Nel momento in cui per il diritto delle
relazioni endofamiliari si profilano nuovi scenari, sempre più proiettati verso
una dimensione europea ed internazionale – si pensi, per citare un paio
d’esempi concreti tra i tanti possibili, all’approvazione del Regolamento CE n.
4/2009 del Consiglio, del 18 dicembre 2008, relativo alla competenza, alla
legge applicabile, al riconoscimento e all’esecuzione delle decisioni e alla
cooperazione in materia di obbligazioni alimentari, o alla Decisione del
Consiglio UE del 12 luglio 2010, che ha autorizzato il ricorso alla enhanced
cooperation in
materia di diritto applicabile al divorzio ed alla separazione legale
(2010/405/EU) – appare più che mai opportuno che un trattato dal taglio
teorico-pratico come il presente persegua lo scopo di «fare il punto» su quello
che è lo stato attuale, nel sistema italiano, dei rapporti patrimoniali tra coniugi
e conviventi, tanto nella fase fisiologica, che in quella patologica del
rapporto.
Proprio il campo in questione è quello che ha da
sempre attirato la più viva attenzione dei cultori del diritto di famiglia,
affaticando per interi millenni legislatori, studiosi, giudici e avvocati, a
dimostrazione del fatto che, come ho già avuto modo di chiarire in altre
occasioni, la materia giusfamiliare, ben lungi dal costituire la famosa «isola
nel mare del diritto», di jemoliana memoria, ha invece rappresentato, sin da
tempo immemorabile, il terreno di incontro e scontro sul quale si sono misurate
teoria e prassi, sia nell’adattamento di istituti giuridici più generali, che
nella creazione di soluzioni ad hoc.
In questa sede non appare possibile procedere ad
una ricapitolazione, neppure per sommi capi, della ricchissima evoluzione
storica che costituisce il sostrato degli odierni istituti giusfamiliari nel
settore patrimoniale. Per gli approfondimenti e per i necessari richiami
dottrinali sia pertanto consentito rinviare ai seguenti scritti, che, nel corso
dell’ultimo quindicennio, ho inteso dedicare (anche, o esclusivamente) ai
profili storici: La promessa di matrimonio tra passato e presente,
Padova, 1996, p. 67 ss., 107 ss., 250 ss.; I doni prenuziali e la loro
restituzione nella storia e nel diritto vigente, in AA. VV., La
volontaria giurisdizione. Casi e materiali a cura della Scuola di Notariato A.
Anselmi di Roma. Contributi in onore di Daniele Migliori, Milano, 1997, p.
362 ss.; Gli accordi sulle conseguenze patrimoniali della crisi coniugale e
dello scioglimento del matrimonio nella prospettiva storica, nota a Cass.,
20 marzo 1998, n. 2955, in Foro it., 1999, I, c. 1306 ss.; Simulazioni
e frodi nella crisi coniugale (con qualche accenno storico ad altri ordinamenti
europei), nota a Cass., 5 marzo 2001, n. 3149, in Familia, 2001, p.
774 ss.; I precedenti storici del principio di libertà contrattuale nelle
convenzioni matrimoniali, in Dir.
fam. pers., 2003, p. 535 ss.; Il
regime di separazione dei beni tra coniugi. Artt. 215-219, Milano, 2005, p.
265 ss.; La comunione legale tra coniugi,
Milano, 2010, p. 3 ss., 225 ss., 408 ss., 518 ss., 651 ss., 711 ss., 929 ss.,
1393 ss., 1605 ss.
Nel contesto di questa prefazione basterà
riassuntivamente considerare, innanzi tutto, l’attenzione e il livello
d’approfondimento con cui interi libri del Digesto e del Codex di Giustiniano disciplinavano le questioni patrimoniali
endofamiliari: dagli sponsali al matrimonio, alla dote, ai patti nuziali, alle
donazioni tra coniugi, al divorzio, allo status
dei figli, alle tutele (cfr., ad esempio, D. 22-27; C. 5).
Le fonti romane attestano, in particolare,
l’esistenza di svariate forme di accordi che, inseriti nei patti dotali,
consentivano di regolare ex ante
talune questioni patrimoniali conseguenti ad un’eventuale crisi coniugale.
L’attenzione principale era ovviamente focalizzata sull’istituto della dote,
cioè quel certo complesso di beni che, apportati dalla moglie (o dalla sua
famiglia) al marito ad onera matrimonii
ferenda, andavano da quest’ultimo (o dai suoi eredi) restituiti alla
cessazione del rapporto. Per il vero, sembra che, nel periodo più antico, la
dote non andasse restituita. Sarebbe stato proprio il consistente incremento
dei divorzi nel corso del III sec. a.C. ad indurre le parti ad inserire nei
patti nuziali apposite cautiones,
vale a dire stipulazioni con le quali il marito si impegnava alla restituzione
dell’apporto muliebre in caso di scioglimento del vincolo coniugale. Questo
sistema non era però sufficiente: se ne poteva giovare infatti solo il
costituente che si fosse precostituito il rimedio. Si addivenne così ad uno
strumento più generale, l’actio rei
uxoriae, introdotta, a quanto pare, all’inizio del II secolo a.C., la quale
permise di ottenere la restituzione della dote anche ove questa non fosse stata
promessa.
All’argomento della
restituzione della dote conseguente allo scioglimento del vincolo coniugale il
Digesto dedica un apposito titolo («Soluto matrimonio quemadmodum dos petatur»:
D. 24, 3). In esso, così come in quello intitolato «De pactis dotalibus» (D. 23, 4; cfr. anche, sullo stesso
argomento, C. 5, 18, «Soluto matrimonio quemadmodum dos petatur», e C. 5, 14,
«De pactis conventis tam super dote, quam super donatione ante nuptias et
paraphernis»), affiorano numerose tracce di accordi stipulati all’atto della
costituzione della dote circa il tempo e il modo di restituzione della medesima
in caso di scioglimento dell’unione per morte o, soprattutto, per divorzio.
Qui, già sotto il profilo terminologico, è interessante notare l’impiego al
riguardo di espressioni quali «pactum conventum ante nuptias» (D. 23, 4, 17; v.
inoltre D. 23, 4, 28), o «post nuptias» (D. 23, 4, 28), destinate a transitare
pressoché inalterate nei sistemi di common
law, per designare – ancora a diversi secoli di distanza – proprio quegli
accordi preventivi (o successivi) alle nozze contenenti, tra l’altro, la
regolamentazione ex ante dei rapporti
economici tra gli ex coniugi soluto matrimonio, che, come si è illustrato in
altra sede, non sembrano per nulla scandalizzare – diversamente da quanto
avviene da noi – i giuristi di quegli ordinamenti.
Diversi sono i brani del
Digesto che inducono a ritenere che l’espressione soluto matrimonio, inserita nei pacta
dotalia, fosse di regola riferita dai contraenti proprio al divorzio,
inteso come la causa per eccellenza di scioglimento del legame e nei confronti
del quale occorreva pertanto premunirsi sin dal momento della stipula del
contratto di matrimonio, ciò che conferma quanto sopra osservato in ordine
all’origine delle cautiones rei uxoriae.
Tanto per cominciare, le fonti attestano un contrasto d’opinioni sul problema
se il citato ablativo assoluto (soluto
matrimonio) «non tantum divortium sed etiam mortem contineret» (D. 50, 16,
240); ora, a prescindere dalla soluzione in concreto adottata, di cui dà atto
Paolo, il modo stesso in cui viene impostata la questione evidenzia nella
maniera più eloquente che proprio la crisi coniugale era l’evenienza risolutiva
del vincolo tenuta in maggior conto dagli interpreti.
Per citare poi un altro
esempio concreto, si potrà ricordare quel passo che postulava un accordo, in
sede di costituzione della dote, in forza del quale la restituzione
dell’apporto dotale conseguente al divorzio avrebbe dovuto essere effettuata al
suocero, anziché alla ex moglie. Verificatasi invece l’ipotesi (non prevista)
della morte del marito, se ne concludeva nel senso che il diritto di richiedere
agli eredi del defunto la restituzione della dote sarebbe spettato alla vedova,
anziché al padre di quest’ultima (D. 24, 3, 22). La soluzione si inquadrava del
resto nel principio di carattere più generale (D. 23, 4, 3) secondo cui «Pacta
conventa, quae in divortii tempus collata sunt, non facto divortio locum non
habent». Il coordinamento con il già citato passo D. 50, 16, 240 induce a
ritenere che, mentre l’espressione soluto
matrimonio, ancorché intesa per lo più dai contraenti come riferita al
divorzio, poteva estendersi ad abbracciare anche il caso della morte di un
coniuge, altrettanto non poteva dirsi nel caso l’accordo fosse stato stipulato
– anziché in relazione, genericamente, allo scioglimento del vincolo – con
specifico richiamo all’ipotesi del divorzio. A parte questa conseguenza di
carattere sistematico, è importante notare l’ulteriore conferma
dell’ammissibilità (data, anzi, per scontata) di accordi stipulati ex ante in vista di un eventuale
divorzio.
Alcuni pacta conventa ante nuptias servivano poi a determinare il tempo in
cui la restituzione degli apporti avrebbe dovuto essere compiuta, una volta
sciolto il matrimonio, stabilendo, per esempio, che il diritto alla ripetizione
sarebbe maturato soltanto una volta decorso un certo termine a partire dalla
data del divorzio. Proprio con riferimento a quest’ultimo caso si precisava
però che il termine convenzionalmente fissato non avrebbe potuto eccedere
quello determinato dalla legge: regola, questa, dalla quale sembra emergere
addirittura un principio di tutela della moglie, vista quasi come «coniuge
debole» ante litteram (cfr. D. 23, 4,
17). Il principio restrittivo ora enunciato valeva però solo con riguardo agli
accordi antenuziali, così come per quelli conclusi «manente matrimonio»: «post
divortium tamen, si iusta causa conventionis fuerit, id pactum (scil.:
quello secondo cui longiore die dos
reddatur) debet custodiri» (D. 23, 4, 18). Nonostante la difficoltà di
attribuire, nel caso concreto, all’espressione «si iusta causa conventionis
fuerit» un preciso significato, non appare arbitrario individuare in questo
passo le tracce di possibili accordi tra i coniugi all’atto dello scioglimento
del legame, dal contenuto (almeno per taluni aspetti) addirittura più ampio di
quello dei pacta conventa ante nuptias.
Lo stesso favor nei confronti di pattuizioni
concluse in vista dello scioglimento delle nozze si può riscontrare con
riguardo agli accordi di tipo (evidentemente) transattivo conclusi «ob res
quoque donatas, vel amotas, vel impensas factas» (D. 23, 4, 20).
A questo punto sarà
interessante rimarcare, con specifico riguardo agli accordi postnuziali, che il
diritto romano sembrava a tal punto vedere con favore una «liquidazione globale
delle pendenze» in fase di divorzio, da consentire una espressa deroga al noto
divieto delle donazioni tra coniugi (cfr. D. 24, 1, 60, 1: «Divortii causa
donationes inter virum et uxorem concessae sunt: saepe enim evenit, uti propter
sacerdotium, vel etiam sterilitatem»; v. inoltre D. 24, 1, 11, 10 s.; D. 24, 1,
26, 1; D. 24, 1, 53).
Rimanendo in tema di
attribuzioni a titolo gratuito, un ruolo, per così dire, postmatrimoniale
poteva essere svolto anche dalle sponsalitiae
largitates e dalle donationes propter
nuptias, istituti che si caratterizzavano proprio per la specifica sorte, soluto matrimonio, di queste
attribuzioni compiute prima della celebrazione delle nozze. Nelle prime,
infatti, la regola della «definitività» dell’acquisto dei doni in capo all’uno
o all’altro degli sposi poteva essere esclusa da un’apposita pattuizione,
secondo quanto del resto è pacificamente ammesso anche oggi. L’esplicita
contemplazione dell’ipotesi del divorzio consentiva così di predeterminare, in
un modo o nell’altro, la sorte dei reciproci rapporti economici al momento
della fine dell’unione (C. 5, 3, 12). Talora simili accordi sembravano
addirittura assumere una valenza «penale», ricollegandosi in essi la
risoluzione del trasferimento gratuitamente effettuato da uno degli sposi alla
imputabilità all’altro dell’eventuale rottura dell’unione (cfr. D. 24, 1, 57).
Per quanto riguarda il
secondo tipo di liberalità, occorre premettere che queste, diffusesi in epoca
postclassica, assunsero ben presto il ruolo di controdote, di apporto, cioè, da
parte del marito, o della famiglia di costui, ad onera matrimonii ferenda. Per questo motivo si affermò la regola
che esse avrebbero dovuto subire la medesima sorte dell’apporto della sposa,
cioè a dire essere restituite soluto
matrimonio. Proprio in considerazione dello stretto vincolo tra
scioglimento del matrimonio e donatio
propter nuptias molti videro in questo istituto la possibilità di istituire
una sorta di «penale» in caso di divorzio a carico del marito che avesse inteso
sbarazzarsi del vincolo coniugale: la conclusione pare avvalorata dalla valenza
lato sensu sanzionatoria che le
regole in tema di restituzione dei rispettivi apporti matrimoniali sembrano
assumere in diritto postclassico, in cui venne acquistando un crescente rilievo
la circostanza che il divorzio fosse «addebitabile» all’uno o all’altro (cfr.
C. 5, 17, 8, 4; Nov. 117, 8; Nov. 117, 9; Nov. 117, 13); si noti peraltro che,
quanto meno nel caso di costituzione da parte di un terzo, l’autonomia delle
parti poteva spingersi ad escludere la possibilità che il marito trattenesse la
dote nel caso di divorzio per colpa della moglie (cfr. C. 5, 12, 24).
Risulta dunque confermato
come vari istituti tipicamente legati al momento genetico dell’unione coniugale
(dote, sponsalitiae largitates, donationes
ante e propter nuptias) potessero
assumere in diritto romano una chiarissima connotazione postmatrimoniale.
Queste linee di tendenza,
favorevoli ad un pieno dispiegamento della libertà negoziale relativamente agli
assetti patrimoniali endofamiliari ricevettero conferma nel corso
dell’evoluzione storica dei secoli successivi, pur in assenza del rimedio del
divorzio per effetto dell’affermazione del principio dell’indissolubilità
matrimoniale imposto dalla Chiesa cattolica. Ebbene, neppure l’indisponibilità
di tale istituto sortì l’effetto di inibire alle parti dei pacta nuptialia di premunirsi dalle conseguenze nefaste di una
situazione di crisi coniugale che fosse dovuta eventualmente sopravvenire.
Fa fede sul punto la ricchissima, plurisecolare,
giurisprudenza della Rota Romana su temi che spaziavano dalla separatio tori, alla dotis restitutio, così come l’imponente
congerie di sentenze degli altri «Grandi Tribunali» italiani (dal Senato
Piemontese, alla Rota Genovese, al Sacro Consiglio Napoletano, alla Magna Regia Curia del Regno di Sicilia,
al Senato di Mantova, alle Rote di Lucca, Firenze e Bologna, ecc.) sulle doti,
sui patti matrimoniali, sui fedecommessi e sui retratti di famiglia, sulle
pretese patrimoniali tra coniugi, sui rapporti di concubinato e così via.
Proprio un’attenta disamina di questa quanto mai consistente massa di decisioni
consente d’intravedere i tratti di soluzioni moderne ed ardite.
Si pensi, a titolo d’esempio, alla decisione (Bononien. restitutionis dotis, 16 maggio
1595) con la quale la Rota Romana riconobbe la validità del patto nuziale
diretto a configurare la restituzione della dote alla stregua di una vera e
propria clausola penale per il caso di mancata solutio della somma periodica prevista a carico del marito a titolo
di alimenta nell’ipotesi di
un’eventuale separatio tori. E che
dire di quella sentenza del Supremo Tribunale del Regno di Sicilia che, in
applicazione delle consuetudini di Messina, il 20 giugno 1612 affermò la
validità di quella clausola di un contratto di matrimonio che escludeva la
comunione dei beni normalmente prevista dallo statuto locale «casu (quod absit) di separatione di
matrimonio, tanto senza figli come nati figli, & quelli morti in minori
età, vel maiori ab intestato»,
stabilendo altresì che, in tale ultima ipotesi, «detta sposa non possa
disponere, nisi tantum di unzi
trenta»? L’accordo in oggetto, vero e proprio prenuptial agreement in contemplation of divorce (ante litteram!) non rappresenta certo un
caso unico nella storia del diritto italiano e trova un singolare pendant in quella che Oltralpe si è
definita per secoli e continua a definirsi «clausola alsaziana» (su cui v. il
mio La comunione legale dei beni tra
coniugi, cit., p. 386, 1671, 2152).
Ora, proprio con riguardo alla ricchissima
esperienza giuridica francese in materia di rapporti patrimoniali endofamiliari
potrà ricordarsi che la locale tradizione consuetudinaria, rielaborata nei
grandi trattati sulla communauté (di
Pothier, certo, ma, ancor prima, di Le Brun e di Renusson, per non parlare dei
più illustri commentatori delle coutumes,
da Molineo a Duplessis, da Tiraqueau a Bourjon, da Choppin a de Ferrière e
tanti altri, che sul regime di comunione scrissero pagine memorabili), filtrata
dalla giurisprudenza dei Parlamenti (e basti citare al riguardo l’influenza del
Cancelliere D’Aguesseau o di un avvocato come Cochin), tramandata dalla paziente
opera degli arrêtistes, fu
saggiamente condensata in quel Code
Napoléon al quale il nostro odierno diritto di famiglia tanto deve.
Ed è esattamente in relazione a quel contesto
che, già diversi secoli or sono – nelle diverse realtà europee in cui regimi di
comunione coniugale (immediata, differita, dei soli acquisti, dei mobili e
degli acquisti, universale, ecc.) ebbero applicazione (dalla Francia coutumière alla Spagna, dal Portogallo
ai Paesi Bassi ed alle Fiandre, a svariate zone della Germania, alla Sicilia ed
alla Sardegna) – vennero trattate ed approfondite dalla dottrina e
giurisprudenza moltissime delle questioni che affaticano ancora oggi gli
interpreti e che sovente vengono da noi spacciate per «nuove».
Si potranno citare in proposito (facendo rinvio
per gli approfondimenti al già ricordato lavoro La comunione legale tra coniugi, cit.) temi che spaziano
dall’interrogativo sulla natura della comunione legale, a quello
sull’operatività ipso iure del
coacquisto automatico a prescindere dalla partecipazione di entrambi i coniugi
al negozio acquisitivo, alla qualità che il coniuge non agente dovrebbe (o
meno) assumere di contraddittore legittimo (e/o necessario) nelle cause contro
terzi, all’esperibilità di rimedi possessori, interinali ed urgenti inter coniuges in comunione, alla
questione della «gratuità» del coacquisto, a prescindere dal contributo
prestato al pagamento del prezzo e dalla spendita del nome del coniuge,
all’applicabilità del regime legale al matrimonio dichiarato nullo, alla
ricaduta in comunione dei crediti (come, ad esempio, quelli relativi a censi e
rendite di vario genere, ovvero di salari, stipendi e dei proventi lavorativi
in genere), alla caduta in comunione degli acquisti a titolo originario, alla
caduta in comunione degli acquisti «a formazione progressiva», al dibattito
sulla possibilità per la moglie di esprimere valida rinunzia, in qualsiasi
momento, ai diritti derivantile dalla comunione, o a determinati acquisti, ai
rimedi nei confronti della mala gestio,
alla automatica ricostituzione del regime già sciolto per separazione
personale, in caso di riconciliazione dei coniugi, e così via.
Sfortunatamente la tardiva ricezione del regime
legale comunitario da parte del riformatore italiano del 1975, realizzata,
oltre tutto, mercé il ricorso ad una tecnica legislativa tutt’altro che
raffinata, non adeguatamente consapevole del rilievo che la negozialità
potrebbe e dovrebbe giocare anche in questo settore, non ha certo aiutato la
comunione italiana a resistere in maniera adeguata alla «prova del fuoco»
costituita dall’esplosione del contenzioso coniugale. Ciò anche per effetto
della presenza di alcune pervicaci rigidità giurisprudenziali (e non solo) sul
versante, da un lato, degli accordi in vista della crisi coniugale e, dall’altro,
sul tema della libertà negoziale dei coniugi in comunione. Si è così dovuto
assistere, nel corso di questi ultimi anni, al massiccio ricorso, da parte
delle nuove coppie, al regime di separazione dei beni, in chiave di vero e
proprio prenuptial agreement in
contemplation of divorce. Sistema, quest’ultimo, il quale a sua volta non è
certo scevro da problemi, specie allorquando l’effettiva gestione del rapporto
matrimoniale sia stata effettuata in
concreto, in modo promiscuo o «comunitario», in assenza di chiare e
dettagliate intese (inammissibili, alla luce di una non condivisibile
giurisprudenza) sulle determinazioni da assumere in caso di naufragio
dell’unione. Da qui lo stimolo a compiere uno sforzo per tentare di «salvare»
il nostro regime patrimoniale legale, introducendovi quei correttivi (se ne
veda un elenco nel mio La comunione
legale dei beni tra coniugi, cit., p. 380 ss.) la cui adozione, tanto de jure condito che de jure condendo, appare ormai assolutamente indilazionabile.
Il ricorso alla via negoziale si presenta poi
come una soluzione più che apprezzabile anche nel settore delle relazioni tra
conviventi, sia etero- che omosessuali. Qui il problema, più che
dall’applicazione di istituti ad hoc
(sostanzialmente inesistenti nel nostro ordinamento), è dato dall’adattamento
di principi di carattere generale, tratti dal diritto «comune» delle
obbligazioni e dei contratti, nell’attesa che il nostro legislatore sappia
finalmente aprire gli occhi (cosa che comunque, volente o nolente, sarà ben
presto costretto a fare, a seguito dell’inevitabile confronto con i sistemi
stranieri a noi più vicini, in un contesto europeo ed internazionale
caratterizzato da un livello di interazione sempre crescente). Ebbene, anche in
questo campo lo studio dei precedenti storici appare quanto mai istruttivo. La
preventiva soluzione per via negoziale dei numerosi e complessi problemi
patrimoniali della famiglia di fatto registra precedenti costituiti da
testimonianze di contrats de concubinat,
in Francia, e cartas de mancebía e
compañería, in Spagna, risalenti addirittura ai secoli XIII e XIV, mentre
già all’inizio del Cinquecento persino un giurista «cattolicissimo» come Juan
Lopez de Palacios Rubios (sì, proprio l’autore del famigerato requerimiento:
di quel documento, cioè, che i conquistadores leggevano alle popolazioni
amerindie per intimare la sottomissione alla Corona di Spagna, minacciando, in
caso contrario, gravi ritorsioni e che, di fatto, venne utilizzato nel Nuovo
Mondo quale «giustificazione» per lo sterminio e la riduzione in schiavitù di
milioni di persone) non esitava ad applicare il regime della comunione legale
degli acquisti al caso di «duobus amasiis simul habitantibus».
Del resto, come dimostrato in altra sede, già sotto l’Ancien Régime, nelle regioni
francesi rette da coutumes che
prevedevano un espresso divieto di liberalità tra concubinaires – e comunque in tutto il territorio francese,
allorquando, a partire dalla seconda metà del XVII secolo, ebbe ad affermarsi
la tesi della nullità di tali atti per contrarietà ai buoni costumi – non
mancarono certo autori e giudici favorevoli alla validità di quei contratti a
titolo gratuito che fossero giustificati dall’intento rimuneratorio, ovvero da
quello di risarcire la ex convivente per il «disonore» arrecatole dal rapporto
concubinario, specie allorquando si trattasse di prestazioni alimentari.
In conclusione mi sia dunque consentito
ripetere, ancora una volta, che no: la famiglia non è e non è mai stata
un’isola nel mare del diritto. Ciò che Jemolo voleva evocare, con la fortunata
immagine «isolana», non era tanto l’estraneità della compagine familiare alle regulæ iuris, quanto piuttosto un certo
livello di «separatezza» del diritto di famiglia rispetto a quella «terra
ferma», a quel «continente», costituito dal «tradizionale» diritto civile
comune (quello dei diritti reali, delle obbligazioni e dei contratti, per
intenderci), per la specialità dei principi che lo caratterizzavano e che
ancora continuano, almeno in parte, a contraddistinguerlo. Non per nulla,
proprio nello scritto dal quale tale immagine è tratta (cfr. La famiglia e il diritto, in Pagine sparse di diritto e storiografia,
a cura di Lombardo, Milano, 1957, p. 222 ss.), lo stesso Jemolo chiariva che
«in realtà fin dalle origini fu avvertito che trattavasi di un diritto per il
quale non valevano integralmente le regole del diritto contrattuale». Ora,
proprio questa peculiarità del diritto di famiglia sta venendo per tanti
aspetti meno, dopo che il passaggio dalla «concezione istituzionale» alla
«concezione costituzionale» (su cui sia consentito rinviare al mio I contratti della crisi coniugale,
Milano, 1999, p. 103 ss.) ha permesso l’irruzione dell’autonomia privata nei
rapporti endofamiliari. Autonomia privata che, come lo scrivente ha cercato in
altre sedi di dimostrare, non significa certo «mercantilizzazione» delle
relazioni domestiche, ma esaltazione dell’autoresponsabilità, nell’ambito di
ben precisi limiti normativi.
E proprio l’autoresponsabilità nella gestione
delle relazioni domestiche sembra l’obiettivo cui puntare, quale reazione ad
una situazione legislativa caratterizzata dall’incertezza più assoluta, in
conseguenza di interventi normativi scomposti, affrettati, abborracciati, quali
quelli che – in un crescendo tutt’altro che rossiniano… – abbiamo dovuto subire
nel corso degli ultimi anni. Ne deriva un ulteriore sprone alla conclusione di
quelli che lo scrivente per primo ha definito (con espressione che sembra aver
avuto un certo successo) «contratti della crisi coniugale», nonché di accordi
tra conviventi, sul versante di quell’unione di fatto che della famiglia
legittima rappresenta ormai anche in Italia – a dispetto della miopia di molti
– l’altra «faccia della medaglia» della famiglia del ventunesimo secolo.
* Il presente scritto costituisce una breve prefazione storica al volume collettaneo dal titolo Gli aspetti patrimoniali della famiglia. I rapporti patrimoniali tra coniugi e conviventi nella fase fisiologica ed in quella patologica, a cura di Giacomo Oberto, Cedam, Padova, 2011.