello straniero al
ricongiungimento familiare, il cittadino extracomunitario legato ad un
cittadino italiano ivi dimorante da un’unione di fatto debitamente attestata
nel paese d’origine del richiedente, non può essere qualificato come
“familiare” ai sensi dell’ art. 30, primo comma, lettera c), del d.lgs. n. 286
del 1998, in quanto tale nozione, delineata dal legislatore in via autonoma,
agli specifici fini della disciplina del fenomeno migratorio, non è
suscettibile di estensione in via analogica a situazioni diverse da quelle
contemplate, non essendo tale interpretazione imposta da alcuna norma
costituzionale. Né tale più ampia nozione può desumersi dagli artt. 8 e 12
della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo o dall’art. 9 della Carta di
Nizza (…) in quanto tali disposizioni escludono il riconoscimento automatico di
unioni diverse da quelle previste dagli ordinamenti interni, salvaguardando
l’autonomia dei singoli Stati nell’ambito dei modelli familiari. Infine, non
può trovare applicazione la più recente normativa di derivazione comunitaria,
in quanto il d.lgs. n. 5 del 2007 si applica soltanto ai familiari di
soggiornanti provenienti da paesi terzi e il d.lgs. n. 30 del 2007 tutela la
libertà di circolazione e di soggiorno dei cittadini UE e dei loro familiari
nel territorio di uno stato membro diverso da quello di appartenenza, e non il
diritto al ricongiungimento familiare con un cittadino di uno Stato membro
regolarmente residente e dimorante nel suo paese d’origine».
Quanto mai deludente appare la presa di posizione
della Suprema Corte con riguardo al contenuto ed agli effetti della Carta di
Nizza. Secondo la Cassazione, infatti, al fine di accedere ad una nozione di
«familiare» comprensiva anche del convivente omosessuale, non varrebbero le
disposizioni dell’art. 9 del predetto documento sovranazionale («Il diritto di
sposarsi e il diritto di costituire una famiglia sono garantiti secondo le
leggi nazionali che ne disciplinano l’esercizio»), posto che, «Se è vero che la
formulazione del citato art. 9 da un lato conferma l’apertura verso forme di
relazioni affettive di tipo familiare diverse da quelle fondate sul matrimonio e,
dall’altro, non richiede più come requisito necessario per invocare la garanzia
dalla norma stessa prevista la diversità di sesso dei soggetti del rapporto,
resta fermo che anche tale disposizione, così come l’art. 12 CEDU, rinvia alle
leggi nazionali per la determinazione delle condizioni per l’esercizio del
diritto, con ciò escludendo sia il riconoscimento automatico di unioni di tipo
familiare diverse da quelle previste dagli ordinamenti interni che l’obbligo
degli stati membri di adeguarsi al pluralismo delle relazioni familiari, non
necessariamente eterosessuali». Del tutto ignorato è rimasto, invece, l’art. 21
della predetta Carta, che, come noto, fonda un chiaro divieto di trattamenti
discriminatori, a ragione, tra l’altro, delle «tendenze sessuali». Quest’ultimo
profilo viene, invece, velocemente sfiorato dalla Cassazione con riguardo agli
artt. 8 e 14 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, in relazione alla
(dai ricorrenti) lamentata «arbitraria ingerenza nelle scelte del modello familiare,
avente anche portata discriminatoria sulla base degli orientamenti sessuali».
Ma siffatto peculiare aspetto viene invece espressamente scartato dalla Corte,
«in quanto la mancata equiparazione al coniuge è prevista in relazione a
qualsiasi tipo di convivenza non matrimoniale, e non soltanto per quelle tra
persone dello stesso sesso». Peraltro, che la via del matrimonio sia (da noi)
irrimediabilmente sbarrata agli omosessuali non sembra sfiorare neppure per un
attimo le menti dei Supremi Giudici. In senso contrario all’invocabilità del
principio di non discriminazione (sub
specie, però, dell’art. 3 Cost.) si
esprime anche D’Angeli, Il fenomeno delle convivenze omosessuali:
quale tutela giuridica?, in I
quaderni della Riv. dir. civ., Padova, 2003, p. 18 ss., pervenendo alla non
condivisibile conclusione per cui la convivenza omosessuale, pur se formazione
sociale rilevante ex art. 2 Cost.,
non potrebbe assurgere al rango di «famiglia» (cfr. in partic. p. 18). Ora, se
si pone mente al fatto che il termine «famiglia» non può ormai essere negato
alla convivenza more uxorio tra
persone di sesso diverso (sul tema v. per tutti Oberto,
I regimi patrimoniali della famiglia di
fatto, Milano 1991, p. 21 ss.), appare più che lampante come la negazione
della medesima qualifica alla stabile unione affettiva tra persone del medesimo
sesso non tragga altra origine se non da una (preconcetta e gratuita)
discriminazione non basata su altra «ragione», che non sia proprio
l’orientamento sessuale. Negare la presenza di una discriminazione rilevante ai
sensi dell’art. 21 della Carta di Nizza (ma, quasi altrettanto certamente,
anche ex art. 3 Cost.) significa,
dunque, negare l’evidenza ed infatti proprio su questa ratio decidendi riposa il dubbio di incostituzionalità sollevato da
Trib. Venezia, 3 aprile 2009 (disponibile al sito web seguente: http://www.personaedanno.it/cms/data/articoli/014238.aspx).
Obietta in proposito Nascimbene, Unioni di fatto e matrimonio fra
omosessuali. Orientamenti del giudice nazionale e della corte di giustizia,
Nota a Cass., 17 marzo 2009, n. 6441, in Fam.
dir., 2009, p. 107, che la Convenzione europea Malgrado lascia «piena
libertà allo Stato», con conseguente «assenza di un obbligo di diritto
internazionale a parificare il matrimonio eterosessuale all’unione omosessuale
ovvero a conferire un diritto a sposarsi non limitato dalla disparità di sesso.
Obbligo, peraltro, inesistente nel diritto comunitario, a maggior ragione alla
luce di quelle fonti invocate dal Tribunale di Venezia che, in primo luogo, non
hanno efficacia vincolante; in secondo luogo, anche se l’avessero (le
disposizioni della Carta, non certo le risoluzioni del Parlamento europeo)
lascerebbero libero lo Stato di prevedere la parificazione ricordata. Nei casi
prospettati dal Tribunale di Venezia e dalla Corte d’appello di Trento è
mancato (per così dire) il rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia.
Correttamente, poiché si trattava (e si tratta) di situazioni di diritto
meramente interne ove il diritto dell’Unione europea non è applicabile». A
siffatta visione può peraltro replicarsi che la libertà lasciata allo Stato
nella determinazione dei modelli familiari deve cedere di fronte al divieto di
discriminazione: divieto che, nei documenti normativi sovranazionali (e
vincolanti) sopra citati, appare invece formulato (né potrebbe essere
diversamente) in maniera assoluta,
senza alcuna forma di rinvio.
[20] Cass., 18 giugno 2008, n. 16593, in Fam. dir., 2008, p. 1106, con nota di Amram; in Nuova giur. civ. comm.,
2009, I, p. 68, con nota di Mantovani:
«In tema di separazione personale dei coniugi, alla regola dell’affidamento
condiviso dei figli può derogarsi solo ove la sua applicazione risulti
“pregiudizievole per l’interesse del minore”, con la duplice conseguenza che
l’eventuale pronuncia di affidamento esclusivo dovrà essere sorretta da una
motivazione non solo più in positivo sulla idoneità del genitore affidatario,
ma anche in negativo sulla inidoneità educativa ovvero manifesta carenza
dell’altro genitore, e che l’affidamento condiviso non può ragionevolmente
ritenersi precluso dalla mera conflittualità esistente tra i coniugi, poiché
avrebbe altrimenti una applicazione solo residuale, finendo di fatto con il
coincidere con il vecchio affidamento congiunto». Anche la dottrina quasi
unanime ha precisato che l’affidamento esclusivo possa essere disposto solo
quando l’affidamento condiviso si riveli concretamente deleterio, perché
contrario all’interesse del minore. V. i contributi di Casaburi, I nuovi istituti di diritto della famiglia
(norme processuali ed affidamento condiviso): prime istruzioni per l’uso,
II, Il nuovo regime sull’affidamento, in Giur. merito, 2006, p.
43; Dell’Utri, L’affidamento
condiviso nel sistema dei rapporti familiari, in Giur. it., 2006, p.
1549; Murgo, Affido congiunto e
condiviso: vecchio e nuovo confronto in tema di affidamento della prole, in
Nuova giur. civ. comm., 2006, II, p. 547; Scalisi, Il diritto del minore alla “bigenitorialità”
dopo la crisi o la disgregazione del nucleo familiare, in Fam. dir.,
2007, p. 520.
Secondo quanto rimarca Pugliese,
Interesse del minore, potestà dei genitori e poteri del giudice nella nuova disciplina
dell’affidamento condiviso, in Familia, 2006, II, p. 1053, con la
legge sull’affidamento condiviso «si è voluto ribaltare il rapporto
regola-eccezione, individuando come scelta prioritaria un nuovo modello di
affidamento, che diviene regola generale attuativa del diritto alla continuità
degli affetti senza tuttavia che fossero indicati con precisione i presupposti
e le modalità, questa volta dell’affidamento esclusivo, nuovamente limitandosi
a richiamare sul punto la clausola generale dell’interesse del minore». Non
condivide il sintagma bigenitorialità-best interest of the child, Zatti, Familia-familiae, declinazioni
di un’idea. Valori e figure della convivenza e della filiazione, in Familia,
2002, p. 337. Sia il principio di bigenitorialità, che quello di interesse
superiore del minore trovano riscontro nelle carte internazionali. La
preminenza del criterio del best interest of the child è riconosciuta,
in particolare, dall’art. 3 della Convenzione ONU
sui diritti del fanciullo, in cui si afferma che «in tutte le decisioni
relative ai fanciulli, di competenza delle istituzioni pubbliche o private di
assistenza sociale, dei Tribunali, delle autorità amministrative o degli organi
legislativi, l’interesse superiore del fanciullo deve essere una considerazione
preminente». L’art. 24 della Carta di Nizza (Carta dei diritti fondamentali
dell’Unione europea, firmata a Nizza, 2000) propone la medesima formula della
Convenzione ONU (ovvero l’aspirazione cui deve mirare ogni sistema è proprio
quella di rendere preminente l’interesse del minore negli atti allo stesso
relativi). Lo stretto legame fra interesse supremo del minore e bigenitorialità
appare individuabile nell’interpretazione data alla tutela del «rispetto della
vita familiare» di cui all’art. 8 della Convenzione Europea sui diritti
dell’uomo: così Uccella, La
giurisprudenza della CEDU su alcune tematiche di diritto di famiglia e suo
rilievo per la disciplina interna, in Giur. it., 1997, IV, c. 125.
In generale sull’affidamento condiviso cfr. Patti, L’affidamento condiviso dei figli, in Fam. pers. succ., 2006, p. 300 ss.; Dosi,
Le nuove norme sull’affidamento e sul
mantenimento dei figli e il nuovo processo di separazione e di divorzio, in
Dir. e giustizia, Supplemento al
fasc. 23/2006; Oberto, Riflessioni
sulla riforma in materia di affidamento condiviso (traccia
ipertestuale di una relazione), dal 2
novembre 2006 al sito web seguente: https://www.giacomooberto.com/affidamentocondiviso/affidamentocondiviso.htm;
Facchini, Fissore, Naggar, Oberto e
Ronfani, Il nuovo rito del contenzioso familiare e l’affidamento condiviso – Le
riforme del diritto di famiglia viste dagli avvocati – Commenti, formulari e
documenti, a cura di Oberto, Padova, 2007. Da notare che, anche prima
dell’emanazione della l. 8 febbraio 2006, n. 54, dottrina e giurisprudenza
ammettevano il c.d. «affidamento congiunto» in caso di separazione legale dei
genitori. La sua ammissibilità veniva argomentata ora per analogia con quanto
previsto in tema di divorzio (cfr. art. 6, l. 1° dicembre 1970, n. 898), ora in
ragione dell’ampia formulazione secondo la quale il giudice della separazione
adotta «ogni altro provvedimento relativo alla prole» (Dogliotti, La
separazione giudiziale, in Il diritto
di famiglia, Trattato diretto da Bonilini e Cattaneo, I, Famiglia e matrimonio, Torino, 1997, p.
490). In giurisprudenza, cfr., in senso conforme, Cass., 4 novembre 1997, n.
10791, in Rep. Foro it., 1997, voce Matrimonio, 125; Cass., 13 dicembre
1995, n. 12775, in Giur. it., 1996,
I, 1, c. 1066; Cass., 4 maggio 1991, in Foro
it., 1993, I, c. 563; in Corriere
giur., 1991, p. 1010, con nota di Galizia
Danovi; in Vita notar., 1991,
p. 996; App. Perugia, 18 gennaio 1992, in Dir.
fam. pers., 1994, p. 148; Trib. Milano, 9 gennaio 1997, in Nuova giur. comm., 1997, p. 584, con
nota di Costanza; Trib. Catania, 8
giugno 1994, in in Dir. fam. pers.,
1995, p. 222; Trib. Genova, 18 aprile 1991, in Giust. civ., 1991, I, p. 3095, con nota di Miglietta.
[21] Trib. Napoli, 28 giugno 2006, in Giur. merito, 2007, p. 1572 ss., con nota di Fava; in Foro it., 2007, I, c. 138; in Fam.
dir., 2007, p. 621 ss., con nota di Iannaccone;
in Dir. fam. pers., 2007, p. 1691, con
nota di Manera.
[22] Cfr. ad es. Manera,
Se un’elevata conflittualità tra i
genitori (uno dei quali tacciato di omosessualità) escluda l’applicazione in
concreto dell’affidamento condiviso, Nota a Trib. Napoli, 28 giugno 2006,
in Dir. fam. pers., 2007, p. 1677, il
cui pensiero viene qui di seguito testualmente riportato: «non può, infine,
condividersi l’affermazione secondo cui una famiglia omosessuale avrebbe la
stessa valenza educativa di una famiglia eterosessuale, essendo agevole
replicare che, per una corretta ed armoniosa evoluzione della personalità e per
una normale socializzazione, il minore ha bisogno di identificarsi in validi
modelli genitoriali di riferimento, della necessaria compresenza di una figura
educatrice materna e paterna, perché l’assenza di una sola di tali figure
educative non favorisce il normale sviluppo della personalità, ma genera
disturbi psichici, confusioni, vuoti psicologici e profondi traumi, spesso
irreversibili, o irrisolti anche dopo molti decenni. Il minore ha, cioè, necessità
d’un padre e di una madre (e non di due padri o di due madri): la realtà
proverà l’esattezza di tale assunto, dopo che il legislatore avrà consentito il
matrimonio e l’adozione alle coppie omosessuali». In senso diametralmente
opposto v. invece Caggia, Convivenze omosessuali e genitorialità:
tendenze, conflitti e soluzioni nell’esperienza statunitense, cit., p. 248
ss.
Come è dato leggere nella motivazione della decisione
partenopea, «L’atteggiamento di ostilità, più o meno velata, nei confronti
dell’omosessualità, nel settore in oggetto, è ormai frutto di meri stereotipi
pseudoculturali, espressione di moralismo e non di principi etici condivisi,
privi peraltro di un fondamento normativo. Soprattutto non vi è, né può
esservi, alla base di siffatta prevenzione, alcun fondamento normativo (ed è
appena il caso di ricordare che in altri ordinamenti, anche nell’ambito
dell’Unione europea, è ormai riconosciuto lo stesso matrimonio omosessuale)».
Di contro, prosegue la citata sentenza, l’art 3 Cost. «protegge l’individuo da
qualunque discriminazione legata all’orientamento sessuale; cfr. anche gli
artt. 8 e 14 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo e delle libertà
fondamentali e l’art. 21 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione
europea, nonché la Risoluzione del Parlamento europeo dell’8 febbraio 1994
sulla parità di diritti per gli omosessuali nella Comunità». Sempre ad avviso
dei giudici napoletani, «Va anzi ribadito che siffatta neutralità della
condizione e delle relazioni omosessuali di un genitore si pone in termini di
ben maggior forza rispetto alle condizioni-condotte “borderline”, se non
francamente illecite o “a rischio”, sopra esaminate, e che pure di per sé non
ostano al riconoscimento dell’idoneità genitoriale e all’affidamento. L’omosessualità,
infatti, e beninteso, è una condizione personale, e non certo una patologia,
così come le condotte-relazioni omosessuali non presentano, di per sé, alcun
fattore di rischio o di disvalore giuridico rispetto a quelle eterosessuali.
L’omosessualità del genitore si pone – ai fini che qui interessano – in termini
non diversi dalle opzioni politiche, culturali e religiose, che pure sono di
per sé irrilevanti ai fini dell’affidamento. Ciò è tanto più vero con
riferimento a contesti socio-culturali elevati, quale è quello delle parti, in
cui le antiche prevenzioni verso l’omosessualità dovrebbero essere superate».
[23] E’ il caso della madre affidataria convivente con partner che impone la sua personalità
invadente (Trib. Velletri, 25 novembre 1977, in Dir. fam. pers., 1978, p.
886), così come è stata ritenuta scorretta la condotta del genitore affidatario
che cerca di spostare l’amore dei figli verso il proprio convivente (Cass., 12
febbraio 1971, n. 364, in Rep. Foro it.,
1973, voce Separazione di coniugi, n.
60); del pari, suscita allarme – per i possibili riflessi negativi sulla prole
– la relazione che si risolva in compagnie occasionali o nella frequenza di
alberghi malfamati (Cass., 22 dicembre 1976, n. 4706, in Dir. fam. pers., 1977, p. 113).
[24] Così Long,
I giudici di Strasburgo socchiudono le
porte dell’adozione agli omosessuali, cit., p. 672.
[25] Sull’idoneità de
facto di numerose coppie omosessuali a svolgere un ruolo genitoriale v. le
ponderate e documentate riflessioni di Caggia,
Convivenze omosessuali e genitorialità:
tendenze, conflitti e soluzioni nell’esperienza statunitense, cit., p. 248
ss.
[26] Trib. Bologna, 15 luglio 2008, in Fam. e min., 2008, n. 9, p. 78 ss., con
nota di Vaccaro; in Giur. it., 2009, p. 1164, con nota di Falletti, secondo cui «Il semplice fatto
che uno dei genitori sia omosessuale non giustifica – e non consente di
motivare – la scelta restrittiva dell’affidamento esclusivo della figlia minore
di genitore omosessuale».
[27] Cass., 19 giugno 2008, n. 16593, cit.
[28] Sul punto la giurisprudenza di merito ha statuito che
«in tema di separazione giudiziale dei coniugi, va escluso l’affidamento
condiviso dei figli minori a fronte del totale disinteresse mostrato da uno dei
genitori per i figli stessi (nella specie, è stato disposto l’affido esclusivo
alla madre della figlia quindicenne, essendo emerso nel giudizio che il padre
non la vedeva da oltre due anni, disinteressandosi completamente di lei, non
versando il contributo per il mantenimento e tenendo condotte elusive e di
ostacolo alle iniziative della madre)» (Trib. Bologna, 17 aprile 2008, in Foro it., 2008, I, c. 1914).
[29] Così Mantovani,
(Presunta) omosessualità di un genitore,
idoneità educativa e rilievo della conflittualità ai fini dell’affidamento,
Nota a Cass., 18 giugno 2008, n. 16593, in Nuova
giur. civ. comm., 2009, I, p. 70.
[30] Il virgolettato è qui d’obbligo, essendo, come noto,
il concetto di «accusa» intimamente legato a quello di «colpa».
[31] Cass., 18 giugno 2008, n. 16593, cit.
[32] Così Mantovani,
(Presunta) omosessualità di un genitore,
idoneità educativa e rilievo della conflittualità ai fini dell’affidamento,
cit., p. 70 ss.; Amram, Corte di Cassazione e giurisprudenza di
merito: alla ricerca di un contenuto per l’interesse superiore del minore,
Nota a Cass., 18 giugno 2008, n. 16593, in Fam.
dir., 2008, p. 1106 ss.
[33] Cass., 18 giugno 2008, n. 16593, cit.
[34] Così Long,
I giudici di Strasburgo socchiudono le
porte dell’adozione agli omosessuali, cit., p. 676.
[35] Trib. Min. Catanzaro, 27 maggio 2008, in Fam. e
minori, 2008, 10, p. 86.
[36] Casaburi,
Pregiudizi senza orgoglio: ovvero
l’affidamento del minore nella crisi familiare, in Fam. dir., 2002, p. 443 ss.
[37] Cfr. Trib. Roma, 7 aprile 1995, in Giur. it., 1996, I, 2, c. 124, con nota
di Montaruli (nel celebre caso di
una – in allora – notissima pornostar
ed ex parlamentare). Il presidente esprime, nel detto provvedimento, l’avviso
che «il giudice della separazione non possa privilegiare, ai fini
dell’affidamento, particolari impostazioni di vita piuttosto che altre e come
nessun parallelismo sia lecito tra contegni moralmente riprovevoli ed
impostazioni del vivere là dove non si pongono in contraddizione con i doveri
genitoriali». A corollario di tale affermazione, il giudice riepiloga alcune
fattispecie in relazione alle quali la giurisprudenza ha affermato
l’irrilevanza dell’attività professionale esercitata e della condotta privata
tenuta dai genitori nelle determinazioni inerenti l’affidamento della prole.
L’ordinanza giunge, quindi, alla conclusione secondo la quale l’attività di sexy- o pornostar non è di per sé ostativa «alla gestione di proficua
attività di formazione, sì da giustificare l’allontanamento del minore dalla
madre». La portata di tale affermazione è, tuttavia, limitata dalla successiva
notazione secondo la quale la professione esercitata dalla madre può recare
pregiudizio alla formazione del figlio «se interferisce nel rapporto educativo,
con coinvolgimento del minore ed inquinamento della sua evoluzione».
Volutamente il giudicante non approfondisce tale argomento, in quanto, data la
natura cautelare della fase presidenziale nel procedimento di separazione tra
coniugi, che mal si concilia con l’espletamento di mezzi istruttori (consulenza
tecnica), non risulta possibile valutare in concreto le reali implicazioni
dell’attività professionale svolta dalla pornodiva sull’equilibrio psicologico
del figlio. Inoltre, si osserva ad
colorandum che: a) il convenuto condivide lo stile di vita della moglie; si
adombra, infatti, che il medesimo abbia ricavato lucro dalla particolare
attività della moglie; b) è contestata dalla ricorrente la persistenza
dell’esercizio di siffatta attività; c) posto che il minore risulta avere
maggiore dimestichezza con la figura materna (avendo a lungo vissuto con la
madre a Roma) piuttosto che con la figura del padre, residente negli Stati
Uniti, si appalesa contrario al suo interesse introdurre un altro elemento di
turbativa, che sarebbe sicuramente causato da un suo ulteriore spostamento
negli Stati Uniti.
[38] Tale principio, coraggiosamente affermato nel lontano
1948 da App. Venezia, 20 dicembre 1948, in Temi,
1948, p. 672, è stato successivamente ribadito da Cass., 13 luglio 1982, n.
4107, in Rep. Foro it., 1982, voce Adozione, n. 36, secondo cui va cassata
per difetto di motivazione la sentenza di merito che ha dichiarato lo stato di
adottabilità del minore ritenendo che la madre, a causa dell’esercizio della
prostituzione e dell’affidamento della piccola a terzi nelle ore in cui
esercitava detta attività, non riuscisse a mantenere con la figlia un rapporto
affettivo idoneo; Cass., 14 aprile 1981, n. 2229, ivi, 1981, voce cit., n. 72; Cass., 21 luglio 1978, n. 3624, ivi, 1978, voce cit., n. 63; Trib.
Napoli, 27 luglio 1989, ivi, 1990,
voce Separazione di coniugi, n. 54;
in Giur. it., 1990, I, 2, c. 184, con
nota di Nardone; in Giur. Merito, 1991, p. 41, con nota di Manera; Trib. Napoli, 6 maggio 1980, in Dir. fam. pers., 1981, p. 898. Sul tema
in dottrina cfr. Montaruli, L’interesse del minore nell’affidamento, tra
responsabilità e libertà, Nota a Trib. Roma, 7 aprile 1995, in Giur. it., 1996, I, 2, c. 124 ss.
[39] Cfr. Trib. min. Torino, 20 luglio 1982, in Rep. Foro it., 1982, voce Potestà dei genitori, n. 16; in Giur. it., 1982, I, 2, c. 625. Cfr.
inoltre Montaruli, L’interesse del minore nell’affidamento, tra
responsabilità e libertà, loc. ult cit.
[40] Cfr. Cass., 5 dicembre 1978, n. 5718, secondo cui i
provvedimenti relativi all’affidamento della prole prescindono dalla
valutazione delle responsabilità dei genitori nella separazione; v. anche
Cass., 9 ottobre 1978, n. 4488, secondo la quale i provvedimenti relativi
all’affidamento della prole non subiscono interferenze decisive dalla
situazione relativa all’addebitabilità della separazione, che sia fondata su
fatti e comportamenti relativi ai soli rapporti coniugali. Nello stesso senso,
App. Perugia, 23 settembre 1989, in Dir. fam. pers., 1991, p. 145: «La
pronuncia d’addebito della separazione, che sia fondata su fatti e
comportamenti inerenti solo ai rapporti interconiugali, non influisce in
maniera decisiva sulla statuizione circa l’affidamento della prole, statuizione
che non deve costituire una misura sanzionatoria a carico del coniuge
colpevole, né un premio in favore del partner,
dovendo prescindere dalla responsabilità di ciascuno dei coniugi per il
fallimento dell’unione matrimoniale. Nello scegliere il genitore affidatario,
il giudice non deve tener conto né della volontà espressa dai genitori, né
delle scelte della prole, dovendo adottare il provvedimento d’affido al solo
scopo di tutelare, in via poziore, il preminente interesse dei figli, sul piano
materiale e morale e psicologico, tenendo conto a tal fine, nel designare il
genitore affidatario, di molteplici elementi, rilevanti ai fini della tutela
dell’interesse da garantire: l’età ed il sesso dei minori, le loro condizioni
di salute, le loro abitudini di vita, le condizioni psicofisiche dei genitori e
le attitudini di questi ultimi, ogni esigenza dei figli pertinente alla loro
condizione e non soltanto de praesenti,
nonché la situazione ambientale nella quale essi verrebbero a trovarsi a
seconda che siano affidati all’uno od all’altro dei genitori. Ne deriva che ben
può il giudice, dopo avere addebitato la separazione esclusivamente al marito,
affidare a questi il figlio di circa 13 anni, allorché, da un lato, risulti
provata l’idoneità del padre ad assistere e curare adeguatamente la prole,
specie quando tra padre e figlio sussista già un consolidato, insopprimibile
rapporto di affetto e di fiducia, e, dall’altro, la personalità immatura,
ansiosa, instabile, rigida, poco tollerante, egocentrica ed assai poco ablativa
della madre, affetta per di più da manifestazioni patologiche d’ordine psichico
e da turbe mentali, renda la madre stessa del tutto incapace di comprendere e
soddisfare i bisogni e le aspettative del figlio».
Si è affermato anche (Cass., 22 dicembre 1976, n.
4706, in Dir. fam. pers., 1981, p.
97), che l’adulterio del coniuge separato, benché non possa di per sé
legittimare il diniego dell’affidamento dei figli, va valutato in relazione
all’interesse morale della prole, specialmente quando si risolva in «compagnie
occasionali e nella frequentazione di alberghi malfamati». Cass., 14 aprile
1988, n. 2964, in Foro it., 1989, I,
c. 466, ha cassato una sentenza di merito nella parte in cui aveva
apoditticamente affermato di poter sacrificare la convivenza della figlia
minore con la madre, paventando, al di fuori di ogni riscontro probatorio, un
pregiudizio psicologico e morale della figlia stessa, derivante dalla
convivenza con l’amico della madre, il quale avrebbe assunto il ruolo di padre
nel contesto familiare. Nello stesso senso, tra le pronunce dei giudici di
merito, Trib. Napoli, 27 gennaio 1985, in Giur.
it., 1986, I, 2, c. 419, con nota di Dogliotti;
Trib. Napoli, 6 maggio 1980, in Dir. fam.
pers., 1980, p. 1169.
[41] Trib. Napoli, 27 gennaio 1985, cit. Rimarca Dogliotti, Ancora sull’affidamento della prole e sul ruolo del giudice, Nota a
Trib. Napoli, 27 gennaio 1985, in Giur.
it., 1986, I, 2, c. 419 ss., che la normativa costituzionale è stata
reinterpretata nel senso che l’adempimento dei doveri di mantenimento,
educazione ed istruzione della prole e le esigenze di sviluppo e di
arricchimento della personalità, cui fa riferimento l’art. 2 Cost., non possono
qualificare la sola famiglia legittima, ma anche forme di convivenza con
carattere di responsabilità e stabilità.
[42] Cfr. App. Perugia, 23 settembre 1989, cit., per la
quale la personalità immatura, ansiosa, instabile, rigida, poco tollerante,
egocentrica ed assai poco oblativa della madre, affetta per di più da
manifestazioni patologiche di ordine psichico e da turbe mentali, la rendono
incapace di comprendere e soddisfare le aspettative del figlio. Nello stesso
senso, Trib. Milano, 16 aprile 1984, in Dir.
fam. pers., 1984, p. 662. Su questi temi cfr. per tutti Montaruli, op. loc. ultt. citt.
[43] Cfr. Dogliotti,
Educazione religiosa e criteri di
affidamento dei figli nella separazione, Nota a Cass., 7 febbraio 1995, n.
1401, in Fam. dir., 1995, p. 351 ss.;
Tiby, Testimoni di Geova, crisi coniugale e interesse del minore, Nota a
Trib. Forlì, 12 luglio 1995, in Fam. dir.,
1996, p. 151 ss.
[44] Art. 14 Convenzione di New York del 20 novembre 1989 sui
Diritti del Fanciullo disponibile in italiano al seguente sito web: http://www.camera.it/_bicamerali/leg14/infanzia/leggi/Legge%20176%20del%201991.htm.
[45] Cfr. Cass., 27 febbraio 1985, n. 1714, in Giust. civ., 1985, p. 2565. Nello stesso
senso, Cfr. Cass., 9 agosto 1988, n. 4892; Cass. 7 febbraio 1995, n. 1401, in Dir. fam. pers., 1995, I, p. 1383; in Fam. dir., 1995, p. 351, con nota di Dogliotti; in Corr. giur., 1995, p. 707, con nota di Ferrari; in Giur. it.,
1995, I, 1, 538, con nota di A. Gabrielli.
In dottrina, cfr. Tommaselli, Separazione dei coniugi, educazione
religiosa dei figli e scelta del coniuge affidatario, in Dir. fam. pers., 1981, p. 525 ss.
[46] Trib. Ferrara, 31 agosto 1948, in Giur. it., 1948, I, 2, c. 592. La
decisione innescò una querelle
vivacissima tra gli esponenti più autorevoli della dottrina civilistica del
tempo: cfr. ad es. Bigiavi, Ateismo, educazione laica e assegnazione dei
figli di genitori separati, in Foro
it., 1949, I, c. 13 ss.; Allorio,
L’ateo educatore, in Giur. it., 1949, IV, c. 33 ss. Sul tema
si v. anche Furgiuele, Libertà di manifestazione del pensiero e
famiglia, in Dir. fam. pers.,
1976, p. 1812. Sarà superfluo aggiungere che, a livello di diritto comparato,
ovviamente, vi sono ordinamenti che prendono ancora in considerazione la
moralità dei genitori secondo parametri religiosi nel decidere sull’affidamento
dei minori. Ad esempio, la Corte Rabbinica israeliana ha la facoltà di
dichiarare «moglie ribelle» («moredet») la donna sposata secondo il rito
religioso che rifiuta di adempiere ai doveri matrimoniali; contestualmente, la
Corte Rabbinica può negare alla stessa di essere affidataria o collocataria del
figlio minore. Il riferimento è tratto dal caso
Tur-Sinai, HC/E/ES
244 [21/04/1997; Audiencia Provincial
Barcelona, Sección 1° (Spagna); Corte d’Appello]. I fatti riguardavano una
donna spagnola che aveva riportato nel suo paese d’origine la figlia minore avuta
con l’ex marito israeliano contro la volontà dello stesso. La decisione della
Corte Rabbinica di affidare la minore al padre per «punire» il comportamento
della madre (non moralmente corretto secondo il diritto ebraico) e la relativa
richiesta del padre di ottenere l’affidamento della figlia (in Israele) non
venne presa in considerazione dal giudice spagnolo, che sosteneva che il best interest della figlia fosse proprio
di continuare a vivere con la madre (come aveva fatto in precedenza anche in
Israele).
[48] Cfr. Cass., 23 agosto 1985, n. 4498, in Dir. fam. pers., p. 927; in Giust. civ., 1986, I, p. 104; in Giur. it., 1987, I, 1, c. 759. Per le
medesime conclusioni in dottrina v. (anche per gli ulteriori richiami) Ferrari, Comportamenti “eterodossi” e libertà religiosa. I movimenti religiosi
marginali nell’esperienza giuridica più recente, Nota a Trib. min. Venezia,
10 maggio 1990, e Trib. Palermo, 12 febbraio 1990, in Foro it., 1991, I, c. 271 ss. Sul solo tema dell’irrilevanza del
mutamento di fede religiosa (se ed in quanto non superi i limiti di
compatibilità con i concorrenti doveri di coniuge fissati dagli artt. 147 ss.
c.c.) sull’eventuale addebito della separazione v. Cass., 6 dicembre 1989, n.
5397; Cass., 26 maggio 1990, n. 4920; Cass., 6 agosto 2004, n. 15241. In
quest’ultimo caso la S.C. ha stabilito che «In tema di separazione personale
tra coniugi, il mutamento di fede religiosa – e la conseguente partecipazione
alle pratiche collettive del nuovo culto – connettendosi all’esercizio dei
diritti garantiti dall’art. 19 della Costituzione, non può, di per sé solo,
considerarsi come ragione di addebito della separazione, a meno che non vengano
superati i limiti di compatibilità con i concorrenti doveri di coniuge e di
genitore fissati dagli artt. 143, 147 c.c., determinandosi, per l’effetto, una
situazione di improseguibilità della convivenza o di grave pregiudizio della
prole. (Nell’affermare il principio di diritto che precede, la S.C. ha
ritenuto, nel caso di specie, che la scelta di appartenenza ad una confessione
religiosa tale da determinare l’allontanamento dalla casa coniugale e la
rinuncia alla convivenza non potesse rientrare nell’ambito dell’esercizio di un
diritto costituzionalmente garantito onde escludere l’addebitabilità della
separazione)».
Per la giurisprudenza di merito v. Trib. Bologna, 5
febbraio 1997, in Dir. fam. pers.,
1999, 157, con nota di Maltese,
secondo cui «Ritenuto che ciascun soggetto, coniugato o di stato libero, con
prole o senza prole, abbia piena ed illimitata libertà d’abbracciare,
professare e manifestare qualsiasi confessione religiosa, essendo il nostro
ordinamento ormai improntato a principi di laicità e di aconfessionalità,
sicché il praticare e manifestare la propria fede nelle forme più rigorose ed
integraliste, con l’unico limite dell’ordine pubblico e del buon costume, non
può di per sé costituire, pur nell’opposizione del coniuge, causa di addebito
della separazione, deve tuttavia ritenersi che costituisca motivo di addebito
la professione di un credo religioso fonte attuale ed effettuale di gravi
violazioni dei doveri coniugali e parentali: la separazione va, quindi,
addebitata al marito che, privilegiando esclusivamente i doveri a lui derivanti
dall’appartenenza alla religione professata, venga meno ai doveri elementari di
assistenza e collaborazione verso la moglie (privata financo della privacy domestica, a causa della
continua presenza, imposta dal coniuge, nella casa coniugale (monolocale) di
correligionari di passaggio) e pretenda altresì di trasmettere al figlio un
atteggiamento aprioristico di intransigenza, di intolleranza e di acritico
rifiuto verso l’altrui condotta, soprattutto religiosa, impedendo in tal modo
al figlio stesso di vivere ed assimilare un regolare processo di
socializzazione e di temperanza (nella specie, il marito-padre aveva già prima
della nozze aderito al c.d. Movimento Lubavitch, particolarmente rigoroso e
totalizzante perché caratterizzato da marcata intransigenza ed intolleranza aprioristica,
e connotato, all’interno del credo ebraico ortodosso, dalla più rigida ed
esasperata osservanza dei precetti religiosi, che permeano e modellano, in ogni
suo aspetto, soprattutto formale, l’intero stile di vita e di abitudini del
credente, dagli atti più minuti della quotidianità all’aspetto esteriore ed
all’abbigliamento; la moglie, militante da nubile nel c.d. Movimento Lubavitch,
aveva chiesto la separazione personale a causa dell’aberrante condotta del
coniuge, pur dopo avere condizionato il proprio consenso al matrimonio
all’adesione del fidanzato al Movimento cit.)». Sullo stesso tema dell’adesione
al Movimento Lubavitch cfr. Trib. min. Genova, 16 settembre 1999, in Fam. dir.,
2000, p. 189, con nota di Tiby, secondo cui «Costituisce grave violazione dei
doveri genitoriali il comportamento dell’affidatario che, mutando il proprio
credo a seguito dell’adesione ad un nuovo movimento religioso (nella specie, il
cd. Movimento Lubavitch, di ispirazione ebraico-ortodossa) coinvolga in tale
scelta, senza il consenso dell’altro genitore, anche i figli minori i quali si
trovano costretti a mutare il loro sistema di vita (per via, anche, della
rigida osservanza di precise regole attinenti il vestiario, il cibo, le letture
e i rapporti sociali), senza alcuna possibilità di scelta, essendo invece
obbligati ad aderire alle regole della comunità religiosa».
[49] Trib. min. Venezia, 10 maggio 1990, in Dir. fam. pers., 1991, p. 618; in Foro it., 1991, I, c. 271; in Foro it., 1991, I, c. 271, con nota di Ferrari.
[50] Trib. min. Venezia, 10 maggio 1990, cit.
[51] Cfr. Casaburi,
Pregiudizi senza orgoglio: ovvero
l’affidamento del minore nella crisi familiare, in Fam.dir., 2002, p. 443 ss.
[52] Cfr. App. Roma, 18 aprile 2007, in Dir. eccl., 2006, p. 133 (padre di fede
ebraica, madre cristiana).
[53] Cfr., sulle orme di Jemolo, F. Finocchiaro, Diritto ecclesiatico, 1988, p. 124. L’Autore rimarca altresì che
«Questo criterio trova conferma nella nuova formula legislativa, la quale
prescrivendo ai genitori il rispetto delle inclinazioni naturali e delle
aspirazioni dei figli, sembra estendere al di là dai settori della vita dello
spirito – cui appartiene l’esercizio della libertà religiosa – la cautela che
deve contraddistinguere l’opera educativa».
[54] Trib. Napoli, 18 febbraio 1981, in Giur. merito, 1982, I, p. 53.
[55] Trib. Milano, 16 aprile 1984, in Dir. fam. pers., 1984, p. 662.
[56] Cfr. Cass., Sez. Un., 21 ottobre 2009, n. 22238,
sull’obbligatorietà dell’audizione dei figli minori nei procedimenti di modifica
delle condizioni della separazione attinenti l’affidamento. Il caso in
questione è quello di una coppia sposata, lei finlandese e lui di Rieti,
genitori di due figli che avevano sempre vissuto in Italia e che ogni anno
erano partiti insieme ai genitori per la Finlandia, trascorrendo le vacanze nel
paese di origine della madre. Con la separazione dei genitori, e iniziate le
discussioni tra i genitori sull’affidamento e sul diritto di visita, la madre
si era inizialmente rivolta al Tribunale di Rieti (ma questo aveva dichiarato
la sua incompetenza a decidere) e infine si era trasferita all’estero con i
bambini, contro la volontà del marito. La Corte d’appello di Roma aveva
successivamente dichiarato la giurisdizione del giudice italiano per sottrazione
e trattenimento illecito all’estero dei figli e contro questa decisione la
madre aveva fatto ricorso alla Corte di Cassazione, sollevando essenzialmente
due motivi. Il primo concernente la giurisdizione che, secondo la madre,
apparteneva ai giudici finlandesi. Il secondo, fondamentale per la delicatezza
della materia, sull’ascolto dei figli da parte del giudice chiamato a decidere
sull’affidamento. Infatti, secondo la donna, i bambini non avevano alcun
rapporto con il padre (i figli avevano manifestato chiaramente di voler vivere
con la madre e avevano sofferto di disturbi psichici alla ripresa dei rapporti
con lui) e la Finlandia, pur non essendo mai stata il luogo di residenza
abituale dei ragazzi di dieci e dodici anni era però sempre stata luogo di vacanza
e non un paese sconosciuto. La Corte ha deciso che appartiene al giudice
italiano la competenza a decidere su revisione e modifica dell’affidamento dei
figli minori nei casi in cui la stabile residenza sia stata in Italia,
nonostante il trasferimento all’estero dei minori nei mesi precedenti l’inizio
del procedimento. La Suprema corte, inoltre, afferma che deve ritenersi
obbligatoria l’audizione del minore da parte del giudice designato a decidere
sull’affidamento del minore, se l’ascolto non arrechi danno al minore e non
risulti in contrasto con i suoi interessi fondamentali; nel caso in cui il
giudice ometta l’audizione del minore, ritenendo che quest’ultimo non abbia le
sufficienti capacità di discernimento, dovrà spiegare in modo adeguato tale scelta.
La Cassazione sostiene anche che non si può ignorare l’opinione del minorenne
nel caso in cui si debba decidere a quale genitore dovrà essere affidato, in
quanto il minore è parte sostanziale del procedimento e portatore di interessi
contrapposti o diversi da quelli dei genitori. Si asserisce, quindi, che il
mancato ascolto dei minori costituisce una violazione dei due principi cardine
dell’ordinamento italiano, precisamente il principio del contradditorio e
quello del giusto processo, in quanto emergono chiari gli interessi rilevanti
dei minori che rendono necessario l’ascolto degli stessi. L’audizione del
minore è prevista e riconosciuta dall’art. 12 della Convenzione ONU sui diritti
del fanciullo, fatta a New York nel 1989, nella quale è previsto che «Gli Stati
parti garantiscono al fanciullo capace di discernimento il diritto di esprimere
liberamente la sua opinione su ogni questione che lo interessa, le opinioni del
fanciullo essendo debitamente prese in considerazione tenendo conto della sua
età e del suo grado di maturità. A tal fine, si darà in particolare al
fanciullo la possibilità di essere ascoltato in ogni procedura giudiziaria o
amministrativa che lo concerne, sia direttamente, sia tramite un rappresentante
o un organo appropriato, in maniera compatibile con le regole di procedura
della legislazione nazionale». La Suprema corte rileva ulteriormente nella
motivazione che l’audizione del minore è divenuta obbligatoria con l’art. 6
della Convenzione di Strasburgo sull’esercizio dei diritti del fanciullo del
1996, ratificata con la legge n. 77/2003, in quanto si dispone che «nei
procedimenti che riguardano un minore, l’autorità giudiziaria, prima di
giungere a qualunque decisione, deve: a) esaminare se dispone di informazioni
sufficienti al fine di prendere una decisione nell’interesse superiore del
minore e, se necessario, ottenere informazioni supplementari, in particolare da
parte dei detentori delle responsabilità genitoriali; b) quando il diritto
interno ritiene che il minore abbia una capacità di discernimento sufficiente:
assicurarsi che il minore abbia ricevuto tutte le informazioni pertinenti; nei
casi che lo richiedono, consultare il minore personalmente, se necessario in
privato, direttamente o tramite altre persone od organi, con una forma adeguata
alla sua maturità, a meno che ciò non sia manifestamente contrario agli
interessi superiori del minore, permettere al minore di esprimere la propria
opinione; c) tenere in debito conto l’opinione da lui espressa». Pertanto la
Suprema corte, deducendo la violazione dell’art. 6 della Convenzione di
Strasburgo sull’esercizio dei diritti del fanciullo del 1996, dell’art. 12
della Convenzione ONU sui diritti del fanciullo e dell’art. 155-sexies c.c. afferma la necessità
dell’audizione del minore nel procedimento di modifica delle condizioni di
separazione concernente l’affidamento e rinvia la causa alla Corte di appello
di Roma in diversa composizione, affinché si pronunci previa convocazione dei
minori per la loro audizione.
[57] Cass. 11 giugno 1991, n. 6621, in Foro it., 1993, I, c. 1247.
[58] Tra le pronunce più significative, nell’ambito di un
indirizzo che privilegia il rispetto dell’autonomia del minore, cfr., ex multis, Trib. min. Genova, 9 febbraio
1959, in Giur. cost., 1959, p. 1275;
Trib. min. Bologna, 23 ottobre 1973, in Dir.
fam. pers., 1974, p. 1064; Pret. Roma, 22 giugno 1973, in Giur. it., 1975, I, 2, c. 621; Trib.
Trani, 28 marzo 1977, in Giur. merito,
1979, I, p. 72, con nota di Dogliotti;
Trib. Genova, 22 settembre 1988, in Dir.
fam. pers., 1990, p. 611; Trib. Genova, 22 settembre 1988, in Dir. fam. pers., 1990, I, p. 871, con
nota di Boccaccio; Trib. Catania,
31 dicembre 1992, in Foro it., 1994,
I, c. 1250. Per la giurisprudenza di legittimità v. Cass. 2 giugno 1993, n.
3776, in Giur. it., 1993, p. 1352. In
dottrina cfr. Bessone, Commentario della Costituzione, a cura
di Branca, Bologna-Roma 1976, sub
art. 30 Cost., p. 86 ss., Dogliotti,
Giacalone e Sansa, I diritti del minore e la realtà
dell’emarginazione, 1977, Bologna, p. 6 ss.; Dogliotti e Boccaccio,
L’affidamento della prole nella
separazione e nel divorzio, in Giust.
civ., 1990, II, p. 283.
[59] Il riferimento legislativo si trova nel Children Act 1989, art. 1 «Welfare of
the child», consultabile al seguente sito web: http://www.opsi.gov.uk/acts/acts1989/ukpga_19890041_en_2#pt1-l1g1.
[60] Per i richiami cfr. Casaburi,
Pregiudizi senza orgoglio: ovvero
l’affidamento del minore nella crisi familiare, in Fam. dir., 2002, p. 443 ss., il quale rileva esattamente, tra
l’altro, che anche la Cassazione (Cass. 15 gennaio 1998, n. 317, in Giust. civ., 1998, I, 337, 1285, con
note di Chimenti e di Manera; in Dir. fam. pers., 1998, 561, 898 con nota di Grendene; ivi, 1999,
p. 76, con nota di Gras; in Guida al diritto, 1998, n. 5, p. 29, con
nota di Giacalone; in Fam. dir., 1998, p. 275; Cass. 2 giugno
1983, n. 3776, in Giur. it., 1983, I,
1, c. 1352, in Dir. fam. pers., 1984,
p. 39) si è ormai posta espressamente il quesito se si possa subordinare il
diritto di visita al consenso del minore, dandosi risposta (sostanzialmente)
positiva; si è così affermato che qualora un figlio, ormai adolescente, provi
nei confronti del genitore non affidatario sentimenti d’avversione o di
ripulsa, dando al proprio distacco affettivo e psicologico una motivazione
seria e consapevole, il giudice può sospendere totalmente e a tempo
indeterminato il diritto di visita del genitore rifiutato dal figlio. Tali
sentimenti d’ostilità devono essere tanto radicati da doversi escludere che
possano essere rapidamente e facilmente rimossi, nonostante il supporto di
strutture sociali e psicopedagogiche. Il medesimo Autore avverte peraltro che
tale orientamento non è privo di controindicazioni, essendovi soprattutto il
rischio di sovraesporre la responsabilità del minore (o, per altro verso, di
sottovalutare il diritto del minore alla propria «irresponsabilità») in
relazione a decisioni estremamente delicate, che sicuramente esercitano
un’influenza determinante anche sulla sua esistenza futura, mentre sarebbe
opportuno evitare irrigidimenti, al fine di tutelare una sensibilità per forza
di cose ancora fragile. Né può trascurarsi che spesso il rifiuto del minore di
vedere l’altro genitore è l’effetto di una lenta, sottile, più o meno abile
opera di denigrazione della figura e dell’immagine del non affidatario, da
parte dell’affidatario. Pertanto prevedere la sospensione degli incontri anche
quando il rifiuto del figlio si fonda su motivazioni non fondate si presta
nella pratica a pericolose strumentalizzazioni ed a gravi abusi della potestà.
[61] Così Dogliotti,
Educazione religiosa e criteri di
affidamento dei figli nella separazione, loc. ult. cit. Per un’ampia
panoramica sui problemi giuridici connessi al rifiuto di trasfusioni e
trattamenti sanitari per motivazioni d’ordine religioso cfr. Ferrari, Comportamenti “eterodossi” e libertà religiosa. I movimenti religiosi
marginali nell’esperienza giuridica più recente, loc. ult. cit. Sui
pericoli per la prole legati all’adesione dei genitori a talune sette cfr. Faraon, L’affidamento e la tutela dei minori e il fenomeno delle sette
distruttive e delle neo religioni, in Fam.
dir., 1995, p. 193 ss.
[62] Così sempre Dogliotti,
Educazione religiosa e criteri di
affidamento dei figli nella separazione, loc. ult. cit. Nel senso di cui al
testo (anche se non riferibile ai testimoni di Geova) cfr. ad es. la remota
Trib. Trani, 16 giugno 1949, in Foro it.,
1950, I, c. 238; in Giur. it., 1949,
I, 2, c. 465 secondo cui il comportamento del coniuge affidatario che abbia
mutato, all’insaputa dell’altro coniuge, l’educazione religiosa dei figli
cattolici, avviandoli alla pratica della religione ortodossa è idoneo a
giustificare la modifica dell’affidamento dei figli; ad avviso di quel
tribunale, «Avviata la prole alla fede cattolica, senza l’opposizione della
madre di fede scismatica ortodossa, costei, nell’ottenuto affidamento della
stessa, in sede di separazione personale, (…), non può modificare a suo
esclusivo piacimento l’educazione religiosa dei figli, ribattezzandoli col rito
scismatico ed a questo informando anche la loro pratica religiosa. In tal caso
il Tribunale può modificare in parte qua
la propria sentenza ed affidare la prole al padre tanto più se la madre non
tiene condotta illibata e, partendo per l’estero, ha sottratto i figli al
paterno diritto di visita». Nel medesimo ordine d’idee v. anche Trib. Oristano,
22 luglio 1960, in Foro it., 1961, I,
c. 365 ss., secondo cui, nel conflitto tra il padre che aveva sempre professato
la religione cattolica apostolica romana, e la madre che aveva nell’ordine
professato la religione cattolica, la serbo-ortodossa, la vetero-cattolica ed
ancora la cattolica, si è ritenuto di affidare i figli al padre in quanto egli,
contrariamente alla madre, «è stato sempre di religione cattolica, ed offre
quindi maggiori garanzie di educare i figli secondo gli elevati principi morali
della sua religione, che è poi quella della grande maggioranza del nostro
Popolo».
[63] Cfr. Trib. Napoli, 7 luglio 1998, in Dir. eccl., 1998, II, p. 140:
«Nell’ipotesi di contrasto tra genitori sull’educazione religiosa dei figli
minori, è da escludere qualunque potere di intervento diretto del giudice, e
quindi l’ammissibilità del ricorso all’art. 316 c.c. ovvero, in caso di
separazione, all’art. 155 c.c. (o 708 c.p.c.), e, in caso di divorzio, agli
art. 6 e 9 l. 1 dicembre 1970 n. 898. Infatti, il credo religioso, in quanto
tale, non ha alcun rilievo, sia per quel che attiene l’affidamento, o la
modifica dell’affidamento dei figli, sia per quel che concerne la
determinazione delle modalità di incontro tra figli ed il genitore non
affidatario; più precisamente l’intervento del giudice non potrà mai
concretarsi nell’individuazione della religione nella quale educare il minore,
privilegiando in base a tale opzione l’altro genitore, che a quel credo
religioso aderisca». Nel senso che «Ai fini dell’affidamento dei figli minori
all’uno o all’altro dei coniugi, il giudice della separazione non può tener
conto dei riflessi delle convinzioni religiose dei genitori sull’educazione che
sul piano confessionale ciascuno d’essi intende impartire» v. Trib. Aosta 19
giugno 1980, in Dir. fam. pers.,
1981, p. 176. Cfr. inoltre Trib. Mondovì, 30 luglio 1982, in Dir. fam. pers., 1983, p. 1350: «Ritenuto
che solo in età matura può essere compiuta un’opzione religiosa meditata e
consapevole, qualora la moglie durante il matrimonio aderisca ad una nuova
religione (nella specie, dei testimoni di Geova) e successivamente, in seno al
procedimento di separazione giudiziale dal marito, chieda l’affidamento delle
figlie, in tenera età, tale richiesta non può essere respinta per la
professione della fede cattolica da parte del padre che si oppone
all’affidamento materno solo al fine di far sì che, permanendo con lui, le
minori abbiano a continuare la professione della confessione cattolica: il
principio di parità tra le diverse religioni e quello, conseguente, di libertà
di fede, di professione e di propaganda, esigono che, ai fini dell’affidamento
della prole minore di genitori separandi, la diversità delle confessioni scelte
e professate dai coniugi rilevi solo se sia fornita prova del pregiudizio
subito, o subendo, dai figli per la loro partecipazione alla fede ed alle
pratiche confessionali di ciascuno dei genitori; l’accertamento probatorio in
tal senso, di regola estraneo alla fase presidenziale, va demandato in corso di
causa al g.i.».
Per la giurisprudenza d’Oltralpe, nello stesso senso,
cfr. Trib. gr. inst. Toulouse, 17 marzo 1998, disponibile al sito web seguente: http://www.olir.it/documenti/?documento=1186;
secondo la decisione «A partir du moment ou la mère ne met pas en place un
endoctrinement de son fils, le fait qu’elle puisse lui transmettre
indirectement les convictions qui l’animent ne peut qu’être considéré comme un
processus parental classique et normal. La présence et la place du père auprés
de l’enfant doit, dans cet ordre d’idée, se faire bien plus sur le plan de sa
capacité à transmettre ses propres valeurs à 1’enfant et d’ouvrir un espace de
discussion avec lui sur les differentes options familiales que sur celui d’une
lutte stérile sur le terrain de la fixation de la résidence de 1’enfant qui en
tout état de cause ne règlerait en aucun cas le problème». In senso contrario,
per una decisione della Cour de cassation
francese confermativa della decisione di merito di determinare la residenza di
due figli minorenni presso il padre, sostanzialmente fondata sull’appartenenza
della madre alla confessione dei testimoni di Geova e sul rilievo «qu’il
convient, dans l’intérêt des deux garçons, de ne pas les soumettre aux règles
éducatives dures et intolérantes imposées aux enfants des adeptes des Témoins
de Jéhovah» cfr. Cass. 2ème, 13 luglio 2000, disponibile al seguente
sito web: http://www.legifrance.gouv.fr/affichJuriJudi.do?oldAction=rechExpJuriJudi&idTexte=JURITEXT000007411368&fastReqId=816976315&fastPos=9.
La corte d’appello di Nîmes, nella sentenza impugnata, aveva fondato la sua
decisione sul rilievo per cui «les règles éducatives imposées par les Témoins de
Jéhovah aux enfants de leurs adeptes sont essentiellement critiquables en
raison de leur dureté, de leur intolérance et des obligations imposées aux
enfants de pratiquer le prosélytisme».
[64] Così, ad esempio, Trib. Min. Venezia, 19 dicembre
1989, in Quaderni dir. pol. eccl., 1991, p. 647.
[65] In questi termini, Trib. Min. Venezia, 5 ottobre
1992, in Dir. fam. pers., 1993, p.
231.
Di analogo tenore, Oltralpe, un provvedimento della
Corte d’appello di Parigi: cfr. App. Paris, 5 luglio 2001, disponibile al seguente
sito web: http://www.legifrance.gouv.fr/affichJuriJudi.do?oldAction=rechExpJuriJudi&idTexte=JURITEXT000006938126&fastReqId=816976315&fastPos=2.
La decisione ha attribuito l’autorité
parentale sui figli minori alla sola
madre, ingiungendo al padre, testimone di Geova, «que lors de l’exercice de son
droit de visite et d’hébergement, Monsieur Denis X... ne pourra pas emmener les
enfants aux réunions des Témoins de Jéhovah». A sostegno di tale decisione la
Corte ha preso in considerazione alcuni episodi ed il comportamento del padre,
che vietava sistematicamente alle figlie di cinque e otto anni di partecipare
alle feste di compleanno delle amiche, così come a quelle di Natale,
organizzate dalla scuola; sul punto rimarcano i giudici transalpini «que ces
interdictions ne peuvent qu’être perturbantes pour deux petites filles de 5 et
8 ans qui ne peuvent pas comprendre la volonté de leur père de les exclure de
des événements qui consistent en des fêtes bien innocentes et pour lesquelles
la classe se mobilise ; qu’il ne peut soutenir non plus que ces quelques
anniversaires perturbent le travail scolaire ; qu’au surplus son reproche quant
à la fête de Noël, rejetée par les Témoins de Jéhovah, démontre un sectarisme,
la dite fête ayant acquis un caractère quasi universel et détaché pour beaucoup
de gens à travers le monde de son caractère religieux d’origine».
[66] Perviene a questa conclusione Trib. Patti, 10
dicembre 1980, in Giur. it., 1982, I,
2, c. 496.
[67] Cfr. Trib. Palermo, 12 febbraio 1990 e Trib. Min.
Venezia, 1° maggio 1990, in Foro it.,
1991, I, c. 271, con nota di Ferrari.
V. inoltre Trib. Forlì, 12 luglio 1995, in Fam.
dir., 1996, p. 151, con nota di Tiby.
[68] Così Ferrari,
Comportamenti “eterodossi” e libertà
religiosa. I movimenti religiosi marginali nell’esperienza giuridica più
recente, loc. ult. cit. L’Autore critica peraltro Trib. Palermo 12 febbraio
1990, cit. e Trib. min. Venezia 10 maggio 1990, cit., asserendo che tali
decisioni lasciano perplessi, posto che in esse «il divieto di educare il
figlio nella religione del coniuge affidatario non è suffragato da alcun
elemento che provi l’impatto negativo derivante all’equilibrato sviluppo della
personalità del minore dall’adesione a quella fede religiosa ed in cui le
misure di controllo non sono motivate soltanto dal “timore che eccessi della
madre nell’indottrinamento del figlio secondo il credo dei testimoni di Geova
(…) turbino l’equilibrio del bambino”, ma anche da considerazioni che esulano
dall’ambito delle valutazioni consentite al giudice (“il credo dei testimoni di
Geova” è “notoriamente alquanto integralista e intransigente”) oppure che sono
irrilevanti sul punto in decisione (“il credo dei testimoni di Geova” è
“scarsamente permeato nel tessuto sociale del nostro paese”).
[69] È questo il limite oltre il quale è consentito un
intervento giudiziale, come affermano Trib. Roma, 3 febbraio 1988, in Dir. fam. pers., 1990, p. 474 e Trib.
Velletri, 17 maggio 1986, in Riv. dir.
eccl., 1988, II, p. 617; secondo
quest’ultima decisione «Il diritto di libertà religiosa consente a ciascuno di
mutare la propria confessione religiosa e di partecipare con il proprio nuovo
bagaglio di fede all’educazione dei figli pur nel caso in cui, dopo il
matrimonio, si sia abbracciato il nuovo credo abbandonando quello comune; ne
consegue che un genitore, il quale abbia mutato confessione religiosa, ha il
diritto di far conoscere ai figli, senza imporla, la nuova religione cui abbia
aderito e tale circostanza non è rilevante ai fini dell’addebitabilità della
separazione personale». In dottrina cfr. Ferrer,
Orientamenti giurisprudenziali in tema di
affidamento della prole, in Rass.
dir. civ., 1985, II, p. 727, secondo cui «il diritto di professare la
propria fede religiosa in qualsiasi forma, oltre al comune limite del rispetto
del buon costume previsto dalla Costituzione, incontra anche il limite
dell’ordine pubblico costituzionale, cioè, di quel complesso di valori etici e
sociali, su cui è fondata la nostra Carta costituzionale». V. anche Dogliotti, Patria potestà, diritti del minore, intervento del giudice, in Giur. merito, 1976, I, p. 144; Cossu, Educazione del minore e potestà dei genitori. Analisi di alcuni modelli
giurisprudenziali, in Dir. fam. pers.,
1975, p. 342, secondo cui «l’educazione deve svolgersi in funzione dei compiti
previsti dall’art. 4 Cost. e, quindi deve essere un’educazione sociale» che,
non fornendo alcun modello astratto, «non richiama alcun principio e si
realizza nello stesso momento in cui prepara il minore ai compiti previsti
dall’art. 4».
[70] Cfr. A. Gabrielli,
Mutamento dì fede religiosa, separazione
personale dei coniugi e affidamento della prole a terzi, Nota a Cass., 7
febbraio 1995, n. 1401, in Giur. it.,
1996, I, 1, c. 538 ss., la quale segnala una pronuncia anomala del Tribunale di
Massa che, di fronte al mancato accordo tra i genitori in ordine alla scelta
dell’insegnamento religioso dei figli, ha deciso che «agli stessi dovesse
essere impartito l’insegnamento della religione cattolica, sia perché questa
risponde al comune sentire della maggioranza della popolazione italiana, sia
per il particolare riconoscimento ad essa tributato dalla Repubblica italiana
attraverso l’art. 9, L. 25 marzo 1985, n. 121 e sia perché, stante la
precedente preparazione dei minori nella dottrina dei testimoni di Geova, ciò
consentirebbe ai medesimi minori utili raffronti e stimolanti contraddittori»
(Trib. Massa, 18 settembre 1986, in Dir.
eccl., 1988, II, p. 616; in Dir. fam.
pers., 1987, p. 265).
[71] Cass. 7 febbraio 1995, n. 1401, cit. Sulla decisione
v. in particolare Dogliotti, Educazione religiosa e criteri di
affidamento dei figli nella separazione, loc. ult. cit.; Tiby, Testimoni di Geova, crisi coniugale e interesse del minore, loc.
ult. cit.; Id., Adesione ad un nuovo credo, interesse del
minore e limiti all’esercizio del diritto alla libertà religiosa, Nota a
Trib. min. Genova, 16 settembre 1999, in Fam.
dir., 2000, p. 189 ss.
[72] Così Dogliotti,
Educazione religiosa e criteri di
affidamento dei figli nella separazione, loc. ult. cit.
[73] Cfr. Dogliotti,
Educazione religiosa e criteri di
affidamento dei figli nella separazione, loc. ult. cit.
[74] Cfr. Trib. Napoli, 4 gennaio 2006, in Corr. merito, 2006, p. 162: «La
separazione va addebitata al coniuge che ha tenuto una condotta pregiudizievole
per la crescita equilibrata dei figli (nella specie la separazione è stata
addebitata al marito, testimone di Geova, il quale ha reiteratamente impedito
al figlio, ancora in tenera età, di svolgere attività ludiche, così
determinandone il profondo turbamento, in quanto ritenute contrarie alle
proprie convinzioni religiose)». In generale, sull’addebitabilità della
separazione per comportamenti contrari ai doveri verso i figli, v. Cass. 6
agosto 2004, n. 15241, in Dir. fam. pers.,
2005, p. 797; Cass. 2 settembre 2005, n. 17710, in Fam. dir., 2005, p. 500, con nota di Carbone.
[75] Cfr. Trib. Prato, 11 febbraio 2009, in Giur. it., 2009, p. 2702, con nota di Valore.
[76] La motivazione della decisione da ultimo citata
contiene, tra l’altro, i passaggi seguenti: «A questo proposito non si può non
evidenziare che, come rilevato dalla psicologa nella c.t.u., la madre
rappresenta per G. [figlio dell’età di cinque anni] il principale punto di
riferimento affettivo; tuttavia, non è possibile trascurare che ella ha
dichiarato che non intende accompagnare il figlio ai compleanni, che non
desidera che egli canti in classe le canzoni di Natale, che, in caso di
necessità, non gli farà fare trasfusioni di sangue o, eventualmente, chiederà a
lui (a cinque anni!) se vuol commettere un’infrazione per salvare la vita
terrena. Osserva il Giudice che la E., madre affettuosa e presente, prospetta,
tuttavia, un modello educativo che certamente porrà G. fuori dalla possibilità
di una regolare convivenza con i suoi coetanei; ed infatti, il canto di Natale,
il compleanno e le altre feste pagane rappresentano le più importanti modalità
di incontro e socializzazione per i bambini della sua età. Non può tacersi,
peraltro, del rischio della vita al quale G. verrebbe esposto in caso di
necessità di trasfusioni di sangue, qualora il genitore esercente la potestà vi
negasse il consenso.
Dall’altro lato, il modello educativo del padre emerge
per lo più in negativo, nel senso che il C. è interessato soprattutto a che il
figlio non frequenti i Testimoni di Geova; quanto al resto, egli pare volerlo
far vivere “in modo normale”, con ciò intendendo secondo le regole del comune
vivere civile, senza che altro emerga in ordine ad una precisa direzione
educativa. La c.t.u. ha comunque rilevato che il minore è in armonia con il
padre, nonostante che questi tenda a dominarlo.
Ciò premesso, la tenera età del minore induce il
Giudice a scegliere per quello che può definirsi il minore dei mali; appare,
infatti, determinante agevolare l’educazione da parte di quel genitore che
tenda a garantire un regolare processo di socializzazione di G., presupposto
indispensabile per il suo sviluppo e la formazione di una piena capacità di
giudizio; è, dunque, al padre che dovrà essere concesso l’affidamento esclusivo
di G.
Al di là del precetto giuridico, è evidente che C.,
con la richiesta di affidamento esclusivo, si è assunto una grande
responsabilità che è quella di crescere un figlio di cinque anni senza la guida
della madre; egli dovrà, dunque, avere la consapevolezza della importanza del
ruolo che si troverà svolgere con il figlio giacchè, come ha sostenuto anche
nelle proprie difese, i bambini non si educano con i precetti ma con l’esempio
quotidiano. Allo scopo di conseguire il risultato sperato, egli dovrà,
pertanto, essere presente nella vita e nell’educazione del figlio e,
soprattutto, dovrà in ogni modo favorire il mantenimento di uno stretto legame
affettivo di G. con la madre.
Dal canto suo, la E. potrà continuare a vedere il
figlio secondo le modalità indicate nel dispositivo; è escluso che ella debba
vedere G. in presenza dei servizi sociali perché ciò equivarrebbe, nella
sostanza, a toglierle la possibilità di essere madre mentre la c.t.u. ha posto
in evidenza lo stretto legame affettivo esistente tra la madre e il piccolo G.;
certamente, ella dovrà svolgere il proprio ruolo comprendendo, per il momento,
l’importanza di non accrescere nel figlio lo stato di confusione introducendo
nella sua vita concetti che non è in grado di comprendere e facendo un passo
indietro con riferimento all’educazione religiosa di G.
E’ convinzione del Giudice, peraltro, che l’armonioso
sviluppo della personalità di G. non dipenda tanto da questo provvedimento,
peraltro suscettibile di modifiche, bensì dalla capacità che i genitori avranno
di superare sé stessi e la conflittualità esistente tra loro per agire
nell’interesse del minore; è per questo motivo che non vengono imposte alla E.
limitazioni specifiche con riferimento alla possibilità che G. frequenti
persone appartenenti ai Testimoni di Geova, obbligazione di tipo puramente
morale, peraltro insuscettibile di dar luogo ad applicazione di misure
coercitive (cfr. Trib. Prato, 25 ottobre 1996, Dir. Famiglia 1997, 1013).
Si ritiene, peraltro, opportuno, che i coniugi
richiedano l’aiuto nei termini indicati dalla c.t.u. in atti.
L’affidamento esclusivo di G. al padre richiede,
infine, la revoca dell’assegno di mantenimento del minore in favore della madre
disposto dal Presidente del Tribunale in sede di comparizione dei coniugi».
[77] Cfr. a questo proposito Furgiuele, Cristianesimo
e secolarizzazione nell’odierna vicenda del diritto di famiglia, in Aa. Vv.,
Cristianesimo, secolarizzazione e diritto
moderno, a cura di Lombardi Vallauri e
Dilcher, Milano, 1981, p. 1141 ss.
V. inoltre Ferrari, Comportamenti “eterodossi” e libertà
religiosa. I movimenti religiosi marginali nell’esperienza giuridica più
recente, loc. ult. cit.
[78] Per l’incertezza che circonda i criteri a cui fare
ricorso per dirimere il contrasto tra i genitori in materia di educazione
religiosa dei figli, cfr. Trib. Massa Carrara 18 settembre 1986, in Dir. fam.
pers., 1987, p. 265: «In caso di dissenso perdurante tra i genitori,
tra i quali penda giudizio di separazione personale, circa la scelta
dell’insegnamento religioso da impartire alla prole, in precedenza accostatasi
alla dottrina dei Testimoni di Geova, ben può il G.i., a modifica dei
provvedimenti urgenti e temporanei adottati dal presidente, ravvisando nel
mancato accordo tra i coniugi un’ipotesi di mutamento delle circostanze
legittimante l’intervento previsto dall’art. 708 c.p.c., decidere che alla
prole venga impartito l’insegnamento della religione cattolica, sia perché essa
risponde al comune sentimento della maggioranza della popolazione italiana, sia
per il particolare riconoscimento ad essa tributato dalla Repubblica, sia,
infine, perché frequentemente l’ora di religione a scuola può consentire ai
minori, che già si sono avvicinati ad altro credo confessionale, utili
confronti e stimolanti spunti critici». Nella decisione sembra essere assente
ogni considerazione per l’opportunità di rispettare una continuità educativa
tra l’insegnamento familiare e quello scolastico.
Va poi segnalato che non risultano decisioni
giurisprudenziali in relazione alle ipotesi (che hanno invece suscitato viva
preoccupazione nell’opinione pubblica) di minori d’età che abbandonino la
famiglia per seguire un movimento religioso. È noto che l’orientamento
prevalente nel diritto italiano (come del resto in quello internazionale) va
nella direzione di riconoscere anche al minore di età che abbia compiuto i
quattordici anni la maturità sufficiente per compiere scelte relative alla
propria libertà religiosa: non sembra, peraltro, che tale orientamento implichi
la necessità di vanificare l’obbligo di risiedere presso la casa familiare
(previsto, per i minori di età, all’art. 318 c.c.) se non nei casi in cui la
permanenza nell’abitazione dei genitori risulti assolutamente incompatibile con
l’affermazione del diritto di libertà religiosa del minore (sul punto cfr. Ferrari, Comportamenti “eterodossi” e libertà religiosa. I movimenti religiosi
marginali nell’esperienza giuridica più recente, loc. ult. cit.).
[79] Corte Europea dei diritti dell’uomo, 23 giugno 1993,
in Quaderni dir. pol. eccl., 1994,
739, preceduta da un commento di Scovazzi,
Libertà di religione e testimoni di Geova
secondo due sentenze della Corte Europea dei diritti dell’uomo, p. 719. La
Corte Europea statuisce che «Il godimento delle libertà e dei diritti enunciati
nella Convenzione dei diritti dell’uomo (art. 8 Conv.), fra i quali quello di
offrire un’educazione religiosa ai propri figli, è garantito a chiunque sia, indipendentemente
dal proprio credo religioso. La diversità di credo religioso tra coniugi
separati non costituisce, quindi, elemento di discrimine al fine
dell’affidamento della prole». V. anche A. Gabrielli,
Mutamento dì fede religiosa, separazione
personale dei coniugi e affidamento della prole a terzi, loc. ult. cit.
[80] Palau-Martinez v. France (requête no
64927/01), disponibile al seguente sito web: http://www.echr.coe.int/Fr/Press/2003/dec/Arrêtdechambredansl’affairePalau-MartinezcFrance.htm.
[81] Cfr. Council of
Europe Human Rights Handbook Series, No 9: Freedom of Thought, Conscience and
Religion, p. 56.
[83] A favore di un’interpretazione restrittiva della
nozione di «questioni di particolare importanza» di cui all’art. 316, terzo
comma, c.c., cfr., per tutti, Villa,
Potestà dei genitori e rapporti con i
figli, in Il diritto di famiglia,
Trattato diretto da Bonilini e Cattaneo, III, Torino, 1998, p. 280; Giorgianni, Commento sub artt. 315-318, in Commentario al diritto italiano della
famiglia, a cura di Cian, Oppo e Trabucchi, IV, Padova, 1992, p. 329, ad
opinione del quale ciò sarebbe riflesso dello spirito della riforma del diritto
di famiglia, teso a limitare l’intervento del giudice nel conflitto coniugale. Contra: Bucciante,
La potestà dei genitori, la tutela e
l’emancipazione, in Trattato di
diritto privato, diretto da Rescigno, Torino, 1997, vol. III, t. 4, p. 511,
ad avviso del quale «Essendo la legislazione in materia improntata alla più efficace
tutela dell’interesse del minore (…) una interpretazione meno rigorosa del
limite [sarebbe] più rispondente alla ratio
legislativa». Per una comparazione sul punto con l’ordinamento tedesco cfr. Scarso, Il disaccordo tra i genitori in merito all’educazione religiosa del
figlio, in Fam. pers. succ.,
2006, p. 735 ss.
[84] Cfr. Giorgianni,
op. cit., p. 327; Id., Il
controllo sull’esercizio della potestà dei genitori, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1979, p.
1188; Furgiuele, Libertà e famiglia, Milano, 1979, p.
241; Ruscello, La
funzione educativa: dottrina e giurisprudenza a confronto, in Rass. dir. civ., 1986, p. 425; Coscia, Problemi applicativi dell’art. 316 c.d. in tema di potestà dei genitori,
in Stato civ. it., 1986, p. 189. In
giurisprudenza, cfr. Trib. min. Firenze, 11 marzo 1986, in Dir. fam. pers., 1986, p. 1085; Trib. min. Firenze, 6 giugno 1983, ivi, 1983, p. 1067; Trib. min. Venezia,
24 febbraio 1976, in Rep. Foro. it.,
1979, voce Potestà dei genitori,
1975, 5, limitatamente a fattispecie connotate da «urgenza». Contra: L. Ferri, Della potestà dei genitori, in Commentario
del codice civile, a cura Scialoja e Branca, sub artt. 315-342, Bologna-Roma, 1988, p. 39 ss., ad avviso del
quale l’art. 316 c.c. non potrebbe trovare applicazione quando la famiglia non
sia più unita, spettando in tal caso al tribunale ordinario emettere i
provvedimenti sulla prole. In giurisprudenza, cfr. Cass., 3 novembre 2000, n.
14360, in Dir. e giustizia, 2000, p.
42, con nota di Dosi, ove si
afferma che nella soluzione dei contrasti tra i genitori relativi a questioni
di particolare importanza l’art. 316 c.c. trova applicazione «per le ipotesi di
famiglia unita; i provvedimenti di cui all’art. 155, 3° co., si collocano
invece durante lo stato di separazione tra i coniugi e rientrano nella
disciplina di questa». In senso conforme Trib. min. Firenze, 8 ottobre 1976, in
Fam. dir., 1977, p. 220, secondo cui
la separazione di fatto dei genitori renderebbe inapplicabile l’art. 316 c.c.,
in quanto presupposto della sua applicazione sarebbe la convivenza dei
genitori, dovendosi applicare, in tale diversa ipotesi, l’art. 333 c.c.
[85] Cfr. Scarso,
Il disaccordo tra i genitori in merito
all’educazione religiosa del figlio, loc. ult. cit.
[86] Cfr., per tutti, Giorgianni,
op. cit., p. 330.
[87] L. Ferri,
op. cit., p. 34, osserva che «il
giudice avrà una sua soluzione (la quale potrà anche essere una terza
soluzione, cioè una soluzione diversa da quelle avanzate dai genitori da
proporre ai genitori); ma solo da proporre, non da imporre». Ad opinione
dell’A. «Il legislatore, pur riconoscendo l’ineluttabilità dell’intervento del
giudice in caso di disaccordo, ha configurato un intervento che sia rispettoso
dell’autonomia familiare e quindi non risolutore. La risoluzione del caso
risulta alla fine ancora rimessa ai genitori cioè, precisamente, ad uno di
essi». In senso conforme cfr. Giorgianni,
Il controllo sull’esercizio della potestà
dei genitori, cit., p. 1187. L’A. ritiene che «l’intervento del giudice sembra
essere chiaramente diretto a dirimere un contrasto tra le soluzioni indicate
dai genitori, cosicché il controllo dell’esercizio della potestà da parte dei
genitori, che costituisce (…) la giustificazione dell’intervento del giudice,
dovrebbe essere attuato nei limiti della scelta tra le soluzioni in contrasto».
In senso conforme, Belvedere, Potestà dei genitori, in Enc. giur., Roma, 1990, XXIII, p. 6,
secondo cui, qualora il suo «suggerimento» non venisse recepito, il giudice
dovrebbe limitarsi a scegliere tra le soluzioni indicate dai genitori «non
potendo imporne una diversa senza violare il “diritto” dei genitori garantito
dall’art. 30 Cost.». Cfr. inoltre Scarso,
Il disaccordo tra i genitori in merito
all’educazione religiosa del figlio, loc. ult. cit.
[88] Scarso, Il disaccordo tra i genitori in merito
all’educazione religiosa del figlio, loc. ult. cit.
[89] Scarso, Il disaccordo tra i genitori in merito
all’educazione religiosa del figlio, loc. ult. cit. Cfr. inoltre Zatti, Rapporto educativo e intervento del giudice, in Aa. Vv.,
L’autonomia dei minori tra famiglia e
società, a cura di Belvedere e De Cristofaro, Milano, 1980, p. 225 ss., che
attribuisce all’art. 30 Cost. il valore di «regola di non-interferenza nel
processo educativo che si svolge tra genitore e figlio ma anche come norma che
impone di “rimuovere gli ostacoli” alla efficace attuazione di quel rapporto»,
là dove «la regola di non-interferenza può qualificarsi come tutela della
privatezza del rapporto educativo, sia come intimità, sia come riserva di
autonoma conduzione di quel processo».
[90] Così Scarso,
Il disaccordo tra i genitori in merito
all’educazione religiosa del figlio, loc. ult. cit. Ritiene applicabile
l’art. 316 c.c. al contrasto su questioni di particolare importanza tra genitori
separati Quadri, Affidamento dei figli e assegnazione della
casa familiare: la recente riforma, in Familia,
2006, p. 395. Contra Sesta, Le nuove norme sull’affidamento condiviso: a) profili sostanziali,
in Fam. dir., 2006, p. 383 s., che
spiega la segnalata diversità di disciplina con il fatto che il venir meno
della convivenza attenua quella esigenza di salvaguardia dell’autonomia
familiare che sta alla base della previsione contenuta nell’art. 316 c.c. e nel
contempo esalta il compito del giudice.
[91] Cfr. per tutti Oberto,
I contratti della crisi coniugale, I
e II, Milano, 1999; Id., Contratto e famiglia, in Aa. Vv., Trattato del contratto, a cura di Roppo, VI, Interferenze, a cura di Roppo, Milano, 2006, p. 105 ss. V. inoltre Patti, La rilevanza del contratto nel diritto di famiglia, in Fam. pers succ., 2005, p. 201 ss.
[92] Cfr. Cass., 20 settembre 1997, n. 9339, in Fam. dir., 1998, p. 180: «La soluzione
del contrasto fra i genitori, in ordine alla scelta od al mutamento del nome
del figlio minore, è affidata, in pendenza di causa di separazione personale,
al giudice della separazione stessa, ai sensi dell’art. 155 terzo comma cod.
civ., le cui disposizioni prevalgono, nel corso di detta causa, sulla regola
generale della devoluzione al Tribunale per i minorenni delle questioni di
particolare importanza che insorgano nell’esercizio della potestà genitoriale
(artt. 316 cod. civ. e 38 disp. att. cod. civ.)».
[93] Cfr. Cass., 3 novembre 2000, n. 14360, in Fam. dir., 2001, p. 38.
[94] Cfr. Trib. Massa, 18 settembre 1986, cit.
[95] Re S (Specific
Issue Order: Religion: Circumcision) [2004] EWHC 1282 (Fam) Fam Div (Baron
J) 30.03.2004 e [2005] 1 FLR 236.
[96] Fonte: http://www.nolo.com.
[97] Su cui v. per tutti Oberto,
I contratti della crisi coniugale,
II, cit., p. 1077 ss.; Id., Gli accordi concernenti la prole nella crisi
coniugale, in Dir. fam. pers.,
1999, p. 271 ss.; De Feis, Separazione consensuale: difficile
equilibrio tra autonomia privata e tutela dei figli minori, Nota ad App.
Caltanissetta, 12 aprile 2005, in Fam.
dir., 2006, p. 190 ss. Per qualche accenno al riguardo e per una
comparazione con il sistema tedesco v. anche Scarso,
I patti tra genitori in merito a
questioni di particolare importanza per il figlio, in Fam. pers. succ., 2006, p. 871 ss.
[98] Cfr. Duranton, Corso di diritto civile secondo il codice
francese, VIII, ed. italiana, Torino, 1845, p. 15; E. Bianchi, Trattato dei rapporti patrimoniali dei coniugi secondo il codice civile
italiano, Pisa, 1888, p. 70; Baudry-Lacantinerie,
Le Courtois e Surville, Del contratto di matrimonio, in Trattato teorico-pratico di diritto civile,
diretto da G. Baudry-Lacantinerie, ed. italiana, I, Milano, s.d. ma 1909, p.
50.
[99] Sulla validità dei patti sull’educazione della prole
nell’odierno diritto positivo cfr. Ruscello,
La potestà dei genitori – Rapporti
personali, in Il codice civile,
Commentario diretto da Schlesinger, Milano, 1996, p. 68 ss. Precisamente, si è
osservato che il «patto sull’educazione della prole, non sembra sia collegato
alla diversa valutazione che del rapporto hanno, o possono avere, i
soggetti-parte dell’accordo, i genitori, quanto piuttosto (…) allo sviluppo
psico-fisico del figlio, al suo divenire a grado a grado individuo consapevole delle
proprie scelte». L’A. conclude che i «patti sull’educazione non “appartengono”,
se non in via meramente mediata, ai soggetti che concludono l’accordo ma a
terzi che, dalle sorti del patto, vedono dipendere le sorti della loro
formazione». In senso conforme cfr. Stanzione,
Diritti fondamentali dei minori e potestà
dei genitori, in Rass. dir. civ.,
1980, p. 473; Furgiuele, Libertà e famiglia, cit., p. 216, e nt.
270, ad opinione del quale gli accordi intercorsi fra i genitori in materia di
educazione della prole sarebbero invalidi in quanto si dovrebbe tener conto
delle capacità, dell’inclinazione naturale e delle aspirazioni dei figli.
[100] Trib. Prato, 25 ottobre 1996, in Dir. fam. pers., 1997, p. 1013, con note di Dogliotti, Conte, Danovi, Nappi e Grossi, Russo, Scardulla. Si riporta qui di seguito la
motivazione del provvedimento: «Svolgimento del processo. Con ricorso
depositato il 13 maggio 1994 A.L., nato a P. il 2 novembre 1950, adiva questo
Tribunale per la separazione personale con addebito alla moglie, R.B., nata a
P. il 10 marzo 1960, con la quale aveva contratto matrimonio il 13 gennaio
1979, e dalla cui unione erano nati due figli, S. e L., entrambi minori. La
convenuta, nel costituirsi, domandava, in via riconvenzionale, che la separazione
fosse addebitata al marito.
Esaurita la fase introduttiva innanzi al Presidente e
rimesse le parti al g.i. per l’istruzione probatoria, queste ultime desistevano
dalle rispettive domande di addebito della separazione, dichiarando di aver
concordato, nel frattempo, le condizioni della separazione stessa, sicché
formulavano conclusioni conformi. Quindi, la causa, all’udienza di discussione
del 9 ottobre 1996, era riservata a sentenza sulle conclusioni di cui in
epigrafe.
Motivi della decisione. Osserva il Collegio che le
condizioni della separazione oggetto delle conformi conclusioni delle parti appaiono
adeguate all’interesse materiale e morale dei figli minori, e tali da
assicurare un’equa regolamentazione dei complessivi rapporti dei coniugi fra
loro. Pertanto, in accoglimento della domanda, va pronunciata la separazione
personale dei coniugi alle condizioni di cui alle conclusioni rassegnate dalle
parti.
Non va, invece, riprodotta la previsione, pure
contenuta nelle conclusioni conformi delle parti, dell’obbligo della R.B. di
astenersi dall’indottrinare i figli nel credo del gruppo dei testimoni di
Geova. Trattasi, infatti, di un’obbligazione di fare infungibile, il cui inadempimento
non solo è insuscettivo, per carenze di previsioni normative al riguardo, di
dar luogo all’applicazione di misure coercitive, ma che, altresì, non
legittimerebbe conseguenze risarcitorie di sorta a vantaggio dell’altro
coniuge. Se ne deve inferire che non si tratti di obbligazione civile, ma di
obbligazione puramente morale tra i due coniugi, che non può trovare ingresso
in un atto di regolamento degli interessi tra i coniugi, che, essendo contenuto
in una sentenza, resta sostanzialmente e formalmente frutto di
eterodeterminazione. Spese compensate».
[101] Cfr. per esempio le note di Dogliotti, Separazione
dei coniugi, educazione religiosa della prole, controllo del giudice, in Dir. fam. pers., 1997, p. 1019 ss., di Russo, Negozi familiari e procedimenti giudiziali attributivi di efficacia,
ibidem, p. 1050 ss. e di Scardulla, Del fondato timore che un valido accordo dei coniugi separandi
sull’educazione della prole possa essere pregiudicato da un’erronea pronuncia
del Tribunale, ibidem, p. 1060
ss.
[102] Russo, Negozi familiari e procedimenti giudiziali
attributivi di efficacia, cit., p. 1050 s. Sul punto v. anche Oberto, Gli accordi concernenti la prole nella crisi coniugale, loc. ult.
cit.
[103] Russo, Negozi familiari e procedimenti giudiziali
attributivi di efficacia, cit., p. 1055; sostanzialmente nel medesimo senso
cfr. anche Dogliotti, Separazione dei coniugi, educazione
religiosa della prole, controllo del giudice, cit., p. 1020 ss., 1026 s.
[104] Cass., 7 dicembre 1994, n. 10512, in Dir. fam. pers., 1995, p. 138.
[105] Cfr. Russo, Negozi familiari e procedimenti giudiziali
attributivi di efficacia, cit., p. 1055.
[106] Cfr. Oberto,
I contratti della crisi coniugale,
II, cit., p. 1091 ss.; Id., Gli accordi concernenti la prole nella crisi
coniugale, loc. ult. cit.
[107] Cfr., in relazione alla situazione anteriore alla
riforma del 2006, artt. 155, settimo comma, c.c.; 6, nono comma, l. div.
[108] Sul carattere non vincolante degli accordi raggiunti
dai coniugi relativamente alla prole cfr. Cass., 11 ottobre 1978, n. 4519, in Giust. civ., 1979, I, p. 66, con nota di
M. Finocchiaro; in Dir. fam. pers., 1979, p. 1096; Cass.,
25 giugno 1981, n. 4127; Cass., 7 giugno 1982, n. 3438; Cass., 15 gennaio 1985,
n. 65; Cass., 26 febbraio 1988, n. 2043; Cass., 14 aprile 1988, n. 2964, in Foro it., 1989, I, c. 466; Trib. Monza,
19 novembre 1986, in Dir. fam. pers., 1987, I, p. 275; Pret. Taranto, 15
marzo 1988, in Arch. civ., 1988, p.
1086; per la situazione precedente alla riforma v. per tutti Grassetti, Scioglimento del matrimonio e separazione personale dei coniugi,
in Commentario
alla riforma del diritto di famiglia a cura di Carraro, Oppo e Trabucchi,
I, 1, Padova, 1977, p. 301; Zatti,
I diritti e i doveri che nascono dal matrimonio e la separazione dei coniugi,
in Trattato di diritto privato,
diretto da Rescigno, III, Torino, 1982, p. 237.
[109] Conforme sul punto A. Ceccherini,
I rapporti patrimoniali nella crisi della
famiglia e nel fallimento, Milano, 1996, p. 492.
[110] Su cui v., per i richiami alla dottrina e alla
giurisprudenza, Angeloni, Autonomia privata e potere di disposizione
nei rapporti familiari, Padova, 1997, p. 98 ss.
[111] Cfr. Trib. Rimini, 9 giugno 1998, riportato in Iannaccone, Libertà religiosa del minore e accordi di separazione, in Dir. eccl., 1999, I, p. 768 ss.
[112] E sempre che tale facoltà di deroga non venga un giorno
colpita da declaratoria di incostituzionalità, nel caso si dovesse ritenere il
citato criterio di proporzionalità munito di garanzia costituzionale, ex art. 30 Cost.
[113] Per una disamina di tale concetto cfr. Oberto, I contratti della crisi coniugale, I, cit., p. 700 ss.
[114] Cfr. Oberto, I contratti della crisi coniugale, I,
cit., p. 246 ss.
[115] V. per esempio Cass., 3 maggio 1989, n. 2054, in Giust. civ., 1989, I, p. 2064; cfr.
inoltre, sul carattere indisponibile del diritto all’assegno per la prole, Cass.,
11 ottobre 1978, n. 4519; Cass., 7 giugno 1982, n. 3438; Cass., 26 febbraio
1988, n. 2043.
[116] Sul tema cfr. Oberto,
I contratti della crisi coniugale,
I, cit., p. 110 ss.
[117] Sia consentito pure qui richiamare, anche per gli
ulteriori rinvii alla copiosa dottrina e giurisprudenza, Oberto, I contratti della crisi coniugale, I e II, citt. In questa sede –
per quanto attiene all’interesse che anche la nostra dottrina, sulla scia di
una giurisprudenza per il vero tutt’altro che lineare, consacra, specie da un po’
di tempo a questa parte, al tema dell’autonomia negoziale dei coniugi in crisi
– potrà sommariamente ricordarsi che già nel 1967, vigente il regime di
indissolubilità del vincolo, quella stessa autorevole dottrina che solo dieci
anni prima aveva definito la famiglia come «un’isola che il mare del diritto
può lambire, ma lambire soltanto» (Jemolo,
La famiglia e il diritto [1957],
riportato in Aa. Vv., «Verso la terra dei figli», Milano, 1994,
p. 69), valutando un accordo diretto alla predeterminazione delle conseguenze
dell’annullamento del matrimonio, individuava proprio nel principio della
autonomia contrattuale (art. 1322 c.c.) il fondamento di una siffatta
pattuizione, rilevando come in questo caso sia «palese l’interesse tipico del
regolamento di rapporti, se pure non si abbia una disposizione esplicita del
codice che preveda tale regolamento, essendo quasi impensabile che al termine
della convivenza non ci siano ragioni di dare ed avere, pretese reciproche» (Jemolo, Convenzioni in vista di annullamento di matrimonio, in Riv. dir. civ., 1967, II, p. 530).
Neanche un decennio più tardi una delle più celebri monografie in materia di
contratto affermava che «Necessità pratiche e progresso civile esigono che, de iure condendo, e, per quanto
possibile, de iure interpretando, si
rivalutino questi patti regolatori di rapporti di famiglia, o associativi, e
così via», aggiungendo che «guardando lontano, si potrebbero immaginare scelte
pattizie della regola sulla dissoluzione del matrimonio, sul governo della famiglia,
sul cognome dei coniugi» (Sacco, Il contratto, 1975, in Trattato di diritto civile, diretto da
Filippo Vassalli, p. 493 s.). Lo stesso principio veniva contemporaneamente
enunciato addirittura in una delle più autorevoli opere istituzionali (Rescigno, Manuale del diritto privato italiano, Napoli, 1975, p. 274; per
analoghe considerazioni cfr. anche Russo,
Negozio giuridico e dichiarazioni di
volontà relative ai procedimenti «matrimoniali» di separazione, di divorzio, di
nullità (a proposito del disegno di legge n. 1831/1987 per l’applicazione
dell’Accordo 18.2.1984 tra l’Italia e la S. Sede nella parte concernente il
matrimonio), in Dir. fam. pers.,
1989, p. 1091; ancora più di recente cfr. Rescigno,
Il diritto di famiglia a un ventennio
dalla riforma, in Riv. dir. civ.,
1998, I, p. 113).
A parte queste voci – tutto sommato isolate, ancorché
autorevoli – fino a pochissimi anni fa l’interesse della dottrina è stato
sovente attratto, tutto all’opposto rispetto all’autonomia negoziale, dalle
questioni attinenti all’intervento dell’autorità giudiziaria nella vita della
famiglia: basti citare, per tutte, una celebre monografia consacrata al tema
dell’intervento del giudice nel conflitto coniugale (Roppo, Il giudice nel
conflitto coniugale, Bologna, 1981). La giurisprudenza, dal canto suo, ed
in particolare quella di legittimità, si è andata evolvendo, specie negli
ultimi anni, in senso vieppiù negativo circa il potere dispositivo delle parti
in merito ai diritti d’ordine patrimoniale connessi all’allentamento e allo
scioglimento del vincolo matrimoniale, peraltro in aperta contraddizione
rispetto ad ampie concessioni fatte, in altri settori, ai coniugi in crisi (sul
tema si fa rinvio per tutti a Oberto,
I contratti della crisi coniugale, I,
cit., p. 379 ss., 485 ss.). Su questa via l’opera dei giudici è stata solo
parzialmente e, verrebbe quasi da dire, troppo timidamente, contrastata da una
parte della dottrina che ha correttamente rimarcato le svariate e vistose
contraddizioni in cui troppo spesso le decisioni di legittimità sono cadute,
incoraggiando, da un lato, lo sviluppo dello strumento negoziale (si pensi,
tanto per fare qualche esempio, alla giurisprudenza in tema di accordi sui
trasferimenti di beni in sede di separazione o divorzio, sulle transazioni tra
coniugi in crisi, sugli effetti patrimoniali dell’annullamento del matrimonio,
sugli accordi a latere o successivi
rispetto al verbale di separazione consensuale, su cui cfr., rispettivamente,
anche per i richiami, Oberto, I contratti della crisi coniugale, II,
cit., p. 1220 ss.; I, cit., p. 670 ss.; II, cit., p. 1446 ss.; I, cit., p. 321
ss.), ma soffocando, dall’altro, ogni prospettiva in tema di carattere
disponibile del contributo al mantenimento del coniuge separato o di assegno di
divorzio, ovvero ancora in materia di accordi preventivi in vista di un futuro
ed eventuale divorzio (su cui v. Oberto,
I contratti della crisi coniugale, I,
cit., p. 393 ss., 562 ss.).
Solo negli anni più recenti deve segnalarsi una
ripresa d’attenzione da parte della dottrina favorevole all’espansione della
negozialità, mediante approfondimenti di temi di carattere generale, quali, per
esempio, quello dei rapporti tra autonomia privata e «causa familiare» (Doria, Autonomia privata e «causa» familiare. Gli accordi traslativi tra i
coniugi in occasione della separazione personale e del divorzio, Milano,
1996) o tra autonomia privata e potere di disposizione nei rapporti familiari
in genere (Angeloni, op. cit.), ovvero attraverso studi
settoriali, quali quelli sulle convenzioni preventive di separazione, di
divorzio e di annullamento del matrimonio (Comporti,
Autonomia privata e convenzioni
preventive di separazione, di divorzio e di annullamento del matrimonio, in
Foro it., 1995, I, c. 105 ss.; sul
punto cfr. anche Oberto, I contratti della crisi coniugale, II,
cit., p. 1446 ss.), sulla disponibilità dell’assegno ex art. 5 l. div. (V. Carbone,
Autonomia privata e rapporti patrimoniali
tra coniugi (in crisi), nota a Cass., 22 gennaio 1994, n. 657, in Fam. e dir., 1994, p. 141 ss.; sul punto
cfr. anche Oberto, I contratti della crisi coniugale, I,
cit., p. 379 ss.), sui trasferimenti mobiliari e immobiliari in occasione di
separazione e divorzio (Oberto, I trasferimenti mobiliari e immobiliari in
occasione di separazione e divorzio, in Fam.
dir., 1995, p. 155 ss.; Id., I contratti della crisi coniugale, II,
cit., p. 1355 ss.; Id., Prestazioni «una tantum» e trasferimenti tra
coniugi in occasione di separazione e divorzio, Milano, 2000; Id., I
trasferimenti patrimoniali in occasione della separazione e del divorzio,
in Familia, 2006, p. 181 ss.), sulla
rilevanza del consenso nella separazione consensuale ed in quella di fatto (Sala, La rilevanza del consenso dei coniugi nella separazione consensuale e
nella separazione di fatto, in Riv.
trim. dir. proc. civ., 1996, p. 1031 ss.), su taluni aspetti dei rapporti
tra separazione consensuale e i possibili contratti tra coniugi (G. Ceccherini, Separazione consensuale e contratti tra coniugi, in Giust. civ., 1996, II, p. 377 ss.), e
così via. Cfr. inoltre in generale, sul tema dell’autonomia dei coniugi nella
fase della crisi coniugale, i seguenti contributi: per il periodo anteriore
alla riforma del 1975, L. Ferri, L’autonomia privata, Milano, 1959, p.
285 ss.; Barcellona, Famiglia (dir. civ.), in Enc. dir., XVI, Milano, 1967, p. 782
ss.; Donisi, Il problema dei negozi giuridici unilaterali, Napoli, 1972, p. 189
ss.; Liserre, Autonomia negoziale e obbligazione di mantenimento del coniuge separato,
in Riv. trim. dir. proc. civ., 1975,
p. 474 ss.; per il periodo successivo alla riforma D’Anna, Note in
tema di autonomia negoziale e poteri del giudice in materia di separazione dei
coniugi, nota a Cass., 5 gennaio 1984, n. 14, in Riv. notar., 1984, II, p. 593 ss.; Paradiso,
La comunità familiare, Milano, 1984,
p. 182 ss.; A. Finocchiaro, Sulla pretesa inefficacia di accordi non
omologati diretti a modificare il regime della separazione consensuale, in Giust.
civ., 1985, I, p. 1657 ss.; Galgano, Il negozio giuridico, Milano, 1988, p.
487 ss.; Pollice, Autonomia dei coniugi e controllo giudiziale
nella separazione consensuale: il problema degli accordi di contenuto
patrimoniale non omologati, in Dir. e
giur., 1988, p. 107 ss.; Alpa e Ferrando, Quaestio, in Questioni di
diritto patrimoniale della famiglia discusse da vari giuristi e dedicate ad
Alberto Trabucchi, Padova, 1989, p. 510 ss.; Marti, Accordi non
omologati tra coniugi separati, in
Nuova giur. civ. comm., 1989, II,
p. 71 ss.; Zoppini, Contratto, autonomia contrattuale, ordine pubblico
familiare nella separazione personale dei coniugi, nota a Cass., 23
dicembre 1988, n. 7044, in Giur. it.,
1990, I, 1, c. 1319 ss.; L. Giorgianni, Sui patti aggiunti alla separazione
consensuale e sulla famiglia di fatto, nota a Trib. Genova, 2 giugno 1990,
in Giur. merito, 1992, p. 60 ss.; Morelli, Autonomia negoziale e limiti legali nel regime patrimoniale della
famiglia, in Fam. e dir., 1994,
p. 104 ss.; Dogliotti, Separazione e divorzio. Il dato normativo. I
problemi interpretativi, Torino, 1995, p. 9 ss.; Morelli, Il nuovo regime patrimoniale della famiglia, Padova, 1996, p. 12
ss.; Scardulla, La separazione personale tra i coniugi e il
divorzio, Milano, 1996, p. 363 ss.; Briganti,
Crisi della famiglia e
attribuzioni patrimoniali, in Riv.
notar., 1997, I, p. 1 ss. (anche in Famiglia
e circolazione giuridica, a cura di G. Fuccillo, Milano, 1997, p. 33 ss.); Donisi, Limiti all’autoregolamentazione degli interessi nel diritto di famiglia,
in Famiglia e circolazione giuridica,
a cura di G. Fuccillo, cit., p. 5 ss.; Federico,
Accordi di divorzio nel
procedimento a domanda congiunta, ibidem,
p. 91 ss.; Quadri, Famiglia e ordinamento civile, Torino,
1997, p. 83 ss.; Id., Autonomia negoziale e regolamento tipico nei
rapporti patrimoniali tra coniugi, in Giur.
it., 1997, IV, p. 229 ss. Per una
generale ricapitolazione si rinvia a Oberto,
La comunione legale tra coniugi, II,
Milano, 2010, p. 2105 ss.
[118] Sul tema si rinvia ancora per tutti a Oberto, I contratti della crisi coniugale, I, cit., p. 179 ss.
[119] Dogliotti,
Separazione dei coniugi, educazione
religiosa della prole, controllo del giudice, cit., p. 1020; cfr. inoltre Rescigno, Manuale del diritto privato italiano, cit., p. 387; Mantovani, Separazione personale dei coniugi. I) Disciplina sostanziale, in Enc. giur., XXVIII, Roma, 1992, p. 23;
sul tema dell’educazione religiosa dei figli v. anche i richiami in De Filippis e Casaburi, Separazione
e divorzio nella dottrina e nella giurisprudenza, Padova, 1998, p. 199 ss.
Per i rinvii alla copiosa dottrina transalpina in materia di educazione
religiosa della prole cfr. Nicoleau, Droit de la famille, Paris, 1997, p. 80.
In Germania dottrina e giurisprudenza tedesche ritengono che, nella misura in
cui siano conformi all’interesse del minore i patti tra i genitori in merito
all’educazione (religiosa) del figlio producano (limitati) effetti vincolanti
(«begrenzte Bindungswirkung»): precisamente, la loro efficacia vincolante (Bindungswirkung) vale rebus sic stantibus, cioè in assenza di
un cambiamento delle circostanze fattuali o dell’emergere di nuove esigenze del
minore (cfr. Huber, Münchener
Kommentar zum BGB, München,
2002, § 1626b, Rn. 8; Coester, Neues
Kindschaftsrecht in Deutschland. New parent and child law in Germany, in Deutsches
und Europäisches Familienrecht (DEuFamR), 1999, p. 9 s.; Schwab, Kindschaftsrechtsreform und notarielle Vertragsgestaltung, in Deutsche Notar-Zeitschrift (DNotZ), 1998, p. 437 ss., in part. 455;
S. Zimmermann, Das neue Kindschaftsrecht, ivi, 1998, p. 404 ss., in part. 418 e
423 s.; Scarso, I patti tra genitori in merito a questioni
di particolare importanza per il figlio, loc. ult. cit.): dunque,
esattamente come da noi, atteso che il carattere rebus sic stantibus è
immanente ad ogni tipo d’intesa attinente alla crisi coniugale, massime a
quelle concernenti i figli. Tra gli ordinamenti europei che hanno trattato la
materia degli accordi tra coniugi in crisi sull’educazione dei figli, e i
relativi poteri del giudice, la legislazione belga offre una disciplina
piuttosto articolata (cfr. European
Judicial Network, Parental Responsibility; Belgium,
http://ec.europa.eu/civiljustice/parental_resp/parental_resp_bel_en.htm.).
Il Codice Civile del Belgio (artt. 371-387) affronta in generale la questione
della responsabilité parentale, specificando anche i
principali doveri dei genitori (art. 203), tra i quali spiccano l’educazione e
la formazione. La separazione o il divorzio dei genitori non
incide, in via astratta, sull’esercizio della responsabilità genitoriale, ivi
compresa l’educazione dei figli, ma i genitori dispongono altresì della facoltà
di mettersi d’accordo sulle modalità d’esercizio della stessa, fermo restando
l’interesse del minore.
Le parti non sono obbligate a presentarsi dinanzi
al giudice, e possono concludere un accordo con scrittura privata relativo alla
questione dell’autorità genitoriale, ivi incluse le disposizioni
sull’educazione dei figli. Per mettere in esecuzione questa decisione, devono
sottoporre l’accordo al giudice competente che esaminerà se viene rispettato
l’interesse del minore. In caso di divorzio a causa di distacco irrimediabile,
ad ogni momento della procedura, le parti possono chiedere al giudice di
omologare l’accordo sui provvedimenti provvisori relativi ai figli. Il giudice
può rifiutarsi di procedere all’omologazione se l’accordo è contrario
all’interesse dei figli. In mancanza di un accordo o in caso di accordo
parziale regola la questione il giudice dei procedimenti d’urgenza, a cui le
parti possono anche rivolgersi direttamente. Dopo il divorzio, l’autorità sulla
persona del minore e l’amministrazione dei suoi beni sono esercitate
congiuntamente dai genitori o dal genitore cui sono state affidate ai sensi di
decisioni precedenti, ferma restando la possibilità, per il tribunale della
gioventù, di far modificare ogni decisione relativa alla potestà genitoriale su
richiesta del padre e della madre, di uno di essi o del procuratore del re. In
caso di divorzio consensuale, le parti devono indicare, negli accordi
preliminari relativi al divorzio, i provvedimenti riguardanti la potestà sui
figli, e le modalità con cui ciascuna di esse contribuisce al mantenimento,
all’educazione e all’istruzione dei figli, sia durante il procedimento di
divorzio che dopo il divorzio: il procuratore formula un parere e il giudice
può fare sopprimere o modificare le disposizioni contrarie all’interesse dei
minori. Il giudice quindi pronuncia il divorzio e omologa gli accordi relativi
ai minori.
Se i genitori fanno ricorso all’autorità
giudiziaria, il giudice deve pronunciarsi sull’esercizio della potestà
genitoriale. Ciò dipenderà chiaramente dalle richieste espresse dai genitori,
dai figli se hanno l’età per farlo, dalla situazione e dalle circostanze del
caso. Se i genitori non riescono a raggiungere un accordo sui figli (comprese
le decisioni importanti sulla sua salute, la sua educazione ed istruzione, il
tempo libero, l’orientamento religioso o filosofico), o se l’accordo gli sembra
contrario all’interesse dei figli, il giudice può affidare l’esercizio
esclusivo della potestà al solo padre o alla sola madre. Può inoltre stabilire
che determinate decisioni relative all’educazione potranno essere prese solo
previo consenso di entrambi i genitori. Il genitore che non esercita la potestà
conserva il diritto di sorvegliare l’educazione dei figli. Se non ottiene
dall’altro genitore o da terzi le informazioni necessarie a tale riguardo può
rivolgersi al tribunale della gioventù nell’interesse dei figli. Il giudice può
anche essere portato a pronunciarsi sulle modalità del contributo al
mantenimento, all’educazione e all’istruzione del minore. Può essere infine
adito dalle parti, a seconda dei casi, su questioni precise quali la divisione
dei periodi di vacanza fra i genitori, la divisione di certe spese,
l’iscrizione in una scuola, ecc.
[120] Cfr. Oberto,
I contratti della crisi coniugale, I,
p. 700 ss.
[121] Jemolo, Intorno al rispetto dei figli verso i
genitori, in Giur. it., 1981, I,
1, c. 546.
[122] Cass., 1 febbraio 1983, n. 858, in Dir. fam. pers., 1983, p. 484; Giust. civ.,
1983, I, p. 2003.
[123] Cfr. per tutti Basini,
I provvedimenti relativi alla
prole, in Bonilini e Tommaseo, Lo scioglimento del matrimonio, in Codice civile - Commentario, diretto da P. Schlesinger, Milano, 1997, p. 620 ss.; sulla diversa regolamentazione
dell’ipotesi nella separazione e nel divorzio cfr. Dogliotti, La
separazione giudiziale, cit., p. 215 s.
[124] Nel caso di affidamento ad un terzo era stato deciso
(Trib. Monza, 2 settembre 1995, in Dir.
fam. pers., 1996 p. 1446, con nota di Conte)
che quest’ultimo dovesse ritenersi legittimato ad agire esecutivamente nei confronti
del genitore obbligato, pur non essendo egli parte del processo di divorzio. Si
noti che nella specie si trattava di affidamento disposto dal tribunale in sede
di pronunzia di scioglimento del matrimonio; nel caso di affidamento
consensuale il problema si poneva invece con riferimento al valore di titolo
esecutivo proprio del verbale di separazione consensuale e di quello di
divorzio su domanda congiunta, efficacia che non sembrava possa essere messa in
discussione (sul tema v. per tutti Oberto,
I contratti della crisi coniugale,
II, cit., p. 1299 ss.). La relativa pattuizione avrebbe comunque assunto la
valenza di contratto a favore di terzi, con possibilità quindi per il soggetto
affidatario di far valere in executivis
le obbligazioni pecuniarie documentate dal verbale (Art. 474, n. 3, c.p.c.; per
alcuni richiami in tema di affidamento a terzi v. inoltre De Filippis e Casaburi, Separazione
e divorzio nella dottrina e nella giurisprudenza, Padova, 1998, p. 233
ss.).
[125] Cfr. Cass., 7 febbraio 1995, n. 1401, cit.; Cass., 8
maggio 2003, n. 6970, in Fam. dir.,
2003, p. 319 ss.
[126] Su cui v. per tutti Arceri,
Commento agli artt. 155-155-ter c.c., in Codice della famiglia, a cura di Sesta, I, Milano, 2009, p. 706 s.
[127] Cfr. Trib. Salerno, 20 giugno 2006, citata da Pappalardo, L’affidamento condiviso, disponibile al sito web seguente: http://www.giustizia.catania.it/formazione/190407/pappalardo.pdf,
p. 14. V. inoltre Trib. Min. Milano, 12 luglio 2006, in Fam. pers. succ., 2007, p. 82, che, in una controversia ex art. 317-bis c.c. tra genitori naturali, ha affidato i minori, collocati
presso la madre, ai servizi sociali; Trib. Bologna, l° ottobre 2007, ined. (ma
menzionata da Arceri, op. loc. ultt. citt.), ha del pari
disposto l’affidamento dei minori ai servizi sociali.
[128] De Filippis e Casaburi, op. cit., p. 237 ss.
[129] Trib. Catania, 9 dicembre 1991, Dir. fam. pers., 1992, p. 250.
[130] Checché ne pensi la più recente giurisprudenza in materia
di danno al nascituro (cfr. Cass., 22 novembre 1993, n. 11503, in Resp. civ. prev., 1994, p. 408, con nota
di Ioriatti; Giur. it., 1995, I, 1, c. 317, con nota di Pinori; per la giurisprudenza di merito v. Trib. Verona, 4
ottobre 1990, in Giur. it., 1991, I,
2, c. 697, con nota di Pinto Borea);
si noti – tra l’altro – che, in casi di quel genere, il risarcimento ben
potrebbe essere riconosciuto tenendo conto del fatto che, in realtà, il danno
si produce comunque solo dopo che il feto è venuto alla luce e dunque dopo che
è divenuto soggetto giuridico.
[131] Cfr. Oberto,
I contratti della crisi coniugale,
II, cit., p. 1165 ss.; Id., Del «Galateo postmatrimoniale»: ovvero gli
accordi sui comportamenti e sul cognome maritale tra separati e divorziati,
in Riv. notar., 1999, p. 337 ss.
[132] Per approfondimenti sul punto cfr. Oberto, Contratto e famiglia, cit., p. 308 ss.; Id., La responsabilità
contrattuale nei rapporti familiari, Milano, 2006, p. 58 ss. Per un esempio
di accordo di separazione consensuale contenente clausola penale per il caso di
inottemperanza all’onere di partecipare alle spese ripartite cfr. Fissore, Le domande aventi contenuto economico: il contributo al mantenimento
dei figli minorenni e maggiorenni e del coniuge. L’assegnazione della casa
coniugale, in Facchini, Fissore,
Naggar, Oberto e Ronfani, Il nuovo rito del contenzioso familiare e
l’affidamento condiviso – Le riforme del diritto di famiglia viste dagli
avvocati – Commenti, formulari e documenti, a cura di Oberto, cit., p. 233
s.
[133] Cfr. Cass., 8 giugno 1993, n. 6381. In dottrina v.
per tutti Oberto, I regimi patrimoniali della famiglia di
fatto, Milano, 1991, p. 151 ss.; Id.,
I contratti di convivenza tra autonomia privata e modelli legislativi,
in Contratto e impresa/Europa, 2004, p. 47 ss. V. inoltre Ieva, I contratti di convivenza. Dalla legge francese alle proposte italiane,
in Riv. not., 2001, p. 37 ss.; Del Prato, Patti di convivenza,
in Familia, 2002, p. 970 ss.
[134] Per i riferimenti cfr. Oberto, I contratti di convivenza tra autonomia privata e
modelli legislativi, in Contratto e impresa/Europa, 2004, p. 47 s.
[135] Cfr. Trib. Milano, 19 novembre 2001, in Nuovo dir., 2002, II, p. 621.
[136] Cfr. Cass., 25 maggio 1993, n. 5847.
[137] Per i richiami, impossibili nella presente sede, si fa
rinvio a Vullo, Sui limiti della competenza del tribunale
dei minorenni in caso di separazione della coppia di fatto, Nota a Cass., 7
maggio 2009, n. 10569, in Fam. dir.,
2009, p. 992 ss.
[138] Cfr. Corte cost., 5 febbraio 1996, n. 23, in Giust. civ., 1996, I, p. 917; in Foro it., 1997, I, c. 61; in Dir. fam. pers., 1996, I, p. 1327; Corte
cost., 30 dicembre 1997, n. 451, in Giust.
civ., 1997, I, p. 913; in Dir. fam.
pers., 1998, I, p. 484; in Foro it.,
1998, I, c. 1377.
[139] E poco importa se la norma sia espressamente dettata
solo per i rapporti patrimoniali, atteso che il principio è sicuramente
estensibile anche ai negozi familiari non patrimoniali: sul punto sarà appena
il caso di rinviare alle chiarissime pagine di Santoro-Passarelli o di Jemolo;
il tema è approfondito in Oberto, I
contratti della crisi coniugale, I, cit., p. 110 ss., 206 s.
[140] Cfr. Corte cost., 13 maggio 1998, n. 166, in Guida dir., 1998, n. 21, p. 40; in Nuova giur. civ. comm., 1998, I, p. 678.
[141] Cfr. Corte cost., 18 aprile 1997, n. 99, in Guida dir., 1997, n. 16, p. 24; in Dir. fam. pers., 1997, I, p. 837; in Giust. civ., 1997, I, p. 2072.
[142] Cfr. ad es. Trib. Palermo, 18 febbraio 1987, in Dir.
fam. pers., 1987, p. 760; Trib. Monza, 22 giugno 1990, in Foro pad.,
1991, c. 531 (si noti che il richiamo ai «coniugi», di cui alla massima
riportata sulla rivista citata, è frutto di errore: dalla motivazione si
desume, infatti, che trattavasi di convivenza more uxorio); Trib. Min. Reggio Calabria, 17 ottobre 1994, in Dir.
fam. pers., 1995, p. 611; App. Milano, 4 dicembre 1995, in Fam. dir.,
1996, p. 247; Trib. Min. L’Aquila, 31 gennaio 1994, in Dir. fam. pers., 1995, p. 1039 ss.
[143] Sul punto, anche per l’individuazione della casistica
e per approfondimenti e rinvii, cfr. Oberto,
Problemi di coppia, omosessualità e
filiazione, cit.
[144] V. per tutti Oberto,
I contratti della crisi coniugale, I,
cit., p. 696 ss.
[145] V. per tutti Oberto,
Accordi tra conviventi e diritti del
minore alla luce della riforma sull’affidamento condiviso, in Facchini, Fissore, Naggar, Oberto e Ronfani, Il nuovo rito del contenzioso familiare e l’affidamento condiviso – Le
riforme del diritto di famiglia viste dagli avvocati – Commenti, formulari e
documenti, cit., p. 274 ss. V. inoltre quanto detto supra, §§ 9 e 10.
[146] Cfr. Oberto,
Problemi di coppia, omosessualità e
filiazione, cit.
[147] Per completezza potrà ancora aggiungersi che, ad
esempio, nel regime del civil partnership
britannico, la dissoluzione delle unioni omosessuali in cui sono sorti rapporti
di filiazione va accompagnata da uno «Statement of arrangements» («In a civil
partnership where children are involved within the family, a “Statement of
Arrangements”, should be filed. This should include any plans for the children
after the dissolution has taken place»: cfr. http://www.civilpartnershipinfo.co.uk/#Dissolution.
La norma di riferimento è il Par. 43 del Civil Partnership Act 2004, su cui v. http://www.opsi.gov.uk/acts/acts2004/ukpga_20040033_en_3#pt2-ch2-pb2-l1g44):
questo documento, dunque, dispone, su accordo dei partner, le conseguenze per la prole in caso di separazione.
[148] In tal caso si tratterebbe del Tribunale per i
minorenni: cfr. Cass., 7 maggio 2009, n. 10569, in Fam. dir., 2009, p. 992, con nota di Vullo.
[149] Cfr. Long,
Il diritto italiano della famiglia alla
prova delle fonti internazionali, cit., p. 677.
[150] Anche se in tal caso, a ben vedere, non è certo la
genitorialità omosessuale ad essere di per sé tutelata, quanto, ancora una
volta, l’interesse del minore, mentre l’«omogenitore» si rende mero strumento
di tale interesse.
[151] Dispongono una limitazione della potestà dei genitori
ex art. 333 c.c. per consentire i
contatti tra nipoti e nonni cui il genitore esercente la potestà o
l’affidatario del minore impediva di frequentare i nipoti minorenni Cass., 24
febbraio 1981, n. 1115, in Foro it.,
1982, I, c. 1144 e, nella giurisprudenza di merito, Trib. Min. Perugia, 12
giugno 1979, in Giur. merito, 1980,
p. 6; Trib. Min. Torino, 11 maggio 1988, in Giur.
it., 1989, I, 2, p. 234; Trib. Min. Bari, 10 gennaio 1991, in Giur. merito, 1992, p. 571; Trib. Min.
Messina, 19 marzo 2001, in Dir. fam. pers.,
2001, p. 1522.
[152] Cfr. ad es. Cass., 13 agosto 1999, n. 8633; v.
inoltre Cass., 15 novembre 1989, n. 4862; Cass., 4 maggio 1996, n. 4147; Cass.,
29 marzo 1999, n. 2998.