Tribunale di Bologna -
Sezione Prima Civile
Sentenza 1° ottobre 2003
4545/2003
(Provvedimento cortesemente
segnalato da Avv. Annapola Tonelli del foro di Bologna)
Oggetto.
1) Trust interno - Richiesta
di annullamento ex art. 184 C.C. - Inammissibilità - Legittimità trust interno
2) Comunione legale -
Esclusione dell’acqusito di bene immobile - Articolo 179, comma 2 C.C. -
Assenso del coniuge all’atto di acquisto - Necessità
Nella Sentenza.
1) I trust
"interni" sorgono in conseguenza della scelta, da parte del settlor,
di una legge regolatrice idonea; la scelta è da ritenersi libera e legittima ex
art. 6 della Convenzione; secondo la regola generale di cui all’art. 11, i
trust istituiti in conformità alla legge determinata in base al Capitolo II (e,
quindi, anche i trust "domestici") devono essere riconosciuti come
tali; in forza degli artt. 15, 16 e 18, qualora i trust riconosciuti producano
effetti contrastanti con norme inderogabili o di applicazione necessaria della
lex fori o con principi di ordine pubblico del foro, l’applicazione della legge
straniera dovrà cedere il passo a quella della legge interna; infine, ex art.
13, qualora un trust "interno", regolato da legge straniera, produca
effetti ripugnanti per l’ordinamento che non siano colpiti dagli artt. 15, 16 e
18, è possibile negare tout court il riconoscimento (il quale sarebbe, a tali
condizioni, inesigibile).
L’effetto segregativo, tipico
ed essenziale nella struttura del trust, non è conseguenza della mera volontà
delle parti, bensì discende da specifiche disposizioni normative: l’art. 11
della Convenzione de L’Aja (come il suo omologo della legge 364/1989) afferma
inequivocabilmente che "Tale riconoscimento implica, quantomeno, che i
beni in trust rimangano distinti dal patrimonio personale del trustee".
Il fenomeno della separazione
patrimoniale è ricorrente nella legislazione speciale e anche in quella
"tradizionale" e tale circostanza sembra dunque smentire la portata
di principio generale di ordine pubblico attribuita all’art. 2740 c.c., il
quale pone come eccezionali le ipotesi di limitazione della responsabilità
patrimoniale (un autore afferma che il rapporto è stato addirittura
"capovolto"): proprio per l’univocità dei più recenti interventi del
legislatore, la segregazione patrimoniale non può più essere considerata un
"tabù" e, di contro, l’unitarietà della garanzia patrimoniale di cui
all’art. 2740 c.c. non può valere come un "dogma sacro ed
intangibile" del nostro ordinamento.
2) La partecipazione del
coniuge all’atto di acquisto e l’assenso all’esclusione del bene dalla
comunione legale costituiscono ex art. 179 comma 2° c.c., requisiti necessari
affinché il bene acquistato separatamente possa essere considerato personale
Sentenza.
Giudice Anna Maria Drudi
L. M. , elettivamente
domiciliata in Bologna, presso e nello studio dell’avv. Luciana Petrella, che
la rappresenta e difende in forza di delega stesa in calce all’atto di
citazione; ATTRICE
contro
T. G. , elettivamente
domiciliato in Bologna, presso e nello studio del prof. avv. Michele Sesta, che
lo rappresenta e difende in forza di delega stesa in calce all’atto di
citazione notificato; CONVENUTO
e contro
Società Fiduciaria,
elettivamente domiciliata in Bologna, presso e nello studio dell’avv. Annapaola
Tonelli, che la rappresenta e difende in forza di delega stesa a margine della
comparsa di risposta; CONVENUTA
avente ad oggetto:
"ANNULLAMENTO DI TRUST EX ART. 184 C.C."
Conclusioni delle parti
Il procuratore di L. M.
chiede e conclude:
in via principale,
- accertare e dichiarare che
l’atto costitutivo di trust realizzato da T. G. non corrisponde ai requisiti
richiesti dalla Convenzione dell’Aja per la sua riconoscibilità in Italia e
pertanto dichiararlo nullo e/o inapplicabile e/o improduttivo di effetti;
in via subordinata,
- accertare e dichiarare la
nullità dell’atto costitutivo di trust realizzato da T. G. a favore del trustee
Società Fiduciaria relativamente alla quota di comunione legale di proprietà
degli immobili (identificati come in atti) di Monghidoro (BO), di Dimaro (TN);
- accertare e dichiarare l’annullabilità
ex art. 184 c.c. dell’atto costitutivo di trust realizzato da T. G.
relativamente alla disposizione dello stabile Palazzo M., sito in Bologna,
oggetto di comunione legale;
comunque,
- vittoria di spese,
competenze ed onorari del giudizio.
Il procuratore di T. G.
chiede e conclude:
in via principale,
- accertare e dichiarare la
validità e l’efficacia dell’atto istitutivo di trust realizzato dal convenuto;
- accertare e dichiarare l’avvenuto
scioglimento della comunione legale tra T. G. e L. M. a far data dai
provvedimenti ex art. 708 c.p.c. emessi all’udienza presidenziale del
12/1/1994;
- accertare e dichiarare la
validità delle disposizioni contenute nell’atto istitutivo di trust
relativamente ai beni immobili di cui ai punti 2 (Palazzo M.), 3 (½ di
fabbricato in Monghidoro) e 5 (½ di fabbricato in Dimaro) dell’atto stesso,
in via subordinata, nella
denegata ipotesi in cui si ritenesse verificata la cessazione della comunione
legale al passaggio in giudicato della sentenza di separazione con effetti ex
tunc alla data della presentazione del ricorso o all’udienza ex art. 708
c.p.c.,
- sospendere il giudizio fino
al formarsi del giudicato sulla separazione;
in via di ulteriore
subordine, nella denegata ipotesi in cui si accertasse l’invalidità degli atti
di disposizione relativi ai suddetti beni immobili,
- accertare e dichiarare la
validità e l’efficacia del trust per la parte relativa ai restanti beni;
comunque,
- vittoria di spese,
competenze ed onorari del giudizio.
Il procuratore di Società
Fiduciaria chiede e conclude:
preliminarmente,
- respingere le richieste
dell’attrice per carenza di interesse ad agire;
in via principale,
- respingere la domanda
principale dell’attrice, in quanto infondata, per la ricorrenza nell’atto
istitutivo di trust di tutti i requisiti richiesti dalla Convenzione dell’Aja
e, conseguentemente, riconoscerne la validità ed efficacia;
in via subordinata, nella
denegata ipotesi in cui si accertasse l’invalidità degli atti di disposizione
compiuti dal T. G. relativi ai beni immobili di cui all’atto di citazione,
- accertare e dichiarare la
validità e l’efficacia del trust per la parte relativa ai restanti beni;
comunque,
- vittoria di spese,
competenze ed onorari del giudizio.
Svolgimento del processo
Con atto di citazione del
3/7/2000, L. M. conveniva in giudizio T. G. e la Società Fiduciaria: l’attrice
affermava:
1) che era pendente presso la
Corte d’Appello di Bologna una causa di separazione giudiziale dal coniuge T.
G. (la sentenza di I grado era stata pronunciata dal Tribunale di Bologna il
21/5/1999);
2) che con atto del
29/9/1999, registrato in data 26/10/1999, il marito aveva istituito un trust
conferendo al trustee Società Fiduciaria il potere di disporre, amministrare e
gestire alcuni beni immobili che venivano contestualmente affidati (e
trasferiti) per tale scopo (in particolare, la porzione del fabbricato
denominato "Palazzo M.", in piena ed esclusiva proprietà del settlor
T. G. , ubicato in Bologna, la quota di ½, in comunione indivisa con la L. M. ,
di porzioni del fabbricato sito in Monghidoro di Bologna con le relative
pertinenze e, infine, la quota di ½, in comunione indivisa con la L. M. , di
porzioni del fabbricato sito in Dimaro di Trento).
Nell’atto introduttivo l’attrice
sosteneva che i predetti beni formavano oggetto della comunione legale tra i
coniugi, la quale non poteva ritenersi cessata con la sentenza di separazione
resa in I grado stante la pendenza del giudizio di appello, e che l’atto di
disposizione realizzato era pertanto invalido. Specificamente, la L. M.
chiedeva: a) di dichiarare la nullità del trust istituito dal T. G. in quanto
inammissibile nell’ordinamento italiano sia per la scelta della legge inglese
in carenza di elementi di internazionalità, sia per il contrasto con la norma
imperativa interna di cui all’art. 2740 c.c.; b) in subordine, di dichiarare la
nullità dell’atto di disposizione delle quote della comunione legale riguardanti
gli immobili in Monghidoro e Dimaro trattandosi di beni indisponibili ex art.
1346 c.c. e, rappresentando la violazione dell’art. 184 c.c., di annullare il
trasferimento al trustee dell’appartamento in Palazzo M. a Bologna.
Con comparsa depositata il 27/10/2000,
si costituiva nel giudizio T. G. , che si difendeva sostenendo che
a) nonostante il diverso
orientamento della giurisprudenza di legittimità, la comunione legale doveva
ritenersi cessata (come afferma una parte della dottrina e dei giudici di merito)
sin dal 12/1/1994, giorno in cui i coniugi erano comparsi all’udienza ex art.
708 c.p.c. (nel corso della quale il Presidente aveva autorizzato i coniugi a
vivere separati);
b) secondo la tesi esposta, l’immobile
sito in Bologna, acquistato dal convenuto il 20/4/1994, non poteva essere
assoggettato al regime di comunione legale mentre erano pienamente legittimi
gli atti di disposizione di quote della comunione ordinaria sorta a seguito
dello scioglimento della comunione legale; anche aderendo al diverso
orientamento secondo cui il regime di comunione legale cessa col passaggio in
giudicato della sentenza di separazione personale ma con effetto ex tunc dalla
presentazione del ricorso, dovevano ritenersi pienamente validi gli atti
compiuti dal T. G. ;
c) in subordine, l’appartamento
in Bologna era stato acquistato con denaro proveniente dalla vendita di cespiti
personali del convenuto (il quale, tra l’altro, si riservava di chiederne
conguaglio in altro giudizio);
d) l’atto istitutivo di trust
era da considerarsi pienamente valido e legittimo, sia perché il predetto
istituto, di origine anglosassone, è stato espressamente riconosciuto dalla
legislazione italiana (Convenzione de L’Aja dell’1/7/1985, recepita con legge
di ratifica del 16/10/1989 n. 364) come confermato anche dalla giurisprudenza
(proprio sul trust in questione, Trib. Bologna 18/4/2000), sia perché, salva l’applicazione
dell’art. 1419 comma 1° c.c., la pretesa invalidità riguarderebbe solo alcune
delle disposizioni del settlor. Il T. G. rassegnava le proprie conclusioni
domandando il rigetto di tutte le domande svolte dall’attrice.
[Dunque le questioni sono
queste:
a) validità del trust interno
(questione dirimente assorbente, se risolta in senso negativo);
b) sorte della costituzione di trust
su immobili acquistati (1) in parte durante il giudizio di primo grado e in
parte (2) dopo la sentenza di primo grado di separazione tra coniugi in regime
di comunione legale; tale atto aveva ad oggetto:(1) la quota della metà di due
immobili in comunione legale con la moglie relativamente ad immobili acquistati
in pendenza del giudizio di primo grado – e quindi il marito “ammetteva” su
questi beni l’esistenza della comunione e (2) l’intero immobile acquistato dal
solo marito durante il giudizio di secondo grado; la moglie aveva chiesto la
declaratoria di nullità dell’atto sub (1) e l’annullamento di quello sub (2)]
Con comparsa depositata il
30/10/2000 si costituiva nel giudizio anche la Società Fiduciaria, che
deduceva, in primis, la carenza di interesse ad agire in capo all’attrice
relativamente alla domanda principale avanzata: difatti, a parere della società
convenuta, dato che il trust istituito dal T. G. riguardava un complesso di
beni (ulteriori rispetto a quelli oggetto di causa) trasferiti con effetti
reali alla Società Fiduciaria, divenuta titolare degli stessi in qualità di
trustee, la L. M. non aveva alcun interesse né a rilevare la presunta nullità
di un complesso negozio ben più ampio ed articolato rispetto alla pretesa
attorea, né a contestare l’ammissibilità nell’ordinamento dell’effetto
segregativo che non coinvolge la posizione del T. G. (settlor), ma, semmai,
quella della Società Fiduciaria (trustee).
Riguardo alla validità del
trust in questione, la Società Fiduciaria, contestando le conclusioni avverse,
rilevava elementi di estraneità nella cittadinanza e residenza (Repubblica di
San Marino) di uno dei beneficiari e nella residenza (sempre in San Marino) del
disponente e illustrava con dovizia di particolari dottrina e giurisprudenza
sull’argomento.
Infine, la Società
Fiduciaria, aderendo alle ulteriori deduzioni ed eccezioni del T. G. , chiedeva
di dichiarare inammissibili e/o infondate le domande della L. M. relative alla
validità del trust.
Le parti comparivano alle
udienze del 2/11/2000 (ex art. 180 c.p.c.) e del 15/2/2001 (ex art. 183
c.p.c.); nel corso di quest’ultima il tentativo di conciliazione non poteva
essere esperito per la mancata comparizione personale dei contendenti; i
difensori chiedevano, quindi, termini per il deposito di memorie ex art. 183
comma 5° c.p.c. (atti in cui, nella sostanza, venivano ribadite le precedenti
argomentazioni).
Concessi i termini istruttori
all’udienza del 31/5/2001, in data 6/12/2001 attrice e convenuti chiedevano
congiuntamente di fissare udienza per la precisazione delle conclusioni essendo
la causa istruita per mezzo di documenti (tra questi veniva prodotta la
sentenza di separazione giudiziale tra il T. G. e la L. M. emessa dalla Corte d’Appello
di Bologna il 20/6/2001 e passata in giudicato nel novembre dello stesso anno).
All’udienza dell’8/4/2003 le
parti precisavano le proprie conclusioni (riportate in epigrafe); il Giudice
tratteneva la causa in decisione assegnando i termini di rito per le comparse
conclusionali e le repliche.
Motivi della decisione
1. Deve essere esaminata
preliminarmente l’eccezione della convenuta Società Fiduciaria che ha obiettato
la carenza di interesse dell’attrice in merito alla contestazione della
validità del trust.
L’interesse ad agire ex art.
100 c.p.c. va considerato con riguardo alla domanda proposta nel giudizio e
nell’ambito dello stesso, ovvero con riferimento al vantaggio che l’istante si
è ripromesso nel proporre la domanda (da ultimo, Cass. 24/5/2003 n. 8236).
La verifica sulla sussistenza
della menzionata condizione dell’azione, poi, non può che svolgersi in astratto
valutando l’intento finale o, con altra terminologia, il bene della vita a cui
aspira il richiedente, indipendentemente dalla fondatezza delle allegazioni e
delle argomentazioni addotte a sostegno della domanda giudiziale: in altre
parole, l’interesse ad agire prescinde dalla validità delle tesi sostenute e
deve essere ritenuto sussistente qualora dall’ipotetico accoglimento delle
istanze possa conseguire un vantaggio giuridicamente apprezzabile per l’istante.
Nel caso de quo, L. M. ha
prospettato la nullità del trust perché, secondo le argomentazioni attoree, lo
stesso non sarebbe riconducibile alla disciplina dettata dalla Convenzione de L’Aja,
non avrebbe elementi di estraneità tali da giustificare la scelta della legge
inglese come norma regolatrice del negozio (con conseguente inoperatività della
succitata Convenzione) e, inoltre, i suoi effetti sarebbero in contrasto con l’art.
2740 c.c., che - si assume - è norma imperativa ed inderogabile dell’ordinamento
italiano.
La Società Fiduciaria lamenta
che la questione di nullità con riferimento all’art. 2740 c.c. è richiamata a
sproposito in quanto l’attrice non vanta alcun diritto di credito verso il coniuge
disponente, né ha rapporti di debito-credito con il trustee (il fenomeno
segregativo, difatti, si limita ad impedire che i beni, effettivamente ceduti
dal settlor, entrino nel patrimonio personale del trustee e quindi che gli
stessi possano mai costituire oggetto di garanzia patrimoniale da parte di
terzi creditori personali del trustee stesso); aggiunge che la questione
sollevata riguarda l’intero negozio di trust e non si limita ai beni sui quali
la L. M. accampa pretese.
A parere di questo Giudice l’attrice
ha un interesse tutt’altro che astratto a sostenere la nullità del trust,
perché le sue critiche si dirigono nei confronti dell’istituto nel suo
complesso e, recependo alcune indicazioni della dottrina (oramai minoritaria),
sottolineano profili di presunta incompatibilità del trust (e soprattutto del
trust c.d. "interno") con l’ordinamento nazionale; ciò vale anche con
riferimento alla pretesa contrarietà all’art. 2740 c.c., la quale diviene
rilevante ove si discuta dell’ "importazione" o, melius, del
riconoscimento del trust assoggettato a legge straniera in relazione alle
categorie giuridiche "tradizionali" di un Paese di civil law.
Se le argomentazioni della L.
M. fossero accoglibili (e, come si vedrà, non è questo il caso; tuttavia, come
già detto, si deve prescindere dall’esame della fondatezza della domanda per
compiere l’esame ex art. 100 c.p.c.), il negozio sarebbe affetto da radicale e
totale nullità (si potrebbe addirittura parlare di una sua estraneità all’ordinamento),
e, quindi, all’avvenuto trasferimento degli immobili al trustee non potrebbe
riconoscersi alcuna efficacia e tutti i beni (e, in particolare, quegli
immobili sui quali l’attrice vanta diritti ex artt. 177 ss. c.c.)
"rientrerebbero" nel patrimonio del disponente come oggetto - sempre
secondo le tesi attoree - della comunione legale (in realtà, il termine
"rientrerebbero" è usato in senso atecnico perché la sanzione di
nullità priverebbe di effetti il trasferimento ab origine e quindi non potrebbe
propriamente parlarsi di beni "usciti" dal patrimonio).
E’ dunque innegabile che L.
M. abbia interesse a sollevare la questione di nullità del trust,
impregiudicata, però, ogni considerazione (nel merito) sulla bontà delle tesi
addotte a sostegno della domanda principale.
2. Venendo al merito, a più
di dieci anni dall’entrata in vigore della Convenzione de L’Aja dell’1/7/1985
(resa esecutiva con la L. 364/1989 e vigente dall’1/1/1992), può ritenersi
ampliamente superata la tesi che prospetta la contrarietà all’ordinamento
italiano del trust (come osserva un’autorevole dottrina, sarebbe più opportuno
parlare di trusts al plurale, ma - con larga approssimazione giuridica e in
ossequio alle regole grammaticali del nostro Paese - è possibile proporre una
nozione dell’istituto al singolare, astratta ed onnicomprensiva, facendo
riferimento al trust "shapeless" o "amorfo" descritto nell’art.
2 del testo convenzionale) e la sua conseguente irriconoscibilità: ne danno
conferma sia il vivace dibattito dottrinale (che, in alcuni casi, ha raggiunto
toni polemici e persino rissosi tra i sostenitori e i detrattori di una o dell’altra
teoria), nel quale la stragrande maggioranza degli autori si è schierata su
posizioni favorevoli all’istituto, sia le numerose pronunce giurisprudenziali,
che, quasi unanimemente, hanno risolto in senso positivo la questione della
compatibilità col nostro ordinamento (per un panorama delle decisioni che,
anche incidentalmente, hanno affrontato vicende attinenti all’istituto del
trust: Trib. Milano 27/12/1996; Trib. Genova 24/3/1997; Trib. Lucca 23/9/1997;
Corte App. Milano 6/2/1998; Pret. Roma 13/4/1999; Trib. Roma 8/7/1999; Trib.
Chieti 10/3/2000; Trib. Bologna 18/4/2000; Trib. Perugia 26/6/2001; Corte App.
Firenze 9/8/2001; Trib. Pisa 22/12/2001; Trib. Perugia 16/4/2002; Trib. Firenze
23/10/2002; Trib. Milano 29/10/2002; Trib. Verona 6/12/2002; Trib. Roma
4/4/2003; Trib. Bologna 28/5/2003,; Trib. Bologna 16/6/2003; in senso
sfavorevole all’istituto, Trib. Santa Maria Capua Vetere 14/7/1999 e Trib.
Belluno 25/9/2002).
Conformemente ad altri
precedenti giurisprudenziali (Trib. Lucca 23/9/1997; Corte App. Milano
6/2/1998; Trib. Bologna 18/4/2000, che ha ordinato al Conservatore dei RR.II.
di trascrivere proprio l’atto di cui si discute in questa sede; Trib. Pisa
22/12/2001), questo Giudice ritiene che "definire illecito l’istituto del
trust è, in diritto, carente di significato ove solamente si consideri essere
il nostro Paese parte della Convenzione de L’Aja del 1° luglio 1985 sulla legge
applicabile ai trust e sul loro riconoscimento … Non è revocabile in dubbio,
infatti, che gli Stati firmatari della Convenzione, pur considerando il trust
come un "istituto peculiare creato dai tribunali di equità dei paesi di
common law", hanno espressamente convenuto di stabilire "disposizioni
comuni relative alla legge applicabile ai trust" e di risolvere in nuce
"i problemi più importanti relativi al suo riconoscimento" …
dimostrando quindi di considerare l’istituto, sia pure per il tramite delle
disposizioni suddette, non incompatibile con gli ordinamenti interni".
In altri termini, sostenere
che il trust è inconciliabile col diritto positivo italiano non ha significato
perché, per addivenire a tale conclusione, bisognerebbe affermare che tutta la
legge 16 ottobre 1989 n. 364 si ha per non scritta. [trattasi di evidente
equivoco, perché il problema non è quello di ritenere efficace o inefficace la
legge, ma attribuirle il significato di legge di d.i.p. o di diritto
materiale!!! ]
Queste prime considerazioni
fanno giustizia anche di alcune delle obiezioni formulate dal Tribunale di
Belluno (decreto del 25/9/2002) nel precedente giurisprudenziale citato dalla
difesa dell’attrice: non è possibile, infatti, sanzionare con la nullità l’atto
di trasferimento dei beni dal settlor al trustee in quanto "negozio
astratto di trasferimento" (si legge nel menzionato decreto che
"facendo riferimento ai tipi negoziali propri del nostro ordinamento non
si vede a quale schema causale le parti abbiano voluto fare riferimento per
operare la costituzione dei beni in trust [… mentre] il nostro ordinamento
prevede la causa come requisito di validità del contratto [… e] non ammette in
via di principio negozi astratti"), sia perché, anche secondo la più
recente lettura dottrinale degli artt. 1324 e 1322 c.c. (che sembra ammettere
la costituzione di atti unilaterali atipici), "la configurabilità di
negozi traslativi atipici, purché sorretti da causa lecita, trova fondamento
nello stesso principio dell’autonomia contrattuale posto dall’art. 1322 comma
2° c.c." (così Cass. 9/10/1991 n. 10612), sia (e soprattutto) perché la
causa del trasferimento, che è ben lungi dall’essere "astratto", si
deve rinvenire nel collegato negozio istitutivo di trust (che si concretizza
nei suoi scopi proprio attraverso il predetto trasferimento) per il quale la
meritevolezza degli interessi realizzati è stata ex lege sancita dalla
Convenzione de L’Aja del 1985 e dalla disciplina legislativa che ne ha dato
esecuzione.
L’art. 6 della Convenzione de
L’Aja stabilisce: "Il trust è regolato dalla legge scelta dal
disponente".
Nel caso de quo, che
riguarderebbe un trust c.d. "interno" (e cioè - secondo la
definizione dottrinale - un trust che ha la localizzazione preponderante dei
suoi beni, la sede, la sua amministrazione e la residenza dei beneficiari e del
settlor in un ordinamento diverso da quello scelto dalle parti per
disciplinarlo), l’attrice sostiene che la scelta effettuata dal disponente non
può essere libera ed incondizionata, perché, essendo la Convenzione de L’Aja
una convenzione di diritto internazionale privato, essa contiene norme la cui
operatività richiede, come presupposto necessario, la presenza nella
fattispecie concreta di elementi oggettivi di estraneità ulteriori rispetto
alla mera volontà del disponente di scegliere la legge straniera (deve
trattarsi, quindi, di un trust "straniero") e, inoltre, perché l’art.
13 della Convenzione costituisce un insormontabile ostacolo al riconoscimento
di un trust i cui elementi significativi siano strettamente collegati ad uno
Stato non-trust.
La premessa è corretta: nel
caso di specie gli unici elementi di estraneità al nostro ordinamento (oltre
alla legge inglese prescelta per la disciplina del negozio) sono dati dal
domicilio del disponente e dalla residenza e cittadinanza di uno soltanto dei
tre beneficiari, mentre sono legati all’Italia il luogo di amministrazione del
trust designato dal disponente (in Bologna), l’ubicazione dei beni trasferiti
(in Bologna, Monghidoro e Dimaro, limitando l’analisi agli immobili in
controversia), il domicilio del trustee (in Bologna), il luogo dove deve essere
realizzato lo scopo del trust (gestione degli stabili trasferiti, divisione
degli stessi, esecuzione delle volontà testamentarie del settlor relativamente
a beni ubicati sul territorio italiano, ecc.). Questi ultimi criteri, indicati
dall’art. 7 della Convenzione per determinare la legge con cui il trust ha il
collegamento più stretto nel caso in cui questa non sia stata individuata dal
disponente (e non è questo il caso), possono essere qui impiegati come
parametri definiti ex lege (L. 364/1989) per giungere alla conclusione che
siamo in presenza di un c.d. trust "interno" o "domestico".
Sono tuttavia errate le
conseguenze che l’attrice (nonché parte della dottrina e la menzionata
pronuncia Tribunale di Belluno 25/9/2002) trae dalla precedente considerazione:
difatti, da qui (e, cioè, dal carattere "interno" del negozio) a
sostenere l’automatica impossibilità di riconoscere gli effetti di un trust i
cui elementi significativi (salvo la legge di disciplina) non presentano
caratteri di estraneità rispetto all’ordinamento italiano, "il passo è
troppo lungo".
Al contrario, è elemento
sicuro, che emerge dalla Convenzione, l’assoluta libertà di scelta della legge
regolatrice del trust da parte del settlor (secondo autorevole dottrina
"la libertà incondizionata del disponente … costituisce il pilastro della
Convenzione de L’Aja"); infatti:
- non ha senso affermare che
la Convenzione riguarda esclusivamente i trust "stranieri"
La Convenzione non indica
quale presupposto per la sua applicazione la presenza di elementi di estraneità
ulteriori rispetto alla scelta della legge straniera applicabile [ma questo è
implicito perché è convenzione di d.i.p.!!!], purché il diritto applicabile ex
art. 6 (o, eventualmente, ex art. 7) della Convenzione conosca il trust o la
categoria di trust in questione, secondo l’espressa prescrizione dell’art. 5;
proprio quest’ultima disposizione conferma che l’unico presupposto [ma questo
non sta proprio scritto!!!] applicativo della disciplina convenzionale (e del
consequenziale riconoscimento del trust istituito) è la specificazione di una
legge secondo le disposizioni del Capitolo II.
Ragionando sul significato da
attribuire al concetto di trust "straniero", da una parte, pare
scontato che il riconoscimento del trust (artt. 11 ss. Convenzione) postula l’esistenza
di un fenomeno giuridico estraneo al diritto interno (quale è, pacificamente, l’istituto
del trust); dall’altra, poiché i lavori preparatori della Convenzione - sui quali
di dirà in seguito - hanno escluso qualsiasi limitazione legata al sito dei
beni in trust o alla nazionalità/residenza del disponente o dei beneficiari, il
"riconoscimento" può prospettarsi anche quando il trust è soltanto
regolato da una legge straniera e questo è l’unico elemento di estraneità,
necessario e sufficiente, per farsi applicazione della disciplina convenzionale
e delle norme di conflitto in essa contenute.
In definitiva, "non
esiste il trust che, retto da una legge straniera, sia "non abbastanza
straniero" per alcun effetto previsto dalla Convenzione": questa
trova il presupposto della propria applicazione tutte le volte che un trust si
trovi a spiegare effetti in un ordinamento diverso da quello dal quale è
disciplinato. Del resto, la stessa previsione dell’art. 13, relativo alla
facoltà concessa agli Stati di escludere il riconoscimento dei cc.dd. trust
"interni", sta proprio a significare che, almeno in linea di
principio, detti trust sono compresi nell’ambito di applicazione della disciplina
di cui alla Convenzione de L’Aja.
Altro problema (sul quale si
tornerà in seguito), differente e logicamente successivo rispetto a quello
della determinazione della legge applicabile, riguarda gli esiti del
riconoscimento del trust e le preclusioni al riconoscimento o all’efficacia
previste dalla stessa Convenzione qualora la scelta del disponente sia
"abusiva" e, cioè, quando i suoi effetti determinino, nel Paese con
cui il trust presenta i collegamenti più stretti, l’elusione di norme
imperative inderogabili con atto negoziale (art. 15) e/o di norme di
applicazione necessaria (art. 16) oppure quando gli effetti appaiano in
manifesto contrasto con l’ordine pubblico (art. 18) o, infine, in tutti i casi
in cui il riconoscimento sia "ripugnante" per l’ordinamento (art.
13).
- l’art. 6 della Convenzione
(la cui operatività discende dall’estraneità della legge regolatrice prescelta)
non prevede alcun limite in relazione ai legami oggettivi e soggettivi
intercorrenti tra gli elementi del rapporto fiduciario e la legge regolatrice
[ed è ovvio che sia così perché questa è una convenzione di d.i.p. per cui la
necessaria esistenza di tale collegamento è data per implicita]
Si è voluto leggere nel testo
convenzionale una limitazione, come se l’art. 6 avesse parole che non ha:
"Il trust è retto dalla legge scelta dal disponente, purché egli
appartenga a uno Stato che conosce il trust".
In realtà, dall’esame dei
lavori preparatori si può ricavare l’esatto contrario: il problema di stabilire
se la legge applicabile al trust potesse essere scelta dal disponente
prescindendo da qualsiasi elemento di internazionalità fu espressamente
affrontato dai redattori del testo convenzionale. Furono respinte sia la
proposta di imporre un legame tra la scelta della legge regolatrice e il
disponente o l’oggetto del trust, sia quella di introdurre la possibilità per
gli Stati di apporre una specifica riserva sui trust "interni" in
sede di ratifica (secondo alcuni, tale soluzione è stata poi trasferita nell’art.
13), sia quella di richiedere un vincolo tra la disciplina eletta e specifici
elementi della fattispecie (cittadinanza o domicilio o residenza del settlor,
luogo dove il trust deve essere amministrato o dove sono ubicati i beni o dove
si realizza lo scopo principale), sia quella "minor" di limitare la
libertà di scelta ai soli trust aventi caratteri di
"internazionalità" (intendendo così escludere l’operatività della
scelta nel solo caso in cui l’unico elemento di estraneità fosse costituito
dalla designazione della legge straniera). [ma si è visto che i ll. pp. dicono
l’esatto opposto. La questione della assenza di ogni elemento di estraneità
venne espressamente rinviata all’art. 13, che infatti stabilisce l’inapplicabilità
della convenzione in tale caso… ed il commento dei ll. pp. a tale norma è
lapidario: il giudice può in tal caso non riconoscere il trust!!!]
La voluntas politica dei
redattori, obiettivata nel testo convenzionale, è invece univocamente
percepibile nel senso di consentire la piena utilizzazione dell’istituto,
allorché esso sia assoggettato - anche ad opera della sola scelta del
costituente - alla legge di uno Stato che la disciplina, e di precluderne, di
contro, l’impiego abusivo ed elusivo.
- la Convenzione prevede
espressamente (artt. 6 comma 2° e 7) dei criteri di collegamento
"subordinati", nel caso in cui non sia stata effettuata la scelta
della legge regolatrice o questa sia caduta su un ordinamento che non conosce
il trust o quel tipo di trust
Secondo il dettato
legislativo la scelta del settlor può essere talmente discrezionale da
riguardare persino un ordinamento non-trust: tuttavia, in tale caso (e solo in
tale caso!) è possibile prescindere dalla volontà del disponente, privarla di
effetti e ricorrere ai criteri di collegamento elencati nell’art. 7 comma 2°.
La stessa Convenzione,
dunque, ammette che la scelta della disciplina regolatrice possa cadere su una
qualsiasi normativa che conosce il trust e solo gradatamente, ed esclusivamente
nelle ipotesi previste dagli artt. 6 comma 2° e 7 comma 1°, prevede che la
legge sia quella con cui il negozio presenta collegamenti più stretti: ciò
dimostra inequivocabilmente che la designazione operata dal settlor è, in linea
di principio, assolutamente libera e che solo in casi "patologici" (e
al fine di "salvare" l’atto) la legge applicabile è vincolata a
criteri di connessione diversi dalla mera voluntas del disponente (e, cioè, da:
luogo di amministrazione del trust designato dal disponente, ubicazione dei
beni in trust, domicilio/residenza del trustee, luogo dove deve essere
realizzato lo scopo del trust).
In definitiva, pare chiaro
che se il testo della Convenzione avesse voluto vincolare la discrezionalità
del settlor sulla legge regolatrice ad elementi di collegamento con i soggetti
o l’oggetto del trust, non avrebbe attribuito a tali elementi una funzione
meramente sussidiaria relegandoli al ruolo di "surrogati" della
volontà inespressa o male espressa (proprio queste sono le ipotesi degli artt.
6 comma 2° e 7 comma 1°)
- non può, nel contempo,
negarsi validità a trust interni regolati da legge straniera e riconoscere in
Italia gli effetti di trust che presentino altri elementi di estraneità
Sarebbe paradossale che l’ordinamento
italiano volesse pervenire al riconoscimento in Italia di trust istituiti da stranieri
con legge straniera aventi ad oggetto beni siti in Italia e, al contrario,
intendesse disconoscere trust aventi le medesime caratteristiche costituiti dai
propri cittadini.[Non è per nulla paradossale, perché si tratta di norme di
d.i.p.]
Se questa fosse la soluzione
voluta dal legislatore, essa presterebbe il fianco a rilievi di
incostituzionalità sia per la propria intrinseca irragionevolezza, sia per l’ingiustificata
disparità di trattamento generata: spetta alla giurisprudenza, quindi, fornire
un’interpretazione della normativa che sia in linea coi citati parametri
costituzionali.
A ciò si aggiunge che l’analisi
compiuta sulle disposizioni non può prescindere dalla comprensione delle
finalità che si è proposto il nostro Paese ratificando la Convenzione de L’Aja
(sostiene giustamente uno dei redattori del testo convenzionale che
"capire la ratio politica delle norme è il primo compito di ogni
interpretazione che non sia asfittica e deviante"): se l’Italia ha
sottoscritto (come primo Paese di civil law) la Convenzione sul trust è, nella
sostanza, per accrescere la propria capacità di attrarre investimenti dall’estero;
tale scopo sarebbe evidentemente frustrato se proprio i cittadini italiani, per
potere godere dei benefici tipici dell’istituto (solo sommariamente indicati
nell’art. 11), dovessero istituire i propri trust in paesi stranieri
(utilizzando, quale elemento di estraneità, la residenza del trustee) così
trasferendo all’estero la gestione ed amministrazione di capitali e immobili.
- la libertà di scelta della
legge applicabile al rapporto negoziale, indipendentemente dalla presenza di
elementi di più stretto collegamento con un certo ordinamento, è un principio
non estraneo al sistema di diritto internazionale privato (interno e convenzionale)
L’art. 3 della Convenzione di
Roma del 19/6/1980 (resa esecutiva con la L. 975/1984), in materia di legge
applicabile alle obbligazioni contrattuali, prevede espressamente per le parti
la "libertà di scelta" (secondo la locuzione impiegata nella rubrica
della norma) della legge regolatrice del contratto; inoltre, l’art. 57 della
legge 31 maggio 1995 n. 218 compie un rinvio recettizio al suddetto testo
convenzionale introducendo il suo contenuto tra le norme di conflitto interne.
[Ma è la convenzione stessa a precisare che si applica solo alle situazioni di
conflitto di leggi!!! Pertanto non vi è assoluta libertà di scelta!!!]
Qualche autore ha voluto
scorgere nel combinato disposto degli artt. 57 L. 218/1995 e 3 Convenzione di
Roma la disciplina che sancisce anche per il trust la libertà di scelta della
legge regolatrice; la tesi non pare condivisibile perché l’istituto de quo non
sembra agilmente riconducibile alla categoria dei contratti trattandosi pur
sempre di un negozio unilaterale.
Tuttavia, può trarsi dalle
disposizioni menzionate una conferma di quanto sinora sostenuto a proposito
dell’assoluta libertà di scelta sancita dalla Convenzione de L’Aja: può
tranquillamente ritenersi principio acquisito dall’ordinamento internazionale
ed interno (in virtù del richiamo effettuato dalle vigenti norme di diritto
internazionale privato e della prevalente interpretazione data all’ormai
abrogato art. 25 comma 1°, ultima parte, delle preleggi) quello che garantisce
la libera volontà delle parti del negozio in ordine alla normativa da applicare
allo stesso.
Non solo: il comma 3° della
citata disposizione fa esplicitamente salva la possibilità di designare
liberamente una disciplina legislativa anche quando "tutti gli altri dati
di fatto si riferiscano a un unico Paese" (in tal caso, si potrebbe
parlare di un contratto "interno" o "domestico"), purché
ciò non pregiudichi l’applicazione delle norme imperative (nel significato
spiegato dal testo convenzionale) del "Paese di più stretto
collegamento".
L’art. 13 della Convenzione
sul trust recita: "Nessuno Stato è tenuto a riconoscere un trust i cui
elementi significativi, ad eccezione della scelta della legge applicabile, del
luogo di amministrazione o della residenza abituale del trustee, siano
collegati più strettamente alla legge di Stati che non riconoscono l’istituto
del trust o la categoria del trust in questione".
Sostiene la difesa dell’attrice
(con il Tribunale di Belluno e alcuni autori) che la menzionata disposizione
precluda in maniera assoluta il riconoscimento dei trust "interni".
L’interpretazione radicale
fornita dalla L. M. non è accoglibile: essa si porrebbe in contrasto con le
considerazioni sinora svolte sulla libertà di scelta della legge regolatrice
evidenziando un’insanabile contraddizione tra l’art. 6 e l’art. 13, perché la
presenza di elementi di stretto collegamento con l’ordinamento non-trust
dovrebbe condurre ineluttabilmente - secondo la tesi attorea - al mancato
riconoscimento di un negozio la cui legge regolatrice, straniera, è stata
correttamente determinata dal costituente in base alla Convenzione. Inoltre, e
soprattutto, la spiegazione fornita contrasterebbe con il dato letterale del
testo convenzionale, il quale è formulato in chiave "permissiva"
(come "possibilità" di non riconoscere) e non come "obbligo di
disconoscimento" dei trust "domestici" (il testo originale della
disposizione recita : "Aucun Etat n’est tenu de reconnaître…" e
"No State shall be bound to recognize…").
Diverse interpretazioni sono
state date all’art. 13.
Secondo alcuni autori la
disposizione è rivolta esclusivamente ai legislatori degli Stati aderenti e
costituisce una clausola di salvaguardia, normalmente inserita nelle
convenzioni internazionali, che consente a chi lo desideri di paralizzare, in
sede di ratifica, alcuni effetti del testo che ci si appresta a rendere
operativo nel proprio ordinamento. Difettando nella legge di ratifica italiana
(L. 364/1989) una specifica disposizione che precluda, per volontà del
legislatore, il riconoscimento dei trust "interni" ed essendo questi
ultimi ricompresi nell’ambito di applicazione della Convenzione de L’Aja, la
scelta della legge applicabile operata in tali casi dal settlor potrà essere
disattesa esclusivamente per le ragioni espressamente previste dalla normativa
uniforme (artt. 15, 16 e 18).
Secondo un’altra opinione -
che questo Giudice ritiene preferibile e da condividere - la disposizione, come
ogni norma di diritto internazionale privato, non può che riguardare lo Stato
come soggetto internazionale, il quale, legittimato dalla norma, potrà
intervenire (o non farlo) o con un proprio strumento normativo o con le
applicazioni concrete della disciplina da parte dei giudici e delle autorità
amministrative.
Rientra anche nei poteri del
giudice, dunque, fare applicazione dell’art. 13; tuttavia, l’utilizzo di detta
norma, lungi dall’essere obbligatorio o - al contrario -
"capriccioso", potrà avvenire soltanto in maniera conforme alla ratio
del legislatore della ratifica e, quindi, anche in ossequio al principio di salvaguardia
dell’autonomia privata, al solo fine di evitare il riconoscimento di trust
"interni" che siano disciplinati da legge straniera con intenti
abusivi e/o fraudolenti. In altri termini, non sarà sufficiente rilevare la
presenza di un trust i cui elementi significativi siano più intensamente
collegati con lo Stato italiano per disapplicare la legge scelta per la sua
disciplina e per la sua costituzione evitando di riconoscerne gli effetti, ma
sarà, invece, necessario desumere un intento in frode alla legge, volto, cioè,
a creare situazioni in contrasto con l’ordinamento in cui il negozio deve
operare.
Proprio questa, in
definitiva, pare essere l’interpretazione più corretta da dare all’art. 13
della Convenzione: quella di "norma di chiusura" (sul punto, oltre al
prevalente orientamento dottrinale, Tribunale di Bologna, decreto 16/6/2003).
Difatti, mentre il Capitolo
IV della Convenzione de L’Aja introduce un meccanismo (parallelo a quello
previsto dall’art. 3 comma 3° della Convenzione di Roma del 1980) di
salvaguardia delle norme inderogabili, di applicazione necessaria o di ordine
pubblico della lex fori (artt. 15, 16 e 18) e si muove nel campo degli effetti
conseguenti al riconoscimento, l’art. 13 si pone sul diverso piano del
riconoscimento stesso del trust (Capitolo II della Convenzione) quale fenomeno
di applicazione di una legge straniera. In sostanza, mentre gli artt. 15, 16 e
18 non frappongono in linea di principio alcun ostacolo al riconoscimento dei
trust e si limitano ad escludere la produzione di certi specifici effetti
contrastanti con particolari norme interne, l’art. 13 non può essere
considerato come strumento volto a garantire l’applicazione della lex fori
perché a ciò provvedono già le succitate disposizioni.
La disposizione in esame,
piuttosto, concerne il riconoscimento stesso dell’istituto e, quindi, il
principale fenomeno disciplinato dalla Convenzione; ciò vale soprattutto per i
c.d. trust "interni", la cui esistenza e validità dipendono dalla
scelta della legge straniera e dal suo riconoscimento.
Poiché il trust
"interno" non può essere ritenuto invalido ex se per la carenza di
elementi di estraneità (si rinvia alle considerazioni sopra svolte a proposito
della libertà di scelta della legge regolatrice ex art. 6), né per il suo
contrasto con norme inderogabili o di applicazione necessaria o di ordine
pubblico (a garanzia delle quali presiedono gli artt. 15, 16, 18, che, però,
incidono sugli effetti di un trust già riconosciuto), l’unica possibile e
ragionevole soluzione ermeneutica (a meno di non voler dare all’art. 13 un’interpretatio
abrogans degli artt. 6 e 11) è quella, appunto, di considerare la disposizione
come una "norma di chiusura della Convenzione" (paragonabile all’art.
1344 c.c.), che mira a cogliere le fattispecie che sfuggono alle norme di
natura specifica: in altri termini, l’art. 13 costituisce l’estremo ed
eccezionale rimedio apprestato per i casi in cui le modalità e gli scopi di un
trust, i cui effetti sfuggono alle previsioni degli artt. 15, 16 e 18, siano comunque
valutati dal giudice come ripugnanti ad un ordinamento che non conosca quella
particolare figura di trust, ma nel quale tuttavia il negozio esplichi in
concreto i suoi effetti.[Ma questo l’art. 13 proprio non lo dice…!!!]
Il percorso logico da seguire
è, dunque, il seguente: i trust "interni" sorgono in conseguenza
della scelta, da parte del settlor, di una legge regolatrice idonea; la scelta
è da ritenersi libera e legittima ex art. 6 della Convenzione; secondo la
regola generale di cui all’art. 11, i trust istituiti in conformità alla legge
determinata in base al Capitolo II (e, quindi, anche i trust
"domestici") devono essere riconosciuti come tali; in forza degli
artt. 15, 16 e 18, qualora i trust riconosciuti producano effetti contrastanti
con norme inderogabili o di applicazione necessaria della lex fori o con
principi di ordine pubblico del foro, l’applicazione della legge straniera
dovrà cedere il passo a quella della legge interna; infine, ex art. 13, qualora
un trust "interno", regolato da legge straniera, produca effetti
ripugnanti per l’ordinamento che non siano colpiti dagli artt. 15, 16 e 18, è
possibile negare tout court il riconoscimento (il quale sarebbe, a tali
condizioni, inesigibile).[Ma questo l’art. 13 proprio non lo dice!!! Da notare
poi la confusione tra norme inderogabili e principi d’ordine pubblico
internazionale, che sono cose ben diverse!!! L’art. 13 non richiama, tra l’altro,
né le une, né gli altri!!!]
Dal momento che la questione
sollevata dall’attrice non riguarda celati intenti frodatori del disponente
(mai allegati né dimostrati), ma si limita a sostenere che il trust
"interno" non può trovare riconoscimento nell’ordinamento italiano in
forza dell’art. 13 della Convenzione, per le considerazioni sopra svolte l’eccezione
di invalidità deve essere, anche sotto questo profilo, respinta.
L’ulteriore argomentazione
invocata dalla L. M. per sostenere l’invalidità ed inoperatività del trust in
questione concerne il presunto contrasto dell’istituto con l’art. 2740 c.c.,
assunto come norma dell’ordinamento di applicazione necessaria o inderogabile
per volontà negoziale o, addirittura, come principio di ordine pubblico
economico (per il quale eventuali limitazioni di responsabilità ed effetti
segregativi dell’unitarietà patrimoniale del debitore sono ammessi soltanto in
via eccezionale e nei soli casi previsti dalla legge).
La tesi dell’attrice è
infondata; infatti:
- l’effetto segregativo
prodotto dal trust nel patrimonio del trustee trova una sua legittimazione in
virtù di specifiche disposizioni previste nella Convenzione de L’Aja ed
introdotte nell’ordinamento italiano con la legge di esecuzione
L’effetto segregativo, tipico
ed essenziale nella struttura del trust, non è conseguenza della mera volontà
delle parti, bensì discende da specifiche disposizioni normative: l’art. 11
della Convenzione de L’Aja (come il suo omologo della legge 364/1989) afferma
inequivocabilmente che "Tale riconoscimento implica, quantomeno, che i
beni in trust rimangano distinti dal patrimonio personale del trustee".
Secondo un’accreditata
dottrina, l’art. 11 (come pure l’art. 12) si inserisce in una convenzione di
diritto internazionale privato come norma di diritto materiale uniforme: la
disposizione in esame, a differenza di tutte le altre del testo convenzionale
(che sono norme uniformi di diritto internazionale privato), è regola di
diritto sostanziale che non si limita a dettare le condizioni per il
riconoscimento di un trust "straniero" (nel significato sopra
illustrato), ma disciplina, direttamente ed immediatamente, gli effetti minimi
che il riconoscimento deve produrre, in modo omogeneo, in ogni ordinamento
degli Stati contraenti.
Sulla scorta di questa
osservazione non si può ritenere che le ipotesi, eccezionali ed eventuali,
dettate dagli artt. 15, 16 e 18 per sostituire con la lex fori alcuni effetti
"aberranti" del trust riconosciuto, possano estendersi sino a
paralizzare l’effetto segregativo, espressamente sancito come "effetto
necessario minimo" dall’art. 11.
A ciò si aggiunge che, secondo
la gran parte degli autori, la stessa legge di ratifica ha introdotto nell’ordinamento
una deroga all’art. 2740 c.c. (il quale - giova ricordarlo - consente
limitazioni di responsabilità "nei casi stabiliti dalla legge").
L’art. 11 della L. 364/1989,
successivo e speciale rispetto alla disposizione codicistica, ben può
costituire, dunque, l’eccezione (di fonte legislativa) al principio della
responsabilità illimitata (sul punto, Trib. Verona 8/1/2003).
Infine, merita rilievo l’interpretazione
logico-teleologica del testo convenzionale: darebbe luogo ad un’assurda
contraddizione pensare che lo Stato italiano (o qualsiasi altro Paese
contraente) si sia obbligato, con la ratifica, a riconoscere l’effetto
segregativo del trust (art. 11) e, nel contempo, abbia voluto paralizzarlo con
norme di diritto interno (come l’art. 2740 c.c.) astrattamente inquadrabili
nelle fattispecie ostative al riconoscimento degli effetti del trust nell’ordinamento
interno (artt. 15, 16, 18); se questo fosse stato l’intento del legislatore,
sarebbe stato più semplice per l’Italia non aderire per niente alla Convenzione
de L’Aja.
- la separazione dei beni in
trust da quelli personali del trustee trova la sua fonte negli artt. 2 e 11
della Convenzione de L’Aja che hanno inserito nell’ordinamento una nuova forma
di "proprietà"
Con altra argomentazione (più
complessa rispetto alle precedenti), un’autorevole dottrina spiega che l’effetto
segregativo si verifica perché i beni conferiti in trust non entrano nel
patrimonio del trustee se non per la realizzazione dello scopo indicato dal
settlor e col fine specifico di restare separati dai suoi averi (pena la
mancanza di causa del trasferimento). Pertanto, non può parlarsi di
acquisizione al patrimonio del trustee di detti beni (nemmeno come beni
futuri): si tratta, insomma, di una proprietà "qualificata" o
"finalizzata", introdotta dagli artt. 2 e 11 della Convenzione de L’Aja
in aggiunta a quella conosciuta dal codice civile del 1942 (che, in realtà, già
prevede fattispecie analoghe nell’art. 1707, nell’istituto del fondo
patrimoniale inserito con la riforma del 1975, e, infine, nel nuovo art.
2447-bis).
La non applicabilità dell’art.
2740 c.c., dunque, emerge direttamente dagli artt. 2 e 11 della Convenzione che
identificano in modo esclusivo la fonte della segregazione nella
"proprietà qualificata" del trustee e forniscono una nuova lettura
del concetto di "patrimonio".
- nel nostro ordinamento sono
sempre più numerose le disposizioni legislative derogatorie all’art. 2740 c.c.,
il quale, quindi, non può assurgere al rango di supremo (e come tale
inderogabile) principio di ordine pubblico economico [Su ciò si può essere d’accordo:
l’art. 2740 c.c. non è norma di livello costituzionale, né esprime un principio
d’ordine pubblico, ma è sicuramente norma imperativa ed esprime un principio
generale, che può essere derogato da norme speciali. Se la convenzione
contenesse norme di diritto materiale – ma così non è – allora sarebbe corretto
dire che essa può derogare all’art. 2740 c.c.]
Come già detto, l’effetto
principale ed essenziale del trust è quello di segregare una posizione
soggettiva e destinarla ad una specifica finalità, con l’effetto - tutt’altro
che secondario - di renderla intangibile ai creditori del trustee.
La possibilità di costituire
patrimoni autonomi (o separati) non costituisce affatto un’assoluta novità per
il nostro ordinamento: l’art. 1707 c.c. prevede un meccanismo di separazione
per i beni mobili o i crediti acquistati in proprio dal mandatario per conto
del mandante in forza di atto avente data certa anteriore al pignoramento; gli
artt. 167 ss. c.c. vincolano alle esigenze della famiglia i beni costituiti in
fondo patrimoniale, sui quali possono soddisfarsi solo i creditori indicati all’art.
170 c.c.; ex art. 1881 c.c. può divenire "patrimonio separato" (e non
aggredibile) la rendita vitalizia costituita a titolo gratuito nei limiti del
bisogno alimentare del beneficiario; l’art. 1923 c.c. sottrae le somme dovute
dall’assicuratore (per assicurazione sulla vita) all’azione esecutiva dei
creditori del contraente o del beneficiario, frantumando l’unicità del
patrimonio; significativamente, l’art. 490 c.c. statuisce che "l’effetto
del beneficio d’inventario consiste nel tener distinto il patrimonio del
defunto da quello dell’erede"; l’art. 2117 c.c. (richiamato dal D.Lgs.
124/1993) consente la creazione di "patrimoni di destinazione" (così
definiti da Cass. 2824/1975) come fondi speciali per la previdenza e l’assistenza.
Ancor più pregnanti sono gli
esempi di "segregazione" offerti dalla legislazione speciale più
recente (sul punto, Trib. Bologna, decreto 18/4/2000): l’art. 3 della legge
23/3/1983 n. 77 sui fondi comuni di investimento immobiliare (ora abrogato dal
D.Lgs. 58/1998) prevedeva: "ciascun fondo comune costituisce patrimonio
distinto a tutti gli effetti dal patrimonio della società di gestione e da
quelli dei partecipanti, nonché da ogni altro fondo gestito dalla medesima
società di gestione. Sul fondo non sono ammesse azioni dei creditori della
società gerente"; la norma suddetta è stata ripresa ed ampliata dal testo
unico in materia di intermediazione finanziaria (D.Lgs. 24/2/1998 n. 58) il
quale, all’art. 22 (rubricato "Separazione patrimoniale"), stabilisce
che "nella prestazione dei servizi di investimento e accessori gli
strumenti finanziari e le somme di denaro dei singoli clienti, a qualunque
titolo detenuti dall’impresa di investimento, dalla società di gestione del
risparmio o dagli intermediari finanziari iscritti … nonché gli strumenti
finanziari dei singoli clienti a qualsiasi titolo detenuti dalla banca,
costituiscono patrimonio distinto a tutti gli effetti da quello dell’intermediario
e da quello degli altri clienti. Su tale patrimonio non sono ammesse azioni dei
creditori dell’intermediario o nell’interesse degli stessi, né quelle dei
creditori dell’eventuale depositario o sub-depositario o nell’interesse degli
stessi"; l’art. 4 del già menzionato D.Lgs. 21/4/1993 n. 124, riformato
dalla legge 335/1995, stabilisce che "fondi pensione possono essere costituiti
… attraverso la formazione con apposita deliberazione di un patrimonio di
destinazione, separato ed autonomo, nell’ambito del patrimonio della medesima
società od ente, con gli effetti di cui all’articolo 2117 del codice
civile"; la disposizione dell’art. 3 della legge 130/1999 prevede che
"i crediti relativi a ciascuna operazione [di cartolarizzazione di
crediti] costituiscono patrimonio separato a tutti gli effetti da quello della
società e da quello relativo alle altre operazioni. Su ciascun patrimonio non
sono ammesse azioni da parte di creditori diversi dai portatori dei titoli
emessi per finanziare l’acquisto dei crediti stessi"; statuizioni analoghe
a quella ora richiamata sono previste dalle leggi sulla cartolarizzazione dei
crediti INPS (art. 13 L. 448/1998, come modificato dalla L. 402/1999) e sulla
privatizzazione del patrimonio immobiliare pubblico (art. 2 L. 410/2001); da
ultimo, la recente riforma del diritto societario ha inserito nel codice civile
l’art. 2447-bis sui "patrimoni destinati ad uno specifico affare"
che, come sostiene un autore, consente alle società di realizzare un trust
autodichiarato dato che l’art. 2447-quinquies c.c. esclude la possibilità per i
creditori societari di far valere diritti su quel fondo così costituito.
Concludendo questa rassegna
normativa, il Giudice rileva che il fenomeno della separazione patrimoniale è
ricorrente nella legislazione speciale e anche in quella
"tradizionale" e tale circostanza sembra dunque smentire la portata
di principio generale di ordine pubblico attribuita all’art. 2740 c.c., il
quale pone come eccezionali le ipotesi di limitazione della responsabilità
patrimoniale (un autore afferma che il rapporto è stato addirittura
"capovolto"): proprio per l’univocità dei più recenti interventi del
legislatore, la segregazione patrimoniale non può più essere considerata un
"tabù" e, di contro, l’unitarietà della garanzia patrimoniale di cui
all’art. 2740 c.c. non può valere come un "dogma sacro ed
intangibile" del nostro ordinamento.
Per tutte le considerazioni
sin qui svolte, il trust "interno" costituito da T. G. (settlor) che
vede la convenuta Società Fiduciaria come trustee non può essere tacciato di
invalidità: esso soddisfa i requisiti richiesti dalla Convenzione de L’Aja per
il suo riconoscimento (con la conseguente realizzazione degli effetti propri
del negozio secondo la legge scelta dal disponente oltre che della segregazione
rispetto al patrimonio del trustee ex art. 11), non appare contrastante con
norme imperative inderogabili o di applicazione necessaria o con principi di
ordine pubblico e, anche in assenza di qualsivoglia allegazione dell’attrice,
non può dirsi costituito in frode all’ordinamento interno.
La domanda principale di L.
M. deve essere, pertanto, rigettata.
3. Fermo restando quanto
detto sulla validità ed efficacia dell’atto istitutivo di trust, occorre ora
esaminare la questione relativa al trasferimento dei beni dal settlor al
trustee, atto che nel citato negozio trova causa, ma che ne è separato
logicamente (anche se non materialmente in questo caso).
La validità del trasferimento
deve essere sindacata in base alla normativa interna come prevede, tra l’altro,
l’art. 4 della Convenzione de L’Aja: in particolare, l’attrice sostiene che la
cessione al trustee sia contraria alle norme del codice civile sul regime di
comunione legale tra coniugi, avendo il T. G. disposto illegittimamente di beni
rientranti nell’elencazione di cui all’art. 177 c.c.
E’ indispensabile, prima di
passare all’esame delle doglianze della L. M. , stabilire se i beni sui quali l’attrice
avanza pretese costituiscano oggetto di comunione legale oppure no: data per
pacifica tra le parti la vigenza del regime patrimoniale di comunione in
costanza di matrimonio (peraltro, il matrimonio è stato celebrato il 28/6/1975
e non risulta che i coniugi abbiano optato, all’entrata in vigore della L.
151/1975, per il diverso regime di separazione dei beni) e rilevato il
carattere inequivoco dell’art. 191 c.c. secondo cui "la comunione si
scioglie … per la separazione personale", si rilevano, nella causa,
opposte interpretazioni sul momento in cui sia avvenuto il mutamento di status
dei coniugi T. G. e L. M. .
L’attrice sostiene che la
separazione personale si sia realizzata con il passaggio in giudicato della
sentenza della Corte d’Appello di Bologna (emessa il 20/6/2001 e passata in
giudicato nel novembre dello stesso anno), mentre il convenuto offre
interpretazioni alternative facendo risalire la separazione giudiziale (o,
quantomeno, i suoi effetti) e lo scioglimento della comunione legale alla
comparizione dei coniugi nell’udienza ex art. 708 c.p.c. (in data 12/1/1994) o
alla presentazione del ricorso per la separazione.
L’accoglimento dell’una o
dell’altra tesi non è questione di poco conto se si considerano le circostanze
del caso concreto: il trasferimento al trustee di ½ degli immobili in
Monghidoro e Dimaro è visto come un’illecita cessione di quote della comunione
legale dalla L. M. e come una legittima disposizione di quote di comunione
ordinaria (sorta in seguito alla separazione) dal T. G. ; inoltre, l’attrice
sostiene che lo stabile in Palazzo M. a Bologna (acquistato dal T. G. con atto
del 20/4/1994 registrato il 6/5/1994 e, quindi, nel corso del giudizio di I
grado sulla separazione personale) sia oggetto di comunione legale perché
comprato in vigenza di tale regime, mentre il convenuto afferma l’esatto
contrario e così difende anche l’atto di conferimento nel trust (realizzato il
29/9/1999 e registrato il 26/10/1999 e, quindi, in pendenza dell’appello proposto
dall’odierna attrice).
Riguardo al momento in cui si
verifica la separazione personale tra i coniugi, questo Giudice ritiene di
aderire all’orientamento "granitico" della giurisprudenza di
legittimità secondo il quale la separazione personale che produce lo
scioglimento della comunione è quella consensuale omologata o quella giudiziale
consacrata nella relativa sentenza passata in giudicato, mentre nessuna
efficacia sullo status possono spiegare i provvedimenti presidenziali resi nell’udienza
ex art. 708 c.p.c. (Cass. 7/5/1987 n. 4325; Cass. 29/11/1990 n. 560; Cass.
11/7/1992 n. 8463; Cass. 17/12/1993 n. 12523; Cass. 7/3/1995 n. 2652; Cass.
18/9/1998 n. 9325; Cass. 5/10/1999 n. 11036; Cass. 27/2/2001 n. 2844);
peraltro, la predetta interpretazione giurisprudenziale trova conferma anche
nell’insegnamento della Corte Costituzionale (ordinanza del 22/6/1988-7/7/1988
n. 795) secondo cui "non solo la separazione di fatto dei coniugi, ma
nemmeno i provvedimenti temporanei ex art. 708 cod. proc. civ. non sono
previsti dall’art. 191 come cause di scioglimento della comunione [mancando] in
questi casi un accertamento formale definitivo della cessazione dell’obbligo di
convivenza e di reciproca collaborazione … Il carattere temporaneo del
provvedimento presidenziale impedisce che la situazione dei coniugi
provvisoriamente autorizzati a vivere separatamente nelle more del giudizio di
separazione possa essere equiparata a quella dei coniugi legalmente separati, e
dunque esclude che il perdurare per essi del regime di comunione dei beni possa
costituire una violazione dell’art. 3 Cost."
Nel sistema normativo che
regola il regime patrimoniale della famiglia, come l’atto di matrimonio vale a
costituire la comunione legale fra i coniugi, così la sentenza di separazione
produce l’effetto di scioglierla: se non appaiono idonee ad incidere su tale
assetto patrimoniale la separazione consensuale e di fatto, cui non faccia
seguito il decreto di omologazione o una convenzione matrimoniale, così,
egualmente, nessun effetto può derivare dal provvedimento emesso, ex art. 708
c.p.c., dal Presidente del Tribunale nel procedimento di separazione, non solo
per il carattere provvisorio di questo provvedimento (la cui esecutività, per
il combinato disposto degli artt. 474 c.p.c. e 189 disp. att. c.p.c., dura
finché non sia concluso il processo di separazione ovvero non intervenga una
sua modifica), ma anche perché incapace, per il suo stesso contenuto, di
incidere comunque nel regime della comunione legale, il cui scioglimento, anche
a tutela dell’affidamento dei terzi, è collegato, nella previsione normativa
(art. 191 c.c.) e secondo un’interpretazione sistematica, all’unico atto idoneo
ad accertare formalmente e definitivamente la cassazione dell’obbligo di
convivenza e di reciproca collaborazione e, cioè, al passaggio in giudicato
della relativa sentenza (da qualificarsi - secondo la dottrina e la
giurisprudenza citata - come sentenza costitutiva "i cui effetti non
possono prodursi se non dal momento in cui questa passa in giudicato").
L’assunto della retroattività
della separazione dall’epoca dell’adozione dei provvedimenti di cui all’art.
708 comma 3° c.p.c. (nell’ipotesi dell’autorizzazione dei coniugi all’interruzione
della convivenza), sia pure con limitato riguardo alla comunione legale, non è
conciliabile con la natura temporanea di tali provvedimenti, revocabili e
modificabili in corso di giudizio, connotazione che è "in radice"
ostativa alla ricollegabilità ad essi dello scioglimento della comunione,
tenendo conto che la comunione medesima non può cessare "allo stato",
salva successiva diversa determinazione, e che, comunque, un bene non può
essere di proprietà di uno solo o di entrambi i coniugi sulla base di scelte
provvisorie ed urgenti, a posteriori emendabili.
Inoltre, dall’espressa
previsione dell’art. 193 comma 4° c.c. (che fa retroagire al momento della
domanda gli effetti della separazione giudiziale dei beni), è lecito desumere
che tale norma si sia resa necessaria per derogare al principio secondo il
quale le sentenze costitutive producono effetti solo al passaggio in giudicato
(in pratica: ubi lex voluit, dixit): poiché l’art. 191 c.c. non contiene un’omologa
norma derogatoria, il menzionato principio deve trovare piena applicazione.
Infine, in ordine all’osservazione
del convenuto sul venir meno, dopo i suddetti provvedimenti ex art. 708 c.p.c.,
del sostrato logico della comunione, nonché sull’incongruenza della sua
estensione a beni acquistati quando il rapporto coniugale è già entrato in
crisi, va considerato che le relative circostanze potrebbero giustificare
scelte diverse del legislatore (e ne dà conto la difesa del T. G. producendo
proposte legislative di riforma), ma non autorizzano il superamento dell’inequivoco
tenore di norme, che fanno coincidere la durata della comunione con la durata
del matrimonio (art. 177 c.c.), non quindi della convivenza, e contemplano poi,
in via di deroga, solo il sopraggiungere della separazione (art. 191 c.c.).
Concludendo, per le
considerazioni sin qui esposte e fatte salve le precisazioni dei successivi
capi di questo provvedimento, si deve ritenere che nella vigenza del regime di
comunione legale tra i coniugi T. G. e L. M. :
A) sia stato compiuto l’acquisto
della porzione di Palazzo M. a Bologna;
B) il T. G. abbia disposto del
predetto fabbricato e delle quote di ½ sugli stabili di Monghidoro e Dimaro,
conferendoli nel trust con atto del 29/9/1999 registrato in data 26/10/1999.
E’ corollario della
conclusione ora tratta il fatto che i fabbricati in Monghidoro e Dimaro formassero
oggetto della comunione legale anche nel momento in cui il T. G. ne ha
disposto.
Non altrettanto pacifica è la
definizione dell’appartenenza alla comunione dell’appartamento in Palazzo M. a
Bologna, perché il convenuto, nelle proprie difese, ha eccepito che l’immobile
deve essere considerato bene personale ex art. 179 comma 1° lett. f) e comma 2°
c.c.: si impone, pertanto, l’accertamento di tale affermazione, che, qualora
verificata, ricondurrebbe l’atto di disposizione compiuto dal T. G. nella fattispecie
disciplinata dagli artt. 185 e 217 c.c. ed eliminerebbe "in radice"
il presupposto (artt. 177 lett. a) e 184 c.c.) su cui si fonda la pretesa dell’attrice.
4. La regula iuris dell’art.
179 lett f) c.c. stabilisce che "non costituiscono oggetto della comunione
e sono beni personali del coniuge … i beni acquisiti con il prezzo del
trasferimento dei beni personali sopraelencati o col loro scambio, purché ciò
sia espressamente dichiarato all’atto dell’acquisto"; il comma 2° della
medesima disposizione soggiunge: "L’acquisto di beni immobili … effettuato
dopo il matrimonio, è escluso dalla comunione, ai sensi delle lettere c), d),
ed f) del precedente comma, quando tale esclusione risulti dall’atto di
acquisto se di esso sia stato parte anche l’altro coniuge".
T. G. sostiene di aver
acquistato (in data 20/4/1994 e al prezzo di Lire 530.000.000) la porzione di
Palazzo M. in via Carbonesi a Bologna utilizzando denaro proveniente dal prezzo
di vendita della propria quota (2/3) di proprietà dello stabile di via
Valdossola 25-Bologna (avvenuta il 14/3/1994 per l’importo complessivo di Lire
300.000.000) e dal mutuo ipotecario stipulato in data 23/6/1994 per la somma di
Lire 200.000.000, successivamente estinto (il 31/12/1997) grazie alla vendita
dell’altro cespite immobiliare personale di via delle Tofane 44-Bologna
(avvenuta il 26/11/1997 per l’importo complessivo di Lire 140.000.000).
Esaminando l’atto del
20/4/1994 (documento nr. 3 dell’attrice) si può agevolmente rilevare che L. M.
(all’epoca coniugata col T. G. , per quanto illustrato al capo precedente) non
ha partecipato alla compravendita, che nessuna affermazione è stata fatta dall’odierno
convenuto sulla provenienza del denaro impiegato per l’acquisto e, infine, che
T. G. ha espressamente dichiarato "di essere coniugato, ma in corso di
separazione giudiziale dalla propria coniuge".
Plurime ragioni, in diritto e
in fatto, portano ad escludere che l’immobile de quo costituisca bene personale
del convenuto ex art. 179 lett. f) c.c.:
- l’odierna attrice non ha
partecipato all’atto del 20/4/1994 rendendo la dichiarazione ricognitiva
richiesta dall’art. 179 c.c.
Dall’analisi della lettera
dell’art. 179 c.c., si evince che, nel caso di acquisto di beni mobili con lo
scambio di beni personali o col prezzo derivante dall’alienazione di beni
personali, il coniuge acquirente ha l’onere di dichiarare la provenienza
personale del denaro o del bene utilizzato (comma 1°), mentre, nel caso di beni
immobili o di beni mobili registrati, in luogo della dichiarazione del coniuge
acquirente, occorre la partecipazione del coniuge non acquirente all’atto e la
sua dichiarazione di riconoscimento che il denaro o il bene utilizzato per l’acquisto
appartiene personalmente all’altro coniuge (comma 2°, limitatamente all’ipotesi
di reinvestimento di denaro personale o scambio di bene personale).
Sul significato e sulla
natura delle dichiarazioni previste dal 1° e dal 2° comma dell’art. 179 c.c. c’è
vivace controversia in dottrina e giurisprudenza.
Secondo un primo
orientamento, che si fonda sia sulla lettera della legge sia sulla
valorizzazione della comunione legale come regime generale dei rapporti
patrimoniali tra coniugi, la dichiarazione della provenienza personale del
denaro o del bene oggetto dello scambio è condizione necessaria (ma non
sufficiente: l’altra condizione è data dall’effettiva ricorrenza dei
presupposti della surrogazione) affinché il bene venga sottratto alla comunione
legale. Se il coniuge acquirente (nell’ipotesi del comma 1°) omette di
dichiarare che il denaro o il bene utilizzato per l’acquisto è personale, il
bene acquisito ricadrà inevitabilmente in comunione legale (in mancanza della
dichiarazione, si deve ritenere che il coniuge acquirente abbia voluto
attribuire alla comunione legale il prodotto della surrogazione di beni
personali; così, Tribunale Milano 21 dicembre 1981); il medesimo effetto
deriverà dalla mancata partecipazione del coniuge non acquirente all’atto di
acquisto per riconoscere la natura personale dell’acquirendo immobile o bene
mobile registrato e la sua esclusione dalla comunione legale (comma 2°).
L’orientamento opposto alla
tesi ora delineata è seguito dalla Suprema Corte (Cass., Sez. II, 8 febbraio
1993 n. 1556, a proposito di beni immobili; Cass., Sez. I, 18 agosto 1994 n.
7437, riguardo a beni mobili non registrati), secondo cui la predetta
partecipazione (per gli immobili e i beni mobili registrati) non è necessaria
per non far ricadere il bene acquistato in comunione legale, quando sia
obiettivamente certo che l’acquisto realizzi il reinvestimento di denaro o beni
personali (Cass. 1556/93, che ammette a dimostrare che, pur non avendo il
coniuge preso parte all’atto e reso la dichiarazione ricognitiva sulla natura
personale dei denari versati o dei beni trasferiti per l’acquisto, la provenienza
personale effettivamente sussisteva), mentre (per i beni mobili) la
dichiarazione del coniuge acquirente ha lo scopo di rendere conoscibile ai
terzi ed all’altro coniuge la provenienza del denaro o del bene utilizzato solo
nel caso in cui possa essere obiettivamente incerto se l’acquisto realizzi il
reinvestimento di denaro avuto in donazione o in eredità o come frutto dello
scambio di beni ugualmente personali.
La tesi del Supremo Collegio
muove evidentemente da un presupposto ideologico: i beni acquistati per effetto
del reinvestimento di beni personali risentono ontologicamente di tale
provenienza ed assumono automaticamente anch’essi natura personale per una
sorta di "caratteristica genetica", consistente appunto nella
derivazione personale del denaro o del bene utilizzato come prezzo dell’acquisto;
così, se proprio il coniuge intende includere nella comunione legale il bene
acquistato deve fare intervenire anche l’altro coniuge all’atto dell’acquisto,
in modo che entrambi si rendano cointestatari del bene (nella sentenza Cass.
7437/1994, si giunge infatti a sostenere che per conseguire l’obiettivo di far
passare, al momento del reinvestimento, i beni personali in comproprietà dell’altro
coniuge, il coniuge acquirente "non ha altro che da consentire la
cointestazione del bene anche all’altro coniuge, mezzo questo molto più chiaro
e consapevole rispetto a quello consistente semplicemente nell’omettere la
dichiarazione di cui alla lettera f) dell’art. 179 c.c., ben potendo tale
omissione essere dovuta a pura dimenticanza o, comunque, a fattori estranei
alla volontà di mettere in comunione anche beni che, invece, si avrebbe il
diritto di conservare come personali").
Questo Giudice ritiene di non
poter aderire all’orientamento della Suprema Corte espresso nella sentenza dell’11
febbraio 1993 n. 1556, perché esso non appare conforme alla ratio della legge,
alla sua lettera ed al coordinamento sistematico dei diversi istituti vigenti
in materia di rapporti patrimoniali tra coniugi.
La ratio della normativa
sulla comunione legale consiste nel rendere entrambi i coniugi vicendevolmente
partecipi delle questioni patrimoniali, a differenza della separazione dei
beni, in cui, invece, ciascun coniuge (fermi gli obblighi di contribuzione nell’interesse
della famiglia) mantiene un proprio patrimonio separato ed un’autonomia
dispositiva in relazione ad esso.
L’art. 177 lett. a) c.c.
contiene una norma di carattere generale che sancisce l’appartenenza alla
comunione legale di tutti gli acquisti compiuti dai coniugi anche
separatamente. Rispetto a tale precetto normativo, l’art. 179 c.c. opera in
senso meramente limitativo e, di conseguenza, la riduzione dell’ambito della
norma non dovrebbe effettuarsi oltre il puntuale disposto della norma stessa,
che sancisce un preciso onere formale al fine di consentire l’esclusione dell’acquisto
dalla comunione legale.
Nel regime di separazione dei
beni, i coniugi sono ovviamente liberi di rendersi congiuntamente acquirenti di
un bene, stabilendo, così, una comunione ordinaria sul medesimo. La
considerazione svolta dalla Suprema Corte - secondo la quale il coniuge può
consentire l’inclusione in comunione legale del reinvestimento di beni
personali mediante la cointestazione del bene - potrebbe essere interamente
riproposta nella fattispecie di coniugi in regime di separazione, con la
conseguenza che, nella prospettiva della Corte, i beni personali sembrerebbero
non costituire tanto un limite oggettivo alla comunione legale, ma piuttosto l’oggetto
di un distinto regime di separazione, che opererebbe tra i coniugi
contestualmente e parallelamente alla comunione legale. Così opinando, la
previsione normativa secondo cui, in regime di comunione legale, gli acquisti
compiuti dai coniugi separatamente ricadono in comunione (art. 117 lett. a)
c.c.) si rivelerebbe un’affermazione di mero principio, posto che, a fronte di
qualsivoglia acquisto, occorrerebbe, di volta in volta, accertare se esso sia
stato compiuto nell’ambito dei beni o dei proventi oggetto della comunione
oppure di quelli appartenenti personalmente ed esclusivamente al coniuge e
facenti parte, pertanto, di un separato patrimonio personale.
Sono evidenti, infine, le
ripercussioni di una tale conclusione nei confronti della tutela dei terzi e,
in particolare, dei creditori della comunione legale, ai quali potrebbero
opporsi le limitazioni ex art. 190 c.c. in assenza di qualsivoglia regime
pubblicitario: difatti, i creditori per le obbligazioni ex art. 186 c.c. non
potrebbero mai fare affidamento su un immobile acquistato separatamente dal
coniuge in regime di comunione legale, perché si potrebbe dimostrare, anche a
posteriori ed in contrasto con le emergenze dell’atto trascritto, che la
mancata partecipazione dell’altro coniuge all’acquisto non esclude la natura
personale del bene e in tal caso l’immobile (personale) potrebbe rispondere dei
debiti della comunione solo nei limiti dell’art. 190 c.c.
La partecipazione del coniuge
all’atto di acquisto e l’assenso all’esclusione del bene dalla comunione legale
costituiscono, dunque, ex art. 179 comma 2° c.c., requisiti necessari affinché
il bene acquistato separatamente possa essere considerato personale (come
detto, l’altro requisito è l’effettiva ricorrenza della surrogazione); ne dà
conferma anche un recente precedente giurisprudenziale (Cass. Sez. I 27/2/2003
n. 2954) che così statuisce: "Perché il bene acquistato (mobile o
immobile) sia escluso dalla comunione occorre che la causa di esclusione, oltre
a sussistere effettivamente, risulti anche dall’atto. E ciò per un’evidente ragione
di tutela dell’affidamento da parte dei terzi".
Per quanto esposto, la
mancata partecipazione di L. M. , coniuge in comunione legale, all’atto di
acquisto compiuto il 20/4/1994 da T. G. e l’omissione della dichiarazione
ricognitiva sull’origine personale del denaro impiegato impediscono di
annoverare l’appartamento di via Carbonesi 5-7 a Bologna tra i beni personali
del convenuto: anch’esso, come gli immobili in Monghidoro e Dimaro costituisce
(melius, costituiva all’epoca dell’atto dispositivo del 29/9/1999) oggetto
della comunione legale tra i coniugi.
- non ricorrono i presupposti
della surrogazione (art. 179 c.c.) perché il bene non risulta acquisito con il
prezzo del trasferimento di beni personali
La tesi secondo cui il denaro
ricevuto a mutuo dalla Carimonte nel 1994 per l’acquisto dell’appartamento in
Palazzo M. (documento nr. 5 del convenuto) costituirebbe "bene
personale" perché detto mutuo è stato ripianato (nel 1997) col versamento
di una somma percepita dalla vendita dello stabile di via delle Tofane
44-Bologna (avvenuta, appunto, nel 1997) non ha fondamento: un bene è personale
perché acquistato coi frutti della cessione di un altro cespite personale e,
per il tenore letterale della disposizione (che - come detto - richiede anche
la partecipazione dell’altro coniuge e un’espressa dichiarazione al momento
dell’acquisto), tale ultimo trasferimento deve essere necessariamente avvenuto
in un tempo anteriore; in altri termini, un bene comprato da un coniuge in
comunione non può divenire "personale" a posteriori per effetto di un’operazione
di cessione di beni personali realizzata dopo l’atto di acquisto (nel caso,
dopo ben 3 anni) sol perché l’acquisto è stato reso intanto possibile dall’
"intermediazione temporale" di un istituto di credito.
Pur volendo aderire a tale
ardita tesi (contraddetta anche dalla tassatività delle ipotesi di esclusione
ex art. 179 c.c.: Cass. 2954/2003), la conclusione in fatto non muta:
ammettendo (in via meramente ipotetica) che l’introito per la cessione dei beni
personali sia stato di complessive Lire 340.000.000 (come emerge dagli atti di
vendita dei 2/3 dello stabile di via Valdossola 25-Bologna e dell’intero
fabbricato in via delle Tofane 44-Bologna), l’appartamento in Palazzo M. è
stato acquistato per Lire 530.000.000, somma che rende manifesta l’insufficienza
del denaro acquisito dai trasferimenti di beni propri per il compimento dell’acquisto
del 20/4/1994.
Anche per tali ragioni,
dunque, non può in alcun modo ritenersi sussistente il legame descritto dall’art.
179 comma 1° lett. f) e comma 2° c.c. tra i beni parafernali del convenuto e l’immobile
de quo, il quale, al contrario, è da annoverarsi tra i beni della comunione
legale tra i coniugi.
5. Una volta stabilito che
tutti gli immobili per cui è causa formavano oggetto della comunione legale
(che, secondo Cass. Sez. II 2/2/1995 n. 1252, prescinde rigorosamente dal dato
formale, ossia dall’intestazione formale dei beni nei pubblici registri) quando
il T. G. ne ha disposto conferendoli nel trust, restano da esaminare le
conseguenze di tale disposizione che è avvenuta senza l’autorizzazione della L.
M. (come risulta evidente dall’atto istitutivo di trust, documento nr. 2 dell’attrice).
L’attrice sostiene la nullità
assoluta della cessione delle quote della comunione legale sui fabbricati in
Monghidoro e Dimaro e l’annullabilità del trasferimento dello stabile in
Palazzo M. a Bologna.
Riguardo alla prima tesi
(dell’annullabilità si parlerà nel capo successivo), si osserva che non rientra
tra gli atti di disposizione, che possono essere compiuti dai coniugi in
comunione legale, l’alienazione dell’intera "quota" spettante a
ciascun coniuge sul patrimonio complessivo: la comunione legale non può essere
considerata una fattispecie di contitolarità di diritti, sicché il complesso
patrimoniale, costituito dall’insieme dei cespiti facenti parte delle categorie
indicate nell’art. 177 c.c., non è oggetto di un sovraordinato diritto di
ciascun coniuge, che differisca dal diritto avente ad oggetto ciascun bene.
Anche in una prospettiva di "contitolarità", d’altra parte, la Corte
Costituzionale (sentenza n. 311/1988) ha sottolineato che i coniugi sono
solidalmente titolari, in quanto tali, di un diritto avente ad oggetto i beni
della comunione e che la quota non rappresenta un elemento strutturale dell’istituto.
Conseguentemente, deve escludersi che il coniuge possa alienare ad un terzo la
sua partecipazione nella comunione legale, determinando l’inconcepibile effetto
giuridico di una comunione legale tra soggetti non coniugi.
Costituisce autorevole avallo
delle suesposte considerazioni la recente sentenza Cass. Sez. I 19/3/2003 n.
4033 (che riprende le argomentazioni già svolte in Cass. Sez. II 14/11/1997 n.
284): "La peculiarità della comunione legale dei beni tra coniugi …
consiste nel fatto che questa, a differenza della comunione ordinaria, come ha
affermato la Corte Costituzionale con la sentenza 10/3/1988 n. 311 nel
dichiarare infondata la questione di legittimità dell’art. 184 cod. civ., non è
una comunione per quote in cui ciascuno dei partecipanti può disporre del
proprio diritto nei limiti della quota, bensì una comunione senza quote nella
quale i coniugi sono solidamente titolari di un diritto avente per oggetto i
beni di essa e non è ammessa la partecipazione di estranei, sicché la quota,
caratterizzata dalla indivisibilità e dalla indisponibilità, ha soltanto la
funzione di stabilire la misura entro cui tali beni possono essere aggrediti
dai creditori particolari (art. 189 c.c.), la misura della responsabilità sussidiaria
di ciascuno dei coniugi con propri beni personali verso i creditori della
comunione (art. 190 c.c.) e, infine, la proporzione in cui, sciolta la
comunione, l’attivo e il passivo saranno ripartiti tra i coniugi o i loro eredi
(art. 194 c.c.), (Cass. 284/97). Ne consegue che, nei rapporti con i terzi,
ciascun coniuge, mentre non ha diritto di disporre della propria quota, perché
ciò avrebbe l’inconcepibile effetto di far entrare nella comunione degli
estranei, può tuttavia disporre, in forza di detta titolarità solidale dell’intero
bene comune (Cass. 284/97). Alla luce di tale principio va osservato che il
codice civile stabilisce, nell’ambito della comunione familiare, una disciplina
differenziata per gli atti relativi ai beni immobili ed ai mobili registrati
rispetto a quelli relativi a tutti gli altri beni ed in particolare a quelli
mobili. Per i primi, l’art. 184 comma 1 c.c., prevede per il loro compimento il
consenso dell’altro coniuge, conformemente al modulo dell’amministrazione
congiuntiva adottato dall’art. 180, comma 2, cod. civ. per gli atti di
straordinaria amministrazione. Tale consenso si pone come negozio (unilaterale)
autorizzativo, ma non nel senso di atto che attribuisce un potere, bensì nel
senso di atto che rimuove un limite all’esercizio di tale potere, con l’ulteriore
conseguenza che esso rappresenta un requisito di regolarità del procedimento di
formazione dell’atto di disposizione la cui mancanza, ove si tratti di bene
immobile o di bene mobile registrato, si traduce in un vizio del negozio da far
valere, giusta il disposto del citato art. 184, entro l’anno dalla data di
effettiva conoscenza dell’atto e, in ogni caso, dalla data della sua
trascrizione oppure, ove l’atto non sia stato trascritto (o non sia
trascrivibile) e non se ne sia avuta conoscenza prima dello scioglimento della
comunione, dalla data di tale scioglimento (Cass. 284/97). … Tale disposizione
corrisponde alla natura peculiare della comunione legale dinanzi evidenziata in
virtù della quale ciascun coniuge dispone della piena titolarità di
disposizione del bene comune per l’intero che, se per quanto concerne i beni
immobili e quelli mobili registrati necessita del consenso dell’altro coniuge
al fine di non rendere l’atto dispositivo annullabile, essendo tale atto equiparato
ad un atto di straordinaria amministrazione ai sensi dell’art. 180 c.c. e come
tale sottoposto a particolare vincolo cautelativo da parte del legislatore per
impedire che uno dei coniugi possa unilateralmente depauperare il patrimonio
familiare".
Nel caso de quo, tuttavia,
non si verte nell’ipotesi di cessione dell’intera quota di comunione legale
(atto certamente nullo), bensì nella fattispecie di cessione di una quota su
singoli beni facenti parte della comunione dei quali il T. G. , proprio in forza
delle suddette osservazioni, avrebbe potuto disporre anche per l’intero. [Qui
il tribunale rileva che ciò di cui il marito ha disposto nel caso sub (1) non è
la sua quota su tutta la comunione legale, atto che sarebbe stato nullo, ma una
quota su singoli beni: gli è però che si tratta della… sua quota sui beni in
comunione legale! Comunque il Tribunale fa rientrare tale ipotesi, come quella
della vendita dell’intero bene di Bologna, sotto l’art. 184 c.c.]
Rileva un’autorevole
dottrina, che in tale ipotesi, non si configura uno scioglimento della
comunione legale relativamente al bene oggetto dell’atto di alienazione, bensì
un atto di alienazione, riguardante un bene della comunione, non già per l’intero
ma nei limiti di una quota: sarebbe illogico ritenere che - mentre l’alienazione
di un intero bene, da parte di uno solo dei coniugi, è valida ed efficace
(salve, in ipotesi, le conseguenze dell’art. 184 c.c.) - l’alienazione di una
quota di quello stesso bene sia, al contrario, assolutamente inefficace;
peraltro, nulla impedisce ai coniugi di essere comproprietari di beni insieme a
terzi, salva l’applicazione del regime di comunione legale relativamente alla
quota posseduta. Difatti, se i coniugi possono ab origine detenere in comunione
legale quote di un bene, allo stesso modo è ammissibile che un bene, in
precedenza oggetto di comunione legale per l’intero, divenga, poi, oggetto di
comproprietà con terzi. Nel caso in cui l’alienazione della quota sia compiuta
da uno dei coniugi separatamente, valgono le conseguenze stabilite dall’art.
184 c.c. per le alienazioni solitarie (coi limiti temporali previsti per l’impugnazione):
i rapporti giuridici tra i coniugi ed il terzo comproprietario saranno
regolati, a loro volta, dalle norme sulla comunione ordinaria, restando
operante, invece, il regime di comunione legale quanto alla quota ancora
appartenente ai coniugi.
Con altre parole, poiché il
coniuge è "proprietario solidale" del bene in comunione (Corte Cost.
311/1988), lo stesso è legittimato a disporne a favore di un terzo per l’intero
o anche in parte (nella misura di 1/2, ma anche di 1/3 o di 1/4); ove l’atto
dispositivo sia stato compiuto in carenza dell’autorizzazione ex art. 184 c.c.,
l’altro coniuge potrà, entro un anno, ottenerne l’annullamento; in mancanza di
impugnazione, tuttavia la cessione si consoliderà col duplice effetto di
"restringere" l’oggetto della comunione legale alla quota residua e
di costituire una comunione ordinaria tra il terzo da un lato e i due coniugi
dall’altro (come si esprime la dottrina,infatti, "nessuno può concepire
una comunione legale tra soggetti che non siano coniugi, ma nessuno può
impedire, parimenti, che i coniugi possiedano, in comunione legale, una quota
di comproprietà di beni intestati, per le restanti quote, a terzi;
conseguentemente, non si può escludere che una situazione di comproprietà
ordinaria tra i coniugi ed un terzo, salva l’applicazione dell’art. 184 c.c.,
possa essere il frutto di un atto di alienazione compiuto da uno dei coniugi
senza il consenso dell’altro").
Non può, dunque, ritenersi
nullo il trasferimento, realizzato dal T. G. , delle quote di ½ sugli immobili
di Monghidoro e Dimaro: tale atto è, piuttosto, annullabile (alle condizioni
previste dall’art. 184 c.c.) e - come si vedrà - nel caso specifico la diversa
qualificazione data alla causa di invalidità non influisce in maniera
sostanziale sulla decisione finale.
Invero, la L. M. ha chiesto l’annullamento
del trasferimento delle quote sui citati edifici adducendo a fondamento della
domanda pretese ragioni di nullità e non di annullabilità; tuttavia,
conformemente al costante orientamento giurisprudenziale (da ultimo Cass. Sez.
Lav. 16/7/2002 n. 10316), si ritiene che, qualora non si pongano a fondamento
della pronuncia fatti giuridici costitutivi diversi da quelli dedotti dall’attore
e dibattuti nel giudizio (così integrando o sostituendo in tutto o in parte gli
elementi della causa petendi), l’accoglimento della domanda sulla base di una
categoria d’invalidità diversa da quella prospettata dalla parte non
costituisca violazione dell’art. 112 c.p.c., ma, piuttosto, concreto esercizio
del potere/dovere di riqualificazione della domanda attribuito al giudice in
base al principio iura novit curia (art. 113 c.p.c.).
6. Tutti gli immobili sui
quali verte la causa (in Bologna, in Monghidoro e in Dimaro) sono assoggettati
al medesimo regime patrimoniale di comunione legale e, parimenti, al sistema
previsto ex lege per la loro amministrazione: ex art. 180 comma 2° c.c. il
compimento degli atti eccedenti l’ordinaria amministrazione è attribuito ai
coniugi congiuntamente.
Seguendo il filone
giurisprudenziale che ha individuato come atti di straordinaria amministrazione
non soltanto quelli di alienazione di beni, ma anche, più in generale, quelli
che possano comunque incidere direttamente o indirettamente sul patrimonio (la
promessa di vendita di bene immobile, secondo Cass. 21/12/2001 n. 16177; la
riscossione dell’indennità di espropriazione di un fondo comune, per Corte App.
Napoli 19/6/1993; il conferimento di un immobile in società, in base a Cass.
22/7/1987 n. 6369), questo Giudice ritiene che il trasferimento dei suddetti
stabili nel trust, che - come già detto - comporta l’uscita del bene dal
patrimonio del settlor, debba essere considerato atto eccedente l’ordinaria
amministrazione, anche in ragione del rilevante valore economico dei beni
affidati al trustee.
Emerge chiaramente dagli atti
(e, anzi, è proprio questo il presupposto dell’azione dell’attrice) che l’atto
istitutivo di trust, col quale T. G. ha pure trasferito al trustee gli immobili
per cui è causa, è stato compiuto in assenza di autorizzazione del coniuge L.
M. (nell’atto notarile si legge, tra l’altro, che il settlor ".dichiara di
essere coniugato, ma giudizialmente separato dalla propria coniuge";
documento nr. 2 dell’attrice).
Il disposto dell’art. 184
c.c. è inequivocabile: "Gli atti compiuti da un coniuge senza il
necessario consenso dell’altro coniuge e da questo non convalidati sono
annullabili se riguardano beni immobili … L’azione può essere proposta dal
coniuge il cui consenso era necessario entro un anno dalla data in cui ha avuto
conoscenza dell’atto e in ogni caso entro un anno dalla data di
trascrizione".
Poiché l’attrice ha agito nel
termine previsto dalla norma (il trust è stato istituito il 29/9/1999, mentre l’azione
giudiziale è stata intrapresa con atto di citazione notificato il 3/7/2000), il
conferimento in trust degli immobili che formavano oggetto della comunione (l’appartamento
di Bologna e le quote, ciascuna di ½, sui fabbricati in Monghidoro e in Dimaro)
deve essere annullato, ferma restando la validità delle altre disposizioni del
settlor (non contestate in questa sede).
7. Per la novità e la
complessità delle questioni che sono state sollevate da tutte le parti e
affrontate nel corso del giudizio, pare opportuno, ex art. 92 comma 2° c.p.c.,
compensare integralmente le spese di lite.
P.Q.M.
IL TRIBUNALE DI BOLOGNA -
SEZIONE PRIMA CIVILE
definitivamente pronunciando
sulla causa nr. 9634/2000 R.G. promossa da L. M. nei confronti di T. G. e di
Società Fiduciaria, con sentenza provvisoriamente esecutiva per legge, ogni
altra e diversa domanda, istanza, eccezione e difesa disattesa e respinta, così
provvede:
· rigetta la domanda
principale avanzata dall’attrice e dichiara la validità ed efficacia dell’atto
istitutivo di trust compiuto il 29/9/1999 e registrato in data 26/10/1999;
· annulla il trasferimento,
realizzato da T. G. al trustee Società Fiduciaria (con atto del 29/9/1999 a
ministero del Notaio Dr. Mauro Trogu registrato al 3° Ufficio delle Entrate di
Bologna il 26/10/1999 al nr. 3060 - serie 1A), limitatamente alla porzione del
fabbricato denominato "Palazzo M.", ubicato in Bologna, alla quota di
½ delle porzioni del fabbricato sito in Monghidoro di Bologna con le relative
pertinenze e alla quota di ½ delle porzioni del fabbricato sito in Dimaro di
Trento;
· compensa, per intero, le
spese del giudizio tra tutte le parti.
Bologna, lì 30 settembre 2003
Il Giudice
Dr.ssa Anna Maria Drudi
Sentenza redatta con la
collaborazione del Dott. Giovanni Fanticini, uditore giudiziario