FAMIGLIE RICOSTITUITE:
ASPETTI PATRIMONIALI,
DIRITTI E RESPONSABILITÀ DEL
GENITORE SOCIALE
(Traccia per una
relazione)
Sommario: 1. Introduzione. – 2. Notazioni storiche e sociologiche. Individuazione
del fenomeno e terminologia. – 3. Un po’ di comparazione. L’evoluzione normativa in
Francia. – 4. Segue. Prospettive in Belgio e
California. Ulteriori cenni di diritto comparato. – 5. Il sistema
italiano: la “legalizzazione” della stepfamily
tricolore: ovvero dell’adozione in casi particolari e dell’inserimento del
figlio naturale nella famiglia legittima del genitore. – 6. Situazione nel
sistema italiano al di fuori dei casi di adozione e inserimento del figlio
naturale. Generalità. – 7. Famiglia ricomposta e casa familiare. – 8. Famiglia
ricomposta e risarcimento del danno da uccisione del familiare. – 9. Famiglia
ricomposta e obbligazione naturale. – 10. Famiglia ricomposta e negotiorum gestio. – 11. Famiglia ricomposta e obbligazioni ex contractu assunte verso terzi. – 12. Famiglia
ricomposta e responsabilità ex delicto
verso terzi. – 13. I “contratti di famiglia ricomposta”. – 14. Crisi della
famiglia ricomposta e ruolo del genitore sociale in caso di mancato accordo
con il genitore legale. |
Nel
web circola un aneddoto riferito ad
un racconto di Mark Twain
(sulla cui reale paternità nutro peraltro dubbi, non essendo riuscito a
risalire al testo originale). Il titolo della storiella è “Sono il nonno di me
stesso” (My own Grandfather); tradotto in italiano, il
brano suona più o meno così:
“Mi
sono sposato con una vedova. Questa aveva una figlia. Mio padre si è innamorato
della mia figliastra e l’ha sposata.
In
tal modo, mio padre è diventato mio genero.
La
mia figliastra è diventata di conseguenza la mia matrigna, essendo moglie di
mio padre.
Mia
moglie ha avuto un figlio che è il cognato di mio padre, dato che è il fratello
di sua moglie che in realtà è mia figlia. Anche mio figlio è diventato mio zio,
perché è il fratello della mia matrigna.
Inoltre
la moglie di mio padre ha partorito un bambino che è naturalmente mio fratello
(perché figlio di mio padre) e contemporaneamente mio nipote, in quanto figlio
della mia figliastra.
Ecco
la ragione per cui mia moglie è mia nonna (in quanto madre della mia matrigna).
E
siccome è mia moglie, io sono diventato allo stesso tempo suo marito e suo
nipote.
Poiché
il marito della nonna è naturalmente il nonno, sono perciò diventato … il nonno
di me stesso!”.
Il
paradosso (sebbene
giocato sull’evidente – e voluta – confusione tra legami di sangue e legami
sociali) mostra quali livelli di complicazione possano generarsi dalla pratica
delle c.d. stepfamilies, o familles recomposées,
familles reconstituées, o, in
italiano, famiglie
ricomposte, o ricostituite,
o rinnovate. Più
“azzardati” neologismi parlano di “famiglia pluriematica” o di “famiglia
putativa”. Curioso è poi che nella nostra lingua facciano difetto termini per indicare i soggetti di tale
famiglia: al prefisso inglese step- (stepfather, stepchild, ecc.) ed a quello francese beau-(belle-) (beau-père, belle-fille, ecc.) corrisponderebbero in italiano i suffissi
-igno/a e -astro/a (patrigno, figliastro, fratellastro) che, per le loro
connotazioni spregiative, nessuno usa ormai più.
Ineffabile
nella sua ambiguità la nostra Corte costituzionale, che parla di “comunità di vita allargate”, con riguardo
al tema dell’adozione di maggiorenni (Corte cost., 23 maggio 2003, n. 170).
Da
notare che il ricorso al termine famiglia appare comunque corretto, anche dal punto di vista
strettamente normativo, atteso che la disciplina dell’anagrafe (art. 4 d.P.R. 30 maggio 1989, n.
223) si esprime anche in questo caso in termini di “famiglia”.
Articolo
4 Famiglia
anagrafica. 1.
Agli effetti anagrafici per famiglia si intende un insieme di persone legate
da vincoli di matrimonio, parentela, affinità, adozione, tutela o da vincoli affettivi,
coabitanti ed
aventi dimora abituale
nello stesso comune. 2.
Una famiglia anagrafica può essere costituita da una sola persona. |
2. Notazioni
storiche e sociologiche. Individuazione del fenomeno e terminologia.
Dal
punto di vista storico
può senz’altro dirsi che il fenomeno della famiglia ricostituita è conosciuto da sempre. Ecco la prima
monografia sul tema, dell’olandese Johannes van Someren (1634-1706), dedicata
al “diritto delle matrigne”:
|
Peraltro
ben diverse erano le implicazioni giuridiche del medesimo fenomeno sino, quanto
meno, all’introduzione del divorzio. Un tempo, invero, la famiglia ricostituita
si creava a seguito di vedovanza di uno dei genitori, che procedeva a celebrare
seconde nozze. Il problema storicamente avvertito era quello di garantire la posizione dei figli di primo
letto (cfr. per approfondimenti Oberto,
La comunione legale tra coniugi, nel Trattato di diritto civile e commerciale
Cicu-Messineo, I, Milano, 2010, p. 97 ss.):
Lo
sfavore per le seconde nozze si protrasse fino alla riforma del diritto di famiglia del 1975, che abrogò
l’art. 595 c.c.
1942, che così recitava:
595.
Coniuge del binubo. (1) Il
coniuge del binubo non può ricevere da questo per testamento, sulla
disponibile, più di quanto consegue, sulla disponibile stessa, il meno
favorito dei figli di precedenti matrimoni. Per determinare la porzione del
coniuge devono calcolarsi le donazioni da lui ricevute. L’eccedenza
di cui è stato disposto a favore del coniuge, anche per donazione, deve
essere divisa in parti eguali tra il coniuge medesimo e tutti i figli del
testatore. ___________ (1)
Art. abrogato dall’art. 196, L. 19 maggio 1975, n. 151. |
Da
notare che la disposizione, anche per la sua vigenza precedente, fu dichiarata incostituzionale da Corte cost.,
20 dicembre 1979, n. 153. Interessanti le osservazioni svolte nelle
motivazioni della Consulta:
6.
- La storia del divieto, risalendo, attraverso le legislazioni che si sono
succedute nel tempo all’origine della norma, mostra come questa fosse
soprattutto ispirata dall’ostilità verso le seconde nozze considerate come
atto moralmente e giuridicamente riprovevole e si fondasse sul presupposto
che il binubo fosse sempre esposto ai raggiri, artifizi e violenza da parte
del nuovo coniuge per spogliarlo dei suoi averi, raggiri, artifizi e violenza
ad evitare i quali non sarebbero state, in un secondo o successivo
matrimonio, sufficienti le ordinarie disposizioni sulla captazione
testamentaria. Scopo
precipuo della norma era infatti quello di ostacolare le nuove nozze e di scoraggiarle, limitando
la capacità giuridica dei binubi. L’ostilità del legislatore, malgrado che
sia il codice civile del 1865 (art. 850), sia quello del 1942 (art. 636)
dichiarassero illecita la condizione impedente le prime nozze e le ulteriori,
si appalesa anche in talune norme del codice civile (tali ad esempio, quelle
degli artt. 434, 149, 636, 328, sostituito dall’art. 151 della legge n. 151
del 1975, 340 e 31, abrogati dall’art. 159 della citata legge) nonché in
disposizioni in tema di pensione di riversibilità della vedova binuba, nelle
quali non appare estraneo, insieme ad altri presupposti, anche il disfavore
verso i successivi matrimoni (V. art. 81 del t.u. sul trattamento di
quiescenza dei dipendenti civili e militari dello Stato approvato con d.P.R.
29 dicembre 1973, n. 1092; art. 42 del t.u. sulle pensioni di guerra
approvato con d.P.R. 23 dicembre 1978, n. 915; V. anche art. 27 r.d. 17
agosto 1935, n. 1765). 7.
- Il motivo invocato da taluni che il divieto di cui all’art. 595 fosse
esclusivamente diretto a tutelare gli interessi dei figli di primo letto, se
poteva avere un’apparenza di veridicità per le più antiche legislazioni,
appariva in gran parte inconsistente e ormai superato una volta introdotto
l’istituto della quota disponibile e della riserva ereditaria e data la
possibilità di impugnare le disposizioni testamentarie affette di violenza,
dolo od errore (art. 624 codice civile). La
norma denunziata,
stabilendo che la condizione di colui che aveva contratto successivamente più
matrimoni, costituisce un elemento
discriminante rispetto alla capacità di qualunque altro cittadino celibe o
coniugato una sola volta di disporre della quota disponibile dei suoi
beni nei confronti del proprio coniuge e, correlativamente, rispetto alla
capacità di questo coniuge di ricevere sulla quota disponibile, violava il
principio costituzionale di uguaglianza di cui all’art. 3. La
differenza di trattamento fatto ai binubi, in confronto degli altri coniugati
e in genere degli altri cittadini, non solo non trovava alcuna ragionevole
giustificazione in motivi che comunque potessero identificarsi con i principi
e i valori della Costituzione, soprattutto dell’art. 29, ma appariva
rispondere a concetti del tutto superati e addirittura contrastanti con la
logica del sistema creando una serie di situazioni palesemente assurda. Infatti, mentre qualunque cittadino
poteva disporre liberamente dei propri beni nei limiti della propria quota
disponibile e poteva liberamente ricevere entro la quota disponibile di altri
liberalità a proprio favore, ciò era vietato ai binubi e ai coniugi di questi
per il solo fatto che esisteva fra loro un rapporto giuridico di matrimonio
legittimo. I vedovi e i divorziati, come tutti gli altri cittadini, potevano
invece disporre della loro quota disponibile a favore di qualsivoglia altra
persona anche se con loro convivente more uxorio, o unita da vincolo di
matrimonio religioso non trascritto, o unita da matrimonio legittimo
successivamente annullato prima della morte del binubo, situazioni queste
nelle quali i pericoli a danno dei figli di matrimoni anteriori di
circumvenzione, di dolo o di violenza che si affermava volere impedire
potevano esistere con assai maggiore incidenza e frequenza e con conseguenze
assai più gravi. L’assurdità
risulta anche per situazioni nelle quali l’applicabilità del divieto
dipendeva da situazioni del tutto accidentali e indipendenti dalla volontà
delle persone. Tale
ad esempio quella del binubo il cui precedente o i precedenti matrimoni
fossero dichiarati nulli, nel qual caso l’incapacità del testatore e del suo
coniuge non esisteva, e così anche, secondo un’autorevole dottrina, quando la
persona a favore della quale l’istituzione era stata fatta, aveva acquistato
la qualità di coniuge legittimo dopo la confezione del testamento. Del
resto l’incapacità del binubo e del di lui coniuge si aveva solo in presenza,
al momento dell’apertura della successione, di figli legittimi o legittimati
per susseguente matrimonio che non fossero premorti o dichiarati indegni o
avessero rinunziato all’eredità. Ciò creava una differenziazione rispetto
alla capacità giuridica fra binubi con figli nati da precedenti matrimoni e
binubi senza tali figli. L’incapacità, invece, non si verificava in presenza
di figli legittimati per decreto del Capo dello Stato (ora con la riforma del
1975 con provvedimento del giudice: nuovo art. 284 del codice civile), di
adottivi e di naturali in quanto non erano nati da precedenti matrimoni del
binubo. Altra
situazione irrazionale, nella quale la capacità del binubo e del di lui
coniuge risultava ancora limitata in confronto a quella degli altri
cittadini, vi era quando al figlio meno favorito di precedenti matrimoni era
lasciata la sola legittima. In tal caso il nuovo coniuge non poteva ricevere
nulla sulla disponibile, ma conseguiva la sola riserva. Per di più,
concorrendo con figli legittimi, la quota di riserva gli spettava soltanto in
usufrutto con la conseguenza che il testatore non gli poteva lasciare nulla
in proprietà. Altra
limitazione si era verificata dopo la dichiarazione di incostituzionalità
dell’art. 781 del codice civile (sentenza 14
giugno 1973, n. 91). Affermata la liceità delle donazioni fra coniugi, ne
derivava che nel determinare la porzione del nuovo coniuge, si sarebbero
dovute calcolare anche le donazioni fatte dal binubo al proprio coniuge
durante il matrimonio. In tal modo, prima dell’abrogazione dell’art. 595, si
sarebbe avuta un’ulteriore limitazione della capacità del binubo rispetto a
quella degli altri cittadini, potendo questi fare donazioni al proprio
coniuge e riducendosi invece quelle del binubo che concorressero a fare
oltrepassare sulla disponibile quanto conseguiva il figlio meno preferito di
precedenti matrimoni. 8.
- La norma dell’art. 595 contrastava pertanto anche con l’art. 29 della
Costituzione in quanto, limitando la capacità dei binubi e dei loro coniugi
in confronto a quella degli altri coniugati, operava una distinzione
giuridica fra il precedente matrimonio legittimo e i successivi, ponendo i
coniugi di successivi matrimoni in uno stato di inferiorità giuridica in
confronto dei coniugi precedenti. Questa distinzione non si conciliava con
l’art. 29 della Costituzione, il quale non differenzia fra loro i matrimoni
legittimi, ma vuole questi ordinati sulla uguaglianza morale e giuridica dei
coniugi e tanto meno consente di disciplinare in modo diverso il primo
matrimonio da quelli successivi. A
base del divieto di cui all’art. 595, così come a base di quello dell’art.
781 dichiarato costituzionalmente illegittimo, vi era la presunzione,
denunziata dalla Corte nella sua citata sentenza n. 91
del 1973, che il matrimonio legittimo creasse fra i coniugi uno stato
reciproco di ineguaglianza e di inferiorità, non riscontrabile nelle altre
forme di unioni coniugali non legittime, per cui ciascun coniuge potesse
essere sempre circuito o costretto dall’altro a spogliarsi a favore di questo
dei suoi beni, presunzione questa incompatibile con l’uguaglianza civile e
morale dei coniugi. Come nella citata sentenza n. 91
del 1973, riguardo alla statuizione di incostituzionalità dell’art. 781,
la Corte, anche rispetto all’art. 595, osserva che questa presunzione
contrasta con la stessa realtà giuridica in quanto la persona unita all’altra
da vincolo coniugale legittimo é meno esposta a soggiacere a seduzioni e
pressioni affettive da parte dell’altro coniuge dirette ad ottenere
liberalità, che non invece la persona non unita ad altra con siffatto
vincolo, la quale più facilmente può essere indotta a cedere a ricatti
affettivi e a compiere liberalità sotto la minaccia di non legittimare
l’unione illegittima o di farla cessare. 9.
- L’esame della legislazione italiana dopo la II guerra mondiale mostra,
attraverso una serie di abrogazioni di norme limitatrici della capacità
giuridica dei binubi, il progressivo abbandono da parte del legislatore del
disfavore verso le seconde nozze. L’abrogazione effettuata dal legislatore
con la legge 19 maggio 1975, n. 151 dell’art. 595 del codice civile ha
operato decisamente in questa direzione adeguando il diritto di famiglia e di
successione ai principi espressi nella Costituzione e giova anche essa a
rivelare uno stato di illegittimità costituzionale esistente prima della
riforma del 1975. Devesi
pertanto dichiarare l’incostituzionalità dell’art. 595 nel testo abrogato
dall’art. 196 della legge 19 maggio 1975, n. 151 e di conseguenza anche
l’incostituzionalità dell’art. 599 del codice civile nella parte in cui
richiamava l’art. 595 del medesimo codice. |
La riforma del 1975 e la decisione del
1979 costituiscono dunque l’atto di morte della “vecchia” concezione della
famiglia ricomposta, come luogo di potenziale pregiudizio patrimoniale per i
figli di primo letto. Le problematiche oggi discusse, sul piano
dei rapporti personali e patrimoniali, si pongono, come si vedrà, su piani ben
diversi da quelli evidenziati dall’evoluzione storica cui si è fatto cenno.
Ma
per rispondere a tali nuovi interrogativi occorre in primo luogo chiarire quali
siano i tratti identificativi dell’odierna famiglia ricostituita e le sue
differenze rispetto a figure affini.
Differenze tra famiglie ricostituite e famiglie di fatto:
· I due fenomeni presentano o possono presentare punti
di contatto, ma
anche di divergenza.
· Il punto principale di contatto
è la presenza di un rapporto
affettivo non rispondente ad una relazione legale o legalmente
riconosciuta come tale.
· Il punto di differenza sta nell’elemento legale
mancante:
o
nella famiglia di
fatto manca il matrimonio
[e in Italia manca addirittura un riconoscimento legale della situazione per
sé], cioè manca un rapporto legale orizzontale, sostituito da una relazione
affettiva;
o
nella famiglia
ricomposta manca un rapporto parentale,
cioè manca un rapporto legale verticale, sostituito da una relazione affettiva.
· Naturalmente le due situazioni possono anche intersecarsi: può quindi aversi una famiglia di fatto che è anche una famiglia ricostituita;
ciò si ha ogni volta in cui in un rapporto di convivenza more uxorio, etero o omosessuale che sia, uno dei partners (o entrambi) “porti” con sé
nella relazione uno o più figli di un rapporto precedente (a sua volta fondato
o meno sul matrimonio).
3. Un po’ di
comparazione. L’evoluzione normativa in Francia.
Il
fenomeno in questione appare alla ribalta in tutta Europa, se è vero come è vero che, ad es.,
in Francia, i dati
sulle familles recomposées sono così
riassunti dall’INSEE
(Institut National de la Statistique et
des Etudes Economiques):
Pour prendre en compte les chiffres officiels,
il faut savoir que l’Insee prend en compte à la fois :
http://www.insee.fr/fr/themes/document.asp?ref_id=ip1259 |
Il fenomeno è stato definito da Irène Théry (la più
famosa sociologa della famiglia francese) come una sorta di “« polygamie rétroactive »
où la famille s’élargit en incluant le passé (l’ex conjoint(e) ainsi que les
enfants d’un autre homme ou d’une autre femme) au cœur même du couple”.
In
assenza di legislazione in Italia sarà utile considerare quali soluzioni de iure condito e de iure condendo sono suggerite in Francia. Ma quale è la situazione attuale Oltralpe?
Jusqu’à la
loi de mars 2002 (loi sur l’autorité
parentale), le
beau-parent était tout simplement ignoré du droit. Il n’avait à l’égard de l’enfant de son conjoint
ni devoirs, ni droits spécifiques, alors qu’il contribue, le plus souvent, à
son éducation et à son entretien.
Partie pour être le cadre qui instituait une place
au beau-parent, la loi améliore peu de choses. Cependant, le beau-parent peut désormais bénéficier
d’une délégation de
l’autorité parentale qui ne retire rien aux parents de l’enfant.
C’est le juge des affaires familiales qui prend la décision mais il faut l’accord du ou
des parents ayant
l’autorité parentale. Autrement dit, ce n’est pas évident. Les associations de
droits des pères ont déjà fait savoir qu’elles considéraient cette délégation
comme une négation des droits du père.
La
riforma francese del 2002
(l. 4 marzo 2002, n. 2002-305, relativa all’autorità parentale) ammette, in buona
sostanza, l’esercizio
condiviso della potestà genitoriale tra i partners, consentendo
al genitore “legale”
la delega a terzi
di parte o tutta la potestà genitoriale, come dimostrato dalle relative
disposizioni del Code Civil:
Cfr. artt. 377, 377-1, 377-2, 377-3 del Code Civil: «Article 377. Les père et mère, ensemble ou séparément,
peuvent, lorsque les circonstances l’exigent, saisir le juge en vue de voir déléguer tout ou partie de l’exercice de leur autorité parentale
à un tiers, membre de la famille, proche digne de
confiance, établissement agréé pour le recueil des enfants ou service
départemental de l’aide sociale à l’enfance. En cas de désintérêt manifeste ou si les parents sont dans
l’impossibilité d’exercer tout ou partie de l’autorité parentale, le particulier, l’établissement ou le
service départemental de l’aide
sociale à l’enfance qui a recueilli l’enfant peut également saisir le juge aux fins de se faire déléguer
totalement ou partiellement l’exercice de l’autorité parentale. Dans tous les cas visés au présent article, les
deux parents doivent être appelés à l’instance. Lorsque l’enfant concerné
fait l’objet d’une mesure d’assistance éducative, la délégation ne peut
intervenir qu’après avis du juge des enfants. Article 377-1. La délégation, totale
ou partielle, de
l’autorité parentale résultera du jugement rendu par le juge aux affaires
familiales. Toutefois, le jugement de délégation peut
prévoir, pour les besoins d’éducation de l’enfant, que les père et mère, ou l’un
d’eux, partageront
tout ou partie de
l’exercice de l’autorité parentale avec le tiers délégataire. Le partage nécessite
l’accord du ou des parents en tant qu’ils exercent l’autorité parentale. La
présomption de l’article 372-2 est applicable à l’égard des actes accomplis
par le ou les délégants et le délégataire. Le juge peut être saisi des difficultés que
l’exercice partagé de l’autorité parentale pourrait générer par les parents,
l’un d’eux, le délégataire ou le ministère public. Il statue conformément aux
dispositions de l’article 373-2-11. Article 377-2. La délégation pourra, dans tous les cas, prendre
fin ou être transférée par un nouveau jugement, s’il est justifié de
circonstances nouvelles. Dans le cas où la restitution de l’enfant est
accordée aux père et mère, le juge aux affaires familiales met à leur charge,
s’ils ne sont indigents, le remboursement de tout ou partie des frais
d’entretien. Article 377-3. Le droit de consentir à l’adoption du mineur
n’est jamais délégué». |
Proprio
tale istituto ha ricevuto applicazione
in taluni casi di omogenitorialità:
così, ad esempio, la Corte
d’appello di Montpellier ha confermato una decisione di primo grado, in
relazione alla posizione di due fratelli minorenni, figli biologici di genitori
entrambi omosessuali, concepiti «dans le cadre du projet d’enfant» della madre
con la sua convivente. Dopo la morte della madre biologica i figli avevano
continuato a vivere con la ex convivente di questa, sulla base di un documento
redatto dalla madre tre anni prima di morire, nel quale la stessa aveva
espresso «sa volonté de voir ses enfants confiés en cas de décès à Mademoiselle
Valérie F...[la convivente, per l’appunto, della madre biologica]». In
proposito la Corte d’appello ha rilevato che sebbene tale lettre d’intention della madre non fosse stata «enregistrée devant
un notaire, elle constitue néanmoins un élément devant être pris en
considération», unitamente all’accordo del padre biologico, unico titolare
della potestà genitoriale, a seguito del decesso della madre. Da tali premesse
ne ha derivato la validità
di una delega parziale
«des droits de l’autorité parentale des droits de Monsieur A... à l’égard des
enfants Hugo et Adrien», così respingendo la domanda dei nonni materni dei due
ragazzi, che si opponevano a che costoro vivessero con la ex convivente della
madre dei minori (Cfr. App. Montpellier, 1 décembre 2006, disponibile al sito web seguente: http://www.legifrance.gouv.fr/affichJuriJudi.do?oldAction=rechExpJuriJudi&idTexte=JURITEXT000007633168&fastReqId=1865519338&fastPos=1).
La
riforma del 2002 non ha però accontentato i partigiani della necessità del
riconoscimento di un vero e proprio statut légal des beaux-parents,
che hanno tentato, alcuni anni fa, sotto la presidenza Sarkozy di far approvare una riforma
organica ad hoc, che avrebbe
definitivamente sancito la fine della famiglia di sangue per attribuire il
potere al genitore affettivo: in altre parole, dal genitore legale al genitore sociale, o, se si preferisce, dal
genitore effettivo
al … genitore affettivo.
L’idea
era ad esempio quella della previsione per legge di una presunzione di accordo (con il genitore
legittimo o naturale), salvo
opposizione espressa:
Il s’agirait de faciliter aux beaux-parents les actes de la vie courante:
chercher l’enfant à l’école, l’amener chez le médecin... “La loi poserait le
principe d’une présomption
d’accord” en vertu duquel, “sauf opposition d’un des parents”, le beau-père ou la belle-mère
pourrait s’occuper de ces démarches quotidiennes sans avoir à demander une autorisation.
L’idée avait été développée notamment par la
défenseure des enfants, Dominique Versini, dans son rapport de 2006. Elle y propose la création d’un «mandat d’éducation», facultatif, pour la
«tierce personne»: beaux-parents mais aussi grands-parents ou toute personne
qui partage ou a a partagé la vie d’un enfant. En août 2007, Nicolas Sarkozy
avait repris l’idée en chargeant son ministre de la Solidarité Xavier Bertrand
de réfléchir à un «statut» qui permettrait aux beaux-parents d’effectuer les
démarches habituelles de la vie quotidenne.
L’avant-projet de loi sur le statut des beaux-parents évoquait les familles homosexuelles, ce qui
n’avait jamais été fait auparavant. Le
projet de loi concocté par le gouvernement incluait de façon explicite les «foyers composés de deux adultes du
même sexe» parmi les «nouvelles configurations familiales». Ils sont là,
au côté des familles recomposées (où vivent 1,6 million d’enfants) et des
foyers monoparentaux (2,7 millions d’enfants).
Il
progetto però è naufragato,
sia per l’opposizione
di gruppi di pressione dell’opinione pubblica, sia per contrasti interni al governo:
Du côté des principaux intéressés, les
beaux-parents et les associations, la proposition divise. Pour Alain Cazenave,
président de SOS papa,
«il est choquant de
vouloir mettre en place un tel statut alors que des milliers des parents
n’arrivent toujours pas à voir leurs enfants à la suite d’un divorce. Il faut
régler les problèmes dans l’ordre». Ajoutant que ce statut «risque de mettre en
concurrence et non plus en complémentarité les parents et les beaux-parents»,
il considèrait que «sur des problèmes de la vie courante comme les sorties
d’école, on peut très bien s’arranger sans en passer par la loi, c’est ce que
toutes les familles font déjà».
Même si le texte n’était pas révolutionnaire, il
gênait Christine Boutin
et quelques-uns à droite. La ministre du Logement de l’époque, qui s’était déjà
illustrée en pasionaria anti-pacs,
avait promis qu’elle «n’accepterait pas que l’on reconnaisse l’homoparentalité
et l’adoption par les couples homosexuels de façon détournée». En guise de
réponse, sa collègue au gouvernement Nadine Morano l’avait invitée à «vraiment
lire le texte» plutôt que d’avoir «une posture passéiste et idéologique». De fait, il n’était absolument pas question
d’adoption.
L’attuale maggioranza de gauche ripropone però il tema, con una proposta che “provocatoriamente” abbina il mariage homosexuel ad una ridefinizione della genitorialità (ordonnancement
des conditions de la parentalité), concedendo alla coppia omosessuale la facoltà di adozione e l’accesso alla procreazione
medicalmente assistita (cfr. http://www.senat.fr/leg/ppl11-745.html).
4. Segue. Prospettive in Belgio e California.
Ulteriori cenni di diritto comparato.
Di
notevole interesse, poi, la proposta
di legge belga che, in un Paese in
cui il mariage homosexuel esiste già
da tempo, attribuisce un “droit
de codécision pour le beau-parent qui participe à
l’éducation, aux soins, à la protection, à l’hébergement et à l’entretien de
l’enfant. Concrètement,
il aura un droit de regard sur les questions en rapport avec l’organisation de
l’hébergement de l’enfant, sur les décisions importantes concernant sa santé,
son éducation, sa formation et ses loisirs, et sur son orientation religieuse
ou philosophique”.
« Art. 387septies. — Pour pouvoir revendiquer un droit de codécision, il convient
de remplir les conditions
suivantes: 1º la relation entre le parent juridique et le beau-parent
doit attester de la vocation
du couple à la stabilité,
laquelle peut se déduire d’un mariage, d’un régime de cohabitation légale ou
d’une cohabitation de fait de façon permanente et affective depuis au moins
deux ans; 2º il doit exister un lien affectif particulier entre l’enfant
et le beau-parent; 3º le beau-parent doit déjà avoir participé depuis au moins un an à l’éducation, aux soins, à la
protection, à l’hébergement et à l’entretien de l’enfant. » « Art. 387octies. — Si les parents
juridiques exercent l’autorité parentale conjointement, le droit de
codécision peut
être établi au
moyen d’une convention
conclue entre les parents juridiques et le beau-parent, laquelle est
constatée, avec le consentement du parent juridique qui n’est pas le partenaire
marié ou cohabitant du beau-parent en question, par acte authentique établi par un notaire ou par le juge de paix de la résidence
principale du mineur. À défaut d’une telle convention, le tribunal de la jeunesse statue de façon motivée, et dans
le respect de la procédure prévue par les articles 1231-57 et suivants du
Code judiciaire, sur l’exercice de ce droit de codécision par le beau-parent,
dans l’intérêt de l’enfant, à la demande d’une des parties ou du procureur du
Roi, et après avoir entendu les parties concernées, y compris l’enfant
mineur. » |
Da
notare che la riforma francese del 2002 e quella prevista in belgio sono
influenzate da una norma del vigente codice civile svizzero, introdotta nel 1976:
Art.
299 Patrigno
e matrigna Ogni
coniuge deve all’altro adeguata assistenza nell’esercizio dell’autorità
parentale verso i di lui figli e rappresentarlo ove le circostanze lo
richiedano. (testo
giusta il n. I 1 della LF del 25 giu. 1976, in vigore dal 1° gen. 1978) |
Assistenza, dunque e non sostituzione. Il coniuge può però anche rappresentare
l’altro: ne deriva che il genitore sociale è visto come un assistente e un
rappresentante dell’altro. Secondo la dottrina (Sesta) si tratta di una
disciplina “prudente e
leggera” che sembra idonea a risolvere i problemi concreti della step family, e,nel contempo, non crea
nuovi ruoli istituzionalizzati, in potenziale conflitto con quelli dei genitori
biologici. Vi è però da dubitare, a mio sommesso avviso, che, attesa
l’imponenza attuale del fenomeno, un simile “abitino estivo” valga a porre le stepfamilies al riparo dai rigori cui
oggi sono esposte, per effetto della sempre più intensa e complessa trama di
rapporti sociali e giuridici che oggidì
avvolgono le relazioni affettive.
Di
un certo interesse anche il progetto di legge presentato in California sulla
possibilità che un minore abbia legalmente, addirittura, più di due genitori:
Children in California may legally be able to have more than two parents, should
a bill working its way through the California Legislature pass. The bill’s
sponsor, state Sen. Mark
Leno, intends the bill to provide legal standing to the modern
American family. The bill’s inspiration came from a case in which a girl with two mothers -- one in prison and one
hospitalized -- ended up in state custody after a judge ruled that her
biological father couldn’t be her legal guardian because she already had two
parents, according to MSNBC. Supporters of
the bill argued that in such cases, having more than one parent could help
keep children out of foster care. The Legislature also pointed to possibilities such as if a woman meets
her spouse while pregnant but the biological father still wishes to be
involved in the child’s life, or if two lesbians use a sperm donor who wishes
to be involved. Critics have demonized the bill as an attempt to destroy the
traditional family. “He’s trying to change the whole attitudes and
understanding of what family is,” California Right to Life Committee Director
Camille Giglio told CBS news. “Family is a
father and a mother and children.” Supporters countered that the
modern family has evolved, and this bill simply responds to that. “The bill
brings California into the 21st century, recognizing that there are more than
Ozzie and Harriet families today,” Leno told the Sacramento Bee. According to the
2010 census, married couples now represent less than half of all households. The bill doesn’t set a maximum
number of parents a child could have, leading to concerns that children could
have an unlimited number of parents. But since the bill doesn’t change the
definition of parentage, Leno called the possibility of a child having five
or six parents “laughable,” according to MSNBC. California is not the first state to consider such
a measure. Pennsylvania,
Maine, Delaware and the District of Columbia already recognize more than two
parents, according to MSNBC. The bill, SB 1476, has already
passed California’s Senate and the Assembly Appropriations Committee began
considerations July 9. BILL NUMBER: SB 1476 INTRODUCED BILL TEXT
INTRODUCED BY Senator Leno
FEBRUARY 24, 2012
An act to amend Sections 3040, 7601, and 7612 of, and to add Section 4052.5 to, the Family Code, relating to parentage.
LEGISLATIVE COUNSEL’S DIGEST
SB 1476, as introduced, Leno. Family law: parentage. (1) Under existing law, a man is conclusively presumed to be the father of a child if he was married to and cohabiting with the child’ s mother, except as specified. Existing law also provides that if a man signs a voluntary declaration of paternity, it has the force and effect of a judgment of paternity, subject to certain exceptions. Existing law further provides that a man is rebuttably presumed to be the father if he was married to, or attempted to marry, the mother before or after the birth of the child, or he receives the child as his own and openly holds the child out as his own. Under existing law, the latter presumptions are rebutted by a judgment establishing paternity by another man. This bill would authorize a court to find that a child has 2 presumed parents notwithstanding the statutory presumption of parentage of the child by another man. The bill would authorize the court to make this finding if doing so would serve the best interest of the child based on the nature, duration, and quality of the presumed or claimed parents’ relationships with the child and the benefit or detriment to the child of continuing those relationships. (2) The Uniform Parentage Act defines the parent and child relationship as the legal relationship existing between a child and the child’s parents, including the mother and child relationship and the father and child relationship, and governs proceedings to establish that relationship. This bill would provide that a child may have a parent and child relationship with more than 2 parents. (3) Existing law requires a family court to determine the best interest of the child for purposes of deciding child custody in proceedings for dissolution of marriage, nullity of marriage, legal separation of the parties, petitions for exclusive custody of a child, and proceedings under the Domestic Violence Prevention Act. In making that determination, the court must consider specified factors, including the health, safety, and welfare of the child. Existing law establishes an order of preference for allocating child custody and directs the court to choose a parenting plan that is in the child’s best interest. This bill would, in the case of a child with more than 2 legal parents, require the court to allocate custody and visitation among the parents based on the best interest of the child, including stability for the child. (4) Under existing law, the parents of a minor child are responsible for supporting the child. Existing law establishes statewide uniform guidelines for calculating court-ordered child support. These guidelines direct a court to consider the parents’ incomes, standard of living, and level of responsibility for the child. This bill would, in the case of a child with more than 2 legal parents, direct the court to divide child support obligations among the parents based on the statewide uniform guidelines, adjusted to permit recognition of more than 2 parents. Vote: majority. Appropriation: no. Fiscal committee: no. State-mandated local program: no.
THE PEOPLE OF THE STATE OF CALIFORNIA DO ENACT AS FOLLOWS:
SECTION 1. Section 3040 of the Family Code is amended to read: 3040. (a) Custody should be granted in the following order of preference according to the best interest of the child as provided in Sections 3011 and 3020: (1) To both parents jointly pursuant to Chapter 4 (commencing with Section 3080) or to either parent. In making an order granting custody to either parent, the court shall consider, among other factors, which parent is more likely to allow the child frequent and continuing contact with the noncustodial parent, consistent with Section 3011 and 3020, and shall not prefer a parent as custodian because of that parent’s sex. The court, in its discretion, may require the parents to submit to the court a plan for the implementation of the custody order. (2) If to neither parent, to the person or persons in whose home the child has been living in a wholesome and stable environment. (3) To any other person or persons deemed by the court to be suitable and able to provide adequate and proper care and guidance for the child. (b) This section establishes neither a preference nor a presumption for or against joint legal custody, joint physical custody, or sole custody, but allows the court and the family the widest discretion to choose a parenting plan that is in the best interest of the child. (c) In cases where a child has more than two legal parents, the court shall allocate custody and visitation among the parents based on the best interest of the child, including, but not limited to, stability for the child. This may mean that not all parents share legal or physical custody of the child. SEC. 2. Section 4052.5 is added to the Family Code, to read: 4052.5. In any case in which a child has more than two legal parents, the court shall divide child support obligations among the parents based on income and amount of time spent with the child by each parent, according to the principles set forth in Section 4053 and the general formula set forth in Section 4055, adjusted to permit recognition of more than two parents. SEC. 3. Section 7601 of the Family Code is amended to read: 7601. "Parent and child relationship" as used in this part means the legal relationship existing between a child and the child’s natural or adoptive parents incident to which the law confers or imposes rights, privileges, duties, and obligations. The term includes the mother and child relationship and the father and child relationship. Nothing in this part shall be construed to preclude a finding that a child has a parent and child relationship with more than two parents. SEC. 4. Section 7612 of the Family Code is amended to read: 7612. (a) Except as provided in Chapter 1 (commencing with Section 7540) and Chapter 3 (commencing with Section 7570) of Part 2 or in Section 20102, a presumption under Section 7611 is a rebuttable presumption affecting the burden of proof and may be rebutted in an appropriate action only by clear and convincing evidence. (b) If two or more presumptions arise under Section 7610 or 7611 that conflict with each other, or if a presumption under Section 7611 conflicts with a claim pursuant to Section 7610, the presumption which on the facts is founded on the weightier considerations of policy and logic controls. In an appropriate action, a court may find that a child has more than two natural or adoptive parents if required to serve the best interest of the child. In determining a child’s best interest under this section, a court shall consider the nature, duration,and quality of the presumed or claimed parents’ relationships with the child and the benefit or detriment to the child of continuing those elationships. (c) presumption under Section 7611 is rebutted by a judgment establishing paternity of the child by another man. (d) Within two years of the execution of a voluntary declaration of paternity, a person who is presumed to be a parent under Section 7611 may file a petition pursuant to Section 7630 to set aside a voluntary declaration of paternity. The court’s ruling on the petition to set aside the voluntary declaration of paternity shall be made taking into account the validity of the voluntary declaration of paternity, and the best interests of the child based upon the court’s consideration of the factors set forth in subdivision (b) of Section 7575, as well as the best interests of the child based upon the nature, duration, and quality of the petitioning party’s relationship with the child and the benefit or detriment to the child of continuing that relationship. In the event of any conflict between the presumption under Section 7611 and the voluntary declaration of paternity, the weightier considerations of policy and logic shall control. (e) A voluntary declaration of paternity is invalid if, at the time the declaration was signed, any of the following conditions exist: (1) The child already had a presumed parent under Section 7540. (2) The child already had a presumed parent under subdivision (a), (b), or (c) of Section 7611. (3) The man signing the declaration is a sperm donor, consistent
with subdivision (b) of
Section 7613. |
Negli
Stati Uniti la
tendenza di fondo è oggi quella di valorizzare gli accordi tra i conviventi: in
alcuni Stati, inoltre, sono stabiliti obblighi legali veri e propri di
mantenimento da parte del genitore sociale, mentre in altri l’ordinamento
equipara il genitore sociale ad un genitore biologico, per esempio
nell’accertamento dei redditi familiari quando si tratti di riconoscere assegni
familiari all’altro coniuge, borse di studio universitarie e così via. Sempre
negli Stati Uniti, i giudici, in linea di massima, riconoscono il diritto di
visita del genitore sociale una volta cessato il matrimonio con l’altro
coniuge.
In
Inghilterra il giudice ha il potere di emettere ordinanze con le quali
attribuisce poteri al genitore sociale; si tratta di un’operazione molto
complessa, in cui intervengono anche i servizi sociali, ma che consente, per
certi aspetti, di equiparare il genitore sociale a quello biologico.
In
Olanda è previsto l’obbligo di mantenimento a carico del genitore sociale e,
quindi, anche l’esercizio della potestà, per il fatto stesso della convivenza,
quando questa assuma determinate caratteristiche.
L’art.
1636 del codice brasiliano stabilisce invece che il genitore che si risposa o
si unisce stabilmente ad un nuovo compagno non perde il diritto al potere
familiare, esercitandolo senza interferenza del nuovo coniuge o compagno.
Art
1.636. O pai ou a mãe que contrai novas núpcias, ou estabelece união estável,
não perde, quanto aos filhos do relacionamento anterior, os direitos ao poder
familiar, exercendo-os sem qualquer interferência do novo cônjuge ou
companheiro. Parágrafo
único. Igual preceito ao estabelecido neste artigo aplica-se ao pai ou à mãe
solteiros que casarem ou estabelecerem união estável. |
La
risposta normativa italiana al fenomeno delle stepfamilies è circoscritta sostanzialmente a due istituti:
a) adozione del figlio del coniuge e
b) inserimento del figlio naturale nella famiglia legittima del
genitore.
Per
quanto attiene all’ipotesi sub a) va tenuto presente
che è disciplinata una particolare
forma di adozione, che può essere pronunziata dal tribunale con riguardo
al figlio del coniuge (art. 44,
comma 1, lett. b,
l. 4 maggio 1983, n. 184):
CAPO
I Dell’adozione
in casi particolari e dei suoi effetti Art.
44 1.
I minori possono essere adottati anche quando non ricorrono le condizioni di
cui al comma 1 dell’articolo 7: a)
da persone unite al minore da vincolo di parentela fino al sesto grado o da
preesistente rapporto stabile e duraturo, quando il minore sia orfano di
padre e di madre; b)
dal coniuge nel caso in
cui il minore sia figlio anche adottivo dell’altro coniuge; (…) |
Lo
step parent, in base a questa
disposizione, può – a certe condizioni – adottare il figlio del proprio
coniuge. Naturalmente si tratta di famiglie ricostituite coniugate, giacché se i partners non sono coniugi l’adozione non
è possibile.
Il
ricorso all’adozione pone però questioni molto delicate, perché, ancorché non legittimante,
inevitabilmente incide
sulle prerogative del genitore biologico, che deve comunque dare il suo
consenso, ancorché il tribunale, ove ritenga il rifiuto ingiustificato o
contrario all’interesse dell’adottando, possa pronunziare ugualmente
l’adozione, salvo che l’assenso sia stato rifiutato dal genitore esercente la
potestà (art. 46, l. n. 184/1983). Il ricorso all’adozione comporta poi
inevitabilmente dei problemi di coordinamento tra la posizione dell’adottante e
quella del genitore biologico escluso dal nuovo nucleo familiare e dunque
“terzo”, dal momento che viene ad operare un meccanismo di sostituzione del
primo al secondo. Lo strumento dell’adozione risulta così sostanzialmente inadeguato.
Potrà
ancora aggiungersi che, laddove si sia in presenza di una convivenza more uxorio, essendo preclusa l’adozione
in casi particolari, in quanto l’adottante è privo dello status di coniuge richiesto dall’art. 44, comma 5, lett. b), l.
ad., è possibile l’adozione
di maggiorenne, dal
momento che la relativa disciplina non prevede limiti di tale natura.
In
ogni caso, in dottrina si valuta la possibilità di ricorrere ad altri mezzi, volti a dare
rilievo al legame creatosi tra genitore sociale e figlio dell’altro partner: 1) il figlio di un convivente
può richiedere l’aggiunta o la sostituzione del proprio cognome originario con quello del genitore
sociale; 2) se i minori coinvolti non sono stati riconosciuti, il partner del genitore biologico potrà
procedere con il “riconoscimento
di compiacenza”, che fa nascere
un rapporto di filiazione naturale, ovviamente (quanto meno fino a quando la
situazione non verrà mutata dalla riforma della filiazione) produttivo di
effetti solo nel rapporto genitore sociale-figlio dell’altro, e non anche nei
confronti degli altri parenti.
Venendo
al caso sub b), va tenuto presente quanto
stabilito dall’art. 252 c.c., con particolare riguardo al secondo comma:
Art.
252 Affidamento
del figlio naturale e suo inserimento nella famiglia legittima 1.
Qualora il figlio naturale di uno dei coniugi sia riconosciuto durante il
matrimonio il giudice, valutate le circostanze, decide in ordine all’
affidamento del minore e adotta ogni altro provvedimento a tutela del suo
interesse morale e materiale. 2. L’eventuale inserimento del figlio
naturale nella famiglia legittima di uno dei genitori può essere autorizzato
dal giudice qualora ciò non sia contrario all’interesse del minore e sia
accertato il consenso dell’altro coniuge e dei figli legittimi che abbiano
compiuto il sedicesimo anno di età e siano conviventi, nonché dell’altro
genitore naturale che abbia effettuato il riconoscimento. In questo caso il
giudice stabilisce le condizioni che il genitore cui il figlio é affidato
deve osservare e quelle cui deve attenersi l’altro genitore. 3.
Qualora il figlio naturale sia riconosciuto anteriormente al matrimonio, il
suo inserimento nella famiglia legittima è subordinato al consenso dell’altro
coniuge, a meno che il figlio fosse già convivente con il genitore all’atto
del matrimonio o l’altro coniuge conoscesse l’esistenza del figlio naturale. 4.
É altresì richiesto il consenso dell’altro genitore naturale che abbia
effettuato il riconoscimento. |
Sulla
norma si espresse la Consulta nel lontano 1987:
L’inserimento del figlio
minorenne già riconosciuto nella famiglia legittima di uno dei genitori
naturali può essere autorizzato
dal giudice anche
in caso di rifiuto
di consenso da parte dell’altro
genitore che ha effettuato il riconoscimento, qualora il rifiuto
stesso risulti contrario
all’interesse del figlio, potendo il giudice, in funzione di tale
esclusivo interesse, escludere (ex
art. 317-bis cod. civ.) il genitore
dall’esercizio della potestà. (Non fondatezza - in riferimento agli artt. 2,
3 e 30 Cost. - della questione di legittimità costituzionale dell’art. 252,
ultimo comma, cod.civ.). Corte
cost., 17 giugno 1987, n. 229. |
Anche
questa previsione appare quanto mai insoddisfacente. Si pensi ad es. al fatto che l’art. 252 cpv.
c.c., che pure prevede che il
giudice fissi le
condizioni cui l’altro
genitore deve attenersi, non spende una parola sulla posizione del coniuge del genitore del minore naturale, sia sul piano dei doveri che su
quello di eventuali diritti di quest’ultimo, così inducendo a ritenere
che egli continui comunque a restare, giuridicamente, un estraneo. Inoltre è
evidente che i presupposti
di applicazione della norma sono piuttosto riduttivi (presenza di filiazione naturale e di
famiglia ricomposta, sì, ma fondata esclusivamente sul matrimonio). Andrà poi
ancora ricordato che la disposizione si trova oggi (2012) … in articulo mortis, per via degli
effetti della prossima generale riforma della filiazione.
E’
chiaro che le due fattispecie sopra descritte appaiono ben lungi dal fornire risposta adeguata alla galassia di situazioni
problematiche che, dal punto di vista giuridico, possono porsi in relazione al
fenomeno qui in esame. Basterà dire che
· entrambe hanno tratto al caso di una famiglia ricomposta, sì, ma fondata sul matrimonio,
· mentre i presupposti per l’applicazione vuoi dell’adozione, vuoi dell’inserimento
del figlio naturale appaiono piuttosto riduttivi;
· per non dire poi delle soluzioni adottate, certo non in linea con le
necessità di oggi (si pensi ad es. al fatto che l’art. 252 c.c., che pure
prevede che il giudice possa fissare le condizioni cui l’altro genitore deve
attenersi, non spende una parola su eventuali diritti del coniuge del genitore,
così inducendo a ritenere che egli continua comunque a restare, giuridicamente,
un estraneo).
Si
prenderanno dunque qui in considerazione tutte le questioni non esaurite dalla eventuale presenza di un rapporto legale tra
genitore sociale e figlio del coniuge/partner e dunque allorquando non vi stata (per i
motivi più vari, come del resto accade nella stragrande maggioranza dei casi) adozione.
Le
principali considerazioni da svolgere, quanto all’attuale jus conditum italiano sul punto, appaiono le seguenti:
-
(non) rilievo della stepfamily nel caso di separazione
legale o divorzio e assegnazione di casa familiare.
-
Rilievo per una
certa giur. di merito
della stepfamily per ciò che attiene
al risarcimento del danno
da morte di un componente della famiglia ricomposta.
-
Esclusione, per il
genitore “sociale”,
dei classici doveri
dei genitori “legali”: mantenimento,
istruzione ed educazione; prospettabilità, invece, della
presenza di un’obbligazione
naturale e, forse
anche, in casi particolari, della negotiorum gestio.
-
Un rilievo va
infine attribuito agli accordi
tra genitore biologico e genitore sociale.
7. Famiglia
ricomposta e casa
familiare.
Sez.
1, Sentenza n. 8058 del 03/09/1996 (Rv. 499463) La
norma di cui all’art. 155,
quarto comma,
cod. civ. - secondo cui in caso di separazione l’abitazione nella casa
familiare spetta di preferenza e ove sia possibile al coniuge cui vengono
affidati i figli - non è
applicabile, neppure in via estensiva, all’ipotesi di separazione di coniugi con i
quali conviva il figlio nato da un precedente matrimonio di uno di essi e non
legato, quindi, da alcun vincolo di filiazione con l’altro coniuge. FATTO Con
ricorso depositato il 3 aprile 1990, [la moglie] chiedeva al Tribunale di
Catania la pronuncia della separazione personale da [l marito], con il quale
aveva contratto matrimonio il 12 aprile 1986, per gravi motivi a lui
imputabili. Premesso che dall’unione coniugale non erano nati figli, la
[moglie] chiedeva anche l’assegnazione della casa coniugale, di proprietà per un terzo di ciascuno dei coniugi e per l’altro
terzo della minore […], nata da un suo precedente matrimonio, sciolto per
morte del marito. Costituitosi in giudizio, il [marito] chiedeva che la
separazione fosse addebitata alla moglie, dichiarandosi disposto a che la
medesima usufruisse della casa coniugale in via esclusiva, a condizione che gli versasse
il corrispettivo della quota di sua proprietà. Il Tribunale adito, con sentenza del 31 ottobre
1991, pronunciava la separazione personale dei coniugi senza addebito, riconoscendo alla [moglie] il
diritto di godere in via esclusiva anche la quota spettante al [marito] sulla
casa di proprietà comune, con obbligo di corrispondergli la fruttificazione,
pari ad un terzo del canone locativo determinato in base alla L. 392-78. Avverso tale decisione proponeva appello la
[moglie], chiedendo che la casa coniugale le venisse assegnata in quanto
affidataria della figlia […]. La Corte d’appello di Catania, con sentenza del 21
luglio 1992, rigettava
l’impugnazione proposta, compensando interamente tra le parti le spese del
grado. La Corte osservava che la situazione riguardante la minore, nata dal
precedente matrimonio della [moglie], non poteva avere alcuna rilevanza ai
fini dell’assegnazione della casa coniugale, disciplinata, in caso di
separazione personale dei coniugi, dall’art. 155, comma 4, c.c.: tale disposizione, infatti, ha
carattere eccezionale ed è dettata nell’esclusivo interesse della prole
minorenne, costituita dai nati dell’unione dei coniugi nei cui confronti sia
stata pronunciata la separazione, mentre la minore […] è giuridicamente
estranea alla famiglia sorta dal matrimonio che la [moglie] ha successivamente
contratto con il [marito], nonché all’ambito dei diritti e dei doveri
derivanti da tale unione. La Corte osservava, inoltre, che l’inclusione della minore nel nuovo
nucleo familiare e l’eventuale trattamento, da parte del marito della madre,
come figlia integrano una mera situazione di fatto, che può rilevare a fini
anagrafici, ma non sotto il profilo previdenziale o dell’obbligazione
alimentare, atteso che non sono configurabili nei confronti della minore
medesima obblighi a carico del [marito], correlati alla comunione di vita
instaurata di fatto: d’altro canto, il rapporto di convivenza che lega la
minore alla madre non rileva giuridicamente in termini di affidamento, in
quanto l’affidamento in senso tecnico, al di fuori delle ipotesi disciplinate
dalla legge n. 184 del 1983 in materia di adozione, presuppone l’attualità
della contitolarità e dell’esercizio della potestà da parte di entrambi i
genitori, mentre la [moglie] è l’unico genitore attualmente esercente la
potestà sulla figlia, essendo il padre deceduto. Ad avviso della Corte,
quindi, la fattispecie non può essere ricompresa nella previsione dell’art.
155, comma 4, c.c.: ne’ vale richiamare l’interpretazione estensi va, volta
ad assimilare alla condizione dei figli minori quella dei maggiorenni
conviventi con uno dei genitori ed ancora bisognosi di mantenimento, perché
l’apprezzamento della ricorrenza di eventuali ragioni di analogia e
l’avvertita esigenza di superamento della nozione di famiglia imposta dalla
citata disposizione darebbero luogo ad un processo interpretativo a carattere
evolutivo sicuramente precluso dall’eccezionalità della norma stessa. Per la cassazione di tale sentenza la
[moglie] ha proposto ricorso, affidato ad un unico motivo. L’intimato
[marito] non si è costituito. DIRITTO Con l’unico mezzo la ricorrente,
sostanzialmente denunziando violazione e-o falsa applicazione degli artt. 143
e 155, 4 comma, c.c., censura la sentenza impugnata in punto di negata
assegnazione a lei della casa coniugale, quale affidataria della figlia nata
dal precedente matrimonio, con conseguente riconoscimento al marito del
diritto a percepire un terzo del canone locativo. Secondo la ricorrente, con il matrimonio il [marito] ha accettato la
moglie anche come madre e da quel momento si è instaurato un rapporto
familiare che, prescindendo dalla paternità biologica, ha collocato tutti e
tre i componenti su posizioni paritarie: il [marito] ha accettato, quindi, il
ruolo di vero e proprio padre della minore, assumendone i conseguenti
obblighi e l’assegnazione della casa alla moglie, in virtù dell’affidamento
ad essa della figlia, non rappresenterebbe un ingiustificato privilegio, ma
consentirebbe alla minore di non perdere il calore del proprio ambiente
familiare. La ricorrente richiama, al riguardo, la
sentenza della Corte Costituzionale n. 181 del 1988, nella quale, sia pure
affrontando tematica diversa, il giudice delle leggi ha espressamente
affermato che gli obblighi derivanti ai coniugi verso la famiglia dall’art.
143 c.c. non possono non comprendere anche i figli nati dal precedente
matrimonio di uno dei coniugi medesimi, ove questi ne sia affidatario e
sempre che l’altro genitore non provveda. Nell’ipotesi in cui non si
ritenesse possibile, al pari di quanto affermato nella sentenza impugnata,
un’interpretazione estensiva degli artt. 143 e 155, 4 comma, c.c. nel senso
indicato, dovrebbe
essere ritenuta non manifestamente infondata la questione di legittimità
costituzionale, con riferimento agli artt. 3 e 31 Cost., dell’art. 143 c.c.,
nella parte in cui non equipara figli nati dal primo matrimonio a quelli nati
dal secondo, nonché dell’art. 155, 4 comma, c.c., ai fini dell’uso
della casa già coniugale anche per i figli nati da precedente matrimonio del
coniuge non affidatario. La
questione - che, nei termini prospettati, risulta proposta per la prima volta
a questa Corte -, consiste nello stabilire se, indipendentemente da ogni
profilo di natura economica, possa trovare applicazione la norma di cui
all’art. 155, comma 4 , c.c. nell’ipotesi di convivenza di un coniuge con un
figlio nato da un suo precedente matrimonio e non legato, quindi, da alcun
vincolo di filiazione con l’altro coniuge: se, cioè, possa costituirsi, al di
fuori di ogni esigenza di tutela del coniuge economicamente più debole, il
diritto personale di godimento dell’abitazione, assimilabile al comodato, in
capo al coniuge che sia unico genitore del figlio convivente. Nel caso di specie, infatti, il giudice di merito ha
riconosciuto alla moglie, non opponendosi il marito, il diritto di godere in via esclusiva
dell’abitazione coniugale (e, quindi, anche della quota pari ad un terzo) di
proprietà del marito, ma
con l’obbligo di versargli una somma corrispondente ad un terzo
dell’equo canone: in tal modo, ha assicurato alla minore l’"habitat"
domestico. La [moglie]
deduce che tale diritto dovrebbe esserle riconosciuto per effetto della sua
qualità di affidataria della figlia minore e, quindi, senza esborso di denaro. Occorre premettere che, come più volte
affermato da questa Corte regolatrice, l’assegnazione della casa coniugale va
configurata non soltanto come strumento di protezione della prole, ma anche
come mezzo volto ad assicurare il conseguimento di altre finalità, quali
l’equilibrio delle condizioni economiche dei coniugi e la tutela del coniuge
più debole, con la conseguenza che l’attribuzione del diritto di abitazione
nella casa familiare costituisce un provvedimento di contenuto economico in
funzione alternativa o sussidiaria rispetto alla determinazione dell’assegno
("ex plurimus", Cass. 7865-94). La Corte territoriale, inoltre, ha posto
esattamente in rilievo, alla stregua del costante indirizzo giurisprudenziale
(da ultimo, Cass. 652-96), la natura eccezionale della norma contenuta nell’art. 155, comma 4 , c.c., in
quanto comportante una deroga al principio generale secondo cui il debitore
risponde delle obbligazioni presenti e future con tutti i suoi beni: ne ha,
poi, negato l’applicazione al caso di specie, in ragione della giuridica
estraneità della minore, nata dal precedente matrimonio della [moglie], alla
famiglia sorta dal successivo matrimonio con il [marito] e, quindi,
dall’ambito dei diritti e doveri derivanti da quest’ultima unione. La tesi della ricorrente, secondo cui tale affermazione sarebbe
viziata da una non corretta interpretazione dell’art. 143 c.c. (e, si
dovrebbe aggiungere, delle disposizioni che regolano i diritti e i doveri
derivanti dal matrimonio, in ispecie dell’art. 147 c.c.), non può essere
condivisa. In linea generale, infatti, la sentenza impugnata resiste al
rilievo: non è
certamente sostenibile che, sopratutto con riferimento alla normativa
in esame ed a parte l’istituto dell’adozione, il vigente ordinamento contempli un rapporto giuridico di filiazione che prescinda da un corrispondente rapporto
biologico. Tale aspetto è stato sottolineato, in misura decisivamente
prevalente, anche dalla dottrina, la quale ha individuato, ad esempio, nel
concepimento durante il matrimonio, nel riconoscimento della filiazione
naturale e nel vincolo di adozione i presupposti per l’applicabilità della
norma di cui all’art. 147 c.c.. Non può non rilevarsi, inoltre, che dal
rapporto biologico l’ordinamento non prescinde neppure nelle ipotesi in cui
si è ritenuto di estendere espressamente, oltre l’ambito della famiglia in
senso stretto, gli obblighi verso i figli: significativo, al riguardo, è
l’art. 279 c.c., a tenore del quale, in ogni caso in cui non può proporsi
l’azione per la dichiarazione giudiziale di paternità o di maternità, il figlio
naturale può agire per ottenere il mantenimento, l’istituzione e
l’educazione. A ciò si aggiunga che lo stesso art. 6 L. 898-70 (come
sostituito dall’art. 11 L. 74-87), nello stabilire che, ai sensi degli artt.
147 e 148 c.c., permane anche nel caso di passaggio a nuove nozze di uno o di
entrambi i genitori l’obbligo di mantenere, educare ed istruire i figli,
individua questi ultimi in quelli nati o adottati durante il matrimonio di
cui sia stato pronunciato lo scioglimento o la cessazione degli effetti
civili, così evidenziando che quell’obbligo consegue soltanto dalla
filiazione o dall’adozione. Ciò non esclude, beninteso, che, in determinate ipotesi, il
legislatore non
abbia operato un ampliamento
del concetto di famiglia,
ricomprendendovi anche
soggetti non
legati da vincoli di sangue (ad esempio, nell’impresa familiare di cui
all’art. 230 bis c.c.) o addirittura
prescindendo dall’esistenza del matrimonio, come accade per quelle norme che
prendono in considerazione la c.d. famiglia di fatto. Come esattamente ritenuto dal giudice di
merito, tuttavia, è da escludere
che, a tutti gli effetti previsti dall’ordinamento, un coniuge diventi genitore del figlio generato dall’altro coniuge durante un precedente
matrimonio: in particolare, che possa trovare applicazione, quale mera
conseguenza dal secondo matrimonio, la norma dell’art. 155, comma 4 , c.c.,
tanto più che va pienamente condivisa l’affermazione, contenuta nella
sentenza impugnata, secondo cui nel caso di specie non è neppure ravvisabile, in capo alla
[moglie], la condizione di coniuge affidatario della figlia minore, in quanto l’affidamento in
senso proprio presuppone l’attualità della contitolarità e dell’esercizio
della potestà per entrambi i coniugi (genitori), mentre l’odierna ricorrente,
a seguito della morte del primo marito, è l’unica esercente la potestà sulla
figlia, siccome madre e non per effetto di una specifica pronuncia di
affidamento. La riprova di ciò si trova anche nella speculare considerazione
che, ad esempio, non
sarebbe attribuibile al [marito] (ove vi fosse questione sul punto) un
diritto di visita della minore. Non può condurre a conclusioni diverse
la sentenza della Corte Costituzionale n. 181 del 1988, richiamata dalla
ricorrente a sostegno della tesi che gli obblighi gravanti su entrambi i
coniugi verso la famiglia, ai sensi dell’art. 143 c.c., comprendono anche i
figli nati dal precedente matrimonio di uno dei coniugi stessi, ove ne sia
affidatario. In primo luogo, va rilevato che, con detta
sentenza, il giudice delle leggi ha dichiarato illegittimo, con riferimento
all’art. 3 Cost., l’art. 4, comma 1 , d. leg. lgt. 722-45, nella parte in cui
non comprende tra i familiari a carico del dipendente statale beneficiario di
quota di aggiunta di famiglia anche il figlio nato da precedente matrimonio
dell’altro coniuge, che ne sia affidatario. Investita della questione se la
norma denunziata - nello stabilire che, ai fini dell’attribuzione ai
lavoratori dipendenti del settore pubblico di determinati provvedimenti
economici, si devono considerare, tra i soggetti beneficiari, anche i figli
naturali riconosciuti, quelli adottivi e gli affiliati - non violasse il
principio della parità di trattamento, posto che, per i lavoratori dipendenti
del settore privato, il d.p.r. 797-55 estende detti benefici anche ai figli
del coniuge nati da precedente matrimonio, la Corte Costituzionale ha
ravvisato un’evidente disparità, non giustificata da alcuna diversità di
condizioni oggettive o soggettive tra le due categorie di lavoratori, ai fini
specifici indicati. Nella parte finale della motivazione, la Corte,
respingendo un’obiezione dell’Avvocatura di Stato, ha affermato che "gli
obblighi che incombono su entrambi i coniugi verso la famiglia ai sensi
dell’art. 143 del vigente c.c. non possono non comprendere anche i figli nati
dal precedente matrimonio di un coniuge (sciolto per divorzio), ove questi ne
sia affidatario e sempreché l’altro genitore non provveda; condizioni,
queste, la cui sussistenza dovrà essere accertata dall’amministrazione o dal
giudice di merito, costituendo esse il presupposto di legge perché sorga il
diritto a percepire l’aggiunta di famiglia". Nell’"iter" logico - argomentativo
della decisione, tutto volto, anche con il richiamo a precedenti sentenze
della stessa Corte, ad evidenziare la violazione del principio di pari
trattamento tra dipendenti privati e pubblici in ordine ai benefici economici
in esame, la riportata affermazione ha natura del tutto incidentale,
assumendo la funzione di elemento motivazionale secondario, senza alcun
intento, come è reso palese dalla sua stessa brevità, di enunciare un
principio di carattere generale, valido per un’interpretazione
costituzionalmente corretta dall’art. 143 c.c. (e, più in generale, delle
disposizioni che regolano i diritti e i doveri dei coniugi nei confronti dei
figli). Da essa, quindi, non può fondamente trarsi alcuna conseguenza
rilevante ai fini che riguardano direttamente la questione oggetto del
presente ricorso. Ma quel che preme maggiormente rilevare è che il medesimo
giudice delle leggi ha chiaramente inteso riferire l’incidentale affermazione
agli aspetti economici - o, meglio, a taluni di tali aspetti - dei rapporti
tra i coniugi, da un lato, e i figli, dall’altro, evidenziando anche che i
presupposti sono sempre quelli dell’affidamento ad un coniuge e della mancata
contribuzione da parte dell’altro. Ne deriva che, a tutto concedere, una
visione più estesa degli obblighi gravanti su entrambi i coniugi verso la
famiglia, sino a ricomprendervi i figli nati da precedente matrimonio di uno
di essi, in tanto potrebbe incidere nell’interpretazione ed applicazione
dell’art. 155, comma 4 , c.c., in quanto, oltre che la condizione di
affidamento in senso tecnico, vi fossero anche esigenze di tutela del coniuge
economicamente più debole: ed è, questo, un elemento che risulta del tutto
assente nella fattispecie decisa con la sentenza impugnata e nelle deduzioni
della stessa ricorrente. In altri termini, la [moglie] non ha minimamente prospettato al giudice
del merito che la casa coniugale (della quale, peraltro, è proprietaria per
un terzo ed altro terzo è intestato alla minore) dovesse esserle assegnata
quale componente, almeno sussidiaria, di un obbligo di mantenimento che gravi
sul marito, ma si è limitata a dedurre - e questo è stato il "thema
decidendum" devoluto alla Corte territoriale - che il riconoscimento del
diritto all’uso esclusivo dell’abitazione, senza alcun corrispettivo per la
parte di proprietà del marito, deriva automaticamente, per un verso, dal
matrimonio contratto con il [marito] e, per altro verso, dalla qualità di
coniuge "affidataria" della figlia minore. In tale ambito, non v’è spazio per alcuna applicazione,
quand’anche estensiva,
della norma in esame:
non sotto il profilo di un affidamento che, in senso proprio, non è
ravvisabile in capo alla [moglie] e la cui ricorrenza è presupposto
indefettibile, in presenza di prole minorenne, per l’assegnazione della casa
familiare in tema di provvedimenti relativi alla separazione personale
(nonché, per l’ipotesi in cui il coniuge richiedente non vanti alcun diritto
reale o personale sull’immobile, in tema di provvedimenti conseguenti al
divorzio: cfr. SS.UU. 11297-95); neppure sotto quello della tutela del
coniuge economicamente più debole, perché tale aspetto esula completamente
dalla fattispecie, come delineata dal giudice di merito in piena aderenza
alla domanda avanzata dalla [moglie]. Devesi osservare, al riguardo, che dall’unica decisione
nota di questa Corte su fattispecie in cui la moglie separata era
beneficiaria dell’appartamento di proprietà del marito e dei figli nati da un
suo precedente matrimonio, si rileva che l’assegnazione della casa familiare
era stata disposta dal giudice di merito proprio quale componente
dell’obbligo di mantenimento del coniuge più debole (Cass. 4016-92). Se così è, viene a perdere qualsiasi
rilevanza, ai fini della decisione del presente ricorso, la questione di
legittimità costituzionale prospettata, in via subordinata, dalla ricorrente: difettando il presupposto dell’affidamento e
non essendovi esigenze di natura economica da tutelare, è evidente che non si
pone un problema di adeguamento costituzionale della normativa, avuto
riguardo alla situazione dei figli nati da precedente matrimonio. Alla
stregua delle considerazioni che precedono, quindi, il ricorso va rigettato.
Nessun provvedimento dev’essere adottato in ordine alle spese della presente
fase di legittimità, stante la mancata costituzione dell’intimato. P.Q.M. La Corte rigetta il ricorso. Nulla per le
spese. Così deciso in Roma, il 25 marzo 1996. DEPOSITATA IN CANCELLERIA IL 3 SETTEMBRE
1996 |
Sez.
1, Sentenza n. 4016 del 02/04/1992 (Rv. 476529) In
tema di separazione personale dei coniugi, l’assegnazione della casa coniugale disposta dal giudice (mediante
una pronuncia riconducibile alla sfera dell’attività giurisdizionale
costitutiva ai sensi dell’art. 2908 cod.civ.) quale componente dell’obbligo di mantenimento del coniuge più debole, nell’aspetto
dell’esigenza abitativa, si configura come diritto personale di godimento
assimilabile al comodato, per cui il beneficiario è tenuto all’uso
esclusivamente personale dell’abitazione, senza possibilità di utilizzarla in
modo diverso e tanto meno di disporne mediante la costituzione di diritti in
favore di terzi, suscettibili di perdurare oltre la vita del coniuge
assegnatario, come darla
in locazione; ne consegue che il coniuge escluso dal godimento può
esigere che non sia alterata la destinazione della casa familiare, anche in
relazione alla possibilità che, per il sopraggiungere di nuove circostanze,
sia modificata a suo favore la precedente assegnazione (nel caso di specie la S.C. ha
confermato la sentenza dei giudici del merito che avevano condannato la
moglie, beneficiaria dell’appartamento di proprietà del marito e dei figli
nati da un suo precedente matrimonio, a pagare al marito la metà dell’importo
delle somme percepite dalla locazione dell’immobile). FATTO Stefano Radica conveniva in giudizio dinanzi
al Tribunale di Palermo la moglie Maria Alesi, dalla quale si era separato
giudizialmente, esponendo che la medesima, assegnataria in sede di
separazione della casa coniugale, già acquistata pro indiviso da entrambi e
quindi da lei donata, per la quota di sua pertinenza, ai figli nati da un
precedente matrimonio, subito dopo l’assegnazione aveva dato in locazione a
terzi detto appartamento, senza tuttavia corrispondergli la metà del canone
di locazione spettantegli. Chiedeva pertanto che la convenuta fosse
condannata a pagargli la metà dell’importo delle somme percepite, con gli
interessi e la rivalutazione monetaria. La Alesi, costituitasi, eccepiva che
l’assegnazione dell’abitazione era avvenuta fuori della ipotesi prevista
dall’art. 155 comma 4 c.c., quale componente in natura dell’obbligo di mantenimento,
onde doveva esserle riconosciuto il diritto di concederla in locazione per
trarne un reddito. Con sentenza non definitiva del 9 aprile - 3
maggio 1982 il Tribunale dichiarava l’obbligo della convenuta di versare
all’attore la metà dell’importo dei canoni percepiti, ordinando la
prosecuzione del giudizio per la liquidazione di detta somma. Disposta una consulenza tecnica di ufficio
per accertare l’importo dei canoni riscossi dalla Alesi, con sentenza del 1
febbraio - 9 marzo 1985 il Tribunale condannava la predetta al pagamento
della somma complessiva di L. 9.176.000, così rivalutata quella percepita,
nella quota della metà, per canoni dalla data di inizio della locazione a
quella in cui il Radica aveva venduto la porzione dell’immobile di sua proprietà,
con gli interessi legali dal giorno di maturazione delle singole componenti
del credito. La soccombente proponeva appello contro entrambe le pronunzie e
con sentenza del 13 marzo - 29 aprile 1987 la Corte di Appello di Palermo
rigettava l’impugnazione, osservando - per quanto ora rileva - che
l’assegnazione alla Alesi dell’abitazione familiare da parte del Presidente
del Tribunale comportava che ella avesse il diritto di vivervi gratuitamente,
non già di farne un uso diverso; che la somma corrispondente alla parte dei
canoni percepiti di spettanza del Radica era stata correttamente rivalutata,
trattandosi di obbligazione di valore, e non di valuta; che altrettanto
correttamente erano stati liquidati gli interessi con decorrenza dalla
maturazione dei singoli canoni, costituendo essi una componente risarcitoria
dell’obbligazione. Avverso detta sentenza ha proposto ricorso
per cassazione l’Alesi deducendo tre motivi. Non vi è controricorso. DIRITTO Con il primo motivo, denunciando errata
interpretazione degli artt. 156 comma 1 , 155 comma 4 , 1024 c.c. in
relazione all’art. 155 comma 5 c.c., carenza di motivazione, la ricorrente
censura la sentenza impugnata per non aver tenuto conto che l’abitazione in
oggetto le era stata assegnata quale componente in natura dell’obbligo di
mantenimento, e che per tanto ella aveva la facoltà di offrirla un locazione,
nonché per non aver considerato che il Radica avrebbe dovuto, prima di
promuovere la azione, richiedere la modifica dei provvedimenti adottati dal
Presidente del Tribunale e poi dallo stesso Tribunale circa l’onere di
mantenimento in tale forma. Si deduce altresì che, ove ella non avesse
avuto la facoltà di locare l’immobile, avrebbe comunque avuto il diritto di
ricevere dal coniuge la somma corrispondente al canone riscuotibile, quale
equivalente della obbligazione principale. Il motivo è infondato. Il quesito demandato all’esame di questa
Suprema Corte - sul quale a quanto risulta non esistono precedenti
giurisprudenziali - consiste nell’accertare se il coniuge che abbia avuto in
assegnazione la casa coniugale quale componente dell’obbligo di mantenimento,
come nella specie si è verificato, sia tenuto ad occupare personalmente
l’abitazione o possa farne un uso diverso, locandola a terzi. Non è peraltro in
discussione in questa sede la leggittimità della ordinanza del Presidente del
Tribunale e poi della sentenza dello stesso Tribunale che detta assegnazione
avevano concesso, avendo le parti dato attuazione a tali provvedimenti. Al
suindicato quesito ritiene la Corte debba essere data risposta negativa. Ed invero l’assegnazione della casa
coniugale, quale diritto personale di godimento che viene generalmente
assimilato dalla dottrina alla fattispecie del comodato, si configura,
nell’ipotesi considerata, come una forma di soddisfazione diretta
dall’obbligo di mantenimento, nell’aspetto dell’esigenza abitativa, disposta
dal giudice mediante una pronuncia riconducibile alla sfera dell’attività
giurisdizionale costitutiva, ai sensi dell’art. 2908 c.c. (v. sul punto Cass.
1988 n. 4420; 1986 n. 624; 1985 n. 5082). Peraltro la finalità
dell’assegnazione stessa, e segnatamente l’attribuzione del diritto quale
modalità specifica e immediata del mantenimento del coniuge più debole - in
cui l’abitazione rileva non tanto come oggetto del rapporto, quanto come
strumento attraverso il quale si realizza il soddisfacimento dei bisogni di
quel coniuge - impone di escludere che per effetto di essa sia concesso un
diritto di potata più ampia di quella imposta dalla ratio che le è propria e
di ritenere al contrario che con il conferimento del diritto resti fissato
anche il suo contenuto, conformato in quella situazione e con quelle
modalità: ciò vale a dire che il beneficiario è tenuto all’uso esclusivamente
personale dell’abitazione, senza possibilità di utilizzarla in modo diverso e
tanto meno di disporne mediante la costituzione di diritti in favore di
terzi, suscettibili tra l’altro di perdurare oltre la vita del coniuge
assegnatario. Corrispondentemente, è da ritenere che il coniuge escluso dal
godimento possa esigere che non sia alterata la destinazione della "casa
familiare", anche in reazione alla possibilità che, per il
sopraggiungere di nuove circostanze, sia modificata a suo favore la
precedente assegnazione. Correttamente pertanto la Corte di merito ha
riconosciuto il diritto del Radica di conseguire la metà dei canoni di
locazione percepiti dalla moglie. È peraltro evidente che ogni altra esigenza
di mantenimento diversa e ulteriore rispetto al godimento della abitazione
avrebbe dovuto essere fatta valere dalla Alesi attraverso una specifica ed
autonoma domanda di attribuzione dell’assegno in denaro. Con il secondo
motivo, denunciando violazione, si deduce che, poiché il Tribunale aveva
dichiarato con la sentenza non definitiva l’obbligo della Alesi di
corrispondere all’attore la metà dell’importo dei canoni percepiti, senza far
menzione degli interessi legali e della rivalutazione monetaria richiesti
dallo stesso attore, e poiché il Radica non aveva proposto impugnazione
avverso detta pronuncia, si era formato nei suoi confronti il giudicato sul
punto. Si deduce altresì che sulla base del disposto della sentenza non
definitiva spettava all’attore provare l’ammontare dei canoni percetti, e che
il Tribunale non avrebbe dovuto sopperire a tale mancanza di prova ordinando
una consulenza tecnica d’ufficio, peraltro intrinsecamente inadeguata
all’accertamento di detta circostanza. Il primo profilo della censura è infondato. Premesso che, vertendosi in tema di giudicato
interno, è nei poteri di questa Corte interpretare direttamente la sentenza
dalle cui statuizioni si assume essere derivato l’effetto preclusivo, va
osservato che non sussiste in ordine al punto prospettato giudicato
implicito, in quanto dal tenore complessivo della sentenza non definitiva in
oggetto risulta chiaramente che essa si espresse soltanto sulla illegittimità
della cessione in locazione dell’immobile e sul conseguente obbligo di
restituzione della metà dei canoni riscossi, lasciando impregiudicata e
riservando alla pronuncia definitiva ogni questione in ordine alla
quantificazione del credito ed alle obbligazioni accessorie. È noto invero che perché possa ravvisarsi
giudicato implicito è necessario che tra la questione decisa e quella che si
ritiene tacitamente risolta sussista un rapporto di dipendenza indissolubile,
nel senso che l’accertamento contenuto nella motivazione investe questioni
che costituiscono la necessaria premessa e il presupposto logico
indeffettibile della decisione (v. Cass. 1986 n. 7337). Il secondo rilievo
del motivo di ricorso in esame è anch’esso privo di fondamento, atteso che,
come emerge in modo chiaro dalla sentenza impugnata, il giudice di merito non
ha tenuto alcun conto dell’indagine tecnica espletata, ma ha basatola propria
pronuncia circa l’ammontare dei canoni percetti sulla dichiarazione che il
legale rappresentante della società conduttrice dell’immobile aveva reso ai
sensi dell’art. 547 c.p.c. nell’ambito di un procedimento per sequestro
conservativo. Con il terzo motivo, denunciando errata
applicazione dell’art. 1219 c.c. ed omessa motivazione si deduce che, non
essendo stata avanzata una richiesta di pagamento della somma prima del
giudizio, gli interessi avrebbero dovuto essere liquidati dalla data della
domanda, e non dalle singole date di percezione dei canoni mensili. Si rileva
ancora che, essendo stabilito il prezzo della locazione in moneta,
l’obbligazione dedotta era di valuta, e non di valore, e pertanto non avrebbe
dovuto effettuarsi la rivalutazione della somma spettante. Il secondo profilo della doglianza, da
esaminare prima dell’altro per la sua logica priorità, è fondato. Ed invero il Radica, chiedendo in giudizio
la restituzione della metà dei canoni percepiti dalla Alesi, ha chiaramente
esercitato un’azione di ripetizione avente ad oggetto già inizialmente una
somma di denaro: a nulla rileva peraltro, ai fini della qualificazione della
natura dell’obbligazione dedotta, che detta somma non fosse ancora
esattamente determinata, ma richiedesse un accertamento in giudizio, di
natura meramente dichiarativa, in relazione al suo esatto ammontare. Evidente è pertanto l’errore della Corte di
appello che ha definito l’obbligazione - senza peraltro fornire la relativa
motivazione - come di valore, se sulla base di tale qualificazione ha
proceduto alla rivalutazione monetaria del credito. Va infine disatteso il
primo profilo della doglianza, concernente la decorrenza degli interdetti
interessi invero non sono moratori, in quanto non derivano dall’inadempimento
colpevole della Alesi, ma sono dovuti in base al principio generale di cui
all’art. 1282 c.c., che impone a chi ritenga o tragga profitto da capitali
altrui di corrispondere al titolare di essi il corrispettivo del godimento
ricavato, calcolato nel tasso legale, dal giorno in cui è sorto il debito - E poiché l’obbligazione ad essi relativa non
è subordinata ad un atto di costituzione in mora, ne’ presuppone la colpa nel
ritardo, ma richiede unicamente la liquidità ed esigibilità del credito, correttamente
la Corte di merito ne ha confermato la decorrenza dalla percezione dei
singoli canoni, essendo sorta in tale momento l’obbligazione di restituzione
pro - quota all’avente diritto. In accoglimento, di quanto di ragione, del
terzo motivo di ricorso la sentenza impugnata va pertanto cassata e la causa
rinviata ad altro giudice, che si designa in altra sezione della Corte di
Appello di Palermo, che pronuncierà applicando i principi di diritto sopra
espressi e provvederà anche sulle spese di questo giudizio di cassazione. P.Q.M. La Corte di Cassazione - rigetta il primo e
il secondo motivo di ricorso, accoglie per quanto di ragione il terzo; cassa
la sentenza impugnata e rinvia ad altra sezione della Corte di Appello di
Palermo, che provvederà anche sulle spese di questo giudizio di cassazione. Così deciso in Roma nella camera di
consiglio della 1 sezione civile il 12 febbraio 1991 DEPOSITATA IN CANCELLERIA IL 2 APRILE 1992 |
E’ evidente, nel caso del 1992, che la
questione dell’assegnazione in considerazione della presenza di prole da
precedente matrimonio non è stata affrontata. Il problema era se la moglie
poteva locare a terzi; l’affermazione relativa alla assegnazione in presenza di
prole da precedente matrimonio non forma dunque parte della ratio decidendi.
Sempre
sul tema della casa familiare andrà poi tenuto presente che la legge italiana,
che pure non prevede espressamente e non disciplina la famiglia ricostituita,
ha dimostrato, tuttavia, di poter incidere sulla stessa.
A
questo proposito, può ricordarsi l’art. 155-quater
c.c., così come introdotto dalla l. 8 febbraio 2006, n. 54 recante “Disposizioni in materia di
separazione dei genitori e affidamento
condiviso dei figli”, a lettera del quale a seguito di nuove nozze, ovvero
qualora si instauri una convivenza
more uxorio, l’ex coniuge
perde il diritto di godimento della casa coniugale, nell’ipotesi che ne sia
assegnatario. Disposizione che, tra l’altro, suggerisce una sensazione di contrarietà rispetto a
quel preminente interesse dei figli cui è ispirato
l’istituto dell’assegnazione dell’immobile d’abitazione a seguito della crisi
coniugale; e ancor più, ove si tenga anche conto che l’intenzione di fondo che
ha motivato l’adozione della legge in discorso consiste nell’obiettivo di
garantire ai figli un sostegno effettivo da parte di entrambi i genitori,
promovendo il sorgere di una “comunità parentale” che sopravviva al fallimento
di quella “coniugale”.
8. Famiglia
ricomposta e risarcimento
del danno da uccisione del familiare.
In caso di decesso della vittima di un sinistro
stradale il risarcimento del danno non patrimoniale, nella duplice accezione
di danno morale e di danno esistenziale derivato dalla perdita definitiva del
rapporto parentale, spetta iure proprio ed a diverso titolo a tutti
coloro che hanno subito un grave perturbamento per la morte. Anche il
convivente non legato da vincoli parentali può essere titolare del diritto al
risarcimento del danno non patrimoniale, e ciò a prescindere dal fatto che si
tratti di convivenza more uxorio o di convivenza determinata da un diverso rapporto, purché si
dimostri una comunanza di vita e di affetti. (Nella specie si è riconosciuto il diritto al
risarcimento del danno anche al convivente della madre di un minore deceduto
a seguito di un sinistro cagionato dalla parte convenuta). (Trib. Milano, 21
febbraio 2007, in
Fam. dir. 2007, p. 941 s.). […] Deve
riconoscersi anche al convivente della signora M., signor L. G., il diritto
al risarcimento del danno non patrimoniale. Tale diritto è già stato
riconosciuto dalla giurisprudenza, in casi analoghi, al convivente more uxorio a seguito del decesso
dell’altro convivente, e
non vi è astrattamente alcun motivo per negare il diritto, a determinate
condizioni, al risarcimento del danno non patrimoniale allorché la convivenza
riguarda, oltre alla coppia, anche il figlio di uno dei conviventi, con il
quale il convivente non genitore abbia instaurato un solido legame affettivo. […] Così
affermato il principio secondo il quale anche il convivente non legato da
vincoli parentali può essere titolare del diritto al risarcimento del danno
non patrimoniale, e ciò a
prescindere dal fatto che si tratti di convivenza more uxorio ovvero da convivenza determinata da un rapporto
diverso, quale era quello tra M. ed il signor G., deve verificarsi se nel caso
di specie sia stata dimostrata l’esistenza e la durata di una comunanza di
vita e di affetti con vicendevole assistenza materiale e morale.
Ebbene, è stato dimostrato mediante le deposizioni testimoniali acquisite che il signor G.
ha convissuto con M. e
sua madre per due anni prima che si verificasse l’incidente (si veda
il certificato anagrafico in atti e le deposizioni dei testi V. B. e G. P.),
ed è verosimile che i due si siano conosciuti già due anni prima, come
dichiarato e come accade in casi consimili, non avendo probabilmente la
signora M. iniziato la convivenza con il signor G. senza essersi prima
accertata della esistenza di un buon rapporto tra quest’ultimo ed il proprio
figlio. Durante la convivenza, seppure breve, è stato provato che tra M. ed
il signor G. si era
creato un rapporto di amicizia e complicità, ed infatti i due si
facevano compagnia mentre attendevano il rientro della signora M. dai turni
di lavoro, preparavano insieme la cena, avevano interessi in comune (lo
scooter, l’auto- vettura, il calcio). Entrambi trascorrevano insieme e con la
signora M. intere settimane nelle vacanze estive, sia a casa che in località
turistiche. Il signor G. andava a trovare M. in montagna, a R., quando era in
vacanza dai nonni. Il
signor O. ha affermato nelle sue difese che egli considerava M. come proprio
figlio, e tale affermazione, confermata dai testi, risulta verosimile alla
luce delle circostanze appena riferite ed anche del fatto che non risulta
dagli atti che il signor G. abbia figli propri, il che può ben far ritenere
che egli abbia riversato su M. un affetto assimilabile, anche se certamente
non equiparabile, all’affetto paterno. A causa dell’improvvisa morte
di M. il legame affettivo appena descritto si è irrimediabilmente spezzato, e
di tale perdita il signor G. deve essere risarcito, trattandosi di un danno
non patrimoniale (nelle due accezioni sopra richiamate allorché si è detto
del danno subito dalla signora M.) diretto. Egli ha altresì subito un danno
non patrimoniale indiretto di pari se non maggiore gravità, dovendo farsi
carico quotidianamente della sofferenza della convivente. Risponde dunque ad
equità riconoscere al signor O. il diritto al risarcimento del danno non
patrimoniale in misura pari ad € 20.000,00, con gli interessi e la
rivalutazione dal gennaio 2006 al saldo effettivo. |
La
lettura della motivazione suggerisce l’idea che la giurisprudenza, ciò facendo,
sembri contribuire a valorizzare la famiglia quale formazione sociale ex art 2 Cost., piuttosto che quale
società naturale fondata sul matrimonio ex
art. 29 Cost.
La
ratio decidendi appare però contraria ad un precedente di legittimità
(Cass. pen., 8
luglio 1980, in Giust. pen., 1981, III, c. 623 ss.) che ha
negato alla “matrigna” il diritto a costituirsi parte civile per chiedere il
risarcimento del danno non patrimoniale per l’omicidio colposo del figliastro,
poiché non titolare di diritti riconosciuti dall’ordinamento.
Diversamente,
sebbene in situazione distinta,
Cass. pen., 27 settembre 2001, n. 35121, in Fam.
dir., 2001, p. 277, ha ammesso la costituzione di parte civile dei coniugi cui era stato
dato in affido
familiare, ai sensi dell’art. 5, l. n. 184/83, un minore, ucciso in un
incidente d’auto.
Non
condivisibili appaiono peraltro le perplessità espresse in dottrina sul fatto
che l’allargamento della cerchia dei soggetti danneggiati potrebbe comportare,
“in chiave di analisi economica del diritto, una gestione del risarcimento del
danno non patrimoniale poco efficiente dal punto di vista gius-economico, una
ipervalutazione delle prestazioni da risarcimento non conforme al livello
attuale di efficienza del sistema. Tutto questo rischierebbe di trasformare in
qualche caso la responsabilità civile in un fenomeno lucrativo” (v. la nota di
commento alla decisione di merito milanese appena citata).
9. Famiglia
ricomposta e obbligazione
naturale.
Le
eventuali attribuzioni
patrimoniali e gli esborsi di provenienza del «genitore de facto» (cioè del «non-genitore»
biologico e/o giuridico, ma considerato come vero e proprio genitore dal
minore) dovrebbero potersi inquadrare (pur dovendosi modulare la valutazione di
volta in volta sulle particolarità del caso concreto) nella categoria degli atti di adempimento di
un’obbligazione naturale. Ben potrebbe dirsi, invero, che, nell’ambito
di una famiglia
ricostituita (sia fondata sul matrimonio, sia di fatto), le relazioni tra i membri di tale comunità, anche se non
sanzionate dalla presenza di vincoli giuridici e l’«affidamento» ingenerato nella prole dalla
creazione di un rapporto de facto
dotato di (quanto meno apparente) solidità giustificano l’esistenza di «doveri» rilevanti ai sensi dell’art.
2034 c.c., non
dissimilmente da quanto avviene nel contesto della procreazione biologica naturale
non dichiarata né riconosciuta (se non
addirittura non riconoscibile), o dalla convivenza
more uxorio nei rapporti tra i partners.
Dalla
citata configurazione derivebbe,
come noto, l’esonero,
per le attribuzioni in discorso, dal rispetto delle formalità ex artt. 782
c.c. e 48 l. notar.; ne discenderebbero inoltre ulteriori, rilevanti,
conseguenze d’altro genere. Si pensi
alla non applicabilità
all’atto di adempimento di un’obbligazione naturale di istituti che vanno dalla
revocabilità per
ingratitudine o per sopravvenienza
di figli (artt. 800
ss. c.c.), alla garanzia per evizione
(art. 797 c.c.), all’obbligo di prestare gli alimenti in caso di bisogno del donante (art. 437 c.c.) [si
tenga però presente la diversa regolamentazione, in punto revocabilità (art.
805 c.c.), evizione (art. 797, n. 3 c.c.) e obbligo alimentare (art. 437 c.c.),
che contraddistingue le donazioni rimuneratorie dalle comuni donazioni), a quello di collazione (artt. 737 ss.
c.c.), o di imputazione (art. 564, secondo comma, c.c.)]. Regole speciali
sussistono poi anche sotto il profilo della capacità richiesta per la validità dell’atto (cfr.
artt. 774 ss. c.c.).
10. Famiglia
ricomposta e negotiorum gestio.
Art.
2028 Obbligo di continuare la gestione Chi,
senza esservi obbligato, assume scientemente la gestione di un affare altrui, è tenuto a
continuarla e a condurla a termine finché l’interessato non sia in grado di
provvedervi da se stesso. L’obbligo
di continuare la gestione sussiste anche se l’interessato muore prima che
l’affare sia terminato, finche l’erede possa provvedere direttamente. Art.
2029 Capacità del gestore Il
gestore deve avere la capacità di contrattare (1425). Art.
2030 Obbligazioni del gestore Il
gestore è soggetto alle stesse obbligazioni che deriverebbero da un mandato
(1703 e seguenti). Tuttavia
il giudice, in considerazione delle circostanze che hanno indotto il gestore
ad assumere la gestione, può moderare il risarcimento dei danni ai quali
questi sarebbe tenuto per effetto della sua colpa (1223 e seguenti). Art.
2031 Obblighi dell’interessato Qualora
la gestione sia stata utilmente iniziata, l’interessato deve adempiere le
obbligazioni che il gestore ha assunte in nome di lui, deve tenere indenne il
gestore di quelle assunte dal medesimo in nome proprio e rimborsargli tutte
le spese necessarie o utili con gli interessi (1284) dal giorno in cui le
spese stesse sono state fatte. Questa
disposizione non si applica agli atti di gestione eseguiti contro il divieto
dell’interessato, eccetto che tale divieto sia contrario alla legge,
all’ordine pubblico o al buon costume. Art.
2032 Ratifica dell’interessato La
ratifica (1339) dell’interessato produce, relativamente alla gestione, gli
effetti che sarebbero derivati da un mandato (1703 e seguenti), anche se la
gestione e stata compiuta da persona che credeva di gestire un affare
proprio. |
In
dottrina (si noti:
sociologica e non giuridica) non manca chi ritiene questo sistema riferibile proprio al
caso della famiglia
ricostituita:
Allora,
visto che non ci sono risposte precostituite, si potrebbe indicare una via applicando alla
genitorialità quanto recita l’art. 2028 del codice civile per la gestione
degli affari altrui: “Chi, senza esservi obbligato, assume
scientemente la gestione di un affare altrui, è tenuto a continuarla e a
condurla a termine finché l’interessato non sia in grado di provvedervi da se
stesso”. In altre parole la genitorialità deve essere caratterizzata da gratuità (bisogna fare
i figli senza aspettative, né per riconciliare la coppia o per dare un
fratello sano all’altro figlio disabile), consapevolezza, responsabilità e
continuità. Interessante anche l’art. 2029 cod. civ. in cui si parla di
capacità del gestore, che evoca
il contenuto
dell’art. 6 comma
4 legge 184/1983 sull’adozione come novellato dalla legge 149/2001: “I
coniugi devono essere affettivamente
idonei e capaci
di educare,
istruire e mantenere i minori che intendano adottare” (questa previsione
legislativa non dovrebbe riguardare solo la genitorialità adottiva, ma ogni forma di genitorialità).
L’art. 2030 richiama la disciplina del mandato, in cui agli artt. 1710 e ss. si legge “diligenza del buon padre di
famiglia”, “limiti”, “comunicazione”, “obbligo di rendiconto”, tutte
prescrizioni che ben si attagliano alla genitorialità; in particolare la
comunicazione o, come alcuni preferiscono dire, la buona comunicazione,
elemento che spesso manca in famiglia in cui può capitare che si parli tanto
senza dirsi in verità nulla. (cfr. Marzario, http://www.diritto.it/docs/28988#).
|
In
difetto di precedenti in
termini potrà comunque farsi riferimento a decisioni sul tema
dell’applicabilità degli artt. 2028 ss. all’ambito familiare:
Sez.
3, Sentenza n. 23823 del 22/12/2004 (Rv. 579141) L’istituto
della "negotiorum gestio", così come previsto e disciplinato dagli
artt. 2028 e segg. cod.civ., postula uno svolgimento di attività, da parte
del gestore, diretta al conseguimento dell’esclusivo interesse dell’altro
soggetto, - non configurabile, quindi, nelle ipotesi in cui ricorra una
contrapposizione dei rispettivi interessi di cui risultino portatori,
rispettivamente il "negotiorum gestor" ed il negotiorum
gestus" -, caratterizzato dalla spontaneità dell’intervento del gestore,
e quindi dalla mancanza di un qualsivoglia rapporto giuridico in forza del
quale il gestore sia tenuto ad intervenire nella sfera giuridica altrui.(Nella specie un genitore aveva
agito nei confronti del genero per ottenerne la condanna al rimborso delle
spese sostenute per il mantenimento della figlia, moglie separata del
convenuto; la Corte Cass., in applicazione dei principi succitati, ha
ritenuto insussistenti i presupposti della "negotiorum gestio"). |
Sez.
9, Sentenza n. 6615 del 13/07/1987 Tribunale
di Milano Vicenda:
Il nipote che ha
anticipato le spese funerarie per il nonno, conviene in giudizio una
delle figlie del defunto
per il rimborso dell’onere finanziario di propria pertinenza. Il tribunale
condanna la convenuta al pagamento della somma dovuta. Ragioni della
decisione: la previsione del regolamento di polizia mortuaria secondo il
quale le spese funerarie sono a carico del comune quando la famiglia non
richieda servizi speciali, non può essere invocata per regolare i rapporti
tra privati, poiché è finalizzata a disciplinare i rapporti tra questi e la
pubblica amministrazione. Pertanto, poiché non può negarsi l’utilità obiettiva
delle effettuate onoranze funebri (che, rientrando nelle passività
ereditarie, competono in pari misura a tutti i coeredi legittimi) integra l’ipotesi di utile
gestione il pagamento fatto dall’attore: non risulta infatti alcun
espresso divieto dell’interessato. "doc. uda corte di appello; prof.
m.g. losano dell’università degli studi - Milano".* |
11. Famiglia
ricomposta e obbligazioni ex contractu assunte verso terzi.
Se
a contrarre è il minore, qualora non si ritenga
comunque il contratto annullabile per la minore età, si potrebbe applicare la
giurisprudenza che qualifica l’agente
minorenne come mero nuntius. In tal caso
il genitore sociale
risponde come parte contrattuale,
esattamente come il genitore biologico: ma, naturalmente, occorre che il minore
abbia agito come nuntius del genitore
(legale o sociale che sia, posto che qui non fa differenza l’esistenza o meno
di un rapporto biologico o comunque legale rispetto al soggetto la cui volontà
è meramente “portata”).
Ulteriore
problema attiene alla possibilità che il genitore sociale stipuli contratti nell’interesse del
minore; si pensi alle obbligazioni dirette a contribuire al
mantenimento, istruzione ed educazione del minore stesso (contratto con la palestra,
con la scuola privata, con la società che organizza corsi e stages all’estero,
ecc.).
E’
chiaro, in primo luogo, che il minore non
può ritenersi vincolato,
perché il genitore sociale non ne è il legale rappresentante (e in ogni caso il
minore non lo sarebbe, neppure se agisse il legale rappresentante). Semmai
potrebbe porsi il problema di una responsabilità del/i genitore/i legale/i,
in luogo della responsabilità del genitore sociale; ciò peraltro potrebbe
accadere solo
qualora si potesse affermare la presenza di un mandato (espresso e tacito), dal genitore
legale/genitori legali, esercente/i la potestà, a quello sociale, accompagnato
da una contemplatio domini (anche essa espressa o
tacita, ma comunque chiara) espressa dal genitore sociale in relazione al
genitore legale/ai genitori legali.
12. Famiglia
ricomposta e responsabilità
ex delicto verso terzi.
Per
ciò che attiene poi alla responsabilità aquiliana verso terzi del genitore
sociale per l’illecito compiuto dai figli del coniuge/partner, si potrebbe pensare ad un’applicazione degli 2047 o 2048 c.c., ma le relative
disposizioni, in considerazione del carattere eccezionale della responsabilità per fatto altrui, non
paiono estensibili analogicamente.
Art. 2047 Danno cagionato dall’incapace In
caso di danno cagionato da persona incapace d’intendere o di volere (Cod.
Pen. 85 e seguenti), il risarcimento è dovuto da chi è tenuto alla sorveglianza dell’incapace,
salvo che provi di non aver potuto impedire il fatto. Nel
caso in cui il danneggiato non abbia potuto ottenere il risarcimento da chi è
tenuto alla sorveglianza, il giudice, in considerazione delle condizioni
economiche delle parti, può condannare l’autore del danno a un’equa
indennità. Art. 2048 Responsabilità dei genitori;
dei tutori, dei precettori e dei maestri d’arte Il
padre e la madre, o il tutore, sono responsabili del danno cagionato dal
fatto illecito dei figli minori non emancipati (314 e seguenti, 301, 390 e
seguenti) o delle persone soggette alla tutela (343 e seguenti, 414 e
seguenti), che abitano con essi. La stessa disposizione si applica
all’affiliante. I
precettori e coloro che insegnano un mestiere o un’arte sono responsabili del
danno cagionato dal fatto illecito dei loro allievi e apprendisti (2130 e
seguenti) nel tempo in cui sono sotto la loro vigilanza. Le
persone indicate dai commi precedenti sono liberate dalla responsabilità
soltanto se provano di non avere potuto impedire il fatto. |
13. I “contratti di famiglia ricomposta”.
Ancora
una volta, esattamente come
succede nel caso della famiglia
di fatto e nella crisi della crisi della famiglia
fondata sul matrimonio (così come in quella della coppia convivente
eterosessuale, o omosessuale), un rilievo decisivo potrà e dovrà assumere la negozialità. Non è questa
la sede per trattare del rilievo che la concorde volontà delle parti può
svolgere anche con riguardo alle questioni attinenti alla gestione del rapporto
genitoriale, fatti salvi, beninteso, i fondamentali canoni della tutela
dell’interesse del minore e della salvaguardia dei principi dettati dalle norme
imperative, dall’ordine pubblico e dal buon costume. Si potrà solo dire che tutti gli strumenti negoziali a
disposizione dei genitori legittimi e naturali per la tutela della prole
minorenne sono anche utilizzabili nel quadro di una situazione del genere di
quella qui supposta.
Nulla
esclude, quindi, che una famiglia
ricomposta, fondata o meno sul matrimonio,
che intenda separarsi
«civilmente» s’accordi pure per i
profili attinenti alla gestione del rapporto con la prole, ancorchè si tratti
di figli (biologicamente e/o giuridicamente) di uno solo dei membri della
coppia.
Ciò
vale innanzi tutto,
ad avviso di chi scrive, per
i profili patrimoniali, la cui causa ha natura contrattuale ed è legata al principio di autonomia riferibile agli
artt. 1321 e 1322
c.c., in una situazione di sicura meritevolezza di protezione da parte
dell’ordinamento. Ne deriva che l’assunzione di eventuali impegni ad effettuazioni
di prestazioni pecuniariamente valutabili
dovrà ritenersi valida:
· dall’obbligo di corrispondere un assegno,
· all’impegno a contribuire al mantenimento in natura,
· all’assunzione del vincolo ad effettuare trasferimenti di beni,
· alla messa a disposizione di un’unità abitativa,
· alla creazione di vincoli di destinazione nell’interesse della
prole, ex art. 2645-ter c.c.,
· alla creazione di un trust.
Potrà
qui aggiungersi che attribuzioni, obbligazioni ed esborsi di provenienza del
«genitore de facto» (cioè del
«non-genitore» biologico e/o giuridico, ma considerato come vero e proprio
genitore dal minore) dovrebbero essere rivestiti della forma solenne, per evitare ogni contestazione legata ad un loro supposto carattere donativo.
Ma
si tratterebbe comunque di un consiglio a fini di mero tuziorismo. Come già
detto poc’anzi, a ben vedere, l’interprete potrebbe sovente ravvisare (pur dovendosi modulare
la valutazione di volta in volta sulle particolarità del caso concreto) in
questi atti i connotati dell’adempimento di un’obbligazione naturale. Ben potrebbe dirsi, invero,
che, nell’ambito di un rapporto di omogenitorialità, le relazioni tra i membri
di tale famiglia e l’«affidamento» ingenerato nella prole dalla creazione di un
rapporto de facto dotato di (quanto
meno apparente) solidità giustificano l’esistenza di «doveri» rilevanti ai
sensi dell’art. 2034 c.c., non dissimilmente da quanto avviene nel contesto
della procreazione biologica naturale non dichiarata né riconosciuta (se non
addirittura non riconoscibile), o dalla convivenza more uxorio nei rapporti tra i partners.
Dalla
citata configurazione derivebbe, come pure già detto, l’esonero, per le
attribuzioni in discorso, dal rispetto delle formalità ex artt. 782 c.c. e 48 l. notar.; ne discenderebbero inoltre
ulteriori, rilevanti, conseguenze d’altro genere. Si pensi alla non applicabilità all’atto di adempimento di
un’obbligazione naturale di istituti che vanno dalla revocabilità per
ingratitudine o per sopravvenienza di figli (artt. 800 ss. c.c.), alla garanzia
per evizione (art. 797 c.c.), all’obbligo di prestare gli alimenti in caso di
bisogno del donante (art. 437 c.c.), a quello di collazione (artt. 737 ss.
c.c.), o di imputazione (art. 564, secondo comma, c.c.). Regole speciali
sussistono poi anche sotto il profilo della capacità richiesta per la validità
dell’atto (cfr. artt. 774 ss. c.c.).
Per
quanto attiene, invece, ai profili
personali, è indiscutibile che il fondamento normativo circa l’ammissibilità di
intese sull’affidamento (condiviso o esclusivo) e sulle relative modalità di gestione
del rapporto genitoriale non
appare riferibile
al caso del genitore meramente sociale, in cui la potestà risulta giuridicamente in capo ad una
sola (evidentemente, altra) persona (o comunque ai due genitori
biologici). Sarà opportuno ricordare che tale fondamento, nel caso di
bigenitorialità, legittima o naturale che sia, va riscontrato vuoi nella
disciplina in materia di separazione personale tra coniugi (cfr. art. 711 c.p.c., laddove si fa
riferimento alle «condizioni della separazione consensuale»), vuoi in quella
del divorzio (cfr. art. 4,
sedicesimo comma, l.div., laddove si fa riferimento alle «condizioni
inerenti alla prole e ai rapporti economici»), vuoi, infine, nell’estensione
del riconoscimento della validità ed efficacia delle intese sulla prole anche
al campo della filiazione fuori dal matrimonio (cfr. i riferimenti agli
«accordi» tra i coniugi, rinvenibili negli artt. 155, secondo, terzo e quarto
comma, 155-quater cpv. e 155-sexies cpv. c.c. e applicabili alla
filiazione naturale per effetto dell’art. 4 cpv., l. n. 54/2006).
Nulla esclude, però, che, nell’ambito dei poteri/doveri che costituiscono l’essenza
della potestà genitoriale, il titolare di tale situazione decida di riconoscere comunque un ruolo al proprio nuovo (o
ex) partner, a condizione che ciò non venga in conflitto (cela va sans dire) con il fondamentale e
già richiamato principio della tutela dell’interesse esclusivo del minore.
Con
l’ulteriore precisazione che eventuali
deleghe della
potestà non potrebbero avere effetto verso i terzi, in assenza di una normativa analoga a quella che, come si è ricordato, esiste Oltralpe. Per completezza
potrà ancora aggiungersi che, ad esempio, nel regime del civil partnership britannico, la dissoluzione delle unioni
omosessuali in cui sono sorti rapporti di filiazione va accompagnata da uno
«Statement of arrangements». Questo documento, dunque, dispone, su accordo dei partner, le conseguenze per la prole in
caso di separazione.
14. Crisi della famiglia ricomposta e ruolo
del genitore sociale
in caso di mancato accordo
con il genitore legale.
Nel
caso di contrasto tra le
parti è invece evidente che il partner
non genitore non
potrà far valere alcun
diritto (e corrispondentemente, non sarà sottoposto ad alcun dovere
giuridico) verso il minore figlio dell’altro.
Non va però dimenticato che il criterio cardine per la soluzione dei problemi
in cui un minore può essere coinvolto nella crisi della coppia è pur sempre
quello del suo esclusivo
interesse. In nome di tale interesse, a mio avviso, il giudice (in caso di
famiglia di fatto si tratterebbe del Tribunale per i minorenni: cfr. Cass., 7
maggio 2009, n. 10569, in Fam. dir.,
2009, p. 992) è legittimato a disporre un affidamento anche a favore di un estraneo e tale «estraneo»
ben potrebbe essere proprio il «genitore di fatto».
In
caso, ad esempio, di crisi della famiglia ricomposta di fatto (eventualmente
anche omosessuale), può
essere chiesto al tribunale per i minorenni un provvedimento limitativo della
potestà del genitore che con il suo comportamento pregiudichi l’interesse del
figlio minore. A sostegno dell’illustrata soluzione può invocarsi mutatis mutandis quell’orientamento giurisprudenziale che
utilizza l’art. 333
c.c. per consentire i contatti tra nipoti e nonni cui il genitore esercente la
potestà (perché unico genitore vivente o affidatario esclusivo) o il parente
affidatario del minore impedisca di frequentare i nipoti.
Dispongono
una limitazione della potestà dei genitori ex art. 333 c.c. per consentire i contatti tra nipoti e nonni cui
il genitore esercente la potestà o l’affidatario del minore impediva di
frequentare i nipoti minorenni Cass., 24 febbraio 1981, n. 1115, in Foro it., 1982, I, c. 1144 e, nella
giurisprudenza di merito, Trib. Min. Perugia, 12 giugno 1979, in Giur. merito, 1980, p. 6; Trib. Min.
Torino, 11 maggio 1988, in Giur. it.,
1989, I, 2, p. 234; Trib. Min. Bari, 10 gennaio 1991, in Giur. merito, 1992, p. 571; Trib. Min. Messina, 19 marzo 2001, in
Dir. fam. pers., 2001, p. 1522 |
In
applicazione degli amplissimi
poteri concessi al tribunale per i minorenni, nel contesto della citata
procedura, il partner potrebbe
addirittura richiedere l’affidamento del minore, posto che, come riconosciuto
dalla stessa giurisprudenza di legittimità, l’intervento ai sensi del ricordato
articolo del codice civile consente l’eventuale affidamento a terze persone, diverse da un genitore
biologico (cfr. ad es. Cass., 13 agosto 1999, n. 8633; v. inoltre Cass.,
15 novembre 1989, n. 4862; Cass., 4 maggio 1996, n. 4147; Cass., 29 marzo 1999,
n. 2998).
E’
da notare, infine, che una soluzione del genere rinviene un suo preciso pendant nell’ambito della disciplina della rottura della coppia
eterosessuale (coniugata o
meno), in merito ai rapporti rispetto ai figli di entrambi i membri della coppia stessa.
Ritengo
infatti che la scomparsa del previgente sesto comma dell’art. 155 c.c., decretata dalla
riforma del 2006 (secondo cui «In ogni caso il giudice può per gravi motivi
ordinare che la prole sia collocata presso una terza persona o, nella
impossibilità, in un istituto di educazione») non impedisce al giudice –
chiamato comunque ad adottare i provvedimenti relativi alla prole con esclusivo
riferimento all’interesse morale e materiale di essa (art. 155, comma secondo,
prima parte, c.c.) – di disporre
il collocamento dei figli minori presso terze persone, per esempio i
nonni o altri parenti nell’eventualità che nessimo dei genitori sia in grado di
occuparsi adeguatamente dei figli.
Come
stabilito in precedenza dalla giurisprudenza di legittimità, si tratta del
resto di un affidamento
che il giudice può
disporre utilizzando quei larghi poteri che la legge gli attribuisce in contemplazione dell’esclusivo e superiore
interesse del minore (cfr. Cass., 7 febbraio 1995, n. 1401, in Giur. it., 1996, I, 1, c. 538 ss.; cfr.
inoltre Cass., 8 maggio 2003, n. 6970, in Fam.
dir., 2003, p. 319 ss.).
Del
resto, nonostante le discordi opinioni dottrinali sul punto, la giurisprudenza
intervenuta dopo
l’entrata in vigore della l. 2006/54,
ha fatto talvolta applicazione
dell’affidamento a terze persone, conformemente, a tacer d’altro, alla
locuzione contenuta nell’ail. 155 c.c. che consente al giudice di adottare «ogni altro provvedimento
relativo alla prole». Così, ad esempio, una pronunzia di merito ha
valorizzato la costruzione di una categoria di provvedimenti atipici che il
giudice è abilitato ad assumere nell’interesse del minore, ai sensi del secondo
comma dell’art. 155 c.c., affidando il minore ai nonni (cfr. Trib. Salerno, 20
giugno 2006 citata al sito web
seguente: http://www.giustizia.catania.it/formazione/190407/pappalardo.pdf,
p. 14. V. inoltre Trib. Min. Milano, 12 luglio 2006, in Fam. pers. succ., 2007, p. 82, in una controversia ex art. 317-bis c.c. tra genitori naturali, ha affidato i minori, collocati
presso la madre, ai servizi sociali; Trib. Bologna, l° ottobre 2007, ined., ha
del pari disposto l’affidamento dei minori ai servizi sociali).
Anche sotto questo profilo, quindi,
omo- ed etero-genitorialità, famiglia composta e famiglia ricomposta,
mostrerebbero di essere null’altro che due facce della stessa medaglia.