«Divorzio breve», separazione legale
e comunione
legale tra coniugi
«Le divorce est un remède ; la
séparation n’est qu’un palliatif».
H. Coulon, Le divorce et
la séparation de corps, I, Paris, 1890, p. 2.
A quarant’anni esatti dalla
riforma (epocale: quella sì!) del 1975 il legislatore viene finalmente a
sciogliere uno dei tanti nodi lasciati irrisolti dalla disciplina della
comunione legale, che la dottrina non aveva certo tralasciato di segnalare con
viva (quanto inascoltata) insistenza. Troppo tardi per porre anche solo
limitato rimedio alla disaffezione mostrata in modo crescente verso un regime
che, pur certamente idoneo, in astratto, a fornire un congruo assetto patrimoniale
alle unioni volute dalle parti come tendenzialmente durevoli, venne
concretamente disciplinato in maniera approssimativa, lacunosa e
contraddittoria, senza trarre adeguato alimento e meditata ispirazione dalle
antiche, feconde e collaudate esperienze straniere. Anche questa novella sul
«divorzio breve» risente di uno scarso (o nullo) lavoro preparatorio di
approfondimento, clamorosamente squadernato dall’assenza di coordinamento con
la legge (di pochissimi mesi precedente!) sulla negoziazione assistita; per non
dire poi dell’evidente qui pro quo
che sta alla base della (in realtà inesistente) disciplina transitoria. Ferma
restando la considerazione sul carattere doveroso di tale tardivo intervento
normativo, lo studio si propone di indicare i principali problemi posti da
questa anticipazione del momento dello scioglimento del regime patrimoniale
legale, nelle sue varie interconnessioni con il tessuto normativo in cui la
stessa viene ad inserirsi (separazione giudiziale, separazione consensuale,
negoziazione assistita, riconciliazione, divorzio «immediato», procedure
divisorie, sistema pubblicitario, disciplina transitoria).
Sommario: 1. Introduzione. – 2. La decorrenza
degli effetti dello scioglimento del regime legale, in caso di separazione
personale. Le varie tesi proposte prima della riforma del 2015. – 3. Critica, sul piano delle conseguenze pratiche, della tesi
prevalente prima della riforma del 2015. La sua correttezza de lege lata. – 4. Segue. L’inaccettabilità della tesi che
proponeva l’estensibilità dell’art. 193 c.c. – 5.
L’udienza presidenziale di separazione ed i suoi rapporti con la cessazione del
regime legale. La differenza della tesi adottata nel 2015 rispetto a quella
dell’estensibilità dell’art. 193 c.c. – 6. I problemi
ermeneutici posti dalla riforma dell’art. 191 c.c., con riguardo
all’individuazione del momento di cessazione del regime legale. – 7. Il difetto di coordinamento con le disposizioni in tema di
negoziazione assistita. – 8. I problemi ermeneutici posti
dalla riforma dell’art. 191 c.c., con riguardo alla riconciliazione ed al caso
del c.d. «divorzio immediato». – 9. Il mancato intervento
in tema di proponibilità delle domande divisorie. Impostazione del problema. – 10. L’improponibilità della domanda di divisione in pendenza
del giudizio di separazione legale. – 11. Questioni
processuali circa la proponibilità della domanda divisoria nei giudizi di
separazione e divorzio. Il caso della separazione o del divorzio tra coniugi
che si trovavano già in regime di separazione dei beni. – 12. Il rilievo
entro la «prima udienza» dell’inesistenza delle ragioni di connessione. – 13. Il caso della separazione tra coniugi ancora in
comunione. Sulla non proponibilità di domande divisorie nell’ambito del
giudizio di separazione, neppure in via condizionale, prima della riforma del
2015. – 14. Segue.
Sulla non proponibilità di domande divisorie nell’ambito del giudizio di
separazione, neppure in via riconvenzionale, anche dopo la riforma del 2015. – 15. La procedibilità della domanda divisoria proposta in via
autonoma, per il sopraggiungere, durante il relativo procedimento, di una causa
di scioglimento della comunione. – 16. Gli effetti della
riforma del 2015 sul tema della proponibilità delle domande divisorie. – 17. L’intervento in tema di regime pubblicitario. – 18. Il regime transitorio delle nuove cause di cessazione
del regime legale.
Quale side
effect dell’introduzione del c.d. «divorzio breve», per effetto della l. 6 maggio
2015, n. 55 («Disposizioni in materia di scioglimento o di cessazione degli
effetti civili del matrimonio nonché di comunione tra i coniugi»), il nostro
legislatore ha deciso di porre il punto finale all’annosa questione della
determinazione del momento di cessazione del regime legale per effetto della
separazione personale dei coniugi. Tardiva resipiscenza, questa, di un
parlamento che, con quarant’anni esatti di ritardo, viene or ora ad eliminare
una delle principali ragioni (anche se non l’esclusiva) che hanno indotto la
stragrande maggioranza delle coppie italiane ad abbandonare, o a rifiutare sin ab initio, quel regime che ad esse era
stato «offerto» quale sistema patrimoniale coniugale ordinario [1].
Quarant’anni di trepidante attesa – e di elaborazioni
dottrinali e giurisprudenziali – non sono però, evidentemente, valsi (verrebbe
da dire, ironicamente, bastati?) a produrre una disciplina chiara e
soddisfacente in relazione ad una serie di punti critici.
Questi ultimi non si possono peraltro comprendere a
fondo nella loro problematicità se non si procede ad una previa ricapitolazione
dei termini in cui, prima dell’intervento in oggetto, si poneva la questione
della determinazione del dies a quo
della cessazione del regime comunistico per il caso di separazione legale; lo
stesso è a dirsi per il problema – che verrà trattato più avanti – della
proponibilità delle domande divisorie in seno alle procedure di separazione e
divorzio.
2. La
decorrenza degli effetti dello scioglimento del regime legale, in caso di
separazione personale. Le varie tesi proposte prima della riforma del 2015.
A differenza di quanto stabilito in ordine all’ipotesi
della separazione giudiziale dei beni, per la quale venne previsto che
l’instaurazione del regime separatista retroagisse alla proposizione della
domanda (art. 193, quarto comma,
c.c.), per le fattispecie previste dall’art. 191 c.c. il legislatore della riforma del 1975 omise di
specificare con precisione il momento a decorrere dal quale si sarebbe dovuto
produrre lo scioglimento della comunione. Il campo in cui la citata lacuna ha
certamente compiuto più danni è proprio quello dello scioglimento conseguente
alla separazione personale dei coniugi, attesa l’incidenza statistica del
fenomeno, tenuto conto della necessità, nella stragrande maggioranza dei casi –
allora come ora, pur dopo l’intervento normativo del 2015 – di esperire una
procedura di separazione personale legale, per poter addivenire allo scioglimento
o alla cessazione degli effetti civili del matrimonio [2].
Al riguardo, gli orientamenti espressi in dottrina e
in giurisprudenza erano fondamentalmente tre.
Il primo, per così dire più rigoroso, compattamente
sostenuto dalla giurisprudenza di legittimità [3], nonché da svariate decisioni di merito [4] e da un certo numero di contributi dottrinali [5], affermava che gli effetti dello scioglimento
decorrevano, con efficacia ex nunc,
dal momento in cui diventava definitivo il decreto di omologa della separazione
consensuale o in cui passava in giudicato la sentenza di separazione
contenziosa, seguendo la regola generale che vale per ogni pronuncia
costitutiva. A quest’ordine di idee poteva ascriversi anche un’ordinanza della
Corte costituzionale, la quale, nel dichiarare manifestamente infondata la
questione di legittimità costituzionale dell’art. 191 c.c., aveva negato
l’idoneità dei provvedimenti presidenziali ex
art. 708 c.p.c. a determinare lo scioglimento della comunione [6].
Una seconda tesi, seguita da svariati Autori [7], faceva retroagire gli effetti della pronuncia di
separazione al momento della proposizione della domanda, che si faceva
coincidere con la notifica del ricorso introduttivo nel caso di separazione
giudiziale e con il suo deposito in cancelleria nel caso di separazione
consensuale.
Due erano gli argomenti portati a sostegno di tale
tesi: in primo luogo l’estensione per analogia dell’art. 193, comma quarto,
c.c., il quale stabilisce che «gli effetti della sentenza di separazione
giudiziale dei beni retroagisce al giorno in cui è stata proposta la domanda» [8]; in secondo luogo, la norma dell’art. 146, comma
secondo, c.c. che consente l’allontanamento dalla residenza familiare al
momento della proposizione della domanda, per cui non sarebbe apparso
ragionevole che la comunione legale proseguisse nonostante il possibile
allontanamento di uno dei coniugi [9]. Non mancavano peraltro ulteriori nuances in questa posizione: taluni
Autori, infatti, più che sull’analogia, sembravano puntare su di una sorta di
interpretazione estensiva della disposizione in tema di separazione giudiziale,
ritenendo che nella domanda maggiore (quella, cioè di separazione, o, se si
preferisce, di divorzio, qualora quest’ultima fosse proposta al di fuori dei
casi di precedente separazione) fosse implicita la domanda minore, di
scioglimento della comunione, il cui contenuto costituisce una delle
conseguenze dell’accoglimento della prima [10].
Il terzo orientamento era quello, per così dire,
«antenato» della soluzione attuale, vale a dire quello secondo cui la
cessazione del regime si sarebbe prodotta a partire dall’udienza presidenziale.
Su quest’ultima idea si tornerà in dettaglio più avanti [11], non prima, però di aver passato in rassegna le
principali considerazioni che ruotavano attorno alla tesi che la giurisprudenza
aveva ritenuto di dover seguire.
3. Critica,
sul piano delle conseguenze pratiche, della tesi prevalente prima della riforma
del 2015. La sua correttezza de lege lata.
Venendo a valutare il merito delle prime due proposte
qui citate che si contendevano il campo, va ricordato, in primo luogo, come,
trattando in altro lavoro [12] delle modifiche normative potenzialmente idonee a
scongiurare il declino della comunione legale, si fosse segnalata
l’imprescindibilità di un intervento normativo proprio in questo settore.
L’auspicio che lo scrivente (unitamente alla stragrande maggioranza degli
interpreti) aveva espresso de iure
condendo era, in altri termini, quello di veder inserita, tra le cause di
cessazione del regime legale, la proposizione della domanda di separazione
personale (così come di quella di divorzio, se non preceduto da separazione
legale, o di annullamento del matrimonio), o, quanto meno, l’autorizzazione da
parte del presidente a vivere separati, al fine di evitare le gravissime
situazioni determinate dal perdurare del regime legale nel periodo di più acuti
contrasti e tensioni tra i coniugi, con conseguenti possibilità di pressioni e
ricatti facilmente immaginabili [13].
Ritenere, invero, che i coniugi siano in comunione
ancora sino al momento del passaggio in giudicato della sentenza di separazione
giudiziale significa, in buona sostanza, ammettere che ciascuno di essi si
trova in una condizione di sostanziale «incapacità» a procedere
all’effettuazione di acquisti, destinati altrimenti inesorabilmente a ricadere
in comunione con la persona, oltre tutto, con cui si è in una situazione di
(talora gravissimo) contrasto. Il tutto aggravato da una giurisprudenza che,
come si è avuto modo di porre in altra sede in luce [14], non esita, ormai da diversi anni, ad esaltare, sul
versante degli acquisti personali, il ruolo della partecipazione del coniuge
pretermesso. La tesi prevalente incoraggiava, dunque, quest’ultimo, di fatto, a
far sì che la propria non opposizione (magari anche di fronte a casi clamorosi,
in cui il coniuge acquirente fosse in grado, ad esempio, di dimostrare che
l’acquisto era effettuato esclusivamente con il reimpiego di denaro personale)
venisse offerta quale «merce di scambio» per ottenere generose concessioni sul
piano delle intese attinenti all’assetto patrimoniale (o personale: si pensi ai
rapporti con la prole) della crisi coniugale.
Ora, nonostante le gravi conseguenze pratiche di cui
si è appena detto, la soluzione della giurisprudenza di legittimità appariva, de lege lata, l’unica tecnicamente
corretta. Basti dire che la lettera dell’art. 191 c.c. richiamava, prima della
novella qui in commento, la (sola) separazione personale dei coniugi e che
separazione personale non si può avere, in caso di contenzioso, se non con il
passaggio in giudicato della relativa pronunzia. A questo proposito potrà anche
aggiungersi che gli effetti della decisione di separazione, per quanto attiene
allo status, non si sarebbero potuti
neppure ritenere prodotti dalla decisione di primo grado, nonostante il
disposto dell’art. 282 c.p.c., essendo senz’altro prevalente l’opinione per cui
l’efficacia esecutiva da tale norma prevista è cosa diversa da quella
costitutiva [15], sebbene, sulla legittimità di quest’ultima conclusione,
non facciano difetto motivi di perplessità [16].
Ogni altra possibile interpretazione circa
l’individuazione di un termine di riferimento diverso da quello della sentenza
di separazione era esclusa dal fatto che l’art. 191 c.c. risultava quanto mai chiaro
e che il passaggio dall’interpretazione letterale ad altre forme di
interpretazione (logica, sistematica e teleologica) non è consentito quando il
tenore della previsione normativa appare inequivocabile (in claris non fit interpretatio) [17]. Questo semplice rilievo appariva sicuramente idoneo
ad escludere l’accoglibilità della tesi che avrebbe voluto (ovviamente, sempre
prima della riforma del 2015) collegare lo scioglimento all’emanazione dei
provvedimenti ex art. 708 c.p.c. (o, prima
ancora, alla proposizione del ricorso), posto che sembrava impossibile
collegare all’udienza presidenziale gli effetti che la legge faceva, invece,
chiaramente derivare in via esclusiva da un diverso evento e cioè da quella
separazione che, a quel momento, ancora non poteva dirsi in atto e che avrebbe
anche potuto non arrivare mai [18].
4. Segue. L’inaccettabilità della tesi che
proponeva l’estensibilità dell’art. 193 c.c.
Le considerazioni di cui sopra erano ripetibili anche
in relazione alla posizione di chi invocava un’estensione di tipo analogico
della normativa sulla separazione giudiziale dei beni (o, in alternativa,
dell’art. 191 c.c.). Non sembra, quindi, che l’identità di ratio [19] rispetto all’idea che presiede all’anticipazione
degli effetti della separazione giudiziale dei beni potesse indurre
l’interprete (come avrebbe invece certamente dovuto costringere il legislatore)
ad estendere un principio di carattere sicuramente eccezionale, quale quello
descritto dall’art. 193, quarto comma, c.c.
Sul punto si era già osservato (ovviamente, sempre
alla luce della situazione normativa previgente) che, se è vero che in
determinati casi (si pensi alla dichiarazione di morte presunta o all’assenza),
gli effetti dello scioglimento debbono risalire (per lo meno per i rapporti inter partes) alla data della morte
accertata presuntivamente o alla data della scomparsa [20], è altrettanto vero che ciò accade solo con riguardo
al contrasto tra la data dell’accertamento giudiziale di un evento «naturale» e
quella dell’evento oggetto di tale accertamento. Mai ciò si verifica (se si
eccettua, appunto, l’ipotesi, normativamente sancita, dell’art. 193 cit. e,
ora, quella della separazione personale) allorquando lo scioglimento sia
effetto (tra l’altro, indiretto) non già di un evento naturale, ma di una
qualche procedura giudiziale, laddove il contrasto non si pone tra la data
dell’evento e quella del relativo accertamento, bensì tra la data della
pronunzia e quella della relativa domanda giudiziale. E l’esempio della pronunzia
di fallimento (in cui, per l’appunto, la cessazione del regime si pone quale
effetto ex lege dell’accoglimento di
una domanda giudiziale non diretta a provocare lo scioglimento della comunione,
con la conseguenza che l’emanazione della relativa sentenza non produce effetto
retroattivo alla data della domanda) è, in proposito, quanto mai eloquente.
Né del resto sembrava possibile seguire il
ragionamento che si fondava sull’assunto per il quale in ogni domanda diretta
alla separazione personale si sarebbe dovuta intendere compresa anche la
richiesta di separazione giudiziale dei beni [21]. Il fatto che sul piano dei petita potesse riscontrarsi una situazione di continenza (della
domanda ex art. 193 c.c. in quella di
separazione personale) non ci autorizzava ancora ad estendere un effetto, quale
quello della retroattività, che avrebbe invece potuto essere legato alla
(innegabile e profonda) diversità delle causae
petendi. E’ evidente, infatti, che le ragioni che danno luogo ad una
separazione personale, legate ai profili personali dell’unione, nulla hanno a
che vedere con quelle che giustificano la separazione dei beni, principalmente
incentrate sulla mala gestio
patrimoniale. Per questa ragione l’accoglimento della prima delle due richieste
determina un effetto che, per il fatto di essere del tutto svincolato dalla
ricorrenza dei presupposti dell’art. 193 c.c., non può dipendere se non dalla
volontà della legge e non certo dall’idea che nel petitum «maggiore» possa ritenersi implicitamente contenuto quello
«minore».
Come del resto posto in luce in dottrina [22], la sentenza di separazione, che ha natura
costitutiva [23], in mancanza di disposizioni in senso contrario,
produce effetti ex nunc,
presupponendo gli effetti costitutivi, che si producono per legge in forza
dell’accertamento delle condizioni di esistenza dell’azione, il passaggio in
giudicato formale della sentenza [24].
In conclusione, de
lege lata appariva difficilmente contestabile, prima dell’intervento
normativo in commento, che il momento di cessazione del regime legale dovesse
essere individuato, nel caso di separazione contenziosa, nel momento di
passaggio in giudicato della relativa sentenza, così come, per la separazione
consensuale, in quello dell’acquisto di definitività del decreto di omologazione
[25].
5. L’udienza
presidenziale di separazione ed i suoi rapporti con la cessazione del regime
legale. La differenza della tesi adottata nel 2015 rispetto a quella
dell’estensibilità dell’art. 193 c.c.
Peraltro, come ricordato in precedenza, già in passato
si era prospettata una terza tesi, rispetto alle due testé illustrate.
Opinione, questa, certamente minoritaria, che aveva trovato seguito ormai
diversi anni or sono nella giurisprudenza di merito, nonché presso alcuni
Autori [26]. Tale avviso ricollegava la cessazione del regime
della comunione legale al provvedimento presidenziale, pronunciato nell’udienza
ex art. 708 c.p.c., con cui si
autorizzano i coniugi a vivere separatamente [27], sulla scia di quanto proposto, in sede di lavori
preparatori della riforma del 1975, dall’art. 47 cpv. del disegno di legge
Falcucci, che collegava la cessazione del regime di comunione legale proprio
all’ordinanza presidenziale ex art.
708 c.p.c.
Dopo la riforma del 1975, una volta che avevano
cominciato a manifestarsi i profili critici sopra illustrati, erano stati
presentati alcuni progetti di legge, tesi a porre rimedio agli inconvenienti
appena segnalati ed imperniati proprio sulla soluzione oggidì accolta: progetti
rimasti peraltro lettera morta, in quanto abbinati alla proposta di riduzione
della Wartezeit per il divorzio da
tre anni ad uno, con la conseguenza di urtare suscettibilità legate all’idea di
indissolubilità matrimoniale, ancora fortemente difesa nel Paese e in
Parlamento, specie da chi del principio opposto aveva fatto invece largo uso [28].
La riforma qui in commento viene ad ora ad aggiungere
all’art. 191 c.c. un comma che si apre con l’affermazione seguente: «Nel caso
di separazione personale, la comunione tra i coniugi si scioglie nel momento in
cui il presidente del tribunale autorizza i coniugi a vivere separati, ovvero
alla data di sottoscrizione del verbale di separazione consensuale dei coniugi
dinanzi al presidente, purché omologato» (cfr. l’art. 2 della legge qui in
commento).
Al riguardo va precisato che quest’ultima soluzione
(così come quella che, in astratta alternativa, avrebbe potuto prospettare
l’idoneità, prima ancora del provvedimento presidenziale, della semplice
proposizione del ricorso a sciogliere il regime) risulta solo apparentemente
avvicinabile a quella illustrata come seconda e che propugnava la retroattività
degli effetti della domanda di separazione.
Invero, se si afferma che gli effetti della pronunzia
retroagiscono alla data di proposizione della domanda (o all’udienza
presidenziale), si deve poi necessariamente ammettere che, nel caso in cui una
diversa causa di scioglimento si venisse a frapporre (per esempio: morte di uno
dei coniugi, con conseguente impossibilità di riassunzione o prosecuzione del
giudizio; stipula di una convenzione di separazione dei beni; dichiarazione di
assenza o di morte presunta), nessun effetto retroattivo potrebbe –
evidentemente – dispiegarsi e la comunione dovrebbe ritenersi sciolta alla data
in cui queste altre cause di scioglimento si sono verificate. In altri termini,
la posizione qui riportata per seconda (e poi concretamente non adottata dal
legislatore del 2015) non avrebbe attribuito alla presentazione della domanda,
né tanto meno al provvedimento presidenziale, dignità di autonoma causa di
scioglimento della comunione, bensì semplice valenza di dies a quo per la produzione di effetti che avrebbero comunque
presupposto l’accoglimento della domanda di separazione, per poter finalmente
pervenire ad una causa di scioglimento (la sentenza) che potesse retroagire
alla data di presentazione della domanda.
6. I problemi
ermeneutici posti dalla riforma dell’art. 191 c.c., con riguardo
all’individuazione del momento di cessazione del regime legale.
Come già indicato poc’anzi, il comma
aggiunto all’art. 191 c.c. s’apre con la statuizione secondo cui «Nel caso di
separazione personale, la comunione tra i coniugi si scioglie nel momento in
cui il presidente del tribunale autorizza i coniugi a vivere separati, ovvero
alla data di sottoscrizione del verbale di separazione consensuale dei coniugi
dinanzi al presidente, purché omologato».
I momenti in cui la cessazione del regime ha luogo nei
due tipi di separazione non sono perfettamente coincidenti, atteso che,
tendenzialmente, il provvedimento presidenziale in caso di separazione
giudiziale viene emesso a seguito di scioglimento di riserva, laddove la
sottoscrizione del verbale, nel contesto della separazione consensuale, avviene
all’udienza stessa: peraltro, fin qui, ci troviamo nella fisiologia dei riti
della crisi coniugale.
Non sembra, poi, che possa sussistere uno spazio
autonomo per uno scioglimento conseguente ad una «consensualizzazione» di una
separazione contenziosa, atteso che tale fase avrà luogo necessariamente dopo
l’emanazione dei provvedimenti presidenziali, tra cui l’autorizzazione a vivere
separati. Semmai, una situazione del genere di quella appena indicata avrà
motivo di porsi sotto il profilo del diritto intertemporale. Se nel corso di una
separazione giudiziale, iniziata prima della riforma qui in commento, con
un’autorizzazione a vivere separati non «munita» (per essere stata emanata
prima della riforma del 2015 sul «divorzio breve») dell’effetto ora descritto
dalla norma in esame, le parti decidessero di pervenire ad una separazione
consensuale, non vi sarebbe ragione per non applicare l’effetto predetto, a
decorrere dalla sottoscrizione del verbale di separazione consensuale.
La conclusione appare rafforzata dall’equiparazione
che, anche sulla scorta delle opinioni espresse dallo scrivente [29], la giurisprudenza di legittimità sta effettuando tra
il provvedimento d’omologazione della separazione consensuale e la sentenza
emessa su conclusioni conformi: basti citare al riguardo una decisione del
2014, con la quale si è stabilito che «Nella separazione consensuale, così come
nel divorzio congiunto, ma pure in caso di precisazioni comuni che concludano e
trasformino il procedimento contenzioso di separazione e divorzio, si stipula
un accordo, di natura sicuramente negoziale (tra le altre, Cass. n. 17607 del
2003), che, frequentemente, per i profili patrimoniali si configura come un
vero e proprio contratto. Non rileva che, in sede di divorzio, esso sia
recepito, fatto proprio dalla sentenza: all’evidenza tale sentenza è necessaria
per la pronuncia sul vincolo matrimoniale, ma, quanto all’accordo, si tratta di
un controllo esterno del giudice, analogo a quello di separazione consensuale» [30].
I rilievi di cui sopra inducono a ritenere che l’effetto
estintivo della comunione legale possa riconoscersi anche nella presentazione
(nel corso dell’apposita udienza) di conclusioni conformi, nel contesto di una
causa di separazione contenziosa non formalmente consensualizzata (e in
assenza, dunque, di un verbale di separazione consensuale analogo a quello
dell’udienza presidenziale), ma volta all’emanazione di una sentenza che
recepisca l’accordo tra le parti, risultante dalle conformi conclusioni
precisate dagli avvocati.
Ciò che potrebbe lasciare perplessi è,
invece, l’inciso «purché omologato», riferito dalla disposizione qui in esame
all’accordo di separazione consensuale consacrato nel verbale sottoscritto
dinanzi al presidente. Tale inciso, infatti, viene a porre il problema
dell’eventuale introduzione, da parte del legislatore del 2015, di una vera e
propria condizione sospensiva, ad instar
di quanto si ritiene ricavabile dall’art. 158 c.c., conformemente
all’insegnamento della giurisprudenza di legittimità sulla possibilità, ad
esempio, di inserire nel verbale di separazione consensuale clausole divisorie
di un compendio in comunione legale: regime, quest’ultimo, destinato, come
noto, a venir meno una volta omologato il relativo accordo [31].
Se così stessero le cose, però, nessuna innovazione
sarebbe stata apportata dalla novella qui in commento rispetto alla situazione
precedente, atteso che non si è mai posto in dubbio in passato che, nel caso di
separazione consensuale, il momento di cessazione del regime coincidesse con
quello in cui diveniva definitivo il decreto d’omologazione emesso dal
tribunale in camera di consiglio [32]. Non rimane dunque che optare – anche per evidenti
ragioni di concinnitas normativa
rispetto al pendant rappresentato
dall’emanazione del provvedimento presidenziale che autorizza i coniugi a
vivere separati nel contesto della procedura di separazione contenziosa – per
la soluzione secondo cui l’effetto di cessazione del regime si produce
immediatamente, quale conseguenza, per l’appunto, della mera «sottoscrizione
del verbale di separazione consensuale dei coniugi dinanzi al presidente,
purché omologato». L’inciso «purché omologato» dovrà intendersi (bisogna
ammetterlo: con molta buona volontà…) come descrittivo di una condizione
risolutiva, collegata all’emanazione di un (per il vero, tendenzialmente assai
improbabile) provvedimento collegiale di rigetto dell’istanza d’omologazione.
Sia consentito aggiungere che, sul piano delle
conseguenze, la soluzione di cui sopra pare raccomandata dall’osservazione
dell’id quod plerumque accidit (o per lo meno… accidere potest) in una situazione di crisi coniugale, ancorchè
destinata a chiudersi con una separazione consensuale. Ad esempio, in un mondo
nel quale i capitali si spostano con il click
di un mouse, anche i pochi (ma non
necessariamente sempre così pochi…) giorni intercorrenti tra la firma del
verbale e l’omologazione potrebbero fornire l’occasione ad un soggetto
adeguatamente istruito dal proprio legale (ed i precedenti non mancano al
riguardo) di sottoporre ad una tanto repentina quanto drastica cura dimagrante
il conto (o i conti) su cui lo stesso ha accantonato i proventi della propria
attività separata, trasferendo le relative somme su conti all’estero o comunque
di difficile reperimento, così vanificando le «aspettative» ex communione de residuo dell’altro
coniuge [33]. Preferibile appare dunque ogni opzione ermeneutica
che consenta di anticipare il più possibile il momento preso in considerazione
dall’art. 191 c.c.
Ulteriore conferma di quanto sopra discende dalla considerazione
dell’ipotesi (non espressamente contemplata dalla novella, ma certamente
verificabile, per applicazione dei principi generali) in cui la separazione
abbia luogo mercé il ricorso alla negoziazione assistita: situazione, questa,
nella quale il giudizio di omologazione non ha luogo.
7. Il difetto
di coordinamento con le disposizioni in tema di negoziazione assistita.
Proprio con riferimento all’eventualità da ultimo
descritta («soluzione consensuale di separazione personale», per seguire il linguaggio
legislativo, raggiunta nel contesto di una procedura di negoziazione
assistita), andrà ricordato che, ex
art. 6, terzo comma, d.l. 12 settembre 2014, n. 132, conv. in l. 10 novembre
2014, n. 162, «L’accordo raggiunto a seguito della convenzione produce gli
effetti e tiene luogo dei provvedimenti giudiziali che definiscono, nei casi di
cui al comma 1, i procedimenti di separazione personale, di cessazione degli
effetti civili del matrimonio, di scioglimento del matrimonio e di modifica
delle condizioni di separazione o di divorzio».
Ora, se è vero che la frase di cui sopra sembrerebbe
porre un’assoluta parità tra l’accordo raggiunto ai sensi della novella sulla
negoziazione assistita e i «provvedimenti giudiziali» (rectius: gli accordi di separazione divenuti efficaci per effetto
dell’emanazione del decreto di omologazione o gli accordi di divorzio, divenuti
efficaci per effetto dell’emanazione della sentenza di divorzio su domanda
congiunta), con la conseguenza che gli effetti dell’intesa raggiunta nel
contesto di una procedura di negoziazione assistita (ivi compresa, dunque, la
cessazione del regime legale) dovrebbero prodursi dal momento, per l’appunto,
dell’accordo, un’interpretazione letterale e sistematica della disposizione
sembrerebbe condurre invece a conclusioni differenti.
Occorre invero tenere conto del fatto che, ai sensi
del capoverso dell’art. 6 cit., «In mancanza di figli minori, di figli
maggiorenni incapaci o portatori di handicap
grave ai sensi dell’articolo 3, comma 3, della legge 5 febbraio 1992, n. 104,
ovvero economicamente non autosufficienti, l’accordo raggiunto a seguito di
convenzione di negoziazione assistita è trasmesso al procuratore della
Repubblica presso il tribunale competente il quale, quando non ravvisa
irregolarità, comunica agli avvocati il nullaosta per gli adempimenti ai sensi
del comma 3. In presenza di figli minori, di figli maggiorenni incapaci o
portatori di handicap grave ovvero
economicamente non autosufficienti, l’accordo raggiunto a seguito di
convenzione di negoziazione assistita deve essere trasmesso entro il termine di
dieci giorni al procuratore della Repubblica presso il tribunale competente, il
quale, quando ritiene che l’accordo risponde all’interesse dei figli, lo
autorizza. Quando ritiene che l’accordo non risponde all’interesse dei figli,
il procuratore della Repubblica lo trasmette, entro cinque giorni, al
presidente del tribunale, che fissa, entro i successivi trenta giorni, la
comparizione delle parti e provvede senza ritardo. All’accordo autorizzato si
applica il comma 3».
Dal tenore letterale del comma qui riportato e dal suo
rinvio al successivo comma terzo, così come dal fatto che la norma sugli
effetti è contenuta in un comma (il terzo, come detto) successivo a quello che
descrive la necessità del nullaosta o dell’autorizzazione, sembrerebbe potersi
dedurre che tali atti del procuratore della Repubblica vengono a costituire
elemento necessariamente integrativo dell’efficacia dell’autoregolamentazione
negoziale impressa dall’autonomia delle parti ai reciproci rapporti personali e
patrimoniali conseguenti alla separazione ed al divorzio, esattamente come
avviene per l’omologa della separazione consensuale, ai sensi dell’art. 158,
primo comma, c.c. Ciò significa, dunque, che l’accordo non dovrebbe produrre
alcun tipo d’effetti fino al momento del rilascio del nullaosta o
dell’autorizzazione [34].
Irrilevante appare in proposito il richiamo [35] costituito dall’art. 3, l. 898/1970 (come modificato
dal d.l. 132/14), il quale ora prevede che, per la proposizione della domanda
di divorzio, le separazioni devono essersi protratte per il periodo prescritto
dalla legge a far tempo (…) «dalla data certificata nell’accordo di separazione
raggiunto a seguito di convenzione di negoziazione assistita». Il legislatore
si è sempre ritenuto libero, infatti, di fissare il dies a quo per il calcolo del periodo d’attesa tra separazione e
divorzio in un momento ben diverso da quello della produzione degli effetti
della separazione: si pensi già alla versione iniziale della legge sul
divorzio, che fissava tale momento, per il computo dei cinque anni allora
previsti, nella data della «avvenuta
comparizione dei coniugi
innanzi al presidente del
tribunale nella procedura di separazione
personale», laddove gli effetti propri della separazione si producevano
(e ancor oggi si producono) dall’omologazione della separazione consensuale e
dal passaggio in giudicato della sentenza di separazione giudiziale.
Ciò detto, in generale, per ciò che attiene al momento
della produzione degli effetti dell’accordo di separazione o di divorzio nel
contesto della procedura di negoziazione assistita, va subito precisato che la
soluzione non può però valere per il precipuo effetto della cessazione del
regime legale.
Se, infatti, anche a tali fini si dovesse attendere il
rilascio del nullaosta o dell’autorizzazione da parte del p.m., occorrerebbe
constatare, con sommo sconcerto, che si verrebbe a creare una evidente
discrasia tra la separazione consensuale raggiunta davanti al giudice (nella
quale, come si è illustrato al § precedente, l’effetto della cessazione del
regime si ha al momento della firma del verbale) e la separazione consensuale
conseguita per via di negoziazione assistita, posto che la novella versione
dell’art. 191 c.c., pur se approvata dopo l’introduzione della procedura di
negoziazione assistita, a tale ultima ipotesi non sembrerebbe, per lo meno a
tutta prima, applicabile.
Per porre rimedio a tale, ennesima, dimostrazione
d’insipienza legislativa, non rimarrà che suggerire un’estensione analogica, in
forza della quale al «presidente» si sostituiscono gli avvocati che assistono
la negoziazione e all’omologazione del tribunale si sostituiscono il nullaosta
o, in alternativa, l’autorizzazione del procuratore della Repubblica. In tal
caso si dovrebbe dunque, secondo quanto sopra ipotizzato, immaginare
un’immediata esplicazione dell’effetto dello scioglimento della comunione
legale, sottoposto ad una condizione risolutiva costituita dall’eventuale
rigetto, da parte del procuratore della Repubblica, del nullaosta o
dell’autorizzazione.
Analogamente, passando a considerare l’ipotesi
descritta dall’art. 12 del d.l. citato – e ferma restando l’ovvia
inammissibilità di tale tipo di accordo nel caso di presenza di figli minori,
di figli maggiorenni incapaci o portatori di handicap grave ai sensi dell’articolo 3, comma 3, della legge 5
febbraio 1992, n. 104, ovvero economicamente non autosufficienti – deve
considerarsi il caso in cui l’accordo sia raggiunto innanzi al sindaco, quale
ufficiale dello stato civile.
Qui, ai sensi del terzo comma del citato art. 12,
«L’accordo tiene luogo dei provvedimenti giudiziali che definiscono, nei casi
di cui al comma 1, i procedimenti di separazione personale, di cessazione degli
effetti civili del matrimonio, di scioglimento del matrimonio e di modifica
delle condizioni di separazione o di divorzio». Peraltro, «Nei soli casi di
separazione personale, ovvero di cessazione degli effetti civili del matrimonio
o di scioglimento del matrimonio secondo condizioni concordate, l’ufficiale
dello stato civile, quando riceve le dichiarazioni dei coniugi, li invita a
comparire di fronte a sé non prima di trenta giorni dalla ricezione per la
conferma dell’accordo anche ai fini degli adempimenti di cui al comma 5. La
mancata comparizione equivale a mancata conferma dell’accordo».
Anche in tale ipotesi, dunque, la comunione dovrà
intendersi sciolta già al momento della sottoscrizione dell’accordo, laddove la
mancata comparizione delle parti ai fini della conferma per la data fissata
dall’ufficiale dello stato civile potrà valere quale condizione risolutiva
dell’effetto descritto.
8. I problemi
ermeneutici posti dalla riforma dell’art. 191 c.c., con riguardo alla
riconciliazione ed al caso del c.d. «divorzio immediato».
Il riformatore del 2015 non ha ritenuto di affrontare
i problemi connessi alla riconciliazione dei coniugi separati. Se la scelta di
politica legislativa, con riguardo all’istituto disciplinato dall’art. 157
c.c., appare (entro certi limiti) comprensibile, nel contesto dell’intervento
novellatore in oggetto (a parte, l’ovvio rammarico collegato all’occasione
persa di introdurre un minimo di chiarezza, ad
instar di quanto invece compiuto dal legislatore francese, più di due
secoli or sono, con l’art. 1451 – e ora con l’art. 305 – del Code civil), maggiori dubbi sorgono se
si pone mente a quanto previsto dall’art. 154 c.c. Quest’ultima disposizione,
infatti, a differenza di quella prima citata (che si occupa della
riconciliazione successiva alla separazione), ha tratto al caso della
riconciliazione intervenuta in corso di causa [36], prevedendo che tale evento comporti l’abbandono
della domanda di separazione personale già proposta.
La norma disciplina quindi le conseguenze processuali
del superamento della lite coniugale verificatosi nella pendenza del
procedimento di separazione, con la previsione che la riconciliazione avvenuta
in questo momento comporterà l’estinzione del giudizio. Ora, la conclusione cui
si perveniva sotto il vigore dell’art. 191 c.c. prima della riforma qui in
commento, vale a dire la constatazione per cui tale riconciliazione sarebbe
risultata «fenomeno del tutto neutro» [37] rispetto al regime di comunione legale, non può più
dirsi valida oggi. E’ chiaro, infatti, che la soluzione testé prospettata era
concepibile solo partendo dal presupposto, un tempo condiviso da quasi tutta la
giurisprudenza, che lo scioglimento del regime avesse a prodursi solo con il
passaggio in giudicato della sentenza di separazione personale.
Una volta enunciato dalla novella il principio
diametralmente opposto, l’inevitabile retroattività dell’abbandono della
domanda, travolgendo ex tunc gli
effetti prodotti dalla proposizione della stessa, ivi compreso lo scioglimento
della comunione a seguito dell’emanazione del provvedimento presidenziale,
comporterà una ricostituzione del regime, con immaginabili conseguenze negative
in punto certezza dei rapporti, sia tra le parti, che verso i terzi. Almeno
sotto questo profilo, l’adesione alla teoria della Cassazione, per cui solo la
sentenza passata in giudicato rilevava ex
art. 191 c.c., presentava un risvolto positivo in termini di sicurezza dei
traffici giuridici.
Poiché lo specifico intervento legislativo su questo
peculiare profilo, inutilmente invocato da chi scrive [38], è mancato, non rimarrà che riproporre un’estensione
delle conclusioni cui si era pervenuti in tema di riconciliazione successiva
alla emanazione della sentenza di separazione contenziosa o del decreto di
omologazione della separazione consensuale. A nulla rileva, invece,
l’introduzione di una specifica forma di annotazione dell’ordinanza con la
quale i coniugi sono autorizzati a vivere separati (cfr. la seconda parte del
nuovo secondo comma dell’art. 191 c.c.), posto che neppure la previsione, con
la riforma dell’ordinamento dello stato civile del 2000, di una pubblicità
della riconciliazione è servita a risolvere i dubbi che dalla introduzione
della riforma del 1975 si agitano in dottrina e in giurisprudenza.
Ne deriverà pertanto che, ferma la ricostituzione del
regime legale per effetto della semplice riconciliazione, i rapporti con i
terzi andranno risolti sulla base del ricorso a quella funzione «integrativa»
della pubblicità mediante annotazione rispetto alla trascrizione sui pubblici
registri immobiliari, nonché alla possibilità, più volte evidenziata in altre
sedi da chi scrive, per i terzi interessati di superare l’ «apparenza
pubblicitaria», fornendo la prova dei presupposti di fatto idonei a determinare
una situazione del bene (in termini di «personalità», ovvero, all’opposto, di
soggezione al regime legale) difforme da quella risultante dal sistema
pubblicitario [39].
Tradotto in termini concreti, ciò significa che, nella
peculiare situazione qui in esame, ferma restando, ancora una volta, la
«rinascita» del regime legale per effetto della riconciliazione ai sensi
dell’art. 154 c.c. (come, del resto, accade per la riconciliazione ex art. 157 c.c.), il carattere comune
dei beni dopo tale evento [40] acquistati sarà opponibile ai terzi solo in presenza
di una domanda giudiziale anteriormente trascritta e diretta all’accertamento
dell’appartenenza del bene alla comunione (ovvero di un – per il vero assai
improbabile – negozio di accertamento in tal senso). In alternativa, potrà
riconoscersi all’annotazione della riconciliazione «espressa» un analogo
effetto, in base alla in altre sedi più volte evidenziata funzione
«integrativa» della pubblicità sull’atto di matrimonio per effetto del
complesso sistema, a suo tempo delineato, fondato sulla trascrizione sui
registri immobiliari, ma «integrato» dall’annotazione sugli atti di matrimonio [41].
Per quanto attiene, invece, alla riconciliazione per
facta concludentia (comunque non annotabile), anche qui dovrà ammettersi la
rilevanza della trascrizione della domanda giudiziale di cui sopra (ovvero di
un negozio di accertamento del carattere comune del bene).
In difetto di tale trascrizione (e il principio vale,
naturalmente, anche per la riconciliazione espressa, qualora il fatto non
risulti pubblicizzato vuoi mercé la trascrizione di cui sopra, vuoi mediante
l’annotazione prescritta dal vigente ordinamento dello stato civile), la
situazione di «apparenza pubblicitaria» in favore del carattere personale del
bene non potrà mai essere superata dai coniugi contro i terzi, i quali abbiano
interesse a far valere l’affidamento da essi riposto sulla personalità, per
l’appunto del bene (si pensi all’acquirente dal coniuge unico intestatario,
contro il quale non potrà quindi essere proposta azione di annullamento ex art.
184 c.c.). Per contro, potranno ammettersi i terzi interessati (nella specie: i
creditori comuni) a fornire la prova contraria al carattere personale del bene
«falsamente» risultante dalla precedente annotazione o trascrizione dello
scioglimento del regime legale conseguente all’emanazione dei provvedimenti
presidenziali, non seguita da trascrizioni di segno opposto (o dall’annotazione
della riconciliazione). All’uopo i predetti terzi interessati saranno dunque
ammessi alla prova dell’eventuale riconciliazione (espressa o per fatti
concludenti) tra i coniugi.
Altra lacuna del nuovo art. 191 c.c., anche se di
minore gravità rispetto a quella appena segnalata, è costituita dalla mancata
considerazione delle ipotesi di c.d. «divorzio immediato»: di quelle ipotesi,
cioè, in cui lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del
matrimonio possono essere richiesti senza il previo periodo di separazione
richiesto ancora dalla legge sul divorzio, così come riformata dalla novella
qui in commento [42]. Il dibattito sul «divorzio immediato» che ha
accompagnato il tormentato iter della
novella in oggetto si è invece concentrato, come noto, sulla possibilità di
eliminare del tutto quella Wartezeit
tra separazione e divorzio che la riforma ha invece inopportunamente (e…
isolatamente, se si considera il panorama europeo e mondiale) deciso di
mantenere.
Al riguardo, la via dell’estensione analogica della
novella ai casi oggi consentiti di «divorzio immediato» non sembra
percorribile, avendo essa (così come tutto il contenuto dell’art. 191 cit.)
carattere eccezionale. Neppure sembrerebbe invocabile l’art. 23, l. 6 marzo
1987, n. 74, in forza del quale le norme di carattere processuale del divorzio
sono estensibili alla separazione, atteso che il principio qui in esame non possiede
carattere processuale, ma sostanziale e (soprattutto) perché qui si
tratterebbe, semmai, di estendere al divorzio (rectius: ad un particolare tipo di divorzio) alcune norme speciali
dettate per la separazione. Non rimarrà pertanto che esprimere il rammarico per
tale lacuna ed auspicare che il legislatore sappia porvi rimedio, magari prima
che si compia un altro quarantennio.
Inutile aggiungere che il problema andrà comunque
seriamente affrontato nel momento in cui – constatata l’antistoricità e l’assurdità
del mantenimento del principio che eleva la separazione a necessaria condizione
del divorzio e preso atto del garbuglio processuale che la riduzione dei tempi
d’attesa, paradossalmente, ingenera [43] – un parlamento meno lontano dai reali problemi del
Paese si deciderà a concedere finalmente a tutti i coniugi la possibilità di
chiedere direttamente lo scioglimento del vincolo coniugale. In tali ipotesi
sarebbe veramente assurdo (oltre che incostituzionale) continuare a pretendere
l’attesa del giudicato sul divorzio (magari a molti anni di distanza
dall’inizio della relativa causa), sol perché le parti non sono passate
attraverso la separazione e il legislatore si è scordato di aggiungere
l’ipotesi dell’udienza presidenziale di divorzio (o i suoi equipollenti nel
caso di domanda congiunta o di negoziazione assistita) nell’art. 191 c.c.
9. Il mancato
intervento in tema di proponibilità delle domande divisorie. Impostazione del
problema.
Il testo unificato della Commissione Giustizia della
Camera prevedeva che il nuovo secondo comma dell’art. 191 c.c. si chiudesse con
la statuizione seguente, di tipo (almeno in apparenza) strettamente
processuale: «La domanda di divisione della comunione legale tra i coniugi può
essere introdotta unitamente alla domanda di separazione o di divorzio».
Qui colpiva, innanzi tutto, dal punto di vista
«stilistico» (si fa per dire), l’utilizzo dell’espressione (in precedenza
ritenuta «proibita») «divorzio», in luogo dell’usuale e notoriamente farisaica
endiadi «scioglimento o cessazione degli effetti civili del matrimonio».
Per ciò che attiene al contenuto, va detto che, dietro
a tale tentato «colpo di mano», di chiara matrice avvocatizia, si collocava in
realtà la duplice questione della proponibilità (anche se in senso improprio)
«sostanziale» e della proponibilità processuale di petita di tipo divisorio nei giudizi di separazione o divorzio,
come verrà chiarito tra breve.
La disposizione in esame è stata saggiamente eliminata
dalla Commissione Giustizia del Senato, ma rimangono alcune questioni su cui la
riforma dell’art. 191 c.c. è comunque venuta, almeno in parte, ad incidere.
Varrà dunque la pena affrontare questi temi, prima di chiarire se ed in che
misura petita di tipo divisorio della
comunione legale siano proponibili all’atto della proposizione della causa di
separazione personale, pur dopo la riforma del 2015.
10.
L’improponibilità della domanda di divisione in pendenza del giudizio di
separazione.
Logici corollari della tesi prevalente e preferibile
prima della riforma del 2015 sul momento dello scioglimento del regime di
comunione legale erano costituiti dall’impossibilità, da un lato, di proporre
contestualmente alla domanda di separazione personale quella di liquidazione e
divisione della comunione, non essendo il relativo diritto ancora sorto [44] e, dall’altro, per lo meno prima dell’intervento
normativo qui in commento, dal divieto di introdurre comunque tale ultima
richiesta prima che la pronuncia di separazione personale fosse passata in cosa
giudicata [45].
Questo profilo di inammissibilità della domanda
divisoria era stato definito da chi scrive, sebbene impropriamente, come
«sostanziale», per sottolineare il fatto che esso andava tenuto distinto da
quello, che verrà esaminato in seguito, di improponibilità strettamente
«processuale»: nel senso che, mentre il primo dei due ha tratto
all’impossibilità di proporre tout court,
in qualsiasi sede, la domanda di divisione, il secondo riguarda il particolare
aspetto della cumulabilità nel medesimo procedimento delle domande, da un lato,
di separazione o divorzio (o di modifica delle relative condizioni) e,
dall’altro, di quella diretta alla divisione del compendio in comunione.
Per rendere più evidente questa differenza si pongano
a raffronto i casi in cui, rispettivamente:
(a) un soggetto, ancora in regime di comunione, abbia
presentato domanda di separazione personale contestualmente (nello stesso
procedimento, o in procedimento distinto) a quella di divisione della comunione;
(b) un soggetto non più in regime di comunione (perché ha
stipulato con il coniuge una convenzione di separazione dei beni, ovvero é
stato dichiarato fallito, o, ancora, abbia ottenuto sentenza di separazione
giudiziale dei beni, ovvero si sia legalmente – giudizialmente o
consensualmente – separato dal coniuge), voglia proporre nel medesimo processo
di separazione personale (o di divorzio, nel caso, ovviamente, le condizioni di
quest’ultimo siano già maturate) anche la domanda di divisione della comunione già
sciolta.
Alla disamina delle peculiari questioni relative
all’ipotesi sub (b) dedicheremo il
prossimo §. Per il momento, relativamente all’ipotesi sub (a) va subito chiarito che quanto appena detto circa
l’inammissibilità della domanda divisoria non deve però certo indurre a
ritenere opponibile un generico fin de
non recevoir a ogni possibile richiesta patrimoniale collegata in qualche
modo alla separazione in atto.
Andrà, in primo luogo, sottolineato che le conseguenze
della soluzione che si é appena indicata come preferibile in punto decorrenza
dello scioglimento del regime legale apparivano negli ultimi tempi in qualche
modo mitigate dall’affermarsi della tesi favorevole alla possibilità di una
pronunzia parziale di separazione [46]: vale a dire, di una decisione con la quale il
tribunale si limita a statuire sulla separazione personale, rinviando la causa
in istruttoria per quanto attiene alle rimanenti domande, con conseguente
sensibile anticipazione del momento di formazione del giudicato sul punto della
separazione [47]. La conclusione, ormai assolutamente pacifica, va
altresì vista in relazione alla regola secondo cui «l’impugnazione proposta con
esclusivo riferimento all’addebito contro la sentenza che abbia pronunciato la
separazione ed al contempo ne abbia dichiarato l’addebitabilità, implica il
passaggio in giudicato del capo sulla separazione» [48]; principio, questo, che ha ricevuto applicazione
pratica proprio con riguardo al tema specifico della determinazione del momento
dal quale decorrono gli effetti dello scioglimento del regime legale. La
Cassazione ha infatti avuto modo di stabilire la liceità della vendita,
effettuata dal marito senza il consenso della moglie, di un complesso
immobiliare acquistato in pendenza della causa di separazione giudiziale in
grado d’appello, dopo che la decisione di prime cure era stata impugnata
esclusivamente in relazione alla statuizione sull’addebito [49].
Inoltre, la pendenza del contenzioso sulla separazione
non avrebbe certo impedito (anche prima della riforma qui in commento) la
rivendica di beni o somme di denaro personali, ovvero «propri», in quanto
destinati alla comunione de residuo.
Nulla, poi, escludeva, né esclude tutt’oggi, che, in caso di accordo tra le parti
o con i terzi, la quota destinata al coniuge in comunione (ovvero anche singoli
beni, in quanto poi successivamente attribuiti in sede divisoria) potesse
formare oggetto di validi negozi su cosa futura, destinati a prendere effetto
dal momento in cui fosse divenuta efficace la separazione, vuoi consensuale,
vuoi contenziosa [50].
11. Questioni
processuali circa la proponibilità della domanda divisoria nei giudizi di
separazione e divorzio. Il caso della separazione o del divorzio tra coniugi
che si trovavano già in regime di separazione dei beni.
Ancora diversi, rispetto a quelli appena visti, sono i
profili processuali. Proprio di questi ci occuperemo ora, venendo a trattare
del punto nel § precedente evidenziato sub
(b). Così, a prescindere dalla questione circa la proponibilità o meno, per le
ragioni testé esaminate, della domanda divisoria manente communione, va tenuto presente che il cumulo processuale
tra domande attinenti ai procedimenti tipici della crisi coniugale
(separazione, divorzio, modifica delle condizioni della separazione o del
divorzio) e domande divisorie appare comunque, nonostante la riforma qui in
commento, difficilmente concepibile, come verrà tra breve illustrato.
L’argomento ora da sviluppare appare di un certo peso, avuto riguardo al fatto
che l’accoglimento di tale posizione impedisce di inserire una domanda
divisoria nell’ambito di un giudizio attinente alla crisi coniugale anche nel
caso in cui, in ipotesi, una causa di cessazione del regime si sia già
realizzata (ad es.: i coniugi hanno stipulato una convenzione costitutiva del
regime di separazione dei beni, oppure si è iniziata la causa di separazione e
il presidente ha già emesso i provvedimenti provvisori, o i coniugi si sono
separati consensualmente, e si è già in sede di divorzio).
La Cassazione ha avuto modo di statuire al riguardo
che la trattazione congiunta di cause soggette a riti differenti può attuarsi,
secondo le regole di cui all’art. 40 c.p.c. soltanto laddove tali cause siano
connesse ai sensi degli artt. 31, 32, 34, 35 e 36 c.p.c.; conseguentemente si
afferma che non è possibile il cumulo in un unico processo della domanda di
cessazione degli effetti civili del matrimonio, soggetta al rito della camera
di consiglio, e di quella di scioglimento della comunione su un bene comune dei
coniugi, soggetta a rito ordinario, trattandosi di domande non legate da
vincoli di connessione, ma in tutto autonome e distinte. Sulla base di tale
principio è stata così affermata l’improponibilità in sede di procedura di
divorzio di una richiesta di divisione di un immobile [51], ovvero, più in generale di domande, oltre che di «scioglimento della comunione di beni
immobili», anche «di restituzione di beni mobili, di restituzione e pagamento
di somme» [52], sebbene non siano poi
mancate sentenze che hanno posto limitazioni d’ordine processuale alla
rilevabilità d’ufficio ed alla proponibilità ex parte dell’eccezione
d’improponibilità delle richieste divisorie [53].
In epoca precedente alle
decisioni appena citate, la medesima Corte aveva affermato l’ammissibilità
della trattazione congiunta della domanda attorea di divorzio con quella di
scioglimento della comunione proposta in via riconvenzionale dal coniuge
convenuto, stante un «innegabile» collegamento obiettivo tra le stesse ed avuto
riguardo all’art. 36 c.p.c. [54].
La tesi
dell’inammissibilità è stata criticata da chi ha posto in luce che la
specialità dei procedimenti di separazione e divorzio attiene alla sola fase
preventiva o presidenziale, per cui nei procedimenti familiari dovrebbero
essere proponibili anche le questioni di carattere patrimoniale, secondo quanto
espressamente consentito dagli artt. 104 e 105 c.p.c., rilevandosi
ulteriormente che la soluzione fornita dall’indirizzo prevalente della
Cassazione confligge con i principi dell’economia processuale e con la stessa
giurisprudenza di legittimità, la quale ammette l’applicabilità anche al
procedimento di separazione della regola dell’anticipazione della pronuncia non
definitiva sullo stato, con prosecuzione del procedimento sulle questioni
economiche [55].
Ma l’obiezione non sembra
cogliere nel segno. La specialità del rito delle procedure della crisi
coniugale va, invero, valutata tenendo in considerazione i procedimenti nel
loro complesso: ora, elementi quali l’ultrattività dei provvedimenti
presidenziali (art. 189 disp. att. c.c., applicabile al divorzio ex art.
4, ottavo comma, l. div.) o, addirittura, per il divorzio, la decisione
camerale dell’appello (cfr. art. 4, quindicesimo comma, l. div.) [56] confermano il carattere
decisamente «a parte» di questi riti.
Per non dire, poi, del
fatto che, seguendo sino in fondo la tesi qui esposta e criticata, la semplice
presentazione di una domanda di divisione o restitutoria in una con il ricorso
per separazione o divorzio verrebbe addirittura ad imporre alla procedura di
separazione o di divorzio, ai sensi dell’art. 40, terzo comma, c.p.c.,
un’indebita «amputazione» tout court della fase presidenziale.
Se si tiene conto, infatti,
della circostanza per cui, ai sensi della norma da ultimo citata, l’unico rito
applicabile è quello ordinario, sarebbe sufficiente aggiungere alla domanda di
divorzio o di separazione una qualsiasi richiesta patrimoniale basata sul
pregresso regime comunitario, anche se infondata, per legittimare la proposizione
della domanda di separazione personale, di divorzio, o di modifica delle
relative condizioni con atto di citazione ad udienza fissa, dinanzi
all’istruttore designando dal presidente in base all’art. 168-bis c.p.c.
(e non già a seguito di udienza ex art. 708 c.p.c., ovvero ex
art. 4, l. div., che sarebbe così saltata a pie’ pari), anziché con ricorso,
eliminando, oltre tutto, la possibilità dell’emissione dei provvedimenti
temporanei ed urgenti ai sensi degli artt. 708 c.p.c. e 4, ottavo comma, l.
div. Simili modo la proposizione di domande divisorie unitamente alla
richiesta di modifica delle condizioni della separazione o del divorzio
escluderebbe in toto l’applicabilità dei riti ex artt. 710 c.p.c.
e 9, l. div.
Per
quanto attiene, poi, al livello d’intensità della connessione rilevante ai
sensi dell’art. 40 c.p.c., non vi è dubbio che, una volta verificatasi la causa
di scioglimento per via della previa separazione personale (o per effetto di
altri eventi quali la stipula di una convenzione, o l’accoglimento di una
domanda di separazione giudiziale dei beni), le domande attinenti alla
divisione, proposte in sede di divorzio, appaiono sfornite, rispetto a
quest’ultimo procedimento, di quel livello di collegamento presupposto dal
terzo comma dell’art. 40 cit. [57]: la divisione, invero, si
pone quale conseguenza di un evento (la cessazione del regime, appunto) che,
per il fatto di essersi già prodotto, non potrà certo ritenersi provocato dalla
decisione sul divorzio o sulla separazione. Può quindi darsi per sicura
l’assenza di ogni possibile pregiudizialità tra la decisione principale
invocata (separazione o divorzio) e la divisione dei beni.
12. Il rilievo
entro la «prima udienza» dell’inesistenza delle ragioni di connessione.
Una questione d’un certo rilievo
pratico concerne l’individuazione della «prima udienza», quale dies ad quem
per il rilievo di parte o d’ufficio della inesistenza di ragioni tali da
consentire il cumulo processuale di domande [58], nel caso dei procedimenti
di separazione e divorzio, caratterizzati, come noto, dalla presenza di una
fase presidenziale. Si ritiene sul punto [59], con particolare riguardo
al giudizio di separazione, come riformato dalla legge n. 80/2005, che la
relativa eccezione debba essere necessariamente sollevata oralmente – e
registrata nel verbale di causa – dal ricorrente (si pensi ad una domanda
proposta in via riconvenzionale dal convenuto) nell’udienza dinanzi al giudice
istruttore fissata dal presidente nell’ordinanza ex art. 709, terzo
comma, c.p.c., essendo questo il momento in cui egli ha cognizione completa
delle domande e delle eccezioni proposte dal convenuto, potendosi quest’ultimo
costituire formalmente anche dopo l’udienza presidenziale. Una volta proposta
l’eccezione, il ricorrente ha poi la facoltà di ulteriormente precisarla o
modificarla nella prima memoria ex art. 183, sesto comma, c.p.c.
Quanto al convenuto, questi
potrebbe sollevare l’eccezione di inammissibilità delle domande eventualmente
proposte dal ricorrente prive di connessione qualificata, già nella comparsa
con cui si costituisce formalmente nel termine assegnatogli dal presidente con
l’ordinanza ex art. 709, terzo comma, cit. E’ dubbio se egli possa
sollevare tale eccezione in un momento successivo, direttamente all’udienza
dinanzi all’istruttore, poiché l’articolo 183, quinto comma, c.p.c. sembra
riservare in questa sede un diritto di replica al solo attore, mentre l’art.
167 c.p.c. fa obbligo al convenuto di proporre nella comparsa di risposta
«tutte le sue difese prendendo posizione sui fatti posti dall’attore a
fondamento della domanda» [60].
Sul punto va tenuto
presente che, nel rito della separazione, l’art. 709, terzo comma, c.p.c.,
prevede che «Con l’ordinanza il presidente assegna altresì termine al
ricorrente per il deposito in cancelleria di memoria integrativa, che deve
avere il contenuto di cui all’articolo 163, terzo comma, numeri 2), 3), 4), 5)
e 6), e termine al convenuto per la costituzione in giudizio ai sensi degli
articoli 166 e 167, primo e secondo comma, nonché per la proposizione delle
eccezioni processuali e di merito che non siano rilevabili d’ufficio.
L’ordinanza deve contenere l’avvertimento al convenuto che la costituzione
oltre il suddetto termine implica le decadenze di cui all’articolo 167 e che
oltre il termine stesso non potranno più essere proposte le eccezioni
processuali e di merito non rilevabili d’ufficio».
Da quanto sopra deriva che
l’eccezione in oggetto, rilevabile d’ufficio, dovrebbe a fortiori
ritenersi proponibile nel termine previsto per la costituzione in giudizio del
convenuto. Quanto alla rilevabilità ex parte (sia actoris, che rei),
ma anche ex officio, all’udienza ex art. 183 c.p.c., la soluzione
dipende dalla possibilità di riconoscere in tale evento processuale, anziché
nell’udienza ex art. 706, la «prima udienza» cui l’art. 40 cpv. cit. fa
richiamo. Se la risposta fosse positiva, in ragione del fatto che solo in
quella sede rimane comunque definitivamente fissato il thema decidendum
– considerandosi così irrilevante (come dies ad quem) l’udienza
presidenziale – la soluzione obbligata non potrebbe essere se non quella di
ritenere in ogni caso consentita ad entrambe le parti (oltre che, ovviamente,
al giudice istruttore) la possibilità di fare valere la circostanza in discorso
sino alla chiusura dell’udienza ex art. 183 c.p.c. [61].
Sembra comunque a chi
scrive di dover affermare che, in ogni caso, l’eventuale rilievo (vuoi di
parte, vuoi d’ufficio, da parte del presidente) in sede d’udienza ex
art. 706 c.p.c. (e addirittura già nel decreto di fissazione d’udienza
presidenziale, ovvero in sede di memoria del convenuto ai sensi dell’art. 706
c.p.c., in vista dell’udienza predetta) si deve ritenere rituale ai sensi
dell’art. 40 cpv. cit., essendo avvenuto, comunque, in epoca anteriore alla
«prima udienza» come sopra individuata.
Nel caso la questione non
sia stata sollevata dalle parti, né dal giudice, entro la prima udienza (da
intendersi secondo quanto illustrato) il thema decidendum si fissa
definitivamente e nessuna pronuncia d’inammissibilità per difetto di
connessione potrà essere adottata, dovendo il giudice attenersi al principio
che gli impone di pronunciarsi «su tutta la domanda e non oltre i limiti di
essa».
Concludendo sul punto dovrà
ancora dirsi che, ad avviso di chi scrive, ben diversa appare la disciplina,
invece, di quella che sopra si è definita come «inammissibilità sostanziale» (o
inammissibilità per ragioni sostanziali, o inammissibilità tout court, a
prescindere dalla sede in cui le relative domande si vengano a collocare): nel
caso, cioè, la domanda divisoria sia impedita dal fatto che la comunione legale
è ancora in vita tra i coniugi. A tale fattispecie, infatti, l’art. 40 c.p.c.
(che attiene invece al solo profilo della cumulabilità di domande, altrimenti
ammissibili, con le domande tipiche delle procedure della crisi coniugale) non
è in alcun modo riferibile e il giudice non può (rectius: non poteva,
prima della riforma qui in commento, come sarà tra breve precisato) fare altro,
al momento della decisione, che dichiarare l’inammissibilità dei relativi petita,
anche d’ufficio, a prescindere dalla necessità di qualsivoglia previo (ed
eventuale) rilievo.
13. Il caso
della separazione tra coniugi ancora in comunione. Sulla non proponibilità di
domande divisorie nell’ambito del giudizio di separazione, neppure in via
condizionale, prima della riforma del 2015.
L’unico dubbio sulla cumulabilità tra domande
divisorie e petita attinenti alla soluzione della crisi coniugale, prima
della riforma del 2015, avrebbe potuto investire proprio il caso da ultimo
menzionato, in chiusura del § precedente, della proposizione di domande
divisorie in sede di procedimento di separazione personale tra coniugi non
ancora séparés de biens, essendosi sostenuto in dottrina che tali
richieste sarebbero legate «da un nesso
di pregiudizialità tecnica, in quanto la separazione personale e il conseguente
scioglimento della comunione entrano quali elementi costitutivi nella
fattispecie da cui deriva il diritto di procedere a divisione», con la
conseguenza che le due domande «sarebbero cumulabili in un unico processo,
essendo l’accoglimento della seconda condizionato all’accoglimento della prima»
[62] e lo stesso discorso
potrebbe valere, naturalmente, anche con riguardo ai (rarissimi) casi di
«divorzio immediato», potendosi sottolineare in proposito che in siffatta
ipotesi parrebbero ricorrere gli estremi dell’art. 34 c.p.c., norma richiamata
proprio dal terzo comma dell’art. 40 cit.
Sul punto – e naturalmente
sempre prima della riforma del 2015 – la
giurisprudenza di merito si era in prevalenza espressa per l’improponibilità,
non già sotto il profilo processuale della non cumulabilità delle domande,
bensì sotto quello «sostanziale» fondato sulla considerazione per cui la
divisione avrebbe dovuto essere necessariamente preceduta dal verificarsi di
una causa di scioglimento [63]. La Cassazione, dal canto suo, aveva ribadito che l’art. 40 c.p.c. consente il cumulo nello
stesso processo di domande soggette a riti diversi esclusivamente in presenza
di ipotesi qualificate di connessione c.d. «per subordinazione» o «forte»
(artt. 31, 32, 34, 35 e 36 c.p.c.), «e quindi esclude la possibilità di
proporre più domande connesse soggettivamente ai sensi dell’art. 33 o dell’art.
103, cod. proc. civ., e soggette a riti diversi» [64]. Peraltro nella specie,
relativa ad un caso in cui non meglio precisate «domande restitutorie» erano
state ritenute improponibili dalla sentenza di merito impugnata, la Corte
Suprema si era limitata a rilevare «l’errore della Corte di Appello nell’aver
negato che il rapporto di accessorietà delle domande restitutorie rispetto alla
causa di separazione fosse sufficiente a consentirne la trattazione unitaria».
Il rimprovero mosso alla decisione oggetto di ricorso sembrava pertanto essere
quello di non aver preso in considerazione la possibilità che le domande
predette fossero caratterizzate da un’altra forma di connessione rispetto alla
causa di separazione. Ciò che la Cassazione non diceva era, invece, se e quale
diverso tipo di rapporto di connessione (diverso da quello di accessorietà) si
potesse profilare, nella specie, tra le domande restitutorie e quella di
separazione [65].
Il quesito torna dunque ad
essere quello del possibile riscontro di un rapporto di
pregiudizialità-dipendenza: rapporto che, a rigore, apparirebbe difficile
negare in questa peculiare ipotesi, posto che qui le domande principali sono
effettivamente dirette ad ottenere un provvedimento cui l’art. 191 c.c.
ricollega quello scioglimento che della divisione si pone quale antecedente
logico e giuridico necessario.
A ben vedere, però, in tal
caso la questione che «fa premio» – o comunque «faceva premio» prima della
riforma del 2015 – è quella dell’improponibilità che sopra si è definita come
«sostanziale» (o inammissibilità per ragioni sostanziali, o inammissibilità tout
court, a prescindere dalla sede in cui le relative domande si vengano a
collocare). In altri termini, la necessità di attendere il passaggio in
giudicato della sentenza di separazione personale impediva la proponibilità
della domanda divisoria, sia in seno alla procedura di separazione, che nel
contesto di un distinto procedimento [66].
Proprio con riguardo a
quest’ultimo profilo, nel caso in cui, durante la pendenza della causa di
separazione personale, fosse stato autonomamente proposto separato giudizio di
divisione, andava negata la possibilità di addivenire ad un provvedimento di
sospensione per pregiudizialità della causa divisoria. Sul punto una decisione
di legittimità aveva stabilito che un provvedimento sospensivo di tal fatta sarebbe
stato estraneo al paradigma normativo di cui all’art. 295 c.p.c., il quale
rende ricollegabile l’istituto della sospensione solo ad un rapporto
«sincronico» di interdipendenza logica tra due coevi giudizi, suscettibili di
proseguire altrimenti in modo autonomo. Nella specie, al contrario, si era in
presenza di un «rapporto “diacronico” di succedaneità logico-giuridica tra due
giudizi il secondo dei quali (quello – in tesi – pregiudicato), proprio perché
subordinato, nella sua promovibilità, ad un determinato esito dell’altro, non
[può] per definizione entrare con quello in contraddizione» [67].
Ora, a parte la
criticabilità del richiamo al concetto di «succedaneità logico-giuridica tra
due giudizi» [68], rimane il fatto che,
effettivamente, il presupposto fondamentale dell’art. 295 c.p.c. non sembrava
nella specie sussistere. Se, invero, la causa di divisione non era proponibile
sin tanto che quella di separazione non fosse passata in giudicato, è evidente
che la «decisione» della prima delle due procedure, per usare la terminologia
della norma di rito appena citata, non «dipendeva» dalla «definizione» della
seconda: la decisione obbligata (nel senso dell’inammissibilità) della prima
dipendeva, invece, puramente e semplicemente, dal fatto che non si era verificata
alcuna causa di scioglimento del regime legale. Se, invece, la decisione del
procedimento di divisione fosse, per qualche ragione, intervenuta una volta
passata in giudicato la sentenza di separazione personale, anche in questo caso
la decisione del primo giudizio, pur legata a quella del secondo, non avrebbe
potuto per definizione porsi con quest’ultima in contraddizione, onde avrebbe
fatto difetto la ragion d’essere dell’art. 295 c.p.c., consistente, come noto,
nell’intento di evitare un possibile conflitto di giudicati [69].
Né sul punto appariva
possibile eludere il problema configurando la domanda divisoria come domanda
condizionata all’accoglimento del petitum principale di separazione [70], per poi avvalersi della
tesi dell’ammissibilità di un cumulo condizionale di domande [71].
Se è vero, infatti, che
nessun dubbio sussiste sulla validità di convenzioni inter coniuges con
effetto reale disponenti una vera e propria divisione del patrimonio in
comunione nel contesto di un accordo di separazione consensuale, ciò va
riconosciuto come l’effetto di una condicio iuris (o, in alternativa, di
una condizione eventualmente prevista expressis verbis dalle parti),
legata all’intervenuta omologazione del verbale di separazione consensuale, che
nel momento in cui rende efficace l’intesa ai sensi dell’art. 158 c.c.,
determina lo scioglimento del regime legale, così consentendo ai coniugi di
disporre di quote e beni con effetti a decorrere da quell’istante [72]. Altrettanto non sembra
potersi affermare con riguardo alla possibilità di sottoporre a condizione una
domanda processuale il cui presupposto – cioè l’esistenza di una comunione
ordinaria, subentrata alla pregressa comunione legale, e come tale
caratterizzata dal diritto di ogni comunista di chiedere la divisione (art.
1111 c.c.) – prima dell’intervento normativo qui in commento doveva dirsi come
ancora inesistente ed appariva tutt’altro che certo, ben potendo il processo
subire vicende tali da non determinarne la «naturale» conclusione con
l’accoglimento della domanda di separazione (si pensi ad eventi quali
l’interruzione, l’estinzione, la cessazione della materia del contendere,
ecc.).
Sul punto appare necessario
evitare di farsi trarre in inganno dalla libera proponibilità in ogni tempo,
anche manente communione, dell’azione di rivendica. Invero, non vi può
essere dubbio sul fatto che ogni coniuge può, in qualsiasi momento, non solo
chiedere l’accertamento giudiziale della proprietà (solitaria, in comunione de
residuo, in comunione ordinaria o legale) di uno o più beni, ma anche
proporre vere e proprie rei vindicationes su beni personali posseduti
dall’altro coniuge, eventualmente precedendo o accompagnando tali petita
da istanze cautelari, quali il sequestro giudiziario. Partendo da tale
presupposto si era però opinato che l’improponibilità della domanda divisoria
in una con quella di separazione personale non avrebbe consentito la necessaria
instaurazione del giudizio di merito, richiesta invece, come noto, a pena di
inefficacia della misura cautelare, in un breve termine perentorio (cfr. artt.
669-octies e 669-novies) c.c. [73].
A tale obiezione si poteva
però replicare osservando che una cosa sono le azioni reipersecutorie dirette
alla restituzione di beni che mai entreranno [74] nella massa comune; altra
e ben diversa cosa sono le domande relative all’assegnazione di cespiti che,
per il fatto di formare oggetto della massa in comunione immediata, non possono
da questa essere separati sin tanto che il regime perdura. Ed è evidente che,
mentre per la prima serie di ipotesi nulla impedisce che, emanato il sequestro
giudiziario a tutela di un bene personale, il proprietario proponga la causa di
merito, nella seconda un problema di tutela cautelare in relazione alla
titolarità di beni determinati non può neppure porsi, per il semplice fatto che
nessuno è in grado di sapere se proprio quel bene sarà assegnato al
«rivendicante» [75].
Inoltre si tenga presente
che la domanda di divisione avrebbe avuto necessariamente ad oggetto, sino al
momento del passaggio in giudicato della sentenza di separazione personale, un
oggetto «fluttuante» e indeterminato, operando ancora durante tutto il periodo
di vigenza del regime legale la regola del coacquisto automatico. Ciò avrebbe
comportato, come conseguenza, che la domanda diretta alla divisione sarebbe
stata forzatamente parziale e, come tale, inammissibile; per certi aspetti,
anzi, avrebbe potuto essere definita come «necessariamente indeterminata e
indeterminabile», non potendo essa specificamente riferirsi a quei beni che, al
momento del passaggio in giudicato della decisione sulla separazione personale,
avrebbero formato oggetto del regime legale [76], sulla cui sussistenza,
consistenza e titolarità in quel momento futuro ed incerto nessuno era in grado
di pronunziarsi.
14. Segue. Sulla non proponibilità di
domande divisorie nell’ambito del giudizio di separazione, neppure in via
riconvenzionale, anche dopo la riforma del 2015.
Per quanto attiene invece al
possibile profilo di connessione rappresentato dalla proposizione della domanda
di divisione alla stregua di una domanda riconvenzionale, andrà tenuto presente
che l’art. 36 c.p.c. non richiama genericamente ogni possibile domanda del
convenuto, ma solo quelle che si trovano collegate da un nesso specifico con la
pretesa dell’attore, ovvero le domande riconvenzionali che «dipendono dal
titolo dedotto in giudizio dall’attore o da quello che già appartiene alla
causa come mezzo di eccezione». Ora,
intendendo, con la migliore processualistica, tale norma alla stregua di una
disposizione generale che disciplina i limiti di ammissibilità della domanda
riconvenzionale, occorrerà dire che il convenuto può proporre solo ed
esclusivamente quelle domande riconvenzionali che presentano, per l’appunto,
tali precise caratteristiche [77].
Ciò premesso, andrà allora tenuto presente che nessun
nesso del genere qui illustrato sembra sussistere tra la domanda divisoria e
quelle tipiche della procedura divorzile, così come di quella di separazione
personale, quando i coniugi si trovino già in regime di separazione dei beni.
Cosa che, come noto, succedeva prima della riforma del 2015 per lo più nel caso
delle procedure di divorzio, solitamente precedute dalla separazione legale;
peraltro neppure allora era escluso che il medesimo ragionamento valesse per la
stessa separazione personale, allorquando questa fosse stata preceduta da
qualche altra causa estintiva del regime legale (convenzione, ad esempio, o
fallimento di un coniuge, o accoglimento di una domanda di separazione
giudiziale dei beni).
In tutte queste ipotesi, dunque, il «titolo» da cui
dipende la divisione si trova nello scioglimento del regime legale, che, per il
fatto di essersi già prodotto, non è in alcun modo determinato
dall’accoglimento delle domande proposte dall’attore. Per questa ragione va
sicuramente approvata quella decisione di merito la quale ha statuito che nel
giudizio di divorzio, la domanda riconvenzionale con cui il coniuge convenuto
chieda l’accertamento della esistenza della azienda o dell’impresa coniugale
(con conseguente divisione della comunione o rimessione della causa al giudice
del lavoro), determina un insieme di causae
petendi autonome, eterogenee e configgenti con il rito speciale e ad oggetto
vincolato instaurato, dando luogo ad un cumulo di domande che, prescindendo da
qualunque forma di connessione qualificata – e rappresentandone invece una di
natura esclusivamente soggettiva e semplice – non può che condurre alla
declaratoria di improponibilità della domanda riconvenzionale stessa [78].
Viceversa, nel caso l’attore avesse presentato, prima
della riforma del 2015, domanda di separazione personale (o di divorzio
«immediato») in relazione ad una coppia ancora in regime di comunione, la riconvenzionale
di divisione, pur ammissibile ex art.
36 c.p.c., si sarebbe venuta a scontrare con il problema di improponibilità
«sostanziale» sopra illustrato, con le medesime conseguenze [79].
15. La
procedibilità della domanda divisoria proposta in via autonoma, per il
sopraggiungere, durante il relativo procedimento, di una causa di scioglimento
della comunione.
L’originaria
improcedibilità di un giudizio divisorio, eventualmente proposto in via
autonoma in relazione ad una coppia ancora in regime legale, veniva meno, già
sotto il vigore del testo precedente dell’art. 191 c.c., nel caso in cui,
durante la pendenza della procedura divisionale, fosse passata in giudicato la
sentenza di separazione personale, o comunque si fosse verificata una diversa
causa di cessazione del regime legale. Sul punto non sembravano dispiegare
effetto negativo le considerazioni di cui sopra, ed in particolare il rilievo
per cui non si sarebbe potuto configurare alcun tipo di pregiudizialità tra la
causa di separazione e quella di divisione. A tale conclusione (circa
l’impossibilità, cioè, di salvare l’ammissibilità del giudizio divisorio, nel
caso uno degli eventi ex art. 191
c.c. si fosse verificato in corso di causa) si sarebbe dovuto pervenire se si
fossero configurate le cause di scioglimento del regime legale alla stregua di veri e propri presupposti processuali [80] e non di semplici
condizioni dell’azione che, come noto, possono utilmente sopravvenire anche in corso di
causa [81].
Ora, come osservato nella
giurisprudenza di merito, i presupposti processuali trovano la loro fonte in
ben precise disposizioni legislative, laddove la sussistenza delle condizioni dell’azione può e deve essere
valutata con riferimento al momento della decisione [82].
Sembrava quindi ragionevole
argomentare, come aveva fatto nel 2010 chi scrive [83], che, qualora il legislatore avesse inteso subordinare la
possibilità di ottenere una sentenza di merito, al passaggio in giudicato della
sentenza di separazione, lo avrebbe previsto espressamente. Poiché ciò non era
avvenuto, sembrava corretto ritenere che tale elemento si ponesse sul piano dei
fatti costitutivi del diritto ad ottenere la divisione e non su quello
processuale della condizione di proponibilità della domanda. Inoltre, la
soluzione in esame applicava il principio di economia dei giudizi, in forza del
quale il giudice deve pronunciare in base a quanto risulta al momento della
chiusura della discussione e, quindi, deve tenere conto sia dei fatti estintivi
sia di quelli costitutivi che, pur non esistenti all’epoca della proposizione
della domanda, siano sopravvenuti nel corso del giudizio [84].
La soluzione proposta da chi scrive venne poco tempo
dopo adottata dalla Corte di cassazione, la quale affermò che «Il passaggio in
giudicato della sentenza di separazione giudiziale (o l’omologazione di quella
consensuale), che rappresenta il fatto costitutivo del diritto ad ottenere lo
scioglimento della comunione legale dei beni, non è condizione di procedibilità
della domanda giudiziale di scioglimento della comunione legale e di divisione
dei beni, ma condizione dell’azione. Conseguentemente, la domanda è proponibile
nelle more del giudizio di separazione personale, essendo sufficiente che la
suddetta condizione sussista al momento della pronuncia» [85].
Come si diceva, non sembra
esservi contraddizione tra questa conclusione e l’avviso – fatto proprio, come
si è visto, dalla giurisprudenza di legittimità – secondo cui il giudizio di divisione non può essere sospeso ex art. 295 c.p.c. in attesa del
giudicato sulla separazione. Non sembra, infatti, che l’esclusione della
sospensione in attesa del giudicato comporti l’impossibilità di utilizzare il
giudicato di accoglimento che si formi in corso causa. Invero, altro è dover
sospendere un processo in attesa della definizione di un altro processo (che
potrebbe pure sfociare nell’estinzione), altro è non prendere atto nel processo
del giudicato nelle more formatosi in altro processo. Infatti, altro è dover
sospendere il giudizio di divisione in attesa della definizione di un processo
di separazione che potrebbe pure non arrivare a sentenza o sfociare in una
sentenza di rigetto; altro sarebbe non prendere atto nel giudizio di divisione
del giudicato di separazione [86].
16. Gli effetti
della riforma del 2015 sul tema della proponibilità delle domande divisorie.
Dopo questo ampio (ma necessario) excursus sulla situazione precedente
alla riforma qui in commento è giunto il momento di chiedersi quali effetti
pratici vadano riconnessi, sul piano della proponibilità delle domande divisorie,
alla riforma dell’art. 191 c.c.
Si è già avuto modo di chiarire che, oggi,
l’anticipazione dello scioglimento del regime legale al momento «in cui il
presidente del tribunale autorizza i coniugi a vivere separati, ovvero alla
data di sottoscrizione del processo verbale di separazione consensuale dei
coniugi dinanzi al presidente» vale ad escludere quella situazione che sopra si
è definita come di improponibilità «sostanziale», collegata alla (un tempo)
perdurante presenza del regime legale nel momento d’inizio di una delle
procedure giudiziali ivi descritte. Una volta verificatosi uno degli eventi
appena descritti, la domanda divisoria sarà quindi sicuramente proponibile (o
lo diverrà, comunque, nel caso essa fosse stata notificata ancora manente communione).
Il fatto che la riforma del 2015 non abbia invece
introdotto l’inciso dei lavori preparatori, già ricordato, secondo cui «La
domanda di divisione della comunione legale tra i coniugi può essere introdotta
unitamente alla domanda di separazione o di divorzio» vale a scongiurare la
possibilità che domande divisorie di qualsiasi tipo siano proposte nel giudizio di separazione o di divorzio.
Continua dunque a non essere consentita, in base ai
principi scolpiti nell’art. 40 c.p.c., la proposizione, nei giudizi di
separazione e di divorzio di una domanda, quale quella divisoria [87], la cui connessione rispetto alle procedure della
crisi coniugale non appare certamente connotata – come ampiamente illustrato
sopra – da quel livello di «forza» richiesto dal terzo comma del citato
articolo del codice di rito (che rinvia, infatti, agli artt. 31, 32, 34, 35 e
36 c.p.c.).
Inutile dire che, ove divenuta legge, la disposizione
(mirante, tra l’altro ad inserire una regola prettamente processuale in un
articolo del … codice civile) proposta dal testo unificato della Camera,
avrebbe prestato il fianco a critiche legate all’assoluta inopportunità
dell’appesantimento del rito separatizio e divorzile con le questioni connesse
ai giudizi divisori, in barba a quelle caratteristiche di celerità e snellezza
che (a prescindere ancora dai generali canoni imposti dal necessario rispetto
del délai raisonnable imposto
dall’art. 6 della Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo
e delle libertà fondamentali) dovrebbe caratterizzare le procedure di
separazione e divorzio (battezzato in questo contesto, con involontaria ironia
… «breve»). Sembra abbastanza evidente
che l’effetto pratico dell’accoglimento della citata regola processuale non
sarebbe certo stato quello di un’accelerazione dei tempi del contenzioso [88]: il processo di divisione
delle comunioni è, come ognuno sa, caratterizzato da particolari lungaggini,
sovente legate alla difficile realizzabilità dei cespiti che compongono la
massa.
A parte, dunque, l’ovvio richiamo all’opportunità di
valersi della pronunzia parziale di separazione [89], sarebbe apparso comunque consigliabile – specie
negli uffici giudiziari caratterizzati dalla presenza di un’apposita sezione
tabellarmente «competente» per la trattazione delle procedure divisorie – che
il tribunale s’avvalesse del potere concessogli dall’art. 103 cpv. c.p.c.,
provvedendo senz’altro a separare le domande divisorie della massa comune da
quelle separatizie e divorzili (e rimettendo, le cas échéant, le prime al presidente per l’assegnazione alla
sezione eventualmente designata tabellarmente per la relativa trattazione).
17. L’intervento
in tema di regime pubblicitario.
Meritevoli, poi, di un certo approfondimento critico
appaiono le frettolose norme della riforma qui in commento, in tema di regime
pubblicitario.
Il Senato ha qui evitato in extremis le osservazioni ironiche che, inevitabilmente, la
semplice lettura del testo approvato in prima lettura dalla Camera avrebbe
suscitato nello sbigottito lettore: «Qualora i coniugi siano in regime di
comunione legale…». Proprio così esordiva, infatti, il secondo periodo del
comma aggiunto all’art. 191 c.c. E, di grazia, in quale regime si sarebbero
dovuti trovare, gli sventurati, visto che stiamo parlando proprio dello
scioglimento… della comunione legale? Sembrava quasi che al legislatore,
distratto da chissà cosa, fosse sfuggito che stava rimaneggiando l’art. 191
c.c., rubricato «Scioglimento della
comunione» e collocato nella Sezione III (del Titolo VI del Libro
Primo), intitolata «Della comunione legale»!
Ma, ben al di là di questo curioso «episodio
Alzheimer» normativo, evitato at the
eleventh hour, l’ironia si muta in preoccupazione, di fronte all’ennesima prova
di superficialità di un legislatore che, a quarant’anni esatti dalla riforma
del 1975, non si è ancora reso conto della circostanza che
l’effetto-opponibilità, proprio della pubblicità dichiarativa, è espressamente
esplicitato, in relazione al fenomeno dell’annotazione sull’atto di matrimonio,
dal solo art. 162, ult. cpv., c.c., con riguardo al solo (e ben diverso) caso
delle convenzioni matrimoniali.
Per le ipotesi qui in esame, invece, continuano a
valere i rilievi dello scrivente, mossi con riferimento al citato art. 69 della
legge sull’ordinamento dello stato civile (vale a dire: constatazione della
presenza di disposizioni che impongono l’annotazione, ma che non chiariscono a
quali effetti), tanto più che l’art. 2647 c.c. continua a prescrivere la
trascrizione sui pubblici registri immobiliari degli «atti» e dei
«provvedimenti» di scioglimento della comunione, tra cui rientrano optimo iure le cause di scioglimento
novellamente istituite. Sembra dunque più che legittimo ritenere che la
soluzione, da oltre trent’anni proposta e riproposta dallo scrivente sulla
necessità di un coordinamento tra annotazione e trascrizione, sia divenuta, a
fronte di norme così sconcertanti, ormai ineludibile.
18. Il regime
transitorio delle nuove cause di cessazione del regime legale.
Lo sconcerto destato dalla superficialità con la quale
il legislatore del 2015 ha affrontato i problemi sopra descritti, trova infine
adeguato pendant nel regime
transitorio delle nuove cause di cessazione della comunione legale.
Anche qui sarà opportuno precisare che il testo
approvato dalla Camera non conteneva alcuna disposizione specifica, limitandosi
a regolare gli effetti intertemporali delle norme sul «divorzio breve».
Sarà il caso di rimarcare che, se le cose fossero
rimaste così, (oltre ad evitare la brutta figura di cui verrà dato conto tra
poco), una volta tanto, il legislatore italiano si sarebbe trovato in
autorevole compagnia. Sono note le polemiche sorte proprio sul diritto
transitorio del sistema patrimoniale tra coniugi introdotto dal Code Napoléon, che, nella più totale
assenza di un’apposita normativa, costrinse gli interpreti a fornire al regime
legale la valenza di un regime di fonte contrattuale, sulla base di una vera e
propria finzione circa la presenza di un accordo implicito di adesione al
sistema previsto per default dalla
legge (di communauté nelle zone già
di droit coutumier e di separazione
con dote in quelle già di droit écrit).
La soluzione elaborata dalla Cour de cassation al
riguardo fu quella di ritenere che non solo le convenzioni matrimoniali già
stipulate, in quanto contratti, avrebbero continuato a mantenere efficacia in
conformità alle disposizioni previgenti, ma che anche «le régime légal doit
être également immuable, et qu’il doit conserver son empire pour tous les
mariages qui se sont conclus sans contrat sous son empire» [90]. In applicazione dello stesso principio, i tribunali
del Regno di Piemonte e Sardegna, ad esempio, continuarono ad applicare, sin
oltre la metà del XIX secolo, la comunione legale francese alle coppie che
avevano contratto matrimonio sotto il vigore del Code Napoléon, prima della Restaurazione [91].
Ora, l’art. 3 della legge qui in commento stabilisce
testualmente che «Le disposizioni di cui agli articoli 1 e 2 si applicano ai
procedimenti in corso alla data di entrata in vigore della presente legge,
anche nei casi in cui il procedimento di separazione che ne costituisce il
presupposto risulti ancora pendente alla medesima data». L’art. 2 è, per
l’appunto, quello che contiene il nuovo secondo comma dell’art. 191 c.c.
Anche in questo caso non appare esagerato interrogarsi
sulla lucidità di chi abbia partorito uno scampolo di prosa del genere,
pensando di risolvere il problema dato dal difetto di norme transitorie per il
nuovo art. 191 c.c., mercé il semplice inserimento dell’inciso «e 2» nell’art.
3 (rimasto per il resto identico al testo approvato in prima lettura dalla
Camera), senza minimamente avvedersi del pasticcio che in tal modo si veniva a
creare.
Ed invero, è la stessa parte finale di tale art. 3 a
rendere evidente la sua inapplicabilità al caso qui in esame.
Il punto è il seguente: quali sono i «procedimenti in
corso» cui è applicabile il nuovo art. 191 c.c.? La norma citata, prevedendo
espressamente l’eventualità che il (distinto) «procedimento di separazione che
ne costituisce il presupposto risulti ancora pendente», squaderna la sua
riferibilità ai soli procedimenti di divorzio (che si vuole rendere «brevi»,
riducendo il tempo d’attesa), cui, per l’appunto, il nuovo art. 191 c.c.
(testualmente riferito alla separazione personale) non è applicabile!
Superato, dunque, il primo attimo di sbigottimento,
non resta che lavorare sul «materiale» a disposizione, vale a dire sul generale
principio di irretroattività (art. 11 prel.), ma anche sulla sostanziale
assenza di (vere) disposizioni transitorie sostanzialmente riferibili al
novellato art. 191 c.c.
Innanzi tutto dovrà dirsi che – argomentando a contrariis rispetto alla citata
sostanziale assenza, nell’art. 3, di una norma transitoria per i problemi qui
in esame – le regole sullo scioglimento della comunione novellamente introdotte
si dovranno considerare applicabili solo alle autorizzazioni a vivere separati,
ovvero alle sottoscrizioni dei verbali di separazione consensuale dei coniugi
dinanzi al presidente intervenute dopo l’entrata in vigore della novella.
Ulteriore conseguenza della tesi appena prospettata,
la quale punta l’attenzione sul momento in cui si verifica una delle novelle
cause di estinzione del regime legale, introdotte dalla modifica dell’art. 191
c.c. (emanazione dei provvedimenti presidenziali, o sottoscrizione del verbale
di separazione consensuale), appare essere quella secondo cui si deve
necessariamente prescindere dal momento d’inizio della procedura. Sarà dunque
indifferente che il ricorso sia stato depositato prima o dopo l’entrata in
vigore della novella, purché – si ripete – il provvedimento presidenziale (per
le separazioni contenziose) o la sottoscrizione del verbale (per le
consensuali), abbiano luogo posteriormente a tale momento.
La preferibilità di tali conclusioni sembra
confermata, del resto, dalla considerazione delle conseguenze derivanti dalle
possibili alternative.
La prima di esse sarebbe infatti quella di ritenere
che, per i procedimenti di separazione personale in corso (e in relazione ai
quali l’autorizzazione a vivere separati sia già stata emessa, magari diversi
anni prima, ovvero la sottoscrizione del verbale di separazione consensuale
dinanzi al presidente sia già avvenuta), la cessazione del regime legale sia
determinata dall’entrata in vigore della legge, a partire proprio da tale
ultimo momento: ma tale conclusione, in mancanza di una disposizione ad hoc, non sembrerebbe giustificarsi
alla luce del citato principio generale per il quale la legge non dispone che
per l’avvenire e la novella del 2015, riferendosi, per l’appunto, ai
provvedimenti presidenziali ed ai verbali di separazione consensuale, sembra
voler disporre solo relativamente a quelli ancora da emanare dopo la sua
entrata in vigore.
Ancor meno convincente sarebbe l’ipotesi di
considerare sciolte le comunioni a far data da uno dei descritti eventi,
verificatisi prima dell’entrata in vigore della novella, magari anni fa. Non è
certo il caso di spendere molte parole per dimostrare la contrarietà di
siffatta conclusione rispetto al principio di generale irretroattività della
legge, in assenza di qualsivoglia appiglio normativo (come detto, infatti, i
«procedimenti in corso» di cui alla norma in esame non possono essere quelli di
separazione), per non dire, poi, delle conseguenze pratiche relativamente ai
rapporti inter coniuges e nei
confronti dei terzi [92].
Un’ulteriore, distinta, ma del tutto ipotetica,
alternativa sarebbe quella di considerare, tutto al contrario, che il principio
scolpito nell’art. 11 prel. valga ad impedire l’applicazione di cause di
scioglimento novellamente introdotte rispetto a regimi «legalmente conformati»,
anche in ordine al tema della cessazione, sulla base della disciplina vigente
al momento in cui essi vennero in essere. In altre parole, il divieto generale
di retroattività – alla luce di questa lettura – dovrebbe impedire di
considerare applicabile alle comunioni legali in corso al momento di entrata in
vigore della riforma del 2015 le nuove cause autonome di scioglimento descritte
dal nuovo ultimo comma dell’art. 191 c.c. (cioè, soprattutto, il provvedimento
presidenziale emanato all’inizio delle separazioni giudiziali, atteso che per
le consensuali, in ogni caso, l’omologa interviene comunque in tempi decisamente
più brevi rispetto al passaggio in giudicato della sentenza di separazione
contenziosa).
Tale ultima conclusione – pur se in linea con le
riflessioni che già diversi anni fa la migliore dottrina francese svolgeva
circa l’impossibilità di inserire principi nuovi in un regime conformato alla
sua nascita secondo un «blocco di regole indivisibili» [93] – non sembra però accettabile: il suo significato
concreto sarebbe, invero, quello di rinviare ad un futuro troppo remoto (anni
e, in molti casi, decenni) l’applicazione delle novità introdotte,
restringendone ulteriormente il campo d’azione alle future ed eventuali
separazioni di quelle ormai pochissime coppie che, dopo l’entrata in vigore della novella, celebreranno le nozze senza
optare per il regime di separazione dei beni.
[1] Sulla disaffezione delle coppie italiane verso il regime legale, e sulle relative cause, si fa rinvio per tutti a Oberto, La comunione legale tra coniugi, in Trattato di diritto civile e commerciale, già diretto da Cicu, Messineo e Mengoni, continuato da Schlesinger, I, Milano, 2010, p. 372 ss.
[2] Inutile dire che tale profilo, che colloca l’Italia alla retroguardia dei Paesi del nostro continente, appare il più criticabile dell’intervento normativo qui in commento, tanto più che gran parte della dottrina sottolinea già da diversi anni l’assurdità della soluzione per la quale i coniugi si vedono costretti a «piangere due volte» le identiche questioni della loro (unica!) crisi coniugale (cfr. per tutti Cipriani, Abrogazione della separazione coniugale?, in Dir. fam., 1997, p. 1103 ss.; v. inoltre Oberto, I contratti della crisi coniugale, I, Milano, 1999, p. 390 ss.; Id., La comunione legale tra coniugi, in Trattato di diritto civile e commerciale, già diretto da Cicu, Messineo e Mengoni, continuato da Schlesinger, II, Milano, 2010, p. 1768 e nota 1; per una comparazione al riguardo con altri sistemi europei cfr. Fortino, La separazione personale tra coniugi, in Trattato di diritto di famiglia, diretto da Zatti, I, Famiglia e matrimonio, a cura di Ferrando, Fortino e Ruscello, II, Milano, 2002, p. 920; Ead., I modelli di separazione e divorzio in Europa: uno sguardo alle recenti riforme di alcuni Paesi europei, in Il nuovo diritto di famiglia, Trattato diretto da Ferrando, I, Matrimonio, separazione e divorzio, Bologna, 2007, p. 515 ss.). Il tutto aggravato, ovviamente, dalla posizione «punitiva» della giurisprudenza maggioritaria verso quelle coppie che, per fornire un minimo di stabilità all’assetto postmatrimoniale impresso con la stipula di un contratto della crisi coniugale in sede di separazione, s’azzardano ad attribuire allo stesso anche una valenza per il futuro processo di divorzio (per tutti cfr. Oberto, Contratti prematrimoniali e accordi preventivi sulla crisi coniugale, in Fam. dir., 2012, p. 69 ss.).
[3]
Cfr., ex multis, Cass., 29 gennaio
1990, n.
[4] Cfr. Trib. Trieste, 24
luglio
[5] A. e M. Finocchiaro, Diritto di famiglia, I, Milano, 1984, p. 1128 s.; Scardulla, La separazione personale dei coniugi ed il divorzio, Milano, 2008,
p. 505 ss.; M. Finocchiaro, Autorizzazione
a vivere separati e preteso scioglimento del regime di comunione dei beni dei
coniugi, in Giust. civ., 1991, I, p. 210 ss.; Id., La Cassazione e la comunione de residuo: una sentenza da dimenticare,
in Vita not., 1996, p. 1201 ss.; Id.,
Con il provvedimento di omologazione del
tribunale scioglimento automatico della comunione legale, in Guida al diritto, 1995, dossier n. 11,
p. 53 ss.; De Paola, Il diritto
patrimoniale della famiglia coniugale, II, Il regime patrimoniale
della famiglia. Nozioni introduttive - Convenzioni matrimoniali - Comunione
legale dei beni – Comunione convenzionale, Milano, 1995, p. 650 ss.; Civinini, Sulla cumulabilità della
domanda di separazione personale e di scioglimento della comunione legale, in Foro
it., 1997, I, c. 1597 ss.; Bartolucci,
Separazione personale dei coniugi e
determinazione dello scioglimento della comunione legale, Nota a Cass., 5
ottobre 1999, n. 11036, in Notariato,
2000, p. 13 ss.; Paladini, Lo scioglimento della comunione legale e la
divisione dei beni, in AA.VV., Trattato di diritto
privato, diretto da Bessone, IV, Il diritto di famiglia, II, Torino,
1999, p. 405
s.; Servetti, Lo scioglimento della comunione legale, in Il nuovo diritto di
famiglia, Trattato diretto da Ferrando, II, Rapporti personali e
patrimoniali, Bologna, 2008,p. 618; Lorenzo
Balestra (d’ora in poi abbreviato Lor. Balestra),
La delicata questione dello scioglimento
della comunione legale fra i coniugi a seguito della pronuncia della
separazione personale, Nota a Trib. Bari, 20 novembre 2008, in Fam. dir., 2009, p. 511; Oberto, La comunione legale tra coniugi, II, cit., p. 1777 ss.; Luigi Salomone di Enzo, Lo scioglimento della comunione legale dei coniugi, in Aa. Vv.,
Famiglia e patrimonio. Rapporti patrimoniali fra coniugi e
conviventi dalla conoscenza, al matrimonio, alla separazione e divorzio, alla
morte, a cura di G. Oberto,
Padova, 2014, p. 509 ss.
[6] Cfr. Corte cost., 7 luglio
1988, n. 795, in Foro it., 1989, I,
c. 928; in Giur. cost., 1988, I, p. 3787; in Dir. fam., 1988, p.
1218. L’ordinanza, dichiarando manifestamente infondata la questione di
legittimità costituzionale dell’art.
191 c.c. in relazione all’art.
3 Cost., rileva il carattere temporaneo dei provvedimenti di cui all’art. 708 c.p.c., e perciò la loro
inidoneità a fondare lo scioglimento della comunione, mancando in tali
provvedimenti un accertamento formale definitivo della cessazione dell’obbligo
di convivenza e di reciproca collaborazione. In motivazione si sottolinea «che
la ragione per cui, perdurando il rapporto di coniugio, non solo la separazione
di fatto dei coniugi, ma nemmeno i provvedimenti temporanei ex art. 708 cod. proc. civ. non sono
previsti dall’art. 191 come cause di scioglimento della comunione, è la
mancanza in questi casi di un accertamento formale definitivo della cessazione
dell’obbligo di convivenza e di reciproca collaborazione; che il carattere
temporaneo del provvedimento presidenziale impedisce che la situazione dei
coniugi provvisoriamente autorizzati a vivere separatamente nelle more del
giudizio di separazione possa essere equiparata a quella dei coniugi legalmente
separati, e dunque esclude che il perdurare per essi del regime di comunione
dei beni possa costituire una violazione dell’art. 3 Cost.; che per configurare
una simile violazione il giudice remittente si è riferito come a tertium comparationis non già
all’effetto estintivo della comunione legale dei beni previsto dall’art. 191
(ai fini di una sentenza additiva che tale effetto estenda anche ai
provvedimenti presidenziali ex art.
708 cod. proc. civ.), bensì a un effetto giuridico non previsto da questo
articolo, né da alcun’altra norma positiva, consistente nella “quiescenza
temporanea” del regime di comunione, ossia nella provvisoria sospensione della vis adquisitiva ad esso attribuita
dall’art. 177 cod. civ.; che, prospettata in questi termini, la questione,
prima che infondata, è inammissibile, perché postula una sentenza che introduca
nella disciplina della comunione legale dei beni un nuovo istituto normativo,
in merito al quale lo stesso giudice a
quo riconosce necessaria una valutazione di opportunità, anche per quanto
riguarda le varie possibili modalità tecniche: una sentenza, cioè, che
invaderebbe il campo delle scelte di politica del diritto riservate al
legislatore».
[7] Cfr. Schlesinger, Della comunione legale, in Commentario alla riforma del
diritto di famiglia, a cura di Carraro, Oppo e Trabucchi, I, 1, Padova,
1977, p.p. 439;
F. Corsi, Il regime patrimoniale della famiglia, I, in Trattato
di diritto civile e commerciale, diretto da Cicu e Messineo, continuato da
Mengoni, Milano, 1979,p. 176 ss.; Zatti e Mantovani, La separazione personale (artt. 150-158), Padova, 1983, p. 293; Gionfrida Daino, La posizione dei creditori nella comunione legale tra coniugi,
Padova, 1986, p. 184; R. Dogliotti,
Lo scioglimento della comunione dei beni
tra coniugi: presupposti e caratteri, in Dir. fam., 1990, II, p. 265; A. Ceccherini,
Crisi della famiglia e rapporti
patrimoniali, Milano, 1991, p. 89 ss.; Id.,
I rapporti patrimoniali nella crisi della
famiglia e nel fallimento, Milano, 1996, p. 134 ss.; Majello, voce Comunione dei beni
tra coniugi, I), Profili sostanziali, in Enc. giur., VII, Roma, 1988, p. 9; Mastropaolo e Pitter, Commento agli artt. 186-190, in Commentario
al diritto italiano della famiglia, diretto da Cian, Oppo e Trabucchi, III,
1992, p. 307
ss.; Barbiera, La comunione legale, La comunione
legale, in Trattato di diritto privato, diretto da Rescigno, 3,
II, Torino, 1996, pp. 586 (peraltro con la precisazione che rispetto ai terzi lo
scioglimento si verifica comunque soltanto dal passaggio in giudicato); Scattarella, Il momento di scioglimento della comunione legale a seguito di
separazione personale, in Dir. fam.,
2006, p. 325 ss., spec. 340 s.; Cecchella,
Aspetti processuali della divisione nella
comunione tra coniugi, in Avvocati di
famiglia, n. 5, settembre-ottobre 2008, p. 30 ss. Anche ad avviso di Gennari, Lo scioglimento della comunione, in Trattato di diritto di famiglia,
diretto da Zatti, III, Milano, 2002, p. 394 «Non sembra che l’intenzione legislativa
possa essere stata quella di conservare lo stato di comunione legale tra due
coniugi, il cui rapporto sia definitivamente compromesso, per il periodo, come
si sa non certo breve, necessario alla definizione del procedimento di
separazione. Diversamente opinando si rischia di arrivare all’assurdo per cui,
pendente il giudizio, nessuno dei coniugi si azzarderebbe ad acquistare niente
per il timore, più che fondato, che poi quell’acquisto finisca pure con il
ricadere a vantaggio dell’altro coniuge con il quale non si vorrebbe spartire
più nulla»; la soluzione viene quindi reperita nell’applicazione diretta
dell’art. 193 c.c., la cui domanda viene implicitamente ritenuta proposta con
la proposizione del ricorso per separazione personale. Per la giurisprudenza
propensa ad opinare che gli effetti della sentenza retroagissero alla data di
presentazione della domanda v. App. Roma, 4 marzo 1991, in Giust. civ., 1991, I, p. 2444; in Riv. not., 1991, p. 1402; Trib. Milano, 20 luglio 1995, in Fam. dir., 1996, p. 263, con nota di Schlesinger; secondo tale ultima
decisione, premesso che lo scioglimento della comunione legale può solo conseguire ex
art. 191 c.c., ad una pronuncia
definitiva di separazione, «è purtuttavia legittimo affermare che gli effetti
di detto scioglimento retroagiscono ad una data anteriore, che si ravvisa non nell’udienza
presidenziale di cui all’art. 708
c.p.c., bensì in quella antecedente della proposizione della domanda di
separazione».
[8] Cfr. ad es. L. Rubino, Particolarità dello scioglimento nelle ipotesi di separazione
personale, divorzio e annullamento del matrimonio, in Aa.Vv., La comunione legale,
a cura di C.M. Bianca, II, Milano, 1989, p. 920. In giurisprudenza v. App. Roma, 4 marzo
1991, cit., che, oltre al richiamo all’art. 193, quarto comma, c.c., così
motiva: «posto (…) il principio generale, secondo cui la durata del giudizio
non può risolversi in pregiudizio dei diritti acquisiti con la proposizione
della domanda giudiziale, e considerato che, in ogni caso, il deposito della
domanda di separazione personale (o, se si vuole, la tentata e mancata conciliazione
dei coniugi in sede di comparizione presidenziale) rappresenta indubbiamente il
momento nel quale la rottura della convivenza si manifesta all’esterno (…), non
si vede la ragione logica e giuridica che osterebbe, appunto,
all’interpretazione del richiamato art. 191 c.c., nel senso che lo scioglimento
della comunione dei beni, per effetto della separazione personale dei coniugi,
debba attuarsi dal momento della proposizione della domanda relativa a tale
ultimo giudizio, dalla natura dichiaratamente accertativa». Nel senso che
l’art. 193, quarto comma, c.c. conterrebbe una norma applicabile a tutte le
cause di scioglimento giudiziale cfr. anche Mastropaolo
e Pitter, op. cit., p.
309; Caliendo, Scioglimento della comunione legale
nella separazione, Nota a Cass., 17 dicembre 1993, n. 12523, in Fam. dir.,
1994, p. 427; Chizzini, Ordinanza ex art. 708 c.p.c. e comunione legale, in Fam. dir., 1995, p. 573; quest’ultimo Autore richiama l’art. 193,
quarto comma, c.c., nonché il principio per cui il tempo necessario per far
valere un proprio diritto in giudizio non può andare a danno dell’attore che ha
ragione, per affermare che gli effetti della sentenza costitutiva «decorreranno
(una volta che il provvedimento giudiziario sia intervenuto) dalla data della
notificazione del ricorso e del decreto presidenziale di comparizione ex art. 706, 2° comma, c.p.c., all’altro
coniuge».
[9] Cfr. Schlesinger, Della comunione legale, cit., p. 439.
[10] Cfr. F. Corsi, Il regime patrimoniale della famiglia, I, cit., p. 176. Nello
stesso senso cfr. G. Gabrielli, I rapporti
patrimoniali tra coniugi. Corso di diritto civile, Trieste, s.d.
ma 1981, p.
200; Cian e Villani, La comunione dei beni tra coniugi (legale e convenzionale), in Riv. dir.
civ., 1980, I, p. 389 (il contributo è stato pubblicato anche, sotto il
medesimo titolo, come voce del Nss. D.I., App., II, Torino, 1981, p. 157
ss.; le citazioni di tale lavoro in questo scritto si riferiscono all’articolo
pubblicato in Riv. dir. civ., cit.); Gennari, Lo scioglimento della comunione, cit., p. 394.
[11] V. infra, §§ 6 ss.
[12] Cfr. Oberto, La comunione legale tra coniugi, I, cit., p. 380 ss.
[13] Condivisibili apparivano, sotto il profilo dell’opportunità (ma, come si vedrà tra breve nel testo, non dal punto di vista dell’ordinamento positivo prima della riforma del 2015), i rilievi mossi ex multis da chi aveva rimarcato che «Pensare di dover costringere due coniugi a mantenere un regime forzoso di comunione legale, dal quale non possano liberarsi, pur dopo la scelta confermata di separarsi, sol perché non è intervenuta la sentenza irrevocabile di separazione, costituisce una forzatura formalistica e determina l’ultrattività del regime di comunione legale oltre il tempo del rapporto di solidarietà e condivisione di vita, che è alla base della ratio della scelta comunitaria voluta dal legislatore» (così, ad es., Dominici, Scioglimento della comunione legale e passaggio in giudicato della sentenza di separazione personale, Nota a Trib. Bari, 20 novembre 2008, in Fam. dir., 2009, p. 843).
[14] Cfr. Oberto, La comunione legale tra coniugi, I, cit., p. 1058 ss.
[15] E’ noto che, quanto alla esecutività delle sentenze di primo grado, sia in dottrina che in giurisprudenza prevale la tesi dell’esclusione della provvisoria esecutività delle sentenze (di accertamento e) costitutive: così (anche per gli ulteriori richiami dottrinali e per quelli giurisprudenziali) Vaccarella, Il processo civile dopo la riforma, Torino 1992, p. 281; Consolo, in Consolo, Luiso e Sassani, Commentario alla riforma del processo civile, Milano 1996, p. 262; Balena, La riforma del processo di cognizione, Napoli 1984, p. 327 ss.; contra Impagniatiello, La provvisoria esecutorietà della sentenza costitutiva, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1992, p. 47 ss; C. Ferri, In tema di esecutorietà della sentenza ed inibitoria, in Riv. dir. proc., 1993, p. 558 ss.; Carpi, voce Esecutorietà (diritto processuale civile), in Enc. giur., XII, Roma, 1995, p. 3 ss. Sul tema v. anche Oberto, La comunione legale tra coniugi, II, cit., p. 2274 ss. (nonché, sugli effetti della sentenza di divorzio, p. 1852 ss.).
[16] L’argomento esula,
naturalmente, dai confini del presente lavoro. Basti rinviare (oltre alle
considerazioni espresse da alcuni degli Autori citati alla nota precedente) ai
rilievi, piuttosto persuasivi, di Trapuzzano,
Nuova interpretazione dell’art. 282
c.p.c.: una soluzione chiara e giuridicamente apprezzabile, disponibile
alla seguente pagina web: http://www.neldiritto.it/appdottrina.asp?id=2623.
L’Autore, tra l’altro, manifesta apprezzamento per alcune aperture della
giurisprudenza meno risalente, che, in talune decisioni, ha affermato che anche
i capi delle sentenze di natura dichiarativa e costitutiva avrebbero efficacia
in senso lato immediata e che non avrebbe senso la distinzione tra pronunce di
condanna «pure» e pronunce di condanna «consequenziali» (a decisioni
d’accertamento o costitutive), poiché tutte le condanne presuppongono un
accertamento, quand’anche implicito. Così, anche per le condanne strumentali a
pronunce dichiarative o costitutive (necessarie o non necessarie), salvi i casi
in cui la legge preveda espressamente che l’effetto innovativo – costitutivo,
modificativo o estintivo – si produca successivamente al passaggio in giudicato
(vedi accertamento o costituzione di status).
Da quanto sopra deriva che tutte le declaratorie di condanna, ivi comprese
quelle inerenti alle spese di lite, sono provvisoriamente esecutive. Tale idea
trova la sua più cristallina espressione in Cass., 3 settembre 2007, n. 18512.
Il mutamento di indirizzo deve essere salutato con favore, non solo perché
persegue una chiara finalità di semplificazione ed, in specie, elimina la
superfetazione tra condanne principali e condanne accessorie ad una
declaratoria dichiarativa o costitutiva, ma soprattutto perché è più plausibile
e più confacente ai capisaldi del sistema, oltre che più fedele ai principi
costituzionali, alla luce dei quali le norme debbono essere interpretate (c.d.
interpretazione costituzionalmente orientata o adeguatrice o teleologica).
[17] Non condivisibili
apparivano, sul piano dell’esegesi letterale, le osservazioni svolte da Bartolucci, Separazione personale dei coniugi e determinazione dello scioglimento
della comunione legale, loc. ult. cit.: se è vero, infatti, che lo stato di
separazione «si configura come una fattispecie a formazione progressiva, che ha
inizio con la domanda giudiziale (ricorso) e che termina con una pronuncia
definitiva del giudice (sentenza o decreto di omologa), passando per una
comparizione personale dei coniugi (onde consentire l’ultimo tentativo di
conciliazione) e per eventuali, ma ricorrenti, provvedimenti temporanei ed
urgenti, emessi dal Presidente del Tribunale, rebus sic stantibus, con ordinanza (art. 706 ss. c.p.c.)», è
altrettanto vero che sino al momento del passaggio in giudicato della sentenza
di separazione contenziosa o della definitività del decreto che omologa la
separazione consensuale non può dirsi che la «separazione personale» sia in
atto. In effetti, il medesimo Autore finiva con l’ammettere che le singole fasi in cui s’articola il procedimento di
separazione «sono prodromiche, ovvero proiettate verso l’assorbente momento
perfezionativo, che coincide con il provvedimento definitivo del giudice»,
riconoscendo come unica soluzione possibile quella che lega il momento della
cessazione del regime al passaggio in giudicato della sentenza di separazione
giudiziale.
[18] Così anche Gennari, Lo scioglimento della comunione, cit., p. 393.
[19] Sottolineata con vigore da Schlesinger, Separazione personale e scioglimento della comunione legale, Nota a
Trib. Milano, 20 luglio
[20] Da tale rilievo traeva
invece argomenti Schlesinger, Separazione personale e scioglimento della
comunione legale, cit., p. 267 e nota 12, p. 267, il quale sottolineava che
«la sicura retroattività pure di altre fattispecie di cui all’art. 191 c.c. (ad
esempio l’annullamento del matrimonio, che addirittura può condurre a
concludere, salvi gli effetti del “matrimonio putativo”, che la comunione
legale non si sia mai neppure costituita), induce a ritenere che la
retroattività delle pronunce di cui all’art. 191, lungi dall’assumere un
carattere di “eccezionalità”, costituisca proprio la regola cui quelle
pronunce, almeno tendenzialmente, devono uniformarsi. Ciò non dovrebbe valere,
ad esempio, per il divorzio (pur essendo raro che al divorzio si pervenga tra
coniugi non ancora separati). Vale di certo, viceversa, ad esempio per la
dichiarazione di morte presunta e per l’assenza, in cui lo scioglimento della
comunione non può non risalire alla data della morte accertata presuntivamente
o alla data della scomparsa».
[21] Cfr. nel senso qui
criticato, per tutti, Gennari, Lo scioglimento della comunione, cit.,
p. 394, il quale chiaramente proponeva «il ricorso diretto all’art. 193 c.c.;
mentre sembrano più ristretti gli spazi per sostenere l’applicazione per
analogia della norma in questione al caso della separazione personale». In
precedenza la medesima tesi era stata esposta, per es., da G. Gabrielli, I rapporti patrimoniali
tra coniugi, cit., p. 200; Cian
e Villani, La comunione dei
beni tra coniugi (legale e convenzionale), cit., p. 389; G. Gabrielli e Cubeddu, Il regime patrimoniale dei coniugi, Milano, 1997,
p. 199.
[22] Cfr. Civinini, Sulla cumulabilità della
domanda di separazione personale e di scioglimento della comunione legale, cit., c.
1597 ss., la quale rileva che «non può farsi luogo ad applicazione dell’art. 193,
4° comma, c.c. né in via di analogia
legis né in via di applicazione diretta in quanto l’oggetto del giudizio di
separazione è diverso dall’oggetto del giudizio di scioglimento della
comunione: nel primo caso la (modificanda) situazione soggettiva di parte del
rapporto di coniugio, nel secondo la (estinguenda) situazione soggettiva di
partecipe a un regime di comunione legale dei beni; ne consegue che non possono
applicarsi al primo le regole dettate per il secondo, tenuto anche conto della
profonda differenza che separa lo scioglimento della comunione, quale effetto
della sentenza costitutiva (id est
dell’accertamento giudiziale conseguente all’esercizio del diritto potestativo
di determinare unilateralmente e necessariamente attraverso il processo l’effetto
estintivo medesimo), dallo scioglimento della comunione, quale effetto legale –
automatico e ulteriore rispetto all’oggetto del processo – della separazione:
nel caso di cui all’art. 193 c.c. (e non in quello di cui all’art. 191 nella
parte che qui interessa) l’accertamento giudiziale e (probabilmente anche)
l’atto di esercizio del diritto potestativo sono elementi della fattispecie
sostanziale cui il legislatore ricollega il prodursi dell’effetto estintivo,
come si induce dalla retroattività degli effetti della sentenza al tempo della
domanda, retroattività che quindi non può essere estesa a fattispecie affatto
differenti».
[23] Cfr. Andrioli, Diritto processuale civile, Napoli, 1979, p. 348, che classifica la sentenza di separazione come sentenza che modifica un rapporto giuridico; v. anche Proto Pisani, Lezioni di diritto processuale civile, Napoli, 1994, p. 207, il quale enuclea un gruppo di «azioni costitutive dirette a produrre effetti sostanziali non conseguibili in via di autonomia privata», cui può ascriversi anche la sentenza di separazione; come osserva l’Autore: «si tratta delle ipotesi di nullità del matrimonio, di divorzio, di disconoscimento della paternità o maternità, ecc. In tali casi l’effetto sostanziale [di] “impedimento del sorgere della qualità di coniuge” ricollegato alle cause di nullità del matrimonio, scioglimento del rapporto di coniugio ricollegato alle cause di divorzio, ecc. non è conseguibile mai in via di autonomia privata tramite dichiarazioni di volontà unilaterali o bilaterali, bensì solo a seguito dell’accertamento giudiziale della sussistenza di uno dei fatti previsti dalla legge. In queste ipotesi, e solo in esse, viene meno pressoché del tutto la strumentalità tra utilità garantite dal diritto sostanziale e utilità assicurate dal processo, in quanto il processo si presenta come elemento costitutivo indispensabile e non surrogabile della fattispecie cui la legge sostanziale subordina il prodursi di un dato effetto giuridico».
[24] Cfr. Andrioli, Diritto processuale civile, cit., p. 347.
[25] Ai sensi dell’art. 741 c.p.c. il decreto d’omologazione acquista efficacia una volta decorsi i termini di cui agli artt. 739 e 740 c.p.c. (dieci giorni dalla comunicazione) senza che le parti legittimate abbiano interposto reclamo alla corte d’appello. Il decreto della corte d’appello non è impugnabile in Cassazione: cfr. Cass., 30 aprile 2008, n. 10932. Non condivisibile appariva invece, prima della riforma qui in commento, la tesi, proposta da Lor. Balestra, La delicata questione dello scioglimento della comunione legale fra i coniugi a seguito della pronuncia della separazione personale, cit., p. 511 s., secondo cui, nel caso di separazione consensuale, gli effetti della cessazione del regime andrebbero fatti decorrere dalla data di «sottoscrizione del verbale di separazione in via congiunta». Se, invero, appare innegabile che gli effetti patrimoniali dell’intesa di separazione si pongono quale conseguenza del negozio concluso tra i coniugi e non certo del provvedimento d’omologa (per approfondimenti sul punto ed ulteriori rinvii cfr. Oberto, I contratti della crisi coniugale, I, cit., p. 28 ss., 193 ss., 246 ss., 267 ss., 303 ss.; Id., La natura dell’accordo di separazione consensuale e le regole contrattuali ad esso applicabili (I), in Fam. dir., 1999, p. 601 ss.; Id., La natura dell’accordo di separazione consensuale e le regole contrattuali ad esso applicabili (II), ivi, p. 86 ss.), è altrettanto vero che ciò vale per quegli effetti qualificabili alla stregua di «condizioni della separazione», che, come tali, appaiono riconducibili proprio alla volontà delle parti. L’effetto di cui qui invece si discute non discende direttamente dalla voluntas contrahentium, bensì dalla legge, la quale ricollega la cessazione del regime legale non già ad una manifestazione di volontà in tal senso dei coniugi (ché, in tal caso, si ricadrebbe sotto il disposto dell’art. 162 c.c., con conseguente nullità della convenzione per difetto del requisito della forma notarile), bensì al fatto stesso della «separazione personale», cioè a quello stato che si viene ad instaurare solo con (e certo non prima del) l’acquisto di definitività da parte del decreto d’omologazione. Per non dire poi del fatto che, dal punto di vista pratico, il vero problema, prima della novella qui in esame, era costituito dagli anni (o, nella migliore delle ipotesi, dai mesi) d’attesa del passaggio in giudicato della sentenza di separazione contenziosa, certo non dalle poche settimane che solitamente intercorrono tra la firma del ricorso per separazione consensuale e la relativa omologa.
[26] Cfr. Trib. Torino, 11
febbraio
[27] È da segnalare poi anche la posizione di un Autore (T.V. Russo, Le vicende estintive della comunione legale, Napoli, 2004, p. 44), il quale, distinguendo fra separazione giudiziale e separazione consensuale omologata, per la prima aderiva alla citata tesi, maggioritaria in dottrina, della retroattività degli effetti al momento della proposizione della domanda, mentre per la seconda poneva come punto di riferimento temporale il momento in cui veniva concluso l’accordo di separazione, vale a dire la sottoscrizione da parte dei coniugi del verbale d’udienza in cui sono riportate le condizioni della separazione. Ciò in considerazione del fatto che «l’accordo dei coniugi riveste il ruolo di elemento costitutivo della separazione personale, mentre al controllo omologatorio è attribuita la mera natura di condicio iuris di efficacia della stessa». Tale ultima tesi, propugnata da sempre, e con forza, da chi scrive (cfr. ad es. Oberto, I contratti della crisi coniugale, I, cit., p. 179 ss., 246 ss.) non sembrava però tale da indurre a ritenere che il trattamento delle due fattispecie qui contemplate dovesse essere differenziato. Invero, l’art. 191 c.c. collegava sicuramente lo scioglimento della comunione legale al momento della separazione, non già alle intese dirette a costituire, per così dire, il sostrato patrimoniale di siffatta separazione.
[28] Cfr. Oberto, La comunione legale tra coniugi, I, cit., p. 380 ss.
[29] Sul tema si fa rinvio per tutti a Oberto, I contratti della crisi coniugale, I, cit., p. 193 ss. (per la separazione consensuale), 303 ss. (per il divorzio su domanda congiunta).
[30] Cfr. Cass., 20 agosto 2014, n. 18066. In motivazione è dato altresì leggere che «Tradizionalmente gli accordi “negoziali” in materia familiare, erano ritenuti del tutto estranei alla materia e alla logica contrattuale, affermandosi che si perseguiva un interesse della famiglia trascendente quello delle parti, e l’elemento patrimoniale, ancorché presente, era strettamente collegato e subordinato a quello personale. Oggi, escludendosi in genere che l’interesse della famiglia sia superiore e trascendente rispetto alla somma di quelli, coordinati e collegati, dei singoli componenti, si ammette sempre più frequentemente un’ampia autonomia negoziale, e la logica contrattuale, seppur con qualche cautela, là dove essa non contrasti con l’esigenza di protezione dei minori o comunque dei soggetti più deboli, si afferma con maggior convinzione (…). Come si è detto, l’accordo delle parti in sede di separazione o di divorzio (e magari quale oggetto di precisazioni comuni in un procedimento originariamente contenzioso) ha natura sicuramente negoziale, e talora dà vita ad un vero e proprio contratto. Ma, anche se esso non si configurasse come contratto, all’accordo stesso sarebbero sicuramente applicabili alcuni principi generali dell’ordinamento come quelli attinenti alla nullità dell’atto o alla capacità delle parti, ma pure alcuni più specifici (ad es. relativi ai vizi di volontà, del resto richiamati da varie norme codicistiche in materia familiare dalla celebrazione del matrimonio al riconoscimento dei figli nati fuori di esso) (al riguardo, ancora, Cass. n. 17607 del 2003) (…). Ove l’accordo (o il contratto) sia nullo, tale nullità potrebbe essere fatta valere da chiunque vi abbia interesse, e dunque anche da chi abbia dato causa a tale nullità. Ed esso potrebbe essere oggetto di annullamento da parte del soggetto incapace o la cui volontà risulti viziata (ad es. da un errore pure sulla sussistenza dell’interesse del minore, ma si dovrebbe ricordare che se nell’accordo sia preminente una causa transattiva, non rileverebbe ai sensi dell’art. 1969 c.c., errore di diritto). Ma nullità o annullamento non potrebbero costituire motivo di impugnazione dei soggetti dell’accordo da cui essi sono vincolati, ma dovrebbero essere fatti valere in un autonomo giudizio di cognizione (In termini generali n. 17607 del 2003)». Da ultimo cfr. anche Cass. 21 aprile 2015, n. 8096.
[31] Cfr. Cass., 15 maggio 1997,
n. 4306, in Fam. dir., 1997, p. 417, con nota di Caravaglios; in Riv. not., 1998, II, p. 171, con nota di
Gammone; in Nuova giur. civ.
comm., 1999, I, p. 278, con nota di Zanuzzi. L’argomento è sviluppato
in Oberto, La comunione legale tra coniugi, I, cit., p. 315 ss.; II, cit., p.
2031 ss.
[32] L’argomento è sviluppato in Oberto, La comunione legale tra coniugi, II, cit., p. 1789.
[33] Sul punto cfr. per tutti Oberto, La comunione legale tra coniugi, I, cit., p. 903 ss.
[34] In questo senso sembrerebbe orientato anche Sesta, Negoziazione assistita e obblighi di mantenimento nella crisi della coppia, in Fam. dir., 2015, p. 297, secondo cui «L’accordo raggiunto a seguito della convenzione, una volta autorizzato [corsivo aggiunto dallo scrivente], produce gli effetti e tiene luogo dei provvedimenti giudiziali che definiscono i procedimenti di separazione personale, di cessazione degli effetti civili del matrimonio, di scioglimento del matrimonio e di modifica delle condizioni di separazione e divorzio (art. 6, comma 3, D.L. n. 132/2014); esso, dunque, non solo costituisce titolo esecutivo per l’iscrizione di ipoteca giudiziale (art. 5), ma è altresì idoneo a fondare richieste di garanzie patrimoniali ex artt. 156 c.c. e 8 l. div., oltreché l’esecuzione diretta contro il terzo debitore ex art. 8 l. div.». In senso contrario sembra invece esprimersi (peraltro con riguardo al testo del d.l. citato, prima delle novità introdotte dalla legge di conversione, tra cui rientrano anche il nullaosta e l’autorizzazione del p.m.) Danovi, Il d.l. n. 132/2014: le novità in tema di separazione e divorzio, in Fam. dir., 2014, p. 952, sebbene con molte perplessità: «Estremamente delicato mi pare poi il profilo dell’effettiva decorrenza degli effetti della separazione e del divorzio. A rigore, infatti, la formula utilizzata nel comma in esame parrebbe ricollegare la produzione di tali effetti al semplice raggiungimento dell’accordo; e nello stesso senso deporrebbe anche la consecutio utilizzata, per la quale l’obbligo di trasmissione all’ufficiale dello stato civile rappresenta unicamente un posterius per l’avvocato che ha partecipato alla negoziazione assistita. Certo, non è chi non veda che, rispetto alla più rassicurante struttura di un provvedimento giudiziario (non si dimentichi che anche nel caso della separazione consensuale sino all’emanazione del decreto di omologazione l’orientamento dominante consente alle parti di revocare il consenso pur già formalizzato davanti al presidente del tribunale), risulta in qualche modo dirompente consentire la produzione di effetti sullo status al semplice accordo concluso per il tramite dell’avvocato e avanti a questo sottoscritto. Ciò tanto più nella misura in cui, per quanto riguarda i rapporti tra separazione e divorzio, si finirebbe per “ancorare” a un dato temporale privo di idonee garanzie di certezza lo stesso termine per poter in seguito instaurare il procedimento di scioglimento o cessazione degli effetti civili del matrimonio». Favorevole all’immediata efficacia dell’intesa appare anche la circolare del Ministero degli Interni, in data 1° ottobre 2014 (n. 16), ove si legge che «la data dalla quale decorreranno gli effetti degli accordi in esame è quella della “data certificata” negli accordi stessi. Tale data è quella che dovrà essere riportata nelle annotazioni ed indicata nella scheda anagrafica individuale degli interessati». Anche qui si deve però considerare che il provvedimento ha riguardo al testo del d.l., prima delle novità introdotte dalla legge di conversione, tra cui rientrano anche il nullaosta e l’autorizzazione del p.m. Decisamente nel senso della condizione legale si esprime Bugetti, Separazione e divorzio senza giudice: negoziazione assistita da avvocati e separazione e divorzio davanti al Sindaco, in Corr. giur., 2015, p. 522 s., secondo la quale il nullaosta e l’autorizzazione si configurano «come condizione legale di efficacia dell’accordo. Ancora una volta rilevando un parallelismo con la separazione consensuale, il nullaosta/autorizzazione, al pari dell’omologa, si limita a costituire elemento necessario affinché l’accordo possa dispiegare i propri effetti».
[35] Posto in evidenza, invece, da Buffone, La riforma del processo civile 2014. Tutte le novità, Testo in formato .pdf cortesemente distribuito dallo stesso Autore, p. 44, secondo cui, soddisfatta la condizione costituita dal nullaosta/autorizzazione del PM, «gli effetti retroagiscono alla firma (data certificata)».
[36] Per un esame generale della riconciliazione nella disciplina vigente ed in quella anteriore alla Riforma del 1975, cfr. Scardulla, La separazione personale dei coniugi ed il divorzio, cit., p. 515 ss.; Breccia, voce Separazione personale dei coniugi, in D. disc. priv. sez. civ., XVIII, Torino, 1998, p. 425 ss.; Bessone, Alpa, D’angelo, Ferrando e Spallarossa, La famiglia nel nuovo diritto, Bologna, 1994, p. 131 ss.; Di Benedetto, I procedimenti di separazione e di divorzio, Milano, 2000, p. 180 ss.; De Filippis e Casaburi, Separazione e divorzio, Padova, 2001, p. 34 ss.; Panuccio Dattola, Lo status dei coniugi separati, in Trattato di diritto di famiglia, diretto da Zatti, I, Famiglia e matrimonio, a cura di Ferrando, Fortino e Ruscello, II, Milano, 2002, p. 1119 s.; Bellisario, La riconciliazione, in Il nuovo diritto di famiglia, Trattato diretto da Ferrando, I, cit., p. 747 ss. Per la giurisprudenza cfr., tra i molti interventi, Cass., 29 novembre 1990, n. 11523, in Giur. it., 1991, I, 1022, con nota di Cianni; Cass., 13 maggio 1999, n. 4748, in Vita not., 1999, I, p. 799; Cass., 28 febbraio 2000, n. 2217; Cass., 15 marzo 2001, n. 3744; Cass., 7 luglio 2004, n. 12427. V. inoltre Cass., 25 maggio 2007, n. 12314, circa il difetto di rilievo della riserva mentale, da parte di un coniuge, nella ricostituzione del nucleo familiare, essendo l’elemento oggettivo del ripristino della coabitazione tra i coniugi potenzialmente idoneo a fondare il positivo convincimento del giudice quanto all’avvenuta riconciliazione; con la conseguenza che spetterà al coniuge interessato a negarla dimostrare che il nuovo assetto posto in essere, per accordi intercorsi tra le parti o per le modalità di svolgimento della vita familiare sotto lo stesso tetto, era tale da non integrare una ripresa della convivenza, e quindi da non configurarsi come evento riconciliativo.
[37] Così Servetti, Lo scioglimento della comunione legale, cit., p. 619. Su tale
riferita «neutralità» cfr. anche Parente,
Scioglimento della comunione legale per
separazione personale e ricostituzione per riconciliazione, in Dir. fam., 1999, I,
p. 1059 ss.; Aricò, Gli effetti della riconciliazione sul regime patrimoniale dei coniugi,
Nota a Cass., 12
novembre 1998, n. 11418, in Notariato, 1999, p. 111 ss.
[38] Oberto, La comunione legale tra coniugi, II, cit., p. 1820 s.
[39] Oberto, La comunione
legale tra coniugi, II, cit., p. 2201 ss., 2250 ss.
[40] La sorte degli acquisti operati tra l’emanazione dei provvedimenti presidenziali e la riconciliazione dipende dalla possibilità di attribuire all’art. 154 c.c. un effetto retroattivo. Tale effetto è sicuramente da escludersi con riguardo alla riconciliazione successiva alla separazione legale, atteso il tenore del capoverso dell’art. 157 c.c. (sul tema cfr. Oberto, La comunione legale tra coniugi, II, cit., p. 1840 ss.), mentre alla soluzione opposta potrebbe pervenirsi per la riconciliazione in corso di causa, sulla base del fatto che l’art. 154 c.c. non contiene disposizioni diverse da quella secondo cui la riconciliazione comporta l’abbandono della domanda: statuizione, questa, dalla quale potrebbe anche desumersi l’intento del legislatore di rimuovere ogni possibile causa di scioglimento del regime; alla conclusione opposta (irretroattività, cioè, degli effetti della riconciliazione in corso di causa, analogamente a quanto detto in tema di riconciliazione successiva alla separazione legale già pronunziata) potrebbe condurre invece la tesi, seguita dalla dottrina maggioritaria e dalla giurisprudenza (su cui cfr. Oberto, La comunione legale tra coniugi, II, cit., p. 1819 s., nota 109), secondo cui l’istituto della riconciliazione sarebbe unico e che la disciplina di cui all’art. 154 c.c. andrebbe integrata da quella ex art. 157 c.c.
[41] Oberto, La comunione legale tra coniugi, II, cit., p. 2201 ss.
[42] Come rilevato in dottrina
(cfr. per tutti Servetti, Lo scioglimento della
comunione legale, cit., p. 602, nota 71) l’art. 3, 1. 1° dicembre 1970, n. 898, come
modificato dalla Novella 6 marzo 1987, n. 74, prevede al n. 1, lett. a),
b), c) e d), quali cause legittimanti l’altro coniuge alla
proposizione della domanda di scioglimento o di cessazione degli effetti civili
del matrimonio, ipotesi specifiche di condanna del coniuge a determinate pene
detentive e per particolari titoli di reato, situazioni soggettive dal
legislatore stimate in via presuntiva ostative alla prosecuzione dell’unione
matrimoniale, con la sola avvertenza che per i delitti indicati alla lettera d)
commessi in danno del coniuge o di un figlio, attesa la loro minore gravità in
termini oggettivi, al tribunale è demandato il compito di verificare in
concreto l’inidoneità del reo a mantenere o ricostituire la convivenza
familiare. Al successivo n. 2, lett. a), è prevista la possibilità di
pervenire allo scioglimento del vincolo anche se il coniuge sia stato assolto
per vizio totale di mente da uno dei delitti previsti dalle precedenti lett. b)
e c) del n. 1, sempre che la valutazione, anche qui di spettanza del
giudice, porti alla conclusione che il convenuto (ovvero il reo, nei cui
confronti sia stata pronunciata assoluzione per l’indicato vizio) non è idoneo
a mantenere o ricostituire la convivenza. Le lett. c), d), e),
f) e g) dello stesso n. 2 enunciano ulteriori cause idonee a
consentire la proposizione della domanda di divorzio e, in particolare,
meritano considerazione l’ipotesi di inconsumazione del matrimonio e quella
inerente al pregresso passaggio in giudicato della sentenza di rettificazione
di attribuzione di sesso, di cui alla 1. 14 aprile 1982, n. 164, introdotta nel
1987 (su cui v. Oberto, La comunione legale tra coniugi, II,
cit., p. 1858 ss.; da notare poi che, in relazione a tale disposizione, è stata
proposta la questione di legittimità costituzionale da Cass., 6 giugno 2013, n.
14329, su cui cfr. Patti, Un
ben motivato rinvio alla Corte Costituzionale in materia di divorzio
«automatico» della persona transessuale, in Corr. giur., 2013, p.
1519; Schuster, Quid est
matrimonium? Riattribuzione del genere anagrafico e divorzio, Nuova
giur. civ. comm., 2014, I, p. 33 ss.; sulla vicenda v. anche Bozzi, Mutamento di
sesso di uno dei coniugi e «divorzio imposto»: diritto all’identità di genere vs paradigma della eterosessualità del
matrimonio, in Nuova giur. civ. comm.,
2014, II, p. 233 ss.; sorprendente l’esito della vicenda: la Consulta – cfr.
Corte cost., 11 giugno 2014, n. 170 – dichiara incostituzionale il sistema, in
quanto non consente alla coppia omosessuale, così come «risultante» dal
mutamento di sesso, di optare per una forma di convivenza registrata o comunque
riconosciuta, che però… non esiste! Singolare modo, questo, di respingere
sostanzialmente una questione, pur accogliendola formalmente). A queste ipotesi
va aggiunta poi quella relativa alla mera separazione di fatto iniziata tra i
coniugi almeno due anni prima del 18 dicembre 1970 e protrattasi
ininterrottamente. Tutti questi rappresentano i soli, rarissimi, casi in cui
può porsi il problema dello scioglimento della comunione per effetto della sentenza
di pronunzia del divorzio, per non essere necessariamente intervenuta in
precedenza la separazione legale.
[43] Per un interessante «assaggio» al riguardo cfr. le considerazioni di Gragnani, Divorzi brevi ma complicati, in Il sole 24 ore, Norme & Tributi, http://www.ilsole24ore.com/art/norme-e-tributi/2015-03-22/divorzi-brevi-ma-complicati-081410.shtml?uuid=ABzicODD, ove si rimarca che, nel caso di separazione giudiziale, «il termine di un anno è largamente inferiore rispetto alla durata minima fisiologica di un giudizio di separazione, anche quando il giudice sia velocissimo. Potranno quindi usufruire del termine breve unicamente coloro che, nel corso del giudizio, avranno ottenuto una sentenza parziale che pronunci la separazione ma che non decida in merito alle questioni accessorie (affidamento dei figli, regime di visita, assegnazione della casa, mantenimento di coniuge e figli). Avremo quindi dei procedimenti nel corso dei quali sarà pronunciata la sentenza parziale di separazione e che dovranno proseguire per il resto, nei quali si innesterà la domanda di divorzio, il che, più che una semplificazione appare come una ulteriore complicanza di un procedimento già faticoso (…). Ancora più lavoro per gli avvocati quindi, e conseguente contenzioso aperto per gli utenti, i quali andranno a sentenza sulla separazione, continueranno il giudizio per il resto, andranno poi a sentenza per il divorzio e infine, a giudizio di separazione concluso, rischieranno di vedere riaperte le questioni accessorie in sede di divorzio, perché attualmente legge e giurisprudenza permettono di rimettere in discussione tutto con il divorzio». Le questioni di cui sopra sono sviluppate ed approfondite anche da Danovi, Al via il «divorzio breve»: tempi ridotti ma manca il coordinamento con la separazione, in Fam. dir., 2015 (in corso di stampa nel fascicolo n. 6).
[44] Cfr. Cass. 23 giugno 1998, n. 6234, cit., nonché le pronunce riportate nel § seguente, sebbene il profilo di inammissibilità tout court della domanda sia sovente confuso con quello di improponibilità nel medesimo processo di separazione personale, come verrà meglio chiarito in seguito. Contra App. Genova, 10 novembre 1997, cit.: «La separazione personale dei coniugi opera, quale causa di scioglimento della comunione legale dei beni, dal momento dell’udienza presidenziale ex art. 708 cod. proc. civ.: l’ordinanza che autorizza i coniugi a vivere separati, determina, infatti, il venir meno di quella comunione di vita che costituisce in fondamentale presupposto del regime di comunione di beni; di conseguenza, la domanda di scioglimento e quella di divisione dei beni e valori, alla prima collegata, sono proponibili nell’ambito del procedimento di separazione personale».
[45] Cass., 8 novembre 1997, n.
11031; Cass., 2 settembre 1998, n. 8707, in Vita
not., 1998, I, p. 1605; Cass., 18 settembre 1998, n. 9325; Cass., 25 marzo
2003, n. 4351. Andrà aggiunto sul punto che un giudice di merito ha avuto modo
di stabilire che il divieto di procedere, mercé divisione, allo scioglimento
della comunione ordinaria succeduta alla comunione legale tra i coniugi, prima
del passaggio in giudicato della sentenza di separazione personale, non
contrasta con il principio della libera circolazione dei capitali sancito dal
Trattato C.E.: cfr. Trib. Roma, 4 luglio 2000, in Giust. civ., 2001, I, p. 819, con nota di Neri. In motivazione il tribunale dichiara di aderire
all’indirizzo di legittimità per il quale la domanda di divisione proposta in
costanza di regime legale va dichiarata improponibile, senza che vi sia la
possibilità di sospendere il giudizio in attesa della definizione della causa
di separazione. Il tribunale ha altresì ritenuto che «Il giudice di uno Stato
membro è dispensato dall’obbligo di rimettere alla Corte di giustizia delle
Comunità europee la questione di interpretazione del diritto comunitario
rilevante ai fini della decisione della causa sollevata da una delle parti
quando, nel caso concreto, la corretta applicazione del diritto comunitario si
impone con evidenza tale da non lasciare spazio a ragionevoli dubbi».
[46] Nel medesimo senso v. anche Arceri, Lo scioglimento della comunione legale e la separazione coniugale, in Dir. fam., 1998, II, p. 1183 s.
[47]
Cfr. Cass., Sez. Un., 4 dicembre 2001, n. 15279, in Arch. civ., 2002, p. 448: «Nel giudizio di separazione personale
dei coniugi, la richiesta di addebito, pur essendo proponibile solo nell’ambito
del giudizio di separazione, ha natura di domanda autonoma; infatti, la stessa
presuppone l’iniziativa di parte, soggiace alle regole e alle preclusioni
stabilite per le domande, ha una causa
petendi (la violazione dei doveri nascenti dal matrimonio in rapporto
causale con le ragioni giustificatrici della separazione, intollerabilità della
convivenza o dannosità per la prole) ed un petitum
(statuizione destinata a incidere sui rapporti patrimoniali con la perdita del
diritto al mantenimento e della qualità di erede riservatario e di erede
legittimo) distinti da quelli della domanda di separazione; pertanto, in
carenza di ragioni sistematiche contrarie e di norme derogative dell’art. 329,
secondo comma, cod. proc. civ., l’impugnazione proposta con esclusivo
riferimento all’addebito contro la sentenza che abbia pronunciato la
separazione ed al contempo ne abbia dichiarato l’addebitabilità, implica il
passaggio in giudicato del capo sulla separazione, rendendo esperibile l’azione
di divorzio pur in pendenza di detta impugnazione». V. inoltre Cass., 26 agosto
2004, n. 16996; Cass., 1° agosto 2008,
n. 21000, secondo cui la richiesta di addebito – pur essendo proponibile
solo nell’ambito del giudizio di separazione – ha natura di domanda autonoma,
per cui può formarsi un giudicato sulla separazione prima che sia definita la
controversia sull’addebitabilità. Per richiami ad ulteriori precedenti
giurisprudenziali cfr. Piselli, La riconosciuta autonomia delle azioni
consente di separare le due pronunce, Nota a Cass., 26 agosto 2004, n.
Si potrà poi anche aggiungere che una sorta di escamotage, per eludere l’eccezione di inammissibilità della domanda divisoria allorquando il regime non sia ancora sciolto, avrebbe anche potuto essere rappresentata dal richiamo a quella giurisprudenza (cfr. Cass., 27 aprile 2004, n. 8002) ad avviso della quale la divisione delle somme depositate su conti bancari cointestati o comunque in relazione ai quali entrambi i coniugi vantino pretese sarebbe in ogni tempo ammissibile, non potendo la comunione legale abbracciare anche tali utilità, costituite da crediti e non da diritti reali, ai quali soli ultimi sarebbe riferibile l’art. 177, lett. a), c.c. (chi scrive non ritiene peraltro di poter condividere tale impostazione: per l’esposizione di questa tesi e la relativa critica cfr. Oberto, La comunione legale tra coniugi, I, cit., p. 557, 617, II, cit., p. 1792).
[48] Cfr. Cass., 31 maggio 2008, n. 14639.
[49] Cfr. Cass., 31 maggio 2008, n. 14639, cit.
[50] Il tema è stato affrontato in Oberto, La comunione legale tra coniugi, I, cit., p. 315 ss.; si veda inoltre il caso risolto da Cass., 16 febbraio 1995, n. 1683, in Corr. giur., 1995, p. 571, con commento di Jarach, in cui la Cassazione ha escluso la sussistenza di un patto successorio nel contratto con cui una madre, coniugata in regime di comunione, aveva promesso di vendere al figlio, nato da una precedente unione, una quota immobiliare facente parte di una maggiore quota appartenente alla stessa promittente nell’ambito della comunione legale con l’attuale marito. Potrà poi ulteriormente citarsi quella già ricordata giurisprudenza che ammette i coniugi ad operare la divisione nello stesso accordo di separazione consensuale, posto che questo prenderà effetto, ex art. 158 c.c., solo al momento della omologazione della separazione consensuale.
[51] Cass., Sez. Un., 12 gennaio
2000, n. 266, in Giust. civ., 2000,
I, p. 317; in Fam. dir., 2000, p. 593, con nota di Porcari; in Dir. fam., 2001, I, p. 74, con nota di Liberti. A quest’ordine di idee
deve ascriversi anche Trib. Monza, 26 febbraio 2008, in Guida al diritto, 2008, n. 27, p. 81: «La struttura camerale del
procedimento divorzile è inconciliabile con una richiesta di divisione
dell’abitazione familiare, ciò quand’anche la parte richiedente alleghi che
questa sia stata originariamente accatastata in due porzioni separate. Invero,
il giudicante non può prescindere dalla unitaria destinazione impressa
all’immobile in costanza di matrimonio neanche in una simile ipotesi, di tal
ché deve concludersi che anche nel caso in cui il compendio immobiliare risulti
originariamente distinto in due unità immobiliari, si renderà comunque
necessaria, al fine di addivenirne alla divisione, l’instaurazione di un
autonomo procedimento civile». Contra,
Trib. Caltanissetta, 11 maggio 2002, in Fam.
dir., 2003, p. 57, con nota di Schlesinger,
la quale ha ritenuto ammissibile la domanda di divisione di un compendio
immobiliare proposta in una con quella di separazione personale tra i coniugi,
in base alla constatazione per la quale i coniugi avevano in epoca precedente a
questo giudizio provveduto a stipulare una convenzione matrimoniale di
separazione dei beni. Il profilo processuale illustrato in questo § non è però
stato preso in considerazione da tale ultima decisione.
[52] Cass., 15 maggio 2001, n. 6660: «L’art. 40 cod. proc. civ. novellato dalla legge n. 353/90, consente nello stesso processo il cumulo di domande soggette a riti diversi, soltanto in presenza di ipotesi qualificate di connessione (art. 31, 32, 34, 35 e 36), così escludendo la possibilità di proporre più domande connesse soggettivamente ai sensi dell’art. 33 e dell’art. 133 cod. proc. civ. e soggette a riti diversi. Conseguentemente è esclusa la possibilità del simultaneus processus, nell’ambito dell’azione di divorzio soggetta al rito della camera di consiglio con quella di scioglimento della comunione di beni immobili, di restituzione di beni mobili, di restituzione e pagamento di somme che sono soggette al rito ordinario trattandosi di domande non legate dal vincolo di connessione, ma in tutto autonome e distinte dalla domanda di divorzio». La medesima regola ha trovato applicazione in tema di cumulo tra domanda di divorzio e richiesta di riconoscimento del diritto a una quota del trattamento di fine rapporto: Cass., 30 agosto 2004, n. 17404 ha infatti deciso che «L’art. 40 cod. proc. civ., come novellato dalla legge 26 novembre 1990, n. 353, consente nello stesso processo il cumulo di domande soggette a riti diversi solo in presenza di ipotesi qualificate di connessione (art. 31, 32, 34, 35 e 36), così escludendo la possibilità di proporre nello stesso giudizio più domande, connesse soggettivamente ai sensi dell’art. 33 e dell’art. 133 cod. proc. civ., ma soggette a riti diversi. Nessun rapporto di consequenzialità è – ad un tal riguardo – ravvisabile fra la domanda di riconoscimento del diritto alla percezione di un assegno divorzile, soggetta al rito camerale previsto dalla legge 1 dicembre 1970, n. 898, e la domanda di riconoscimento del diritto a una quota del trattamento di fine rapporto proposta sulla base di una scrittura privata sottoscritta dalle parti prima del divorzio, non essendo questa connessa con la domanda di liquidazione dell’assegno divorzile, la cui percezione costituisce una condizione necessaria solo se il diritto al pagamento di parte del t.f.r. dell’ex coniuge sia fondato sull’art. 12-bis della legge n. 898 del 1970». Sul tema v. inoltre Cass., 17 maggio 2005, n. 10356: «Il vincolo di accessorietà tra due pretese giudiziali, ex art. 31 cod. proc. civ., tale da giustificarne il cumulo e la trattazione congiunta ai sensi dell’art. 40, comma terzo, cod. proc. civ., nel testo novellato dalla legge n. 353 del 1990, sussiste allorché l’una, oltre a connotarsi per il contenuto meno rilevante, risulti obiettivamente in posizione di subordinazione o dipendenza rispetto all’altra, nel senso che il petitum e il titolo della causa accessoria, pur mantenendo la loro autonomia, non possano concepirsi se non come storicamente e ontologicamente fondati su quelli della causa principale. Una tale situazione processuale non si verifica fra la domanda di divorzio e quella di scioglimento della comunione legale e di divisione dei beni dacché, per un verso, non è lecito assegnare a quest’ultima il ruolo di domanda accessoria – in quanto sia dal punto di vista giuridico sia, soprattutto, da quello pratico, non può considerarsi meno importante rispetto alla prima – e, per altro verso, non ricorre alcuna dipendenza sostanziale, nel senso sopra precisato, fra le due pretese, posto che la domanda di scioglimento della comunione legale e di divisione dei relativi beni non postula la richiesta di scioglimento o di cessazione degli effetti civili del matrimonio, ben potendo la parte chiedere la divisione dei beni (una volta passata in giudicato la sentenza di separazione) senza dovere necessariamente e contestualmente avanzare domanda di scioglimento o di cessazione degli effetti civili del matrimonio». Al medesimo ordine di idee va ascritta, per quanto attiene alla giurisprudenza di merito, Trib. Salerno, 11 aprile 2008, citata da Risolo, Separazione dei coniugi: alcuni aspetti sostanziali e processuali, in Il Quotidiano Giuridico - Quotidiano di informazione e approfondimento giuridico, N. 11/6/2008, secondo cui non esiste un’ipotesi qualificata di connessione, per carenza del vincolo di accessorietà ex art. 31 c.p.c., tra la causa di separazione personale e quelle di scioglimento della comunione e di restituzione di beni mobili, ben potendo entrambe le pretese prescindere totalmente dalla prima, poiché non sussiste una posizione di subordinazione o dipendenza tra le domande, dovendo attendersi solamente, sul piano cronologico, il passaggio in decisione della sentenza di separazione per la domanda di scioglimento della comunione.
[53] Cfr. Cass., 6 dicembre
2006, n. 26158: «La trattazione congiunta di cause soggette a riti differenti
può attuarsi, secondo le regole di cui all’art. 40 cod. proc. civ., nel testo
modificato dalla legge n. 353 del 1990, soltanto se tali cause siano connesse
ai sensi degli artt. 31, 32, 34, 35 e 36 cod. proc. civ. Pertanto, non è
possibile il cumulo in un unico processo della domanda di divorzio, soggetta al
rito camerale, e di quella di divisione dei beni comuni, soggetta a rito
ordinario, trattandosi di domande non legate da vincoli di connessione, ma
autonome e distinte l’una dall’altra. Peraltro, in analogia a quanto disposto
dal secondo comma dell’art. 40 cod. proc. civ. – a norma del quale la
connessione non può essere eccepita dalle parti né rilevata di ufficio dopo la
prima udienza, e la rimessione non può essere ordinata quando lo stato della
causa principale o preventivamente proposta non consenta la esauriente
trattazione e decisione delle cause connesse –, nei medesimi termini può essere
eccepita dalle parti e rilevata di ufficio la mancanza di una ragione di
connessione idonea, ai sensi dello stesso art. 40, terzo comma, ad attrarre nel
rito ordinario domande soggette l’una al rito ordinario e l’altra ad un rito
speciale, diverso da quello proprio delle controversie di lavoro. Ne consegue
che, ove ciò non avvenga, nel caso di impugnativa di sentenza di primo grado
relativa soltanto alla domanda di divisione, per essersi già formato il
giudicato sulla pronuncia inerente alla domanda di divorzio, la Corte di
appello non può rilevare d’ufficio l’originaria improponibilità (per assenza di
connessione con la domanda di divorzio) della domanda di divisione, rispetto
alla quale la pronuncia del primo giudice è correttamente impugnata nelle forme
ordinarie». V. inoltre Cass., 24 aprile 2007, n. 9915, in Guida al diritto, 2007, n. 20, p. 40, con nota di Fiorini: «Proposta nei confronti del
coniuge, nell’ambito di un giudizio di separazione personale, soggetto al rito
camerale, una domanda di restituzione di somme di danaro o di beni mobili al di
fuori delle ipotesi di connessione qualificata di cui agli artt. 31, 32, 34, 35
e 36 cod. proc. civ., la mancanza di una ragione di connessione idonea a
consentire, ai sensi del terzo comma dell’art. 40 cod. proc. civ., la
trattazione unitaria delle cause, può essere eccepita dalle parti o rilevata
dal giudice non oltre la prima udienza, in analogia a quanto disposto dal
secondo comma del medesimo art. 40, di talché essa non può essere rilevata
d’ufficio per la prima volta in appello al fine di dichiarare l’inammissibilità
della domanda di restituzione, esaminata e decisa nel merito in primo grado».
Particolarmente interessante la fattispecie sottoposta all’esame del Supremo
Collegio in tale controversia. Nel 1995 i coniugi avevano stipulato un accordo
in vista di una futura separazione consensuale, nel quale avevano previsto la
rinuncia, da parte del marito, al rendiconto delle somme ricavate dalla vendita
di un’imbarcazione e di un’auto, l’impegno del marito a corrispondere alla
moglie un assegno mensile di dieci milioni di lire, la costituzione di un fondo
patrimoniale con impiego dei proventi dell’attività professionale, il
riconoscimento a favore della moglie della proprietà di alcuni quadri e di una
considerevole somma di denaro una tantum.
Nel giudizio di separazione instaurato dalla moglie – che chiedeva l’addebito
della separazione al coniuge, un assegno di mantenimento più elevato per sé e
per i figli, nonché l’assegnazione della casa familiare – il marito proponeva,
tra l’altro, domanda riconvenzionale con cui chiedeva accertarsi l’inefficacia
della precedente pattuizione e la conseguente condanna della moglie alla
restituzione di quanto già trasferitole in base a detto accordo. Il giudice di
primo grado accoglieva parzialmente le domande della moglie, riducendo
l’ammontare del mantenimento richiesto, mentre rigettava nel merito le domande
riconvenzionali del marito di condanna alla restituzione delle somme e dei
quadri. Proposto appello in via principale dal marito per l’accoglimento delle
domande riconvenzionali, e in via incidentale dalla moglie per l’aumento delle
statuizioni economiche, la Corte adita rigettava le domande riconvenzionali
dichiarandole inammissibili, sull’assunto che si trattava di questioni estranee
al giudizio di separazione, da accertarsi con il rito ordinario, e che quindi
non potevano essere introdotte in un processo a rito speciale. La Suprema Corte
cassa, invece, con rinvio, la sentenza d’appello, censurandola, in buona
sostanza, per aver adottato una soluzione «a sorpresa», mutando il titolo del
rigetto delle domande proposte dal coniuge convenuto, ritenute per la prima
volta in secondo grado inammissibili, pur in difetto di eccezione o rilievo sul
punto, nel rispetto di quanto disposto dall’art. 40 cpv. c.p.c.
Nel medesimo ordine di idee
si collocano anche le successive Cass., 25 gennaio 2008, n. 1743 e Cass., 19
febbraio 2009, n. 4025. V. infine anche Cass., 10 marzo 2006, n. 5304:
«Proposta, nel giudizio di separazione personale tra coniugi, domanda di
divisione dei beni in comunione, e ritenuta la stessa ammissibile in primo
grado fuori dalle ipotesi di “connessione qualificata” (art. 31, 32, 34, 35 e
36 cod. proc. civ.) – per le quali l’art. 40 cod. proc. civ., novellato dalla
legge n. 353 del 1990 consente nello stesso processo il cumulo di domande
soggette a riti diversi –, e ritenuta la stessa ammissibile in primo grado,
l’appello contro il solo capo della relativa sentenza concernente la domanda di
divisione va proposto con il rito ordinario, cui detta domanda è soggetta, e
non già con il rito camerale, previsto con riferimento alla impugnazione delle
sentenze in materia di separazione personale».
[54] Cfr. Cass. 19 settembre
1997, n. 9313, in Giur. it., 1998, I,
1, c. 883 ss., con Nota di Vullo.
[55] Cfr. Liberti, L’assegnazione della casa familiare: un contrasto perpetuo, Nota a Cass., Sez. Un., 12 gennaio 2000, n. 266, in Dir. fam., 2001, I, p. 76 s.
[56] Da notare che, secondo
Cass., 10 agosto 2007, n. 17645, la stessa regola vale anche per la
separazione: «Ai sensi dell’articolo 23 della legge 6 marzo 1987 n. 74,
l’appello avverso le sentenze di separazione deve essere trattato con il rito
camerale, il quale si applica all’intero procedimento, dall’atto introduttivo –
ricorso, anziché citazione – alla decisione in camera di consiglio; detto atto
introduttivo, con la forma del ricorso, deve essere depositato in cancelleria
nel termine perentorio di cui agli art. 325 e 327 cod. proc. civ., con la
conseguenza che l’appello, che sia proposto con citazione, anziché con ricorso,
può considerarsi tempestivo, in applicazione del principio di conservazione degli
atti processuali, solo se il relativo atto risulti depositato nel rispetto di
tali termini».
[57] Mentre alcuni Autori
propongono una lettura non letterale e tassativa delle figure di connessione
espressamente richiamate dall’art. 40 c.p.c., ricomprendendovi tutte le ipotesi
di connessione non meramente soggettiva, anche se non rientranti nella
previsione degli articoli ora citati, per la dottrina prevalente, invece, la
trattazione congiunta di più domande soggette a riti diversi è ammissibile solo
nei casi di connessione specificamente indicati nell’art. 40 c.p.c. È così
esclusa la deroga al rito e la possibilità di cumulo per le ipotesi di
connessione impropria, di litisconsorzio facoltativo (stante il mancato
richiamo all’art. 33 c.p.c. ) e di cause solo soggettivamente connesse ex art. 104 c.p.c. (per i richiami su
questi punti cfr. Frassinetti, Ancora
sul cumulo oggettivo tra giudizio di separazione e domande restitutorie, Nota a Cass., 22 ottobre 2004, n. 20638, in
Fam. dir., 2005, p. 261 ss.).
[58] Sul punto v. le già ricordate Cass., 6 dicembre 2006, n. 26158;
Cass., 24 aprile 2007, n. 9915; Cass., 25 gennaio 2008, n. 1743; Cass., 19
febbraio 2009, n. 4025.
[59] Cfr. Fiorini, L’assenza di connessione tra le domande non è rilevabile dopo la prima udienza, Nota a Cass., 24 aprile 2007, n. 9915, in Guida al diritto, 2007, n. 20, p. 46.
[60] Così sempre Fiorini, op. loc. ultt. citt.
[61] Per la precisione potrà dirsi che, ad esempio, la citata Cass., 19 febbraio 2009, n. 4025 ha espressamente riferito l’intervenuta decadenza dal diritto di sollevare l’eccezione del difetto di connessione rilevante ex art. 40, terzo comma, c.p.c. alla «prima udienza dinanzi al giudice istruttore».
[62] Cfr. Civinini, Sulla cumulabilità della domanda di separazione personale e di scioglimento della comunione legale, cit., c. 1597 ss., secondo cui «non ostano a tale soluzione la natura costitutiva dell’azione di separazione né l’efficacia ex nunc della sentenza: infatti, identica natura ed efficacia hanno l’azione e la sentenza, ad esempio, di risoluzione per inadempimento, per impossibilità sopravvenuta, per eccessiva onerosità, di rescissione, di annullamento, di riduzione della donazione modale per inadempimento dell’onere (…), senza che mai sia stata posta in dubbio la possibilità di cumulare in un unico processo l’azione costitutiva e le (condizionate e conseguenti) domande di restituzione; si aggiunga che, avendo anche l’azione di divisione, che trasforma le quote in porzioni, natura costitutiva, gli effetti dei capi dell’unica sentenza faranno data tutti dal passaggio in giudicato». Per la proponibilità con la domanda di divorzio di ogni altra domanda connessa con la domanda di scioglimento del matrimonio (ad es. la domanda di scioglimento di una comunione tacita familiare) cfr. Punzi, I soggetti e gli atti del processo di divorzio, in Aa. Vv., Studi in memoria di Furno, Milano, 1973, p. 836; Satta e Punzi, Diritto processuale civile, Padova, 1996, p. 1184 s. Di analogo avviso Frassinetti, op. loc. ultt. citt., secondo la quale «si può ritenere che esiste un vincolo proprio di accessorietà tra la domanda di separazione giudiziale o di divorzio e le domande restitutorie aventi titolo nello scioglimento della comunione legale, dato che la causa petendi di queste ultime si identifica nel petitum della domanda principale: infatti, se la domanda principale ha come petitum lo scioglimento del vincolo coniugale o la separazione personale dei coniugi e accessorie sono le domande restitutorie conseguenti allo scioglimento della comunione legale, la causa petendi di quest’ultima si identifica nel petitum della domanda principale, essendo sia il divorzio sia la separazione cause di scioglimento della comunione dei beni. Per contro se la domanda cumulata ha ad oggetto la restituzione di beni personali di uno dei coniugi e la domanda principale ha come petitum la separazione o il divorzio, esse differiscono non solo per l’oggetto, ma anche per la causa petendi: quest’ultima, infatti, riguarda da un lato il diritto di proprietà, dall’altro l’esistenza di una delle condizioni previste dalla legge sostanziale che fondano il diritto alla separazione o al divorzio».
[63] Basterà qui ricordare Trib. Trieste, 24 luglio 1981, cit.: nella specie era stato proposto il giudizio di divisione durante la pendenza del giudizio di separazione e ne è stata ritenuta l’improponibilità, per non essere «la fattispecie concreta ivi dedotta non rapportabile ad alcuna fattispecie astrattamente prevista», con reiezione altresì della richiesta di sospensione «in attesa della pronuncia definitiva della separazione giudiziale, in quanto non trattasi di rapporto di pregiudizialità di causa, bensì di difetto di un requisito per la proposizione della domanda»; Trib. Genova, 16 gennaio 1986, cit., secondo cui «La domanda di un coniuge per ottenere lo scioglimento della comunione legale dei beni non è proponibile prima della definizione del procedimento di separazione personale tra i coniugi interessati; pertanto, nel caso di separazione giudiziale non può chiedersi lo scioglimento prima che sia passata in giudicato la sentenza, mentre irrilevanti a determinare lo scioglimento della comunione sono la pendenza stessa del procedimento di separazione od i provvedimenti interinali emessi dal giudice nel corso del procedimento stesso»; Trib. Vercelli, 27 maggio 1992, cit. Cfr. inoltre Trib. Bari, 20 novembre 2008, in Diritto e Giustizi@, 6 dicembre 2008; in Fam. dir., 2009, p. 506, con nota di Lor. Balestra; ibidem, p. 839, con nota di Dominici: «Il regime patrimoniale della comunione legale tra i coniugi si scioglie nei casi espressamente previsti dall’art. 191, c.c., tra i quali rientra la separazione personale, integrando la relativa sentenza il momento costitutivo del sorgere del diritto del comproprietario ad ottenere lo scioglimento della comunione ex art. 191, c.c., posto che avendo effetto costitutivo del nuovo stato personale, essa produce effetti ex nunc soltanto in seguito al suo passaggio in giudicato, senza che abbia rilevanza al riguardo il precedente provvedimento presidenziale con cui gli stessi coniugi siano stati autorizzati ad interrompere la convivenza. Da ciò consegue, che se in pendenza del procedimento di separazione personale il diritto allo scioglimento della comunione legale dei beni dei coniugi non è ancora sorto (per non essersi compiutamente realizzata la correlativa vicenda costitutiva), neppure – evidentemente – esiste un interesse, attuale e concreto del singolo coniuge a reclamarne la tutela giudiziale. La declaratoria di scioglimento della comunione non può quindi essere richiesta antecedentemente alla formazione del giudicato sulla separazione, e la domanda in tal senso eventualmente, formulata prima di tale data va dichiarata – come tale – improponibile». Si veda poi anche Trib. Cassino, 21 ottobre 2008, in Le leggi d’Italia, Corti di merito: «La trattazione congiunta di cause soggette a riti differenti può attuarsi, secondo le regole di cui all’art. 40 c.p.c., nel testo modificato dalla legge n. 353 del 1990, soltanto se tali cause siano connesse ai sensi degli artt. 31, 32, 34, 35 e 36 c.p.c.; pertanto non è possibile il cumulo in un unico processo della domanda di divorzio, soggetta al rito camerale, e di quella di divisione dei beni comuni, soggetta a rito ordinario, trattandosi di domande non legate da vincoli di connessione, ma autonome e distinte l’una dall’altra (Cass. 2006/26158)». Alle medesime conclusioni è pervenuta, infine, Trib. Monza, 9 settembre 2008, ivi: «la pronuncia di separazione, come ogni presupposto di legge, deve necessariamente preesistere alla domanda di scioglimento della comunione ex art. 191 c.c. e di conseguente divisione dei beni già ricadenti nella comunione legale (Cass. sez. I, 06-10-2005, n. 19447). Lo scioglimento della comunione legale dei beni fra i coniugi si verifica ex nunc soltanto con il passaggio in giudicato della sentenza di separazione, non spiegando effetti – al riguardo – il precedente provvedimento presidenziale (provvisorio e funzionalmente limitato) con cui i coniugi siano stati autorizzati ad interrompere la convivenza, né, a maggior ragione, il semplice fatto in sé della separazione dei coniugi, sicché risulta improponibile la eventuale domanda di scioglimento della comunione proposta prima della formazione del giudicato sulla separazione). E’ finanche ovvio che nel caso in esame tale presupposto non esiste, dato che esso si verrà a costituire solo con il futuro passaggio in giudicato della presente sentenza». Da notare che tale ultima decisione ha altresì dichiarato improponibili in quella sede le domande risarcitorie – nella specie, da «mobbing coniugale» – in quanto «diversi sono i requisiti di fondatezza delle due domande nonché l’oggetto e gli effetti giuridici delle due pronunce: nessuna delle domande restitutorie o risarcitorie deriva e/o dipende, fattualmente e/o giuridicamente, dalle questioni devolute ex lege al giudice collegiale nell’ambito del giudizio di separazione personale (sicché è esclusa anche ogni possibilità di contrasto di giudicato)».
[64] Cfr. Cass., 22 ottobre
2004, n. 20638, in Fam. dir., 2005,
p. 259, con nota di Frassinetti:
«L’art. 40, cod. proc. civ., nel testo novellato dalla legge n. 353 del 1990,
consente il cumulo nello stesso processo di domande soggette a riti diversi
esclusivamente in presenza di ipotesi qualificate di connessione cd. “per
subordinazione” o “forte” (art. 31, 32, 34, 35 e 36, cod. proc. civ.),
stabilendo che le stesse, cumulativamente proposte o successivamente riunite,
devono essere trattate secondo il rito ordinario, salva l’applicazione del rito
speciale, qualora una di esse riguardi una controversia di lavoro o
previdenziale, e quindi esclude la possibilità di proporre più domande connesse
soggettivamente ai sensi dell’art. 33 o dell’art. 103, cod. proc. civ., e
soggette a riti diversi. (In applicazione del succitato principio, la S.C. ha
cassato la sentenza di merito, la quale aveva negato che il rapporto di
accessorietà delle domande restitutorie rispetto alla causa di separazione
personale fosse sufficiente a permetterne la trattazione unitaria)».
[65] Per questa osservazione v. anche Frassinetti, op. loc. ultt. citt. Per una decisione successiva a quella appena citata del 2004, in senso negativo rispetto alla proponibilità, in seno ad un giudizio di separazione personale, della domanda diretta alla restituzione di alcuni beni mobili, sulla base dell’assunto per cui tale petitum «configura una tipica domanda di divisione che postula, ai fini del suo esame, il passaggio in giudicato, ovviamente non ancora verificatosi, della pronuncia di separazione tra i coniugi (…) quale causa determinante dello scioglimento della relativa comunione ai sensi dell’art. 191 c.c. (…) e la successiva fase di divisione ex art. 194 c.c.» cfr. Cass., 13 ottobre 2005, n. 19886.
[66] Per questa conclusione v. anche L. Rubino, Particolarità dello scioglimento nelle ipotesi di separazione personale, divorzio e annullamento del matrimonio, cit., p. 921; Mastropaolo e Pitter, op. cit., p. 295 e nota 24; Caliendo, Scioglimento della comunione legale nella separazione, cit., p. 426 s.; v. inoltre amplius supra, § 3.
[67] In questi termini v. Cass.,
23 giugno 1998, n. 6234, in Corr. giur., 1999, p. 63, con nota di MONTANARI; nello stesso senso cfr.
Trib. Bari, 20 novembre 2008, cit.
[68] Sul punto rileva Montanari, Dipendenza di cause «per successione cronologica» e sospensione del
procedimento ex art. 295 c.p.c.,
Nota a Cass., 23 giugno 1998, n. 6234, in Corr.
giur., 1999, I, p. 63, che siffatta espressione «se non attribuibile ad un
vero e proprio lapsus calami, (…)
appare decisamente fuorviante e frutto, al contempo, di un profondo equivoco,
dal momento che, a dispetto dell’assonanza fonetica, la succedaneità non è la
qualità propria di chi o cosa è destinato a seguire nel tempo, ossia a
succedere sul piano cronologico, bensì di chi o cosa è idoneo ad altri
sostituire o surrogare: e qui, francamente, fenomeni di surrogazione non sono
punto rintracciabili».
[69] Afferma la Corte nella citata motivazione che «se in pendenza del procedimento di separazione personale il diritto allo scioglimento della comunione legale dei beni dei coniugi non è ancora sorto (per non essersi compiutamente realizzata la correlativa vicenda costitutiva), neppure, evidentemente, ancora esiste un interesse, attuale e concreto del coniuge a reclamarne la tutela giudiziale». In realtà, ad avviso di chi scrive, non tanto di difetto di interesse si tratta, quanto di radicale assenza delle condizioni di operatività del disposto dell’art. 295 c.p.c., per le ragioni illustrate nel testo.
[70] Come suggerito invece da Frassinetti, op. loc. ultt. citt.,
la quale richiama Trib. Taranto, 4 aprile 1998, in Foro it., 1999, I, c. 656, con nota di F. Cipriani; Trib. Roma, 29 maggio 2000, in Giust. civ., 2001, I, p. 819, con nota
di Neri. Secondo queste due
pronunce (come si vedrà anche infra,
§ 15), lo scioglimento della comunione legale si atteggia rispetto alla domanda
divisoria non già come presupposto processuale, né come condizione di
proponibilità della domanda, bensì «quale fatto costitutivo del diritto, la cui
sopravvenienza in corso di causa rimuove ogni ostacolo alla decisione nel
merito della domanda»; conclusione, questa, a cui si giunge anche se si
individua nel giudicato sulla separazione personale una (semplice) condizione
dell’azione, la cui sussistenza può e deve essere valutata al momento della
decisione. Peraltro, come si avrà modo di vedere nel già richiamato § seguente,
il riconoscimento del carattere di condizione dell’azione in capo
all’intervenuto scioglimento del regime legale, se consente, da un lato, di
tenere conto di tale evento sopravvenuto in corso di giudizio divisorio, al
fine di considerare quest’ultimo procedibile, non permetteva, dall’altro,
ancora di affermare che per siffatta ragione la domanda divisoria fosse
cumulabile a quelle proprie della crisi coniugale (separazione o divorzio),
prima della novella qui in commento. Sul punto (e sempre nel senso qui
criticato) v. anche Paladini, Lo scioglimento della comunione legale e la
divisione dei beni, cit., p. 452 ss., il quale, pur riconoscendo che
l’estinzione del regime legale decorre soltanto dalla data del passaggio in
giudicato della sentenza di separazione giudiziale o da quella del decreto di
omologazione, ammetteva la proponibilità, all’interno dello stesso giudizio di
separazione, sia della domanda di divisione dei beni, che delle domande di
rivendicazione dei beni personali di cui l’altro coniuge affermasse invece
l’appartenenza alla comunione. Ad avviso dello scrivente, questo ultimo tipo di
domande, pur dopo la novella del 2015, permane improponibile nelle procedure
speciali di separazione e divorzio, per le ragioni di cui al testo,
implicitamente confermate proprio dal citato intervento normativo.
[71] E’ noto che, nonostante si tenda ad escludere l’ammissibilità di domande processuali condizionate, si riconosce la proponibilità del cumulo condizionale di domande distinte. Il più approfondito studio in materia riassume come segue la distinzione e le relative ragioni: il «fenomeno del cumulo condizionale di domande distinte [è] caratterizzato dal fatto che la volontà dell’attore riceve bensì attuazione attraverso l’apposizione di una condizione (risolutivamente intesa) alla pendenza di una delle domande proposte, ma solo al fine di consentirne l’abbinamento in via eventuale rispetto ad un’altra domanda contestualmente proposta, invece, in modo puro e semplice. Tale profilo può dunque valere a differenziare (…) il regime di ammissibilità della domanda proposta in via condizionale nei riguardi di un’altra incondizionatamente e principalmente esperita, rispetto a quello che attiene all’ipotesi di proposizione in via condizionata di un’unica domanda giudiziale, di norma ritenuta irrimediabilmente incompatibile con l’esigenza di certezza in ordine all’instaurazione ed evoluzione del processo e così inammissibile» (Cfr. Consolo, Il cumulo condizionale di domande, I, Padova, 1985, p. 49).
[72] Sul tema v. per tutti Oberto, Gli accordi patrimoniali tra coniugi in sede di separazione o divorzio tra contratto e giurisdizione: il caso delle intese traslative, dal 4 marzo 2009 disponibile al seguente indirizzo web: http://giacomooberto.com/trasferimenti/taormina2009/relazione_oberto_taormina.htm, in partic. i §§ 13.1, 13.2, 13.3.
[73] Questa argomentazione è
invece sostenuta da Paladini, Lo scioglimento della comunione legale e la
divisione dei beni, cit., p. 453 per dimostrare la proponibilità della
domanda divisoria «all’interno dello stesso giudizio di separazione personale,
in via condizionata, peraltro, all’accoglimento della domanda principale di
separazione».
[74] Per i beni destinati a cadere in comunione solo de residuo, ovviamente, il «mai» di cui al testo appare accettabile solo se si aderisce alla tesi, preferibile, secondo cui la cessazione del regime non opera l’instaurazione di una vera e propria contitolarità, bensì soltanto di un rapporto creditizio (sul punto Oberto, La comunione legale tra coniugi, I, cit., p. 871 ss.); altrimenti dovrebbe correggersi l’affermazione con la precisazione seguente: «solo sin tanto che perdura il regime legale».
[75] Sul tema dei rapporti tra tutela processuale cautelare e comunione legale cfr. Oberto, La comunione legale tra coniugi, I, cit., p. 2272.
[76] Potrà notarsi al riguardo che la giurisprudenza di legittimità ammette
deroghe al principio dell’universalità della divisione ereditaria solo con
riguardo alla presenza di uno specifico accordo tra le parti, ovvero quando,
«essendo stata richiesta tale divisione da una delle parti, le altre non
amplino la domanda, chiedendo a loro volta la divisione dell’intero asse»: cfr.
Cass., 5 settembre 1978, n. 4036; Cass., 9 febbraio 1980, n. 905; Cass., 29
novembre 1994, n. 10220. Ora, è chiaro che, nell’ipotesi qui in esame,
l’accordo tra le parti, ove esistente, darebbe luogo ad una separazione
consensuale, di cui già si è detto; in difetto d’intesa, non potrebbe neppure
darsi l’astratta possibilità per l’altro coniuge di ampliare la domanda
chiedendo la divisione dell’intero asse, posto che questo, per le ragioni
illustrate nel testo, è per definizione non determinabile sino al momento dello
scioglimento del regime.
[77] Tra gli studiosi che, già sotto l’imperio della legge processuale del 1865, si esprimevano in tal senso, si possono qui rammentare Castellari, Della competenza per connessione, in appendice a Glück, Commentario alle Pandette, trad. it. diretta da Cogitalo e Fadda, XI, Milano, 1903, p. 169 ss., e spec. 440 ss.; Chiovenda, Principii di diritto processuale civile, Napoli, 1928, p. 560, 1139 e 1140; Jaeger, La riconvenzione nel processo civile, Padova, 1930, p. 140 ss., 153 ss. Dopo l’entrata in vigore dell’attuale codice di rito, tale opinione è seguita dalla dottrina maggioritaria: tra gli altri, Calamandrei, Istituzioni di diritto processuale civile, II, Padova, 1943, p. 144; Gionfrida, La competenza nel nuovo processo civile, Trapani, 1945, p. 364; De Petris, voce Connessione (Dir. proc. civ.), in Enc. dir., IX, Milano, 1961, p. 19; Fazzalari, Il processo ordinario di cognizione, I, Torino, 1989, p. 144 ss.; Andrioli, Commento al codice di procedura civile, I, Napoli, 1957, p. 125 ss.; Satta, Commentario al codice di procedura civile, I, Milano, 1966, p. 157; Dini, La domanda riconvenzionale, Milano, 1978, p. 143; Liebman, Manuale di diritto processuale civile, Principi, Milano, 1992, p. 189; Consolo, Spiegazioni di diritto processuale civile, Milano, 1995, p. 185; Redenti, Diritto processuale civile, II, Milano, 1997, p. 99; Mandrioli, Corso di diritto processuale civile, I, Torino, 1997, p. 133 ss.
[78] Cfr. Trib. Modena, 15
maggio 2007, disponibile al sito www.giuraemilia.it.
[79] V. supra, § 3.
[80] In questo senso v. Trib. Bari, 20 novembre 2008, cit. Nel senso che mentre i presupposti processuali si riferiscono ad atti o fatti precedenti alla domanda, le condizioni dell’azione riguardano atti o fatti successivi, cfr. Carnelutti, Istituzioni del nuovo processo civile italiano, I, Roma, 1942, p. 332 ss. (per il quale, peraltro, l’espressione «presupposti» sarebbe impropria, dovendosi invece utilizzare quella «requisiti»).
[81]
In quest’ultimo senso v. ad es. Cass.,
11 aprile 1995, n. 4155.
[82] Cfr. Trib. Roma, 29 maggio
2000, cit.: «Lo scioglimento della comunione legale si atteggia rispetto alla
domanda divisoria non già come “presupposto processuale” (il quale deve
esistere “prima” della proposizione della domanda perché la successiva
proposizione della domanda stessa dia luogo ad un processo idoneo a pervenire
ad una pronuncia sul merito: ad es. competenza del giudice, legittimazione
processuale della parte, ecc.), né come “condizione di proponibilità della
domanda”, la quale presuppone una espressa previsione legislativa che subordini
la possibilità di intraprendere l’azione al verificarsi di una determinata
circostanza, bensì quale fatto costitutivo del diritto, la cui sopravvenienza
in corso di causa rimuove ogni ostacolo alla decisione nel merito della
domanda. Se dunque, in pendenza del giudizio di separazione, non sussiste
ancora il diritto allo scioglimento della comunione legale, né è ipotizzabile
la sospensione ex art. 295 c.p.c. del
giudizio di divisione in attesa della definizione del primo (stante l’assenza
di una “pregiudizialità” in senso tecnico tra i due procedimenti), pur tuttavia
la sopravvenienza del giudicato sulla pronuncia di separazione personale dei
coniugi consente la decisione della causa divisoria in virtù del generale
principio di economia processuale nonché del principio per cui le condizioni di
accoglimento della domanda è sufficiente sussistano alla data della decisione
(…). Ove poi si preferisca individuare nel giudicato sulla separazione
personale il momento in cui sorge l’interesse a proporre la domanda di
divisione, e quindi una “condizione dell’azione” (che costituisce un requisito
intrinseco della domanda), si perverrebbe alle stesse conclusioni, dal momento
che, per giurisprudenza costante, anche la sussistenza delle condizioni
dell’azione, può e deve essere valutata con riferimento al momento della
decisione». Dello stesso avviso anche la precedente Trib. Taranto, 4 aprile
1998, cit.: «La domanda di divisione dei beni in comunione legale tra coniugi,
ancorché proposta prima del passaggio in giudicato della sentenza di
separazione giudiziale, è ammissibile qualora il giudicato di accoglimento
sopravvenga in corso di causa».
[83] Oberto, La comunione legale tra coniugi, II, cit., p. 1813 ss.
[84] Evidenzia in dottrina tale elemento Neri,
Del rapporto tra il giudizio di
divisione dei beni in comunione legale tra i coniugi, lo scioglimento della
comunione stessa e il provvedimento giudiziale di assegnazione della casa
familiare, Nota a Trib. Roma, 4 luglio 2000 e Trib. Roma, 29 maggio 2000,
in Giust. civ., 2001, p. 826.
Analogamente v. anche Dominici, Scioglimento della comunione legale e
passaggio in giudicato della sentenza di separazione personale, cit., p.
843, la quale sembrava peraltro (se abbiamo ben compreso) voler derivare da
tale constatazione l’ulteriore, inaccettabile (e dal primo rilievo, in realtà,
del tutto svincolata), conseguenza secondo cui la domanda divisoria sarebbe
risultata proponibile a prescindere dal passaggio in giudicato della sentenza
di separazione personale, laddove la tesi sostenuta da chi scrive perveniva ad
ammettere l’emanabilità di una sentenza di divisione giudiziale, pur essendo la
relativa causa iniziata prima del passaggio in giudicato della pronunzia di
separazione, qualora quest’ultimo avvenimento avesse avuto luogo in pendenza
della causa divisoria, certo non nel caso in cui, al momento di decidere sulla
divisione, i coniugi non fossero risultati ancora separati (con sentenza
passata in giudicato).
[85] Cass., 26 febbraio 2010, n.
4757, in Giust. civ., I, p. 1081, con
nota di M. Finocchiaro; in Fam. dir., 2010, p. 1092, con nota di Ferrari.
[86] Nello stesso senso cfr. F. Cipriani, Nota a Trib. Taranto, 4 aprile
1998, in Foro it., 1999, I, c. 656.
[87] Si noti che il citato progetto unificato la qualificava come domanda divisoria «della comunione legale tra coniugi», laddove si tratta, invece, della comunione ordinaria che viene ad instaurarsi inter coniuges sulla massa di beni che forma oggetto della comunione legale, sino al momento in cui questa viene a cessare.
[88] Cfr. Trib. Verona 29 settembre 1987, cit.: «non è chi non veda come l’instaurazione d’un processo divisionale, con le sue inevitabili lungaggini e complessità, sia di ostacolo e di pregiudizio all’immediato e sollecito soddisfacimento dei suddetti interessi [personali delle parti], alla cui tutela è esclusivamente finalizzata la ratio delle norme in esame, specie in presenza di eventuali figli».
[89] Vale a dire, di una decisione con la quale il tribunale si limita a statuire sulla separazione personale, rinviando la causa in istruttoria per quanto attiene alle rimanenti domande, con conseguente sensibile anticipazione del momento di formazione del giudicato sul punto della separazione (sul punto per tutti cfr. Oberto, La comunione legale tra coniugi, II, cit., p. 1792 s.).
[90] Cfr. Roubier, Le Droit transitoire (Conflits des lois dans le temps), Paris,
1960, p. 394 (anche per i richiami, in nota 1, alla giurisprudenza). Sul tema v. anche Chabot de l’Allier, Questions transitoires sur le Code Napoléon, relatives à son autorité sur
les actes et les droits antérieurs à sa promulgation. Et dont la discussion
comprend 1o. le tableau des diverses législations sur chacune des
matières qui sont traités, 2o. des explications sur les lois
anciennes et sur le code, I, Paris, 1809, p. 79 ss.
[91] Cfr. Oberto, La comunione legale tra coniugi, I, cit., p. 32, nota 105. Sulla riconducibilità della tesi di cui al testo alle teorie elaborate nel XVI secolo dal Molineo cfr. Id., op. cit., p. 60 s., II, cit., p. 2141 ss.
[92]
Poco dopo aver iniziato la causa di separazione tre anni prima dell’entrata in
vigore della novella e dopo l’emanazione dei provvedimenti presidenziali, un
coniuge ha acquistato un bene destinato a cadere in comunione ex art. 177, lett. a), c.c., bene che è
stato immediatamente pignorato dai creditori «comuni», ex artt. 186-190 c.c.; a distanza di tre anni si «scopre» che il
bene è (era) del solo coniuge che l’ha acquistato. Quid juris?
[93] Cfr. Roubier, op. loc. ultt. citt., il quale soggiunge
che «On peut, en effet, considérer que les parties ont pu ne pas passer de
contrat particulier parce qu’elles étaient satisfaites du régime légal, et on
ne peut cependant les obliger à reprendre dans un contrat toutes les
dispositions de la loi en vigueur. Il convient d’ailleurs de reconnaître que
l’extrême complexité des régimes matrimoniaux rend très difficile
l’introduction de nouvelles règles dans un bloc de clauses souvent
indivisibles. Aussi voit-on assez peu souvent de modification législative de ce
genre ; ce qui, au contraire, arrive quelquefois, notamment au moment d’une
codification ou d’une annexion de territoire, c’est la possibilité de la
substitution d’un régime entier à un autre, sous certaines conditions d’option
et de délai ; tel fut le cas lors de la réintroduction du droit civil français
en Alsace-Lorraine (L. 1er juin 1924, art. 127 et s.) le régime de
la communauté réduite aux acquêts devait remplacer, à l’expiration d’un délai
d’une année pendant lequel les intéressés pourraient faire une option
contraire, le régime légal antérieur du Code civil allemand».