Trust interno - Mancato riconoscimento in Italia - Istituto non
compatibile con i principi dell'ordinamento italiano - Effettiva presenza di
elemnti di collegamento con ordinamento che prevede il trust - Necessità -
Richiamo alla legge regolatrice - Insufficienza. Tribunale di Belluno - Coppari,
Presidente; Giacomelli, estensore; - Provvedimento del giorno 25 settembre
2002. 1.- Con ricorso depositato in data 19.7.2001 e pervenuto
al Tribunale di Belluno in data 6.8.2001, Colussi Angelo e l'avv. Feliziani
Alberto hanno proposto reclamo avverso il decreto n. 517/2000 emesso dal
giudice tavolare di Cortina d'Ampezzo in data 9.5.2001 (e notificato al
notaio rogante dott. Luigi Francesco Risso in data 21.5.2001), chiedendone la
riforma. I reclamanti hanno esposto che il decreto impugnato ha
rigettato la domanda tavolare presentata il 17.8.2000 da Colussi Angelo a
mezzo del dott. Luigi Francesco Risso, notaio in Genova, per annotazione
dell'atto di sottoposizione al trust di legge inglese denominato "Trust
Figli di Maurizio ..." di un appezzamento di terreno sito in Comune
di Cortina d'Ampezzo a p.t. 2861 quota di 1/3 della P.F. 3756 di intestata
proprietà di Colussi Angelo. A corredo della domanda
tavolare, il notaio Risso ha prodotto copia autentica dell'atto di
costituzione in trust di beni immobili, ricevuto il 13.7.2000 rep. n.
15.264, precisando che tale atto è distinto da quello istitutivo del trust,
autenticato nelle firme dallo stesso notaio Risso in data 11.7.2000 rep.
n. 15.246; l'atto del quale è stata chiesta l'intavolazione, per-tanto, non è
un atto istitutivo di trust ma un atto di attribuzione di quote di
proprietà di beni immobili all'avv. Alberto Feliziani nella sua qualità di trustee di un trust già costituito con separato
atto, di data anteriore rispetto all'atto in questione. Dopo aver esposto i motivi di impugnazione; i reclamanti
hanno quindi chiesto che: A)
in via principale,
in totale riforma dell'impugnato provvedimento, sia accolta l'istanza
presentata, perché i presunti vizi posti a fondamento del rigetto non sono
rilevabili nell'ambito di un procedimento amministrativo non contenzioso come
quello in esame e sono comunque sottoposti all'eventuale impugnativa di
parte; B) sempre in via principale, in
totale riforma dell'impugnato provvedimento, sia accolta l'istanza presentata
perché nel provvedimento impugnato si denunziano presunti vizi non dell'atto
di trasferimento oggetto dell'invocata pubblicità tavolare, ma
dell'atto di costituzione del trust, atto
non prodotto e non soggetto al vaglio del giudice tavolare; C) sempre in via principale, in
totale riforma dell'impugnato provvedimento, sia accolta l'istanza
presentata riconoscendosi la non astratta contrarietà con il nostro ordinamento
di un atto di costituzione di beni in trust anche per l'ipotesi che il trust
in questione sia qualificato come trust interno
e riconoscendosi altresì che detto atto è trascrivibile ed intavolabile in
accordo con la dominante dottrina e giurisprudenza. 2.- I reclamanti hanno
preliminarmente osservato che, con il medesimo atto del 13.7.2000 rep. n.
15.264, è stata costituita in trust, oltre
alla quota di 1/3 della piena proprietà di un terreno sito in Cortina
d'Ampezzo, altresì la nuda proprietà dell'intero di un immobile sito in San
Vito di Cadore, e che, come risulta dalla copia della nota di trascrizione n.
6833/2000, l'atto di costituzione in trust dell'immobile di San Vito di
Cadore è stato regolarmente trascritto presso la Conservatoria dei Registri
immobiliari di Belluno, con trascrizione a favore del trust ed annotazione a
quadro D dell'attribuzione dei poteri, diritti e responsabilità in capo al trustee avv. Alberto Feliziani. I reclamanti hanno quindi
rilevato che – sebbene il medesimo atto di costituzione in trust di beni
immobili sia stato ritenuto pienamente valido e trascritto per quanto
riguarda il bene immobile esistente nell'ambito territoriale di competenza
della Conservatoria dei Registri Immobiliari di Belluno – tuttavia il giudice
tavolare non ha addotto, a giustificazione del proprio provvedimento di
rigetto, alcuna ragione di differenziazione del regime tavolare rispetto al
regime della trascrizione, ed ha fondato la propria decisione soltanto su
considerazioni di carattere generale che prescindono completamente da ogni
riferimento a peculiari norme del diritto tavolare ipoteticamente ostative
rispetto ad altre norme del diritto comune relativo alle trascrizioni. Ad avviso dei reclamanti, poiché
il giudice tavolare non ha fatto particolare riferimento ad una normativa
tavolare specifica rispetto alla normativa comune, ne dovrebbe conseguire che
il medesimo atto – sulla base di differenti valutazioni effettuate
rispettivamente dal conservatore dei Registri immobiliari di Belluno e dal giudice
tavolare di Cortina d'Ampezzo – è stato ritenuto dall'uno valido titolo per
la trascrizione e dall'altro titolo non valido per conseguire la pubblicità
tavolare. ( omissis ) 2.3.- Le osservazioni svolte in
via preliminare dai reclamanti sono infondate. Va innanzitutto escluso che, in
questa sede, si possa attribuire rilievo all'avvenuta
trascrizione, presso la Conservatoria dei Registri Immobiliari di Belluno,
del medesimo atto di costituzione in trust
ricevuto in data 13.7.2000 dal notaio Risso (rep. n. 15.264
raccolta 7.113), per la parte relativa all'immobile sito in San
Vito di Cadore. Invero, le vicende riguardanti
la trascrizione dell'atto nei Registri Immobiliari non interferiscono con il
giudizio di intavolazione, trattandosi di procedimenti del tutto
indipendenti, aventi funzione distinta e rimessi ad organi di natura diversa
(il conservatore; il giudice tavolare), i cui poteri di controllo sono
autonomamente disciplinati dalla legge (artt. 2674 e 2674
bis c.c.; artt. 93
ss. 1. tav.), anche in ordine al regime del reclamo (art. 2674 bis, 20
comma, c.c.; artt. 126 ss. 1. tav.). Neppure può affermarsi che il
giudice tavolare non abbia considerato le specifiche ragioni di differenziazione del sistema tavolare rispetto
al regime della trascrizione ed abbia fondato la decisione soltanto su
rilievi che non riguardano norme di diritto tavolare. (omissis) 3.- Ciò premesso, i reclamanti hanno inteso
circoscrivere l'oggetto del giudizio alle sole motivazioni poste dal giudice
tavolare a fondamento del suo decreto di rigetto, individuate in due profili
l'uno, secondo cui nel caso di specie si è in presenza di trust interno, vietato a parere del
giudice tavolare; l'altro, secondo cui la figura del trust interno
contrasterebbe con il principio del numero chiuso dei diritti reali e con il
principio della responsabilità patrimoniale generale del debitore. (omissis) In sintesi, i reclamanti –
evidenziando come
l'attività del giudice tavolare, che si svolge senza contraddittorio, è
limitata all'esame degli elementi esteriori di legittimità dell'atto e non
può sostituirsi al giudizio contenzioso rimesso all'iniziativa di parte –
hanno eccepito l'illegittimità della motivazione del decreto impugnato perché
fondata sul rilievo di presunti vizi non evidenti dell'atto, così da negare
alla parte il diritto di vedersi riconosciuta l'attribuzione del diritto ex
tunc, nell'ambito di un procedimento in cui non è consentito all'interessato
esporre le proprie ragioni davanti il giudice, ed all'esito del quale, nel
caso di successivo rigetto in sede di reclamo, non è prevista ulteriore
impugnazione. 3.2.- La censura è infondata. Va in primo luogo osservato che le disposizioni
richiamate dai reclamanti (art. 27, 1° comma, e 95, 1° comma, I. tav.)
debbono essere interpretate nel sistema complessivo della legge tavolare. Se è vero che "i documenti in base ai quali si
chiede un'iscrizione devono essere esenti da vizi visibili che ne
diminuiscano l'attendibilità", ciò non significa che il controllo
riservato al giudice tavolare debba limitarsi soltanto agli elementi
esteriori di regolarità dell'atto. Da altre disposizioni della stessa legge tavolare si
ricava, infatti, che la valutazione del giudice si estende necessariamente
anche a vizi non evidenti, che presuppongono un'indagine sul
contenuto negoziale, seppure sotto il
profilo della legittimità e non del merito. Si consideri, ad esempio, che a
norma dell'art. 26, 2° comma, 1. tav. "trattandosi dell'acquisto o della
modificazione di un diritto tavolare, gli atti devono contenere una valida
causa", il cui riscontro non attiene certo all'aspetto formale
dell'atto. Sebbene il giudice tavolare
debba decidere sulla base degli atti, senza poter adottare provvedimenti
interlocutori di carattere istruttorio (art. 95, 1° comma, I. tav.),
tuttavia, per ordinare un iscrizione, egli deve controllare che concorrano
specifiche condizioni, verificando, tra l'altro, "se la domanda risulta
giustificata dal contenuto dei documenti prodotti", e se tali documenti
"hanno tutti i requisiti di legge per l'iscrizione richiesta" (art.
94, n. 3 e 4, 1. tav.). E evidente come l'accertamento
di questi presupposti richieda un controllo non limitato ai soli "vizi visibili", ma esteso a tutti
i requisiti di legittimità sostanziale dell'atto, che vanno oltre
la mera regolarità formale ed impongono la verifica della rispondenza
dell'atto alle norme ed ai principi di diritto (con un giudizio sotto certi
aspetti assimilabile, per la sua natura, a quello che era previsto dagli
artt. 2330, 2411 e 2436 c.c. con riferimento agli atti societari). L'esame di tali questioni, come
riconoscono gli stessi reclamanti, può comportare un'articolata analisi ed
un'approfondita valutazione da parte del giudice tavolare ed, eventualmente,
da parte del giudice del reclamo, in particolare quando le questioni da
affrontare – come senz'altro avviene nel caso in esame – presentino problemi
interpretativi di notevole complessità e non numerosi precedenti in materia. 4.- Con un'ulteriore censura, i
reclamanti hanno eccepito l'illegittimità del decreto impugnato "perché
rileva presunti vizi di un atto (quello istitutivo del trust) non sottoposto al vaglio del
giudice tavolare". I reclamanti hanno innanzitutto
osservato che, secondo l'orientamento seguito dal giudice tavolare nella
motivazione del decreto impugnato, a seguito della ratifica da parte
dell'Italia della Convenzione dell'Aja del 1.7.1985 sarebbe legittima la
costituzione in trust di beni siti in Italia ma attribuiti ad un trust straniero, mentre nel caso
concreto la costituzione in trust dei
beni immobili in questione dovrebbe ritenersi illegittima per il solo fatto
che il trust in esame non sia straniero bensì "interno", e come
tale asseritamente vietato. Hanno quindi rilevato come la presunta invalidità –
oltre ad essere non evidente – sia altresì riferita non all'atto di
costituzione in trust di beni immobili datato 13.7.2000 (rep. n. 15.264),
l'unico atto sottoposto alla cognizione del giudice tavolare, bensì ad un
atto diverso, quello istitutivo del trust (in data 11.7.2000, rep. n.
15.246), non conosciuto né conoscibile dal giudice tavolare, al quale non è
consentito richiedere ed esaminare altri e diversi atti e documenti. Il giudice tavolare, pertanto, non avrebbe potuto sapere
se il costituente, nonostante il cognome italiano, sia di nazionalità inglese
o abbia doppia cittadinanza, o se in concreto operino altri criteri di
collegamento, né se il trust in
questione persegua o meno scopi vietati dall'Ordinamento. Sul punto i reclamanti non hanno in-teso affermare né
negare alcunché riguardo all'atto istitutivo del trust, ma si sono limitati a rilevare come – essendo
quell'atto ignoto nel presente procedimento, in quanto il giudice non può
ordinare di acquisirlo né la parte può produrlo (poi-ché altrimenti si
altererebbe la par conditio
nei confronti dei terzi ispezionanti i registri tavolari) – non sia possibile
confermare le valutazioni formulate nel decreto impugnato. In proposito, hanno osservato come, ad esempio, se
l'atto costitutivo di una società fosse invalido, tale invalidità potrebbe
essere eccepita in sede contenziosa dai soggetti legittimati, mentre sarebbe
certamente esclusa la possibilità per il giudice tavolare, o per il
conservatore dei Registri Immobiliari, di rilevare, nel procedimento non
contenzioso relativo ad un atto di acquisto compiuto dalla predetta società,
l'invalidità dell'atto costitutivo della società stessa, non sottoposta al
loro esame allorché il conservatore o il giudice tavolare verificano la
validità di un atto di acquisto di un bene da parte di una società (o di una
fondazione o di altro ente), sono ad essi sconosciuti gli atti costitutivi
del soggetto acquirente, ed anche qualora nell'atto di acquisto vi
fosse qualche richiamo agli stessi, certamente nell'ambito di un procedimento
amministrativo non contenzioso, ove è preclusa alla parte la possibilità di
essere sentita, è impensabile che vengano sollevati dubbi in ordine alla
validità dall'atto costitutivo dell'ente. 4.1.- Il rilievo, seppure in via di principio corretto,
non si adatta alla fattispecie in esame. Infatti, l'esempio portato dai reclamanti riguarda atti
di acquisto o di disposizione compiuti da soggetti noti al nostro ordinamento
(società, associazioni, fondazioni o altri enti di diritto interno), ai quali
è attribuita in via generale la personalità giuridica o comunque la
soggettività, con la conseguente attitudine alla titolarità di diritti anche
di natura immobiliare (cfr. ad es. arti. 12, 2331 e 2659 n. 1 c.c.). Nel caso del trust,
invece, l'introduzione dell'istituto nell'ordinamento italiano
deriva dalla ratifica della Convenzione dell'Aja del 1.7.1985, effettuata con
la legge 16.10.1989 n. 364, entrata in vigore il 1° gennaio 1992. Se è vero che "la titolarità dei beni in
trust risiede in capo al trust quale patrimonio separato,
suscettibile di costituire autonomo centro di imputazione" (v. Trib.
Roma 8.7.1999, in Giur. It., 2001, 959), il riconoscimento del trust da parte dell'ordinamento
italiano deve comunque avvenire di volta in volta, a seguito della verifica
dei requisiti previsti dalla legge straniera cui è sottoposto e nei limiti
stabiliti dalla Convenzione. L'art. 11 della Convenzione prevede, infatti, che solo
il trust costituito in
conformità alla legge ad esso applicabile (in virtù della scelta del
costituente o del criterio residuale di cui all'art. 7) dovrà essere
riconosciuto come trust, con i conseguenti effetti sostanziali necessari
(art. 11, 1° comma) ed eventuali (art. 11, 2° comma). La validità dell'atto di costituzione di beni in trust presuppone dunque la verifica
dell'esistenza stessa del trust, quale elemento essenziale dell'atto, che può
essere considerato giuridicamente esistente solo se risulti costituito
secondo le norme dell'ordinamento straniero individuato dalle disposizioni
della Convenzione. Va poi osservato che, mentre nel caso delle società o
degli altri enti l'atto di acquisto (o di disposizione) di beni è normalmente
un contratto con causa tipica (vendita, permuta, donazione, ecc.), nel caso
concreto viene in considerazione un atto tra vivi di costituzione di beni
immobili in trust (l'atto del 13.7.2000 rep. n. 15.264). L'atto in esame si presenta come
una dichiarazione unilaterale con cui il disponente, Colussi Angelo, premesso
di avere costituito volontariamente e per iscritto, con atto autenticato in
data 11.7.2000, il trust denominato
"Trust Figli di Maurizio
..." (ove l'avv. Alberto Feliziani è stato nominato trustee), "per un fine specifico
e nell'interesse dei beneficiari individuati nello stesso atto in adempimento
di obbligazioni naturali e di coscienza nascenti da raccomandazioni
formulategli dal proprio padre defunto" - ed altresì premesso che
"il trust, in quanto costituito in conformità alla legge inglese,
scelta dal disponente per regolarlo, deve essere riconosciuto come trust secondo
la Convenzione adottata a L'Aja il 1.7.1985" - ha inteso sottoporre al
predetto trust i beni immobili specificamente descritti nei punti A
(nuda proprietà dell'intero di un immobile sito in San Vito di Cadore) e B
(quota di 1/3 della piena proprietà di un immobile sito in Cortina d'Ampezzo)
(v. art. 1 dell'atto 13.7.2000), chiedendo che di ciò "venga
rivelata l'esistenza nei registri immobiliari ai sensi dell'art. 12 della
Convenzione". Segue l'enunciazione
che, "in conseguenza di questo atto, il patrimonio sottoposto al trust
costituisce un patrimonio separato e su di esso il disponente cessa di
avere ed esercitare ogni responsabilità, potere e diritto di
proprietario", che "da questo momento saranno assunti ed esercitati
dal trustee pro-tempore non nell'interesse proprio ma nell'esclusivo
interesse dei fini e dei beneficiari del trust"; "l'atto
sarà comunicato al trustee che ove non ritenesse di assumersi tali
oneri e diritti potrà dimettersi dalle funzioni fermo restando tutti gli
effetti di questo atto" (v. art. 2 ibidem). Ciò premesso, va ricordato che
la Convenzione non si applica "a questioni preliminari
relative alla validità dei testamenti o di altri atti giuridici in virtù dei
quali determinati beni sono trasferiti al trustee" (art. 4 Conv.). La disposizione richiamata opera
una distinzione all'interno della fase costitutiva del trust, evidenziando
due diversi elementi: l'atto propriamente istitutivo-costitutivo e l'atto di
trasferimento al trustee del
bene da costituire in trust. Detta disposizione esclude
dall'ambito applicativo della Convenzione la fase della costituzione del
trust con cui si attua il trasferimento (che potrebbe mancare nel caso in cui
il trustee sia già titolare
del bene, come avviene nella c.d. fiducia statica della tradizione
romanistica), riconoscendo la piena indipendenza tra le norme applicabili al
trust e quelle che disciplinano il rapporto di base (testamento, contratto,
ecc.); l'atto di trasferimento resta pertanto sottoposto (nei profili sia
formali che sostanziali) alla legge designata dalle norme di conflitto
ordinarie ad esso applicabili. I beni da costituire in trust vengono attribuiti al trustee mediante un atto di trasferimento che ha una propria
autonomia, quale ordinario strumento di circolazione dei diritti sui beni (ad
esempio, il testamento o il contratto), ed è soggetto ad una propria
disciplina che interferisce con quella del trust solo in quanto il trasferimento del bene sia
finalizzato alla costituzione di un trust. Tornando alla fattispecie concreta, l'atto di
costituzione dei beni in trust, tenuto
distinto dall'atto istitutivo del trust, è dunque regolato dalla legge
individuata dalle norme di conflitto ordinarie (e non dalla legge scelta per
regolare il trust): in assenza dell'indicazione, da parte dei reclamanti, di
elementi di estraneità – che in concreto non si rinvengono, trattandosi di
negozio posto in essere da soggetti verosimilmente di nazionalità italiana (e
comunque l'uno residente e l'altro domiciliato in Italia) ed avente ad
oggetto beni siti in Italia – la legge regolatrice dell'atto non può che
essere la legge italiana. Facendo perciò riferimento ai tipi negoziali propri del
nostro ordinamento, non si vede a quale schema causale le parti abbiano
voluto fare riferimento per operare la costituzione di beni in trust. L'atto in questione, che si presenta come dichiarazione
unilaterale diretta a produrre effetti traslativi, non appare avvicinabile ad
alcuno degli schemi negoziali conosciuti dall'ordinamento italiano (vendita,
donazione, mandato, ecc.). Poiché la causa dell'attribuzione patrimoniale in favore
del trustee risulta esterna
al negozio traslativo – essendo individuata nello scopo del trust o nella finalità di
gestione-amministrazione cui il trustee è
tenuto in favore dei beneficiari – l'atto in esame sì configura dunque come
negozio astratto di trasferimento. Tuttavia, il nostro ordinamento prevede la causa come
requisito di validità del contratto (art. 1325 n. 2 c.c. e 1418, 2° comma,
c.c.), e non ammette, in via di principio, negozi astratti: i negozi che
operano il trasferimento della proprietà o di altri diritti hanno una propria
causa e producono effetti reali ed obbligatori insieme. Ed anche nell'ambito
del sistema tavolare – dove l'effetto traslativo consegue all'intavolazione –
nel caso dell'acquisto o della modificazione di un diritto, l'atto "deve contenere una valida causa" di attribuzione
patrimoniale (art. 26, 2° comma, 1. tav.). Sembra corretto, quindi, ritenere che la validità
dell'atto di trasferimento al trustee abbia
carattere preliminare rispetto alla validità del trust costituito, atteso
che, mancando un valido trasferimento dei beni (in ragione della nullità
dell'atto di costituzione dei beni in trust),
non si costituisce un valido trust. Ciò induce altresì a dubitare della validità dello
stesso atto istitutivo del trust, se con esso non siano stati attribuiti dei
beni al trustee, considerato che la nozione di trust accolta dall'art. 2 della Convenzione richiede che
"dei beni siano stati posti sotto il controllo di un trustee". Con un ulteriore rilievo, si deve sottolineare come, a
norma dell'art. 15 della Convenzione, la legge regolatrice del trust non può ostacolare
l'applicazione delle norme imperative dell'ordinamento competente a regolare
il diverso rapporto con il quale il trust interferisce, che stabiliscono il
quadro inderogabile entro il quale i rapporti nascenti dal trust devono
svolgersi; tra queste materie l'art. 15 include espressamente la disciplina
del trasferimento della proprietà, per cui la legge regolatrice del trust deve essere necessariamente
coordinata con le norme inderogabili della lex rei sitae che riguardino il trasferimento dei diritti sulla
cosa: nel caso concreto, la legge regolatrice del trust non può quindi
derogare alle norme imperative dell'ordinamento italiano che regolano gli
atti di trasferimento della proprietà immobiliare (tra cui quelle generali,
che sanzionano con la nullità la mancanza di una causa del negozio
traslativo, e quelle particolari del sistema tavolare, che attribuiscono
natura costitutiva all'iscrizione nei libri fondiari; con l'ulteriore
conseguenza che il trust non potrebbe essere costituito ove la lex rei sitae non consenta il
trasferimento della proprietà fiduciaria tipica dell'istituto). Va infine rilevato che, sebbene
l'atto istitutivo del trust non
sia stato prodotto in giudizio il fatto stesso che i reclamanti non abbiano
mai affermato, neppure nel ricorso, l'esistenza di un criterio di
collegamento con un ordinamento straniero – e, in particolare, con quello
prescelto (quale la nazionalità inglese del disponente o del trustee) – costituisce indice
sufficiente a far presumere che, nel caso in esame, ci si trovi di fronte ad un trust interno, in cui tutti tali
elementi essenziali (il disponente, il trustee,
i beneficiari, lo scopo ed i beni oggetto del trust) appartengono
all'ordinamento italiano, ed ove l'unico elemento di estraneità è costituito
dalla legge regolatrice del trust scelta dal disponente (nella specie, la
legge inglese). 5.- I reclamanti hanno
sostenuto, a questo punto, che "i trust
interni sono ammessi dal nostro ordinamento se non perseguono
scopi illeciti". Pur riconoscendo che la presenza
di un elemento di estraneità rispetto all'ordinamento interno costituisce un
presupposto naturale del trust, ad avviso dei reclamanti dovrebbe tuttavia ritenersi
sufficiente ad integrare tale elemento la mera volontà del disponente di
sottoporre il trust ad una
legge straniera. In proposito, i reclamanti hanno
evidenziato come sia oggi consentito costituire un trust in Italia, in quanto ai cittadini degli Stati
firmatari viene data la possibilità di scegliere con piena libertà la legge
che disciplina il trust, attraverso la quale vengono introdotte
nell'ordinamento norme di diritto sostanziale che devono integrare, non
violandole, le norme di diritto interno. Secondo i reclamanti, scopo
della Convenzione è quello di affermare la possibilità di riconoscimento dei
trust nell'ambito degli ordinamenti di civil
law, per cui non sarebbe sufficiente rilevare il carattere interno
di un trust per non
riconoscere effetto alla scelta della legge straniera, essendo necessario
accertare concretamente la presenza di un intento abusivo nell'atto
istitutivo, anche in considerazione del favor
validitatis nei confronti dei trust
manifestata dal legislatore con la ratifica della Convenzione
dell'Aja. I reclamanti hanno quindi
rilevato come, secondo il decreto impugnato, sarebbe vietata la costituzione
di un diritto reale atipico nell'ambito della disciplina di un trust
puramente interno, mentre pienamente lecita sarebbe tale costituzione nell'ambito
di un trust straniero; un trustee italiano non potrebbe
acquisire la disponibilità di un bene per i fini del trust, mentre tale disponibilità
potrebbe essere acquisita da un trustee straniero. Secondo i reclamanti sarebbe quindi incostituzionale,
per irragionevole disparità di trattamento, un'interpretazione
della norma che negasse ai cittadini italiani facoltà e diritti invece
riconosciuti ai cittadini stranieri; si dovrebbe ritenere, in sostanza, che
se l'effetto pratico del trust riguarda
beni presenti sul territorio italiano ed è riconosciuto a favore di soggetti
stranieri, identico effetto debba essere ammesso anche per i cittadini
italiani, altrimenti si configurerebbe una situazione ingiustificatamente
penalizzante nei confronti del cittadino italiano, tale da configurare una
violazione del principio di eguaglianza. 5.1.- I reclamanti hanno poi contestato l'esistenza
delle violazioni del principio del numero chiuso dei diritti reali e del
principio della responsabilità patrimoniale generale, poste a fondamento del
provvedimento di rigetto, sostenendo che dette violazioni non potrebbero
comunque legittimare il rigetto della domanda nell'ambito del procedimento
tavolare. 5.1.1.- Sotto il primo profilo, i reclamanti hanno
sostenuto che i diritti conseguenti alla costituzione in trust sono difficilmente inquadrabili
nella dicotomia tra diritti reali e diritti di obbligazione; in secondo
luogo, hanno rilevato come anche il giudice tavolare abbia ritenuto
ammissibile la costituzione in trust di beni immobili siti nel territorio
italiano in favore di un trust straniero. Pertanto, se conseguenza della costituzione in trust di beni immobili è la creazione
di un diritto reale nuovo e diverso da quelli esistenti, ne deriverebbe che
di tale diritto reale potrebbero essere validamente e legittimamente titolari
organismi e cittadini stranieri, mentre ciò sarebbe precluso ad organismi e
cittadini italiani; si verrebbe così ad individuare un diritto reale che può
essere trasferito solo nell'ambito di soggetti non italiani. Anche ammettendo che i diritti
reali siano tipici e che nel caso in esame ci si trovi in presenza di una
nuova specie di diritto reale – aggiungono i reclamanti – si dovrebbe
tuttavia concludere che tale diritto costituisce una nuova specie tipica e
quindi lecita, e non invece atipica, proprio perché conseguente ad un
istituto riconosciuto in forza della ratifica della Convenzione dell'Aja. I reclamanti hanno altresì osservato che da tempo nel
nostro ordinamento è stata posta in discussione la presunta monoliticità del
diritto di proprietà quale diritto unitario, ricordando come, ad esempio,
tutte le moderne forme di multiproprietà, pacificamente trascritte ed intavolate,
non siano conciliabili con il concetto classico di una proprietà unitaria; ed
anche gli atti relativi a beni sottoposti al regime della proprietà
regoliera, istituto di derivazione longobardo-germanica del tutto diverso ed
autonomo dalla proprietà romanistica, da sempre vengono intavolati presso
l'Ufficio di Cortina d'Ampezzo. 5.1.2.- I reclamanti hanno poi rilevato come nel decreto tavolare impugnato si
affermi che l'atto in questione comporterebbe una manifesta violazione,
attuata per volontà delle parti, del
principio della responsabilità patrimoniale generale del debitore
prevista dall'art. 2740 c.c., norma imperativa di diritto interno. Sul punto è stato osservato, in primo luogo, che, se
questo è un effetto tipico della costituzione in trust di beni immobili, allora la sua liceità discende
direttamente dall'ammissibilità della costituzione di un trust conseguente
alla ratifica della Convenzione dell'Aja. In secondo luogo, i reclamanti hanno rilevato come, in
ogni caso, l'eventuale istituzione di un trust in contrasto con
gli artt. 15, 16 e 18 della Convenzione non comporti di per sé, la nullità
dell'atto, ma solo il mancato riconoscimento di quelli che sono gli effetti
segregativi tipici del trust. Si è ancora osservato come in dottrina ed in giurisprudenza
si affermi che, qualora in concreto la costituzione, di beni in trust venga a ledere diritti dei
legittimari o dei creditori, questi ultimi possano legittimamente agire con
l'azione di riduzione o con l'azione revocatoria ex art. 2901 c.c.; ma anche
in questi casi si tratterebbe non di nullità – unico vizio, se, visibile ed
evidente, rilevabile d'ufficio dal giudice tavolare – bensì di annullabilità
o inefficacia relativa, con la conseguenza che le relative azioni sarebbero
riservate sicuramente all'iniziativa di parte. In proposito i reclamanti hanno
infine ricordato che la giurisprudenza prevalente è concorde nel riconoscere
sia l'ammissibilità dei trust interni, sia la trascrivibilità degli atti
attributivi di diritti reali al trustee, rilevando come siano ormai
numerosissimi gli atti di costituzione di beni in trust pacificamente
trascritti. 5.2.- Le censure, che per la
loro connessione logico-giuridica debbono essere esaminate congiuntamente,
sono infondate. Non è certo questa la sede in
cui si possa esaminare compiutamente la dibattuta questione
dell'ammissibilità del c.d. trust interno,
ma si deve comunque tentare, nei limiti dell'indagine strettamente necessaria
ai fini della decisione, di ricercare una possibile soluzione del problema. 5.2.1.- La Convenzione dell'Aja
del 1.7.1985 "stabilisce la legge applicabile al trust e regola il suo
riconoscimento" (art. 1 Conv.) negli ordinamenti che originariamente non
conoscono tale istituto "creato dai tribunali di equità dei paesi della Common Law". arrivato qui a norma
dell'art. 2, 1° comma della Convenzione, per trust si intendono i "rapporti giuridici istituiti da una
persona, il costituente – con atto tra vivi o mortis causa – qualora dei beni
siano stati posti sotto il controllo di un trustee
nell'interesse di un beneficiario o per un fine specifico [...] I beni
del trust costituiscono una massa distinta e non fanno parte del patrimonio
del trustee". A favore dell'ammissibilità del
trust interno vengono solitamente invocati alcuni argomenti desumibili nella
Convenzione. Tra questi vi è indubbiamente il
disposto dell'art. 6, il quale stabilisce che "il trust è regolato dalla legge scelta
dal costituente", e che, qualora la legge scelta "non preveda
l'istituzione del trust", "tale
scelta non avrà valore e verrà applicata la legge di cui all'art. 7": i
sostenitori del trust interno
leggono la disposizione nel senso che la scelta della legge applicabile è
sempre consentita anche in assenza di altri elementi di internazionalità del
rapporto, dato che il solo caso in cui la scelta della legge applicabile al
trust deve essere disattesa in favore di criteri obiettivi di collegamento è
quello in cui essa cade su un ordinamento che non prevede il trust. Inoltre, l'art. 15 delta Convenzione
fa salve "le disposizioni di legge
previste dalle regole di conflitto del foro" in varie materie
(minori e incapaci, matrimonio, testamenti e legittima, trasferimento della
proprietà e garanzie reali, protezione dei creditori in caso di insolvenza,
tutela dei terzi di buona fede), "allorché non si possa
derogare a dette disposizioni mediante una manifestazione di volontà":
tale disposizione dovrebbe fare riferimento ai trust costituiti da chi è normalmente sottoposto ad un
ordinamento non-trust, dato che
nei sistemi di common law il problema
del coordinamento con l'eventuale disciplina inderogabile delle varie materie
è già risolto all'interno dell'ordinamento (in tema di trust testamentario,
cfr. Trib. Lucca 23.9.1997, in Foro It., 1998, I, 3391). Invocando quanto sostenuto da
una parte della dottrina, i reclamanti hanno precisato che l'avvenuta
ratifica della Convenzione senza riserve da parte del nostro ordinamento ha
determinato l'esplicita accettazione del sistema da questa determinato, per
cui un cittadino italiano o un semplice residente in Italia potrebbe
istituire un trust e ottenere
tutela giurisdizionale a difesa dei propri diritti nascenti dal trust, sottoponendolo però alla legge
di un Paese che conosca tale istituto. Il mancato inserimento in sede
di ratifica della riserva prevista dall'art. 21 della Convenzione, che
consente la limitazione dell'ambito di applicazione della stessa ai soli trust la cui validità fosse regolata
dalla legge di uno Stato contraente, manifesta l'impegno dell'Italia al riconoscimento dei trust quale che sia la legge
regolatrice. Seguendo la tesi dei reclamanti,
la Convenzione dovrebbe dunque portare al riconoscimento anche di quei trust che non sono "esteri",
i cui elementi essenziali si trovano tutti nell'ambito dello Stato dove il
riconoscimento è domandato. 5.2.2 - Contro questa
ricostruzione, è stato rilevato che lo scopo della Convenzione è quello di
permettere ai trust costituiti
nei paesi di common law di
operare anche nei sistemi di civil law, in particolare nei sistemi
dell'Europa continentale; ne è derivata una Convenzione che, accanto alla
creazione di norme comuni di diritto internazionale privato (di conflitto)
sul trust (v. Capitolo Il, Legge applica-bile), prevede il riconoscimento, da
parte dei paesi firmatari che non conoscono il trust, degli effetti di un
istituto estraneo al loro sistema tradizionale (v. Capitolo III
Riconoscimento). Tale finalità non può essere
confusa con quella evidentemente diversa e più ampia, di introdurre
surrettiziamente il trust all'interno
di ordinamenti che per tradizione non lo prevedono. Da parte di autorevole dottrina
si è infatti osservato che la Convenzione dell'Aja, pur con le particolarità
evidenziate, rimane comunque pur sempre una Convenzione in tema di conflitti
di leggi e non ha assunto il carattere di Convenzione di diritto sostanziale
uniforme. Essa si limita a fornire una
definizione convenzionale dell'istituto oggetto del riconoscimento (il cui
contenuto minimo è descritto dagli artt. 2 e 11) al solo fine di qualificare
gli elementi la cui compresenza costituisce il presupposto di applicazione
della Convenzione. Nel caso concreto, una volta compiuta positivamente questa
valutazione, interviene la regola di conflitto che individua la legge
applicabile: ma è la Convenzione, e non questa legge, a stabilire se si
tratta o meno di un trust. Per effetto della ratifica della
Convenzione, dunque, il trust è riconosciuto anche nel nostro ordinamento. Ma
ciò avviene soltanto nei limiti dettati dall'art. 13 della Convenzione
("nessuno Stato è tenuto a riconoscere un trust i cui elementi importanti – ad eccezione della scelta
della legge da applicare, del luogo di amministrazione, della residenza del trustee – sono più strettamente
connessi a Stati che non prevedono l'istituto del trust"), e cioè solo quando si tratti di un trust costituito in uno Stato che
conosca e disciplini il tipo di trust in
questione: il tenore della disposizione richiamata esclude, per gli Stati
contraenti, l'obbligo di riconoscimento dei trust privi di collegamenti sostanziali con un ordinamento
che prevede l'istituto sul piano materiale, in modo da evitare che il trust
possa essere indiscriminatamente utilizzato dai cittadini di uno Stato non trust
in assenza di elementi di collegamento con ordinamenti di common law. Un chiaro segnale
in tal senso si ricava dai lavori preparatori del testo dall'art. 13, la cui
formulazione è evidentemente volta ad impedire che l'istituto in esame venga
utilizzato in situazioni meramente interne nei paesi non trust quando manchi un
collegamento di particolare intensità con ordinamenti che conoscono
l'istituto, mentre non presuppone un collegamento obiettivo tra legge scelta
dal disponente e fattispecie concreta (ad esempio, un italiano potrebbe costituire
un trust di diritto
nordamericano su un immobile sito in Inghilterra), né impedisce la
costituzione di un trust interno ad un paese di common law. E ciò principalmente perché il trust non può essere meccanicamente
trapiantato nel vuoto normativo di un ordinamento non trust, come accadrebbe
anche nel nostro caso – se si seguisse l'interpretazione prospettata dai
reclamanti – in assenza di specifiche disposizioni volte al recepimento
dell'istituto nel diritto interno ed al suo coordinamento con il sistema del
diritto civile. L'art. 13 comporta quindi
l'introduzione, in sede di riconoscimento del trust, dì limiti più ristretti
rispetto a quelli, più ampi, previsti dall'art. 6 per l'individuazione della
legge applicabile, consentendo agli Stati non-trust di rifiutare il
riconoscimento di un trust che, negli elementi più significativi,
indipendenti dalla volontà dello stesso disponente (quali la situazione dei
beni e la nazionalità e residenza dei soggetti interessati, ed in particolare
dei beneficiari), possa essere considerato meramente interno ad uno Stato che
non conosce l'istituto. E stato correttamente osservato
che il limite così introdotto opera in modo oggettivo e generale, sia perché
prescinde dall'intenzione fraudolenta delle parti di sottrarsi alle
disposizioni interne sottoponendo artificialmente la fattispecie ad una
diversa legge ritenuta preferibile (c.d. frode alla legge), sia perché non
attribuisce rilievo al risultato concreto cui si perviene ma al semplice
fatto dell'impiego del trust in
assenza di elementi di estraneità. Sebbene anche nell'art. 13 il
riconoscimento sia tenuto distinto rispetto all'individuazione della legge
applicabile, i due momenti sono strettamente connessi, per cui la norma
impone, sia pure indirettamente, un limite all'autonomia privata del settlor. Il disponente avrebbe dunque
la più ampia facoltà di scelta della legge applicabile – purché individui una
legge che conosce l'istituto (art. 5 e 6, 2° comma, della Convenzione) – ma
lo Stato non è sempre e necessariamente tenuto a riconoscere il trust. Resta il problema del concreto modo di operare di tale
limitazione. L'art. 13 appare come una previsione normativa che
richiede un'apposita disposizione di adattamento ordinario, che nel caso
dell'Italia non è stata emanata (essendosi il legislatore limitato a recepire
la Convenzione con ordine di esecuzione, che produce le sole norme interne
indispensabili all'adempimento degli obblighi internazionali assunti), con la
conseguenza che non si sono prodotte nell'ordinamento le modifiche necessarie
per permettere il riconoscimento dei trust interni, la cui introduzione non è
richiesta per rispettare gli obblighi imposti dalla Convenzione. Ma se anche si dovesse ritenere che l'art. 13 introduce
un mero potere discrezionale (e non un obbligo) di rifiutare il
riconoscimento – potere che parte della dottrina ritiene spettare
esclusivamente al giudice (poiché lo Stato non lo ha esercitato in via
preventiva) – è indubitabile che il riconoscimento non può essere operato nei
casi in cui nessuno degli elementi significativi del trust presenti caratteri
di estraneità rispetto all'ordinamento italiano. Anche gli autori che accolgono la soluzione più
favorevole al trust interno sono infatti costretti ad ammettere che il potere
di rifiutare il riconoscimento è legittimamente esercitato quando sia i soggetti, sia i beni, sia lo scopo del trust siano
localizzati in uno Stato che non conosce l'istituto. E tale situazione si verifica nella fattispecie
concreta, dove l'unico elemento di estraneità è costituito dalla
scelta del disponente di applicare la legge inglese, mentre i dati di fatto
del trust non risultano
collegati né con quello specifico ordinamento di common law né con altri ordinamenti stranieri. In totale assenza di qualsiasi ragionevole e legittima
giustificazione del ricorso all'istituto – certo non ravvisabili nella mera
volontà del disponente di adempiere "obbligazioni naturali e
di coscienza" – va dunque escluso il riconoscimento del trust cui si riferisce l'atto in esame. Non si può non
rilevare, del resto, come, una volta riconosciuta alla Convenzione dell'Aja
la natura di convenzione di diritto internazionale privato, si debba
richiedere necessariamente, quale presupposto per la sua applicazione, la
presenza, nella fattispecie concreta, di elementi oggettivi di estraneità
ulteriori rispetto alla mera volontà del disponente di scegliere una legge
straniera. Sebbene alcuni autori richiamino, anche a proposito del trust, il ruolo sempre più ampio
svolto dalla volontà delle parti nella scelta della legge applicabile,
invocando il principio espresso dall'art. 3 della Convenzione di
Roma del 19.6.1980 --ove si afferma che il contratto è regolato dalla legge
scelta dalle parti (con i limiti previsti dall'art. 3 par. 3) e si disciplina
la scelta della legge applicabile nei contratti che presentano collegamenti
con un unico ordinamento – va comunque rilevato che frequentemente nelle
convenzioni internazionali si subordina l'applicabilità delle norme di
conflitto alla sussistenza di elementi di internazionalità (v. ad es. la
Convenzione dell'Aja del 15.6.1955 sulla vendita internazionale), e che
l'art. 1 par. 1 della stessa Convenzione di Roma prevede che essa si applichi
solo alle obbligazioni contrattuali che implicano un conflitto di leggi. 5.3.- Sulla base di tali considerazioni, va ora
esaminata la decisione oggetto del reclamo. La motivazione del giudice tavolare, muovendo dal
rilievo che "si è in presenza di un trust meramente interno, in quanto
costituito in Italia su beni siti in Italia (Cortina d'Ampezzo), di intestata
proprietà di soggetto costituente residente in Italia (Assisi) ed in cui lo
stesso trustee è domiciliato
in Italia (Roma)", afferma l'inapplicabilità a tale trust della Convenzione dell'Aja,
e conclude che "la figura del trust puramente domestico contrasta con il
principio del numerus clausus
dei diritti reali e della rigida predeterminazione legale del contenuto dei
diritti reali, e che comunque la possibilità di considerare la trust property come un patrimonio di
destinazione separato dal patrimonio del trustee,
unico intestatario dei beni, comporta una manifesta violazione,
attuata per volontà delle parti (e non anche per espressa previsione di
legge), del principio della responsabilità patrimoniale generale del debitore
prevista dall'art. 2740 c.c., norma imperativa di carattere interno". E evidente, dunque, che le ragioni
poste dal giudice tavolare a fondamento del decreto impugnato si riferiscono
non all'istituto del trust in generale, bensì al concreto atto di
costituzione di beni in trust del 13.7.2000. Invero, ai sensi degli arti. 2 e
11 della Convenzione il riconoscimento del trust comporta necessariamente
l'ingresso nel nostro ordinamento sia della distinzione tra legal ed equitable property sia di
quella peculiare forma di separazione patrimoniale che viene denominata
"segregazione". Tali effetti si producono a
seguito del riconoscimento del trust in quanto positivamente previsti
nell'ordinamento di origine e già valutati come compatibili con l'ordinamento
italiano al momento della ratifica della Convenzione. Nel caso in esame, invece, ci
troviamo di fronte a un trust interno – sotto entrambi i profili dell'atto
istitutivo e dell'atto di costituzione dei beni in trust – il quale pertanto
non può trovare riconoscimento ai sensi dell'art. 13 e non può produrre gli
effetti previsti dagli art. 2 e 11 della Convenzione. La decisione adottata dal
giudice tavolare risulta pertanto corretta. 5.4.- A conclusione di queste
osservazioni, si deve infine rilevare come l'esclusione dall'ambito di
applicazione del-la Convenzione delle fattispecie meramente interne al nostro
ordinamento non viene a produrre risultati contrastanti con il principio di
uguaglianza posto dall'art. 3 della Costituzione, per l'asserita privazione
dei cittadini italiani di uno strumento utilizzabile in Italia dagli
stranieri. Infatti, l'effettiva presenza di
elementi di collegamento con un ordinamento che conosce il trust, quale
presupposto per l'applicabilità dell'istituto nel nostro ordinamento,
configura una fattispecie oggettivamente diversa da quella puramente interna,
tale da rendere ragionevole e giustificata la diversità di trattamento
derivante dall'applicabilità della Convenzione alla prima e non alla seconda
situazione. Da un lato, quindi, anche ad uno
straniero non è permesso istituire un trust
in Italia, se non sussiste un effettivo collegamento con un
ordinamento che conosce il trust in
questione; e d'altra parte, se è vero che un inglese può costituire in trust
un immobile sito nel territorio italiano, anche un cittadino italiano non
incontra il limite dell'art. 13 se intende costituire un trust su beni che si
trovano in Inghilterra. L'accoglimento
dell'interpretazione della Convenzione che esclude il riconoscimento del trust interno non comporta quindi
alcuna violazione del principio di uguaglianza nei confronti dei cittadini
italiani, ai quali non è preclusa la costituzione di trusts i cui elementi
importanti siano strettamente connessi a Stati che prevedono l'istituto in
questione. 6. - I reclamanti hanno dedotto
che gli artt. 15, 16 e 18 della Convenzione enunciano i limiti entro cui la
designazione della legge applicabile al trust
può operare, i quali riguardano non solo il c.d. ordine pubblico
internazionale e le norme di applicazione necessaria del foro o anche di
altro Stato che abbia con l'oggetto della controversia un collegamento
sufficientemente stretto, ma anche le norme inderogabili aventi ad oggetto
diritti ai quali l'ordinamento chiamato al riconoscimento riservi una
protezione particolare, tra cui la tutela dei creditori in caso di insolvenza
ed in generale dei terzi in buona fede. In ogni caso l'eventuale
istituzione di un trust in contrasto con gli arti. 15, 16 e 18 della
Convenzione non comporterebbe di per sé la nullità dell'atto, bensì il
mancato riconoscimento di quelli che sono gli effetti segregativi tipici del
trust, di cui al combinato disposto degli artt. 2 e 11 della Convenzione
stessa. Tale
assunto sarebbe avvalorato da12° comma dell'art. 15, che prescrive al giudice, qualora
le disposizioni del primo comma di detto articolo siano di ostacolo al
riconoscimento del trust, di cercare di realizzare gli obiettivi dello stesso
con altri mezzi giuridici. Nel caso di specie, quindi, in
difetto del riconoscimento, gli obblighi assunti nell'atto istitutivo di trust potrebbero essere validamente
inquadrati nella figura giuridica di un mandato senza rappresentanza, dove il
trasferimento dei beni è necessario ai fini dell'esecuzione del mandato
stesso. 6.1.- Tali deduzioni sono
infondate. Fermo quanto già rilevato a
proposito dell'inammissibilità del trust interno, va esaminata la richiesta
dei reclamanti volta ad ottenere, in applicazione del 2° comma dell'art. 15
della Convenzione, la realizzazione giudiziale degli obiettivi del trust
"con altri mezzi giuridici". L'ipotesi prospettata dai reclamanti è quella del
mandato ad amministrare (senza rappresentanza) in cui le parti prevedano
l'attribuzione immediata del bene al mandatario, contestualmente alla
conclusione del mandato. In tal caso si verrebbe a configurare un vero e proprio
negozio traslativo del bene dal disponente al trustee mandatario. E evidente, tuttavia, che per amministrare non è
necessario acquistare la titolarità del diritto, che comporta anche le
ulteriori facoltà di godimento e di disposizione. Nel mandato ad amministrare, dunque la causa mandati non giustifica l'effetto
traslativo del diritto dal disponente al mandatario: essendo inconcepibile
un'incongruenza tra causa ed effetti del negozio – in quanto un negozio non
può produrre effetti che eccedano la funzione per la quale riceve tutela
dall'ordinamento – è evidente l'insufficienza della causa mandati (e più in generale della causa fiduciae) a produrre un effetto
(il trasferimento del bene) più ampio di quello che sarebbe necessario e
sufficiente a realizzarla. Ne deriva che neppure il disposto dell'art. 15, 2°
comma, della Convenzione permette di far salvo l'atto di costituzione di beni
in trust. 7.- I reclamanti hanno poi sostenuto che, ammessa la
trascrivibilità dell'atto di trasferimento di beni al trustee, non vi sarebbe motivo di
negarne l'intavolabilità. Hanno ribadito, a questo proposito, come il decreto
impugnato non individui alcun ostacolo all'intavolazione che derivi dalla
peculiare normativa sui libri fondiari. Pur avendo premesso che, anche su questo punto, non
potrebbero essere affrontate questioni nuove non rilevate dal giudice
tavolare, tuttavia i reclamanti hanno voluto precisare, per completezza, come
la dottrina si sia specificamente occupata della compatibilità degli atti
costitutivi di immobili in trust con la normativa tavolare, giungendo a
conclusioni favorevoli, sino ad ammettere che il combinato disposto dell'art.
12 del r.d. 28.3.1929 n. 499 e dell'art. 20 lett. h) della legge tavolare
consente che la qualità di trustee ottenga evidenza tavolare mediante
annotazione nel libro fondiario. 7.1.- I reclamanti
hanno osservato che "il notaio rogante ha per primo effettuato il
controllo di validità e di liceità dell'atto in questione". Muovendo dal rilievo che il
controllo preventivo del giudice tavolare è disposto non in funzione di un
inesistente interesse pubblico alla preventiva verifica di validità di negozi
patrimoniali, ma in funzione dell'interesse individuale dei soggetti
legittimati all'impugnativa, hanno sottolineato come il controllo preventivo sulla validità dei negozi patrimoniali sia di
fatto esercitato dai notai, ai quali è vietato, a norma dell'art. 28 della
legge notarile, ricevere atti proibiti dalla legge ovvero manifestamente
contrari all'ordine pubblico. Facendo proprie le deduzioni del
notaio rogante, i reclamanti hanno sottolineato
la richiesta di rivelare l'esistenza del trust, proponendo le
modalità affinché si evidenzino nel modo più trasparente tutti gli effetti
che il riconoscimento del trust può
produrre, riconoscimento che può formare oggetto di valutazione giudiziale
ove tali effetti vengano contestati nelle sedi proprie. Ad avviso dei reclamanti, la
specifica richiesta del trustee di
rendere evidente che i beni trasferiti sono beni in trust, avvalendosi della
facoltà di cui all'art. 12 della Convenzione dell'Aja, dovrebbe ritenersi
legittima anche in forza dell'art. 20 lett. h) I. tav., in
relazione all'art. 12, 2° comma, del r.d. 28.3.1929 n. 499. Per quanto esposto, a parere dei
reclamanti dovrebbero ritenersi sussistenti tutte le condizioni di cui
all'art. 94, 1° comma, 1. tav. necessarie ai fini dell'annotazione tavolare,
ed in particolare la condizione di cui al numero 4), che richiede il possesso
da parte del documento prodotto di tutti i requisiti di legge necessari per
l'iscrizione; al contrario, il giudice – fondando il rigetto dell'istanza di
intavolazione sulla presunta invalidità dell'atto istitutivo del trust, di cui non ha mai preso visione
– non avrebbe valutato la sussistenza dei requisiti dell'atto di
trasferimento sottoposto al suo esame ai sensi dell'art. 94 1. Tav.. 7.2.- Anche queste deduzioni
sono infondate. Sul punto, si deve preliminarmente
osservare che, sebbene nell'iter argomentativo seguito dal primo giudice sia
risultato assorbito, e quindi non sia stato espressamente esaminato, il punto
riguardante le ragioni ostative che nel sistema tavolare si frappongono
all'accoglimento della domanda, è indubitabile – per quanto si è già
osservato – che tale questione costituisce un momento logico ineludibile
nella valutazione circa la fondatezza del reclamo, per cui tale aspetto deve
essere necessariamente esaminato dal Tribunale. In via generale, il problema riguarda l'opponibilità
ai terzi del trust costituito su beni immobili. Il legislatore italiano non ha dettato specifiche
disposizioni al fine di disciplinare la trascrizione del trust e degli atti dei quali sia parte
un trustee, per cui l'unica
disposizione di riferimento è costituita dell'art. 12 della Convenzione, che
riconosce al trustee la
facoltà di richiedere l'iscrizione (la trascrizione) "in qualsiasi modo
che riveli l'esistenza del trust". Secondo una prima interpretazione, l'elenco degli atti
soggetti a trascrizione deve considerarsi tassativo, con la conseguenza che,
non essendo prevista la trascrizione del trust–
né dal codice civile né dalle leggi speciali – il trasferimento di
beni in trust non sarebbe
trascrivibile, risultando comunque di ostacolo lo sdoppiamento della
proprietà quale effetto tipico del trust. Una diversa opinione ammette invece la trascrizione,
rilevando che la negazione della trascrivibilità del trust comporterebbe, di fatto, la
vanificazione del riconoscimento dell'istituto conseguente alla ratifica
della Convenzione. Si è rilevato, a sostegno di questa tesi, che il
principio di tassatività in materia di trascrizione riguarda non gli atti
bensì gli effetti elencati (v. art. 2645 c.c.) e tende ormai ad essere
superato da varie decisioni giurisprudenziali; si è anche sostenuto che la
fonte della norma speciale che ammette la trascrizione del trust va individuata nella stessa
legge di ratifica. La questione delle modalità di trascrizione concerne non
tanto la trascrizione dell'effetto traslativo in favore dei trustee (con riferimento sia ai beni
originariamente costituiti in trust sia
a quelli successivamente acquistati nella qualità di trustee), la quale è disciplinata
dagli artt. 2643 e 2645 c.c. (v. Trib. Bologna 28.4.2000: "l'atto
istitutivo di trust in
relazione a beni immobili è soggetto a trascrizione nei pubblici registri
immobiliari, posto che gli effetti di tale atto rientrano tra quelli
considerati dal legislatore ai sensi degli artt. 2643 n. 1 e 2645 c.c.";
cfr. Trib. Pisa 27.12.2001), quanto la trascrizione del vincolo che grava sui
beni, per il quale è stata prospettata l'applicazione dell'art.
2659 c.c. in tema di acquisto soggetto a termine o condizione. Ciò premesso, il caso che ci occupa presenta tuttavia
una notevole peculiarità rispetto alle ipotesi più ricorrenti, costituita dal
fatto che qui non si tratta di disporre una trascrizione nei Registri
Immobiliari, ma di verificare la compatibilità, nel vigente sistema tavolare,
dell'annotazione di un atto di costituzione di beni in trust (senza più distinguere, a questo
fine, se sia o meno un trust inter-no). L'art. 12 della Convenzione dell'Aja legittima il trustee ad ottenere la pubblicità
degli acquisti immobiliari "nella qualità di trustee o in qualsiasi altro modo che riveli
l'esistenza del trust, a meno che ciò non sia vietato o sia incompatibile a
norma della legislazione dello Stato nel quale la registrazione deve aver
luogo". Tale riserva di incompatibilità comporta la necessità di
confronto con l'art. 12 del r.d. 28.3.1929, n. 499, il quale prevede la generale inapplicabilità al sistema
tavolare delle norme del codice civile e delle
altre leggi incompatibili con le leggi tavolari, disponendo, in
particolare, e salve le eccezioni ivi
precisate, l'espressa non applicabilità dei capi I e II del titolo I
del libro VI del codice civile. Il 2° comma del richiamato articolo 12 stabilisce,
tuttavia, che "tutti i richiami di leggi o decreti a trascrizioni,
iscrizioni o annotazioni nei registri immobiliari si intendono riferiti alle
corrispondenti intavolazioni, prenotazioni o annotazioni previste dalla legge
generale sui libri fondiari [...] in quanto non vi osti la diversa natura
delle iscrizioni", il sistema è completato dell'art. 20 lett. h) della
legge tavolare, il quale dispone che forma oggetto di annotazione anche "ogni
altro atto o fatto, riferentesi a beni immobili, per il quale le leggi
estese, quelle anteriori mantenute in vigore o quelle successive richiedano o
ammettano la pubblicità, a meno che questa debba eseguirsi nelle forme
dell'art. 9 della presente legge". Attraverso tale
disposizione di chiusura, si permette alle norme giuridiche previste per la
pubblicità nei registri immobiliari, che non trovino già il proprio
corrispondente nella legge tavolare, di espandersi anche nel sistema del libro fondiario, fermo restando
naturalmente il limite della compatibilità. Come hanno osservato i reclamanti, ciò risponde ad una
tendenza, comune ad entrambi i sistemi, all'ampliamento degli atti e dei
fatti oggetto di annotazione pubblicitaria. L'effettuazione di tali annotazioni (ad es. convenzioni
in materia di edilizia abitativa ed urbanistica; divieti di alienazione
conseguenti alla concessione di mutui agevolati; vincoli di destinazione
dell'immobile; l'assegnazione dell'alloggio ad uno dei coniugi in sede di
separazione o di divorzio, ecc.) non scalfisce il principio di tassatività
dell'elenco degli atti soggetti ad iscrizione pubblicitaria nel libro
fondiario, in quanto esse sono previste da fonti normative non inserite nel
contesto del libro VI del codice civile e sono quindi suscettibili di
inserimento nell'ambito tavolare in forza dell'art. 20 lett. h) della legge
generale sui libri fondiari. Tuttavia, diversamente da quanto ritenuto dai
reclamanti, l'indicazione della qualità di trustee – volta ad attribuire
pubblicità al fatto che l'acquisto di un determinato bene immobile è avvenuto
non in nome proprio ma nella qualità di trustee
– risulta incompatibile con l'ordinamento tavolare alla
stregua dell'art. 12 della Convenzione. Nel sistema tavolare, l'art. 2 del r.d. 28.3.1929 n. 499
stabilisce che, "a modificazione di quanto è disposto dal codice civile
italiano, il diritto di proprietà e gli altri diritti reali sui beni
immobiliari non si acquistano per atto tra vivi se non con l'iscrizione del
diritto nel libro fondiario". Poiché nel trust la titolarità del diritto spetta
indubbiamente al trustee, ciò che caratterizza la proprietà del trustee, ai fini che qui interessano,
è proprio il conseguimento della pubblicità dell'acquisto immobiliare
"nella sua qualità di trustee o
in qualsiasi altro modo che riveli l'esistenza del trust". Tuttavia, il fondamento della previsione pubblicitaria
contenuto nell'art. 12 della Convenzione dell'Aja non è sufficiente a
superare il disposto dell'art. 20 lett. h) 1. tav., che presuppone
un'espressa previsione normativa dettata in materia di trascrizione e la
conseguente pubblicità nei registri immobiliari, condizione necessaria per la
verifica da parte del giudice, in assenza di una corrispondente previsione in
regime tavolate, della compatibilità della
situazione da pubblicizzare con i principi informatori del sistema dei
libri fondiari. A fronte di un'intavolazione del diritto a nome del trustee, non risulterebbe sufficiente
indicare nell'iscrizione tale particolare qualifica, in considerazione della
necessità di rendere noti ai terzi – esposti
alla possibilità di esercizio nei loro confronti dell'azione
reipersecutoria da parte dei beneficiari – i limiti entro cui l'attività di
amministrazione del trustee possa
essere idoneamente esercitata. Tale considerazione porta a ritenere rilevante non solo
la pubblicizzazione della fase traslativa del diritto dal disponente al trustee, ma anche necessariamente del
momento istitutivo del trust in
quanto contenente l'attribuzione (ed i limiti) dei poteri del trustee. Mentre per i beni sottoposti al regime della
trascrizione questo problema non presenta particolare rilievo – dato che la
tecnica pubblicitaria si risolve nel trascrivere integralmente il titolo,
così da renderlo conoscibile nella sua interezza – ben maggiori difficoltà si
pongono nel regime tavolare, dove, eccettuata l'ipotesi dell'art. 5 1. tav.
(acquisto per usucapione o ad altro titolo originario), l'iscrizione assorbe
in sé il contenuto del titolo esentando dal risalire allo stesso per
completare la conoscenza del suo contenuto. Ciò in quanto, come riconoscono anche i reclamanti, il
terzo ispezionante ha tutto il diritto di vedersi opposte le sole ragioni
oggetto di pubblicità. Una riprova dell'assenza di automatismi nel passaggio
dalla disciplina della trascrizione a
quella della legge tavolare si rinviene nella vicenda della pubblicità
dei contratti preliminari (e dei contratti sottoposti a condizione). Invero, con l'introduzione nel codice civile dell'art.
2645 bis (per effetto dell'art. 3 del d.l. 31.12.1996, n. 669, convertito
nella legge 28.2.1997 n. 30), è stata estesa l'innovazione anche al sistema
dei libri fondiari, apportando una modifica integrativa all'art. 12 del r.d.
28.3.1929 n. 499 (ad opera dell'art. 3, 8° comma, del citato d.l. n.
669/1996) in riferimento all'annotazione prevista dall'art. 20 lett. h) della
legge tavolare. Poiché, tuttavia
l'applicazione della disposizione nel sistema tavolare impone sia adempimenti
formali più onerosi di quelli richiesti per la trascrizione, sia
l'attribuzione al giudice tavolare di poteri di cancellazione non
espressamente previsti dalla legge, si è reso necessario, per rendere tale innovazione
effettivamente operativa, un ulteriore specifico intervento legislativo
(l'art. 34, 1° comma, lett. b, del-la legge 24.11.2000 n.340), volto a
coordinare il disposto dell'art. 3, 8° comma, d.l. 31.12.1996 n. 669 con i
principi del diritto tavolare, il primo dei quali individua nell'iscrizione
del diritto nei libri fondiari non un mero procedimento pubblicitario, bensì
un procedimento attributivo della pubblica fede, quale elemento costitutivo
della fattispecie acquisitiva, subordinato al controllo giudiziario della
legittimità dell'atto di disposizione nelle forme della giurisdizione
volontaria. Da questo precedente si può
agevolmente concludere che, ai fini di rendere operante nel sistema tavolare
la previsione pubblicitaria dell'art. 12 della Convenzione, si impone uno
specifico inter-vento normativo volto ad individuare i necessari adempimenti
che prevedano, oltre all'intavolazione dell'atto traslativo del bene in capo
al trustee anche la necessaria annotazione del titolo istitutivo del trust. A conferma di quanto esposto, si
osserva, infine, come il limite della incompatibilità previsto dall'art. 12
della Convenzione sia stato introdotto nel testo della disposizione proprio
su richiesta del-la delegazione tedesca, perché, in assenza di apposite norme
interne di coordinamento, ciò che costituisce oggetto della procedura di
iscrizione nei libri fondiari non è il contratto di vendita, nel quale
possono essere precisate le obbligazioni del trustee, bensì il negozio astratto di trasferimento, con la conseguente
impossibilità di verificare che colui che si iscrive come trustee ne abbia effettivamente i
poteri. Anche con riferimento a quest'ultimo ordine di
considerazioni, la domanda proposta non può dunque trovare accogli-mento, con
conseguente definitivo rigetto del reclamo.
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