LEZIONI SUL PATTO
DI FAMIGLIA
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Il profilo giuridico della trasmissione
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Il divieto dei patti successori e le
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Giorgi, I patti sulle successioni
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generale, Delazione e acquisto dell’eredità-divisione ereditaria, 2a
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Capo V-bis (1)
Del patto di
famiglia
(1) Capo (da
art. 768-bis ad art. 768-octies) inserito dalla Legge 14 febbraio
2006, n. 55.
Nozione. — È patto di famiglia il contratto con
cui, compatibilmente con le disposizioni in materia di impresa familiare e nel
rispetto delle differenti tipologie societarie, l’imprenditore trasferisce, in
tutto o in parte, l’azienda, e il titolare di partecipazioni societarie
trasferisce, in tutto o in parte, le proprie quote, ad uno o più discendenti.
Sommario: 1. Generalità. Ratio
dell’istituto. — 2. Rapporti con il principio
dell’autonomia privata. — 3. Immediata efficacia traslativa
del patto. Esclusione della riferibilità al contratto a favore di terzi. — 4. Rapporti con la donazione. Conseguenze in tema di comunione
legale tra coniugi. — 5. Natura del patto di famiglia. — 6. Rapporti con il divieto dei patti successori. — 7. I soggetti dei trasferimenti: il disponente e la questione
della sua qualità di imprenditore. — 8. I soggetti dei
trasferimenti: discendenti e ascendenti. — 9. Oggetto
dell’attribuzione del disponente. Il trasferimento dell’azienda. — 10. Oggetto dell’attribuzione del disponente. Il
trasferimento delle partecipazioni societarie. — 11.
Costituzionalità della limitazione all’azienda e alle partecipazioni
societarie. Il caso della divisio inter
liberos coinvolgente altri beni.
1 Generalità. Ratio dell’istituto. 1.1. L’istituto del patto di famiglia è stato
introdotto nel tessuto del codice per effetto della 1. 14 feb.
2006/55, mediante la quale il legislatore ha provveduto ad inserire, quale
sede, appunto, della nuova disciplina, un nuovo Capo, identificato come il V-bis, (contenente gli articoli da 768-bis a 768-octies c.c.), anziché il
VI; la giustificazione di questa apparente anomalia è fornita in Oberto 2006, 19, nt. 32, ove si pone in
luce che la scelta di introdurre un capo numerato come V-bis (e non VI) all’interno di un titolo (il IV) del libro secondo
del c.c., che di capi ne conta solo cinque, sebbene contraria ad ogni logica
apparente, sembra rispondere ai criteri di tecnica legislativa contenuti nella
Circolare del Presidente del Senato in data 20 aprile 2001, dal titolo «Regole
e raccomandazioni per la formulazione tecnica dei testi legislativi». La
predetta novella ha altresì modificato l’art. 458, all’inizio del cui primo
periodo figurano ora le seguenti parole: «Fatto salvo quanto disposto dagli
articoli 768-bis e seguenti». 1.2.
L’intento perseguito dal legislatore appare volto a favorire il passaggio generazionale dei beni aziendali
tramite uno strumento il più possibile «blindato» contro possibili attacchi da
parte di legittimari che dovessero ritenersi, una volta apertasi la successione
del disponente, in qualche modo lesi da siffatte disposizioni. La ratio è dunque quella di preservare
l’integrità e continuità dell’impresa nei passaggi generazionali, pur nell’ottica
di una conciliazione di questo obiettivo con la tutela della posizione dei
legittimari (Petrelli 2006, 40l
ss.; Caccavale 2006, 32). 1.3. Il sostrato socio-economico da cui deriva la cennata esigenza è quello
di un sistema capitalistico, qual è il nostro, caratterizzato dalla diffusione
in numero assai elevato di imprese di piccole e medie dimensioni: imprese
rispetto a cui si staglia la figura del «fondatore», quale soggetto che avverte
inevitabilmente, ad un certo punto, la necessità di selezionare tra i propri
discendenti il più dotato di attitudini imprenditoriali per investirlo della leadership nella gestione dei beni
produttivi (Delle Monache 2009,
739). 1.4. La lettura del resoconto
della 552a seduta della Commissione Giustizia della Camera dei Deputati
(26 gennaio 2006) consente di desumere che «le iniziative in titolo intervengono sulla materia del patti
successori che il vigente articolo 458 del codice civile vieta»; più oltre
il medesimo relatore osserva che «gli articolati in discussione propongono di
conciliare il diritto dei legittimari – che non è in alcun modo posto in
discussione – con la giusta esigenza di assicurare continuità all’impresa, in
linea con il mutamento dei bisogni della società che richiedono un parziale
superamento del divieto d[e]i patti successori». Sempre ad avviso del relatore,
le disposizioni in esame assicurano «in modo adeguato la tutela dei diritti dei
legittimari che (…) sono chiamati a partecipare all’atto dispositivo
dell’impresa ricevendo dal beneficiario della stessa adeguato ristoro
patrimoniale». 1.5. Qualche
indicazione ulteriore proviene dalla lettura delle relazioni che accompagnavano
due delle proposte di legge poi
confluite nel testo, successivamente rimaneggiato e definitivamente approvato
in tema di patto di famiglia, vale a dire il disegno di legge S/1353/XIV
(«Nuove norme in materia di patti successori relativi all’impresa»), comunicato
alla Presidenza del Senato il 23 aprile 2002 e il disegno di legge C/3870/XIV
(«Introduzione dell’articolo 734-bis
del codice civile, in materia di patti successori d’impresa»), presentato l’8
aprile 2003 alla Camera dei Deputati. 1.6.
Le relazioni, dopo avere evocato il principio ex art. 458 c.c., affermano che «va diffondendosi sempre più, sia
nel mondo accademico, sia in quello delle professioni, sia nella pubblica
opinione, la convinzione della necessità, se non di annullare tali divieti,
quanto meno di ridimensionarli, ammettendone deroghe sempre più ampie; infatti
la rigidità del nostro ordinamento in materia contrasta non solo con il
fondamentale diritto all’esercizio dell’autonomia privata, riconosciuto e
tutelato in via generale dal codice civile e, ancor più, dalla Costituzione, ma
altresì con la necessità di garantire la dinamicità degli istituti collegati all’attività
di impresa, assicurando la massima commerciabilità
dei beni nei quali si traduce giuridicamente l’attività stessa: l’azienda,
nella quale si realizza l’impresa individuale, e le partecipazioni sociali
nelle quali si concretizza l’impresa collettiva, quella svolta cioè in forma
societaria» (v. la relazione al disegno di legge S/1353/XIV). 1.7. Per la dottrina che, in epoca precedente alla novella del 2006, aveva
iniziato ad interrogarsi su un possibile superamento del divieto dei patti
successori, cfr. Lenzi, Il problema dei patti successori tra diritto
vigente e prospettive di riforma, R NOT, 1989, 1209 ss.; Rescigno, Trasmissione della ricchezza e divieto dei patti successori, V NOT, 1993, 1281 ss.; Id., Attualità
e destino dei patti successori, in
Aa.Vv.,
La trasmissione familiare della
ricchezza. Limiti e prospettive di riforma del sistema successorio, Padova,
1995, 1 ss.; Caccavale e Tassinari, Il divieto dei patti successori tra diritto positivo e prospettive di
riforma, RDP, 1997, 74 ss.; Roppo, Per
una riforma del divieto dei patti successori, RDP, 1997, 5 ss.; Ieva 1997, 1371 ss.; Dogliotti, Rapporti patrimoniali tra
coniugi e patti successori, FD, 1998, 293 ss.; Zoppini 2000, 1265 ss. Giudica «inevitabile alla luce del
quadro europeo» l’abolizione del divieto dei patti successori anche S. Patti, Regime patrimoniale della
famiglia e autonomia privata, F, 2002, 312. Per uno studio comparatistico
del divieto dei patti successori cfr. Zoppini,
Le successioni in diritto comparato,
in Aa. Vv., Trattato di
diritto comparato, a cura di Sacco, Torino, 2002, 155 ss. Per le
riflessioni storiche sull’origine dell’istituto cfr. Oberto 2006, 18 ss. 1.8.
La relazione al secondo dei disegni di legge citati (C/3870) ricorda inoltre
che «analogo impulso riformatore proviene oggi dalla stessa Commissione europea, come risulta dalla
comunicazione n. 98/C 93/02 relativa alla trasmissione delle piccole e medie
imprese, pubblicata nella Gazzetta Ufficiale delle Comunità europee n. C93 del
28 marzo
2 Rapporti con il principio dell’autonomia
privata. 2.1. Si è rimarcato che il patto di famiglia si è venuto a
collocare in quella «stagione della
negozialità» che da alcuni anni caratterizza i rapporti familiari, fondati o
meno sul matrimonio (Oberto 2006,
12 ss.). Sotto questo profilo l’istituto non solo si accomuna a quel filone
dottrinale e giurisprudenziale che da un po’ di tempo a questa parte esalta
l’autonomia negoziale di coniugi e conviventi, sia nella fase «fisiologica» che
in quella «patologica» del loro rapporto, ma si affianca anche ad alcune novità
legislative che sono venute a riconoscere expressis verbis l’esistenza
di «contratti disciplinati dal diritto di famiglia», o a consentire «atti di
destinazione per la realizzazione di interessi meritevoli di tutela riferibili
a persone con disabilità», ex art.
2645-ter c.c., o, ancora ad aprire
ulteriori spazi alla materia degli accordi nell’ambito delle famiglie legittime
e di fatto in crisi, nel contesto della riforma del 2006 sull’affidamento
condiviso (sul tema, anche per ulteriori riferimenti, cfr. Oberto, Contratto e famiglia, Aa.Vv., Trattato
del contratto, a cura di Roppo, VI, Interferenze,
a cura di Roppo, Milano, 2006, 107 ss., 133 ss.). 2.2. La peculiare disciplina del patto di famiglia consente di
estrapolare conclusioni che vanno al di là della semplice constatazione del
ruolo che la negozialità è venuta ad assumere nei rapporti e nelle dinamiche
familiari. La prima osservazione attiene alla assoluta parità che, anche in
relazione a questo istituto – esattamente come per le novità introdotte dalla
legge sull’affidamento condiviso – assumono famiglia legittima e famiglia di fatto, posto che l’elemento
«familiare» che qui viene in considerazione non è dato tanto dal matrimonio
(che nel patto di famiglia può rilevare solo in quanto viene ad aggiungere un
legittimario), bensì dal vincolo fondamentalmente «di sangue» che lega tra di
loro i contraenti. Il che – specie se visto alla luce di recenti interventi legislativi,
che hanno dato luogo, nei più disparati settori, ad un’equiparazione tra
convivenza more uxorio e unione
matrimoniale: dalle disposizioni in tema di violenza domestica, alla
procreazione assistita, all’amministrazione di sostegno, all’affidamento condiviso
– conferma ancora una volta come, a dispetto e al di là delle declamazioni
«politiche» e di principio, famiglia legittima e famiglia di fatto si
presentino sempre di più, anche nella nostra società italiana, come le due
facce della stessa medaglia: e ciò appare vero in modo particolare, ancora una
volta, proprio sul terreno dell’autonomia privata (Oberto 2006, 15 s.). 2.3.
Si è poi posto in luce un effetto
«moltiplicatore di negozialità endofamiliare» del patto di famiglia. Si è
infatti evidenziata sul punto l’assoluta irrilevanza della sopravvenienza
rispetto alle eventuali rinunce espresse dai legittimari in sede di stipula del
contratto in esame, avuto riguardo ai diritti che – al momento dell’apertura
della successione del disponente – potrebbero loro competere per effetto degli
atti dispositivi gratuiti a vantaggio di uno solo (o solo di alcuni) di essi (e
ciò anche di fronte ai successivi mutamenti di valore dei cespiti aziendali,
dell’avviamento e in genere dei beni oggetto del patto di famiglia: in questo
senso, su quest’ultimo rilievo, Oberto
2006, 14 ss.; v. anche Petrelli
2006, 437). Quanto sopra, ovviamente, a prescindere dal fatto che la situazione
patrimoniale del disponente venga a mutare, magari radicalmente, al momento del
suo decesso, rispetto a quella presente all’atto della stipula del patto di
famiglia. 2.4. Ciò significa che il
discendente non assegnatario dell’azienda (o di quote sociali) potrebbe essere
indotto a sottoscrivere un patto di famiglia contenente una rinunzia totale o
parziale ai diritti che, come legittimario, gli competerebbero su quei beni,
qualora la successione si aprisse in quel momento, «confidando» su di un
residuo patrimonio del disponente che in quel momento si presenta, anche a
prescindere dall’azienda o dalle quote sociali oggetto del patto, come
particolarmente consistente. Ma siffatta rinunzia
conserva intatto il suo effetto (cioè quello di precludere
irrimediabilmente la possibilità di esperire l’azione di riduzione) anche nel
caso in cui, per successive vicende, il patrimonio del disponente dovesse, al
momento del suo trapasso, magari molti anni dopo la firma del patto di
famiglia, sensibilmente contrarsi o addirittura ridursi a zero. 2.5. L’insegnamento che si trae
dall’evidenziata indifferenza del legislatore rispetto alla potenzialmente
devastante portata della rinunzia di
un soggetto a diritti la cui concreta determinazione è rinviata nel tempo (e ad
un tempo che può essere anche molto remoto, rispetto al tempo della rinunzia),
non sembra poter rimanere senza effetto anche in altri campi, pure
caratterizzati dalla presenza di stretti vincoli familiari. 2.6. Si è instaurato in proposito un
rapporto con gli accordi preventivi tra
coniugi o tra conviventi more uxorio in vista di un’eventuale crisi
del legame. Qui, tra gli argomenti contrari, quelli sicuramente più «ad
effetto» fanno leva proprio sull’«ingiustizia» del principio che inchioda le
parti al rispetto d’un accordo stipulato magari molti anni prima, nella vigenza
di una situazione di fatto che può essere ben diversa rispetto a quella in cui
la crisi del rapporto viene successivamente a maturare e ad esplodere. Ora,
l’introduzione delle segnalate regole in tema di patto di famiglia sembra voler
dimostrare come, per il legislatore, l’esigenza di stabilità e di certezza nel
corso del tempo dei rapporti patrimoniali, all’interno del complesso e mutevole
intreccio dei legami familiari e delle alterne vicende che possono intervenire,
debba prevalere anche rispetto a considerazioni quali quella della possibile
incidenza di siffatte vicende su rinunce dai membri della famiglia
eventualmente espresse, magari molto tempo addietro, rispetto a diritti non
ancora maturati (Oberto 2006, 17).
3 Immediata efficacia traslativa del patto. Esclusione della riferibilità al contratto
a favore di terzi. 3.1. Una
notevole divergenza di vedute si registra, sin dai primi commenti agli artt.
768-bis ss. c.c. sulla natura e sugli
effetti del patto di famiglia. La prima questione attiene all’idoneità del
negozio a determinare un’efficace traslazione dei diritti, già durante la vita
del disponente. Qui va innanzi tutto tenuto presente che il patto di famiglia è
un contratto, come del resto espressamente stabilito dall’art. 768-bis
c.c. («E’ patto di famiglia il contratto…»), ed un contratto inter vivos
(cfr. Caccavale 2006b, 10 ss.,
secondo cui la natura inter vivos del
patto di famiglia va riconosciuta «per la semplice ma decisiva ragione che il
patto stesso non è disciplinato quale atto mortis
causa, mentre, se tale fosse proprio la sua natura, occorrerebbe anche che,
nell’ordinamento positivo, fosse contemplata una specifica regolamentazione, a
essa natura funzionale, altrimenti irreperibile»). 3.2. Peraltro, non vi è dubbio che dal predetto accordo
scaturiscano anche effetti mortis
causa. Si pensi, in particolare, a quanto disposto dall’ult. cpv.
dell’art. 768-bis, a mente del quale «Quanto ricevuto dai contraenti non
è soggetto a collazione o a riduzione». A ciò potrà aggiungersi anche il primo
comma dell’art. 768-sexies c.c., secondo cui «All’apertura della
successione dell’imprenditore, il coniuge e gli altri legittimari che non
abbiano partecipato al contratto possono chiedere ai beneficiari del contratto
stesso il pagamento della somma prevista dal secondo comma dell’articolo 768-quater,
aumentata degli interessi legali». E’ dunque certo che il contratto in oggetto
appare idoneo a produrre anche effetti per il periodo successivo alla morte del
disponente. 3.3. Si è avanzata in
dottrina (per i riferimenti e le relative critiche cfr. Oberto 2006, 45 ss.) la tesi secondo cui il patto di
famiglia darebbe vita ad un negozio i cui effetti potrebbero prodursi solo una volta apertasi la successione.
3.4. Siffatta prospettazione si
scontra però irrimediabilmente con più di un dato. In primo luogo, la
considerazione dell’evoluzione storica dell’istituto (su cui cfr. Oberto 2006, 18 ss.) evidenzia la
tendenza, dalla codificazione napoleonica in poi, a consentire l’anticipazione
della successione a mezzo negozi irrevocabili, in quanto dotati di immediata
efficacia. In secondo luogo, la ratio dell’istituto, volta a
favorire e «blindare» un passaggio generazionale dell’azienda e delle
partecipazioni societarie verrebbe frustrata ogni volta in cui l’imprenditore volesse
(come del resto per lo più accade nella pratica) privarsi in vita della
titolarità, o anche solo della nuda proprietà, dei beni e concedersi la
«meritata pensione». Vi è da chiedersi che cosa tale soggetto potrebbe fare e
la risposta non potrebbe essere individuata se non nel ricorso ad uno dei
«tradizionali» strumenti sino ad ora in uso e, tra questi, in primis alla donazione. Una donazione che, però, non
beneficerebbe della disattivazione della tutela dei legittimari propria del
patto, con conseguente evidente ed ingiustificata disparità di trattamento
rispetto al passaggio, in ipotesi legato al momento della morte del disponente
(Oberto 2006, 45 ss.). 3.5. Si è inoltre rilevato che, se il
disponente, dopo la stipula del patto (sempre nella denegata ipotesi in cui, per absurdum, si ritenesse il patto non
dotato di effetti traslativi immediati), dovesse decidere di «ritirarsi» e di
«passare la mano», egli non potrebbe farlo se non risolvendo (con il consenso,
ovviamente, di tutti i contraenti) il patto di famiglia, e stipulando una
donazione, soggetta, questa volta, a collazione e a riduzione. Si è pertanto
suggerito di seguire il tenore letterale dell’art. 768-bis c.c., dove il legislatore ha reso nel modo più evidente
l’intento di dotare il patto di effetto
traslativo immediato, mediante l’impiego dell’espressione «trasferisce»,
che, secondo il significato reso evidente dall’uso del tempo presente, denota
proprio siffatto intento. Inoltre l’interpretazione sistematica dimostra che là
ove il legislatore ha inteso riferirsi ad un negozio dotato di efficacia
successiva al decesso della parte, tale intenzione è stata esplicitata mediante
un’espressione del genere «per il tempo in cui avrà cessato di vivere» (cfr.
art. 587 c.c.). Il mancato impiego di siffatta espressione rende dunque
evidente che il patto di famiglia ha ad oggetto un effetto traslativo non
differito al momento della morte del disponente (Oberto 2006, 45 ss.). 3.6.
Infine si è messo in luce che l’art. 768-quater,
ult. cpv., c.c. esonera espressamente da
collazione i trasferimenti oggetto del patto. Ora, non si riesce a
comprendere quale significato avrebbe l’esonero da collazione se riferito ad
una disposizione che dovesse prendere effetto solo dalla morte del disponente,
posto che l’istituto ex artt. 737 ss.
c.c. ha tratto, per sua essenza e definizione, solo ed esclusivamente ad
attribuzioni liberali compiute in vita e con efficacia inter vivos dal de cuius.
Quanto sopra non toglie, naturalmente, che il patto dispieghi anche effetti mortis causa, ma questi ultimi risiedono
nella esistenza di un patto successorio dispositivo (e, per certi aspetti,
anche rinunziativo), ma non certo di un patto successorio istitutivo (Oberto 2006, 45 ss.). 3.7. Nel senso che il patto di famiglia
non costituisca un atto a causa di morte,
atteggiandosi, invece, quale fonte di una o più attribuzioni inter vivos compiute dall’imprenditore o
dal titolare di partecipazioni societarie, si esprime la dottrina assolutamente
maggioritaria: cfr. Amadio 2006, 71;
Zoppini 2006, 275; Delle Monache, Successione necessaria e sistema di tutele del legittimario,
Milano, 2008, 131 ss.; Gazzoni
2006, 217 s.; Ieva 2007, 50; Oberto 2006, 45 ss.; in altro senso, Balestra 2006, 372 ss.; inoltre, Sicchiero 2006, 1264 ss. (per cui la causa
del patto di famiglia, da intendersi nei termini di una c.d. «causa di
successione», si identificherebbe con quella propria dei patti successori
istitutivi). 3.8. Secondo una parte
della dottrina il contratto in cui il patto di famiglia si sostanzia andrebbe
ricondotto al negozio a favore di terzi
(Caccavale 2006b, 13 ss., 17 ss.).
A questa conclusione dovrebbe indurre la circostanza che la legge preveda,
quale effetto principale, un trasferimento avente ad oggetto un’azienda o quote
societarie in favore di uno o più discendenti e, dall’altra, l’obbligo di tali
ultimi beneficiari di effettuare determinate prestazioni verso gli altri
legittimari, non destinatari dei predetti trasferimenti. 3.9. In senso contrario
si è obiettato che, mentre necessario presupposto dell’archetipo negoziale ex artt. 1411 ss. c.c. è un accordo tra
due (o più) soggetti, per il quale taluni effetti si produrranno verso uno o
più soggetti estranei alla pattuizione, in questo caso gli effetti prodotti dal
patto di famiglia verso i legittimari non destinatari del trasferimento
d’azienda (o delle quote sociali) investono dei soggetti che, se decidono di
aderire all’intesa tra disponente e destinatari dell’azienda o delle
partecipazioni societarie, sono vere e proprie parti del contratto e quindi non
terzi (Oberto 2006, 67 ss., 126
ss.).
4 Rapporti con la donazione. Conseguenze in
tema di comunione legale tra coniugi. 4.1. Secondo parte della dottrina, il patto di famiglia andrebbe ricondotto all’archetipo della donazione. In questo senso militerebbe,
innanzi tutto, l’impiego, da parte dell’art. 768-sexies c.c., del termine «beneficiari», per designare gli
assegnatari dell’azienda o delle quote, ciò che evidenzierebbe che nella specie
si dovrebbe trattare di «negozio gratuito con cui si anticipano in vita
disposizioni di tipo testamentario» (sul punto, in senso dubitativo, v. ex multis Buffone 2006; Salomone
2006; per la natura donativa del patto si esprime Condò, Il
patto di famiglia, in FederNotizie,
marzo 2006, 59). 4.2. D’altro
canto, occorre però anche tenere conto della collocazione sistematica delle disposizioni al di fuori del titolo
consacrato alle donazioni, nonché dell’assenza di animus donandi, avuto riguardo al fatto che, in questo caso,
l’essenziale gratuità del negozio non corrisponde all’intento di arricchire la
sfera giuridica altrui, ma denoterebbe solo il desiderio di anticipare la
propria successione nell’interesse dell’impresa (Salomone, op. loc. ultt. citt.), ciò che,
secondo una parte degli Autori, contribuirebbe, dunque, ad escludere il
carattere donativo dell’attribuzione (Buffone,
op.
loc. ultt. citt.). Si è poi rilevato che l’utilizzo del termine «beneficiari» non sembra fornire
argomenti esegetici di sorta. Un’analisi delle disposizioni codicistiche in cui
tale espressione – vuoi al singolare, vuoi al plurale – compare (cfr. artt.
1865, 1873, 1900, 1920, 1921, 1922, 1923, 2435 c.c.) non appare foriera di
particolari frutti sul piano ermeneutico. Inoltre, non sembra che l’animus
donandi sia escluso dall’intento di anticipare la propria successione (Oberto 2006, 50 s.). 4.3. Peraltro, numerosi sembrerebbero
gli elementi in grado di orientare l’interprete – ad una prima analisi –
proprio verso la donazione (sul punto cfr. Merlo,
Il patto di famiglia, in CNN notizie. Notiziario di informazione del
Consiglio Nazionale del Notariato, 14 febbraio 2006b, 2 ss., dell’articolo
in formato .pdf; nello stesso senso v. anche Caccavale
2006b, 24 ss.), per lo meno avuto riguardo all’attribuzione effettuata dal
disponente al discendente destinatario dell’azienda o delle quote sociali. Si
pensi, in primo luogo, all’assenza di ogni riferimento ad un corrispettivo
della cessione da corrispondersi al cedente i beni aziendali o le
partecipazioni societarie. Si ponga mente poi al fatto che il disposto
dell’art. 768-quater, ultimo
comma, c.c. sottrae alla collazione ed
all’azione di riduzione l’oggetto del patto di famiglia, mentre il testo
del disegno di legge S/2799/XIII, presentato il 2 ottobre 1997, definiva
espressamente il patto di famiglia come atto di donazione. 4.4. Secondo una parte della dottrina si tratterebbe di una donazione modale, in cui il modus sarebbe costituito dall’obbligo di
liquidazione di cui all’art. 768-quater cpv. c.c., con la conseguenza
che siffatto onere, secondo quanto stabilito dall’art. 793 c.c., dovrebbe
produrre i suoi effetti anche qualora il suo ammontare arrivasse ad assorbire
l’intero arricchimento del donatario (Merlo
2006b, 3). 4.5. Di contro si
è però obiettato che l’adempimento dell’onere sarebbe qui contestuale alla conclusione del contratto e,
soprattutto, che se i legittimari non rinunziano in tutto o in parte ai loro
diritti, la liquidazione della quota di costoro è elemento costitutivo ad validitatem (e non già meramente
accidentale) del patto: ciò che appare incompatibile con il concetto stesso di
modo; se invece i legittimari non assegnatari rinunziano ai loro diritti il
«modo» non viene neppure in considerazione (cfr. Petrelli 2006, 407; per ulteriori approfondimenti sul tema
cfr. Oberto 2006, 45 ss.). 4.6. La questione dei rapporti con la
donazione influisce sulla soluzione di alcuni ulteriori problemi posti dal
patto di famiglia. Per ciò che attiene, in primo luogo, alla comunione legale tra coniugi, si pone
l’interrogativo circa la caduta o meno in comunione di quanto ricevuto sia dai
soggetti destinatari dell’azienda (o delle quote sociali), sia dagli altri
legittimari. Per quanto riguarda il primo gruppo, sembra potersi affermare,
che, in considerazione del già evidenziato carattere indubbiamente liberale dell’attribuzione, dovrebbe
trovare applicazione il disposto dell’art. 179, lett. b), c.c., tanto più che,
come noto, l’interpretazione prevalente (ed al momento assolutamente unanime
nella giurisprudenza di legittimità) estende l’applicazione della norma in
oggetto al campo delle donazioni indirette (sul tema v. per tutti Oberto, La comunione legale tra coniugi, TR. C.M., Milano, 2010, 961 ss.).
Siffatto profilo dovrebbe dunque risultare assorbente anche in relazione alla
possibile prospettazione di tali acquisti alla stregua di beni destinati
all’esercizio dell’impresa del coniuge acquirente (o incrementi dell’azienda di
quest’ultimo), ex art. 178 c.c. 4.7. A diverse conclusioni si dovrebbe
invece pervenire per le attribuzioni in
favore degli altri legittimari, atteso che il denaro o i beni ricevuti sono
trasmessi dall’assegnatario dell’azienda o delle partecipazioni societarie non
già per spirito di liberalità, ma per adempiere ad un preciso obbligo imposto
dalla legge, mentre, per quanto attiene al rapporto verso il disponente,
neppure può parlarsi di donazione indiretta da parte sua (cfr. Oberto, La comunione legale tra coniugi, loc. ult. cit.). 4.8. D’altro canto non può nemmeno
invocarsi l’art. 179, lett. b), c.c. in relazione al disposto concernente i
beni acquisiti «per effetto di (…) successione», posto che il fenomeno
acquisitivo descritto dall’art. 768-quater c.c., sebbene in qualche modo
legato a profili successori, non è certo riconducibile all’acquisto mortis
causa. Si è quindi segnalata l’opportunità di prevedere una modifica legislativa, attesa l’evidente
«prossimità» delle attribuzioni in discorso al campo successorio. Dal punto di
vista pratico sarà comunque opportuno che il notaio prospetti tale problema ai
legittimari ed eventualmente – avuto riguardo al noto revirement operato
nel 2003 dalla Corte di legittimità (e ribadito nel 2009), che è venuta a
sottrarre la possibilità di impedire la caduta in comunione mediante
l’espressione di un rifiuto preventivo di coacquisto – consigli agli
interessati di previamente procedere alla stipula
di una convenzione di separazione dei beni (Oberto,
La comunione legale tra coniugi, loc.
ult. cit.). 4.9. La soluzione del
problema del rapporto con la donazione dispiega altresì effetti con riferimento
alla forma del patto di famiglia (su
cui v. infra, sub art. 768-ter c.c.).
Inoltre, il rifiuto della tesi che vede nel patto di famiglia una donazione
porta inevitabilmente anche ad escludere dal novero dei relativi partecipanti i
figli nascituri concepiti o non ancora
concepiti. D’altro canto, per le stesse ragioni, dovrebbe ritenersi fuori
gioco l’art. 437 c.c., per cui il destinatario dell’azienda o delle
partecipazioni sociali non sarebbe tenuto, per effetto del patto, a prestare
gli alimenti all’ascendente. Infine,
dovrebbe risultare inapplicabile l’art. 774
c.c., così come l’art. 778 c.c.
5 Natura del patto di famiglia. 5.1. Si è rilevato che, se il patto di famiglia consistesse
nella sola attribuzione in favore dei destinatari dell’azienda o delle quote
sociali, magari «compensata» da attribuzioni effettuate dallo stesso ascendente
nei riguardi degli altri legittimari, la figura di riferimento più sicura
potrebbe essere costituita proprio dalla donazione.
Ed in questo senso potrebbero deporre i già evidenziati elementi costituiti
dalla sottrazione delle attribuzioni di cui al patto alla collazione ed
all’azione di riduzione, nonché il dato «storico» fornito dal disegno di legge
S/2799/XIII. Elementi, questi, peraltro, «reversibili», nel senso che la
sancita esclusione della collazione e dell’azione di riduzione potrebbe
semplicemente sottolineare l’esigenza di fugare ogni dubbio sul carattere non
donativo dell’atto, mentre il mancato inserimento del richiamo espresso
all’istituto ex artt. 769 ss. c.c. potrebbe essere letto come una prova
dell’intenzione del legislatore di dar vita ad un contratto del tutto nuovo (Oberto 2006, 52 ss.). 5.2. E’, però, innegabile che – al di
là dell’attribuzione dell’azienda o delle partecipazioni societarie – un altro
elemento essenziale del contratto è costituito dalla liquidazione delle quote degli altri legittimari, o, in
alternativa, dalla rinunzia da parte di costoro. 5.3. Al riguardo si è prospettata (Lupetti
2006, 3) la presenza di una causa non già liberale, ma solutoria, dal momento che le attribuzioni in cui si sostanzia la
liquidazione dei diritti dei legittimari non destinatari dell’azienda o delle
quote sociali, pur se avvengono senza corrispettivo, sono in realtà finalizzate
a consentire che la cessione dell’azienda (o delle partecipazioni societarie)
non possa essere in futuro messa in discussione. Tali liquidazioni non possono
dunque qualificarsi come atti di liberalità, in quanto è assente
nell’assegnatario di azienda l’animus donandi. Nel caso, poi, alternativo di rinunzia,
si potrebbe parlare di liberalità, ma di una liberalità che non proviene certo
dall’ascendente che assegna l’azienda o le quote sociali, bensì proprio dai
legittimari. 5.4. Si è rimarcato poi
(cfr. Oberto 2006, 62 s., 104 ss.,
118 ss.) che neppure può parlarsi di
donazione indiretta da parte del disponente, attesa l’impossibilità di
ravvisare, da parte dei legittimari, la presenza di un «puro» arricchimento,
dal momento che il vantaggio da essi conseguito si scambia con il loro
sacrificio, consistente nella definitiva rinunzia a far valere pretese
successorie sui beni trasferiti, in cambio di quanto ricevuto (o, addirittura,
in caso di rinunzia, in cambio di nulla). 5.5.
Si è quindi proposto, per la ricostruzione dell’istituto, di partire dalla
considerazione dei due fondamentali rapporti giuridici di cui il patto
di famiglia si compone: l’attribuzione dal disponente al destinatario
dell’azienda (o delle quote sociali) e l’attribuzione effettuata da
quest’ultimo agli altri legittimari (ovvero, in alternativa, la rinunzia di
costoro). Sulla base di tale rilievo se ne è concluso che il patto di famiglia
costituisce un nuovo negozio giuridico tipico e nominato (Oberto 2006, 53 s.; questa soluzione è
anche prospettata da Merlo 2006b,
4; nello stesso senso v. inoltre Petrelli
2006, 407, il quale sottolinea come occorra rinunciare ad incasellare il patto
di famiglia in uno degli schemi tipici preesistenti alla novella; nel senso che
il patto integra una nuova figura contrattuale tipizzata dal legislatore cfr.
poi anche Vitucci 2006, 448 s.; Amadio 2006, 69; Id. 2006b, 867; Inzitari, Dagna, Ferrari
e Piccinini 2006, 50 e 54; Fusaro 2008, 867; contra, e nel senso che il patto di famiglia sia riducibile allo
schema della donazione modale, Caccavale
2006, 48; si richiama a quest’ultima e alla disciplina normativa per essa
prevista – pur riconoscendo come necessaria la partecipazione al patto di tutti
i legittimari in pectore esistenti –
anche A. Palazzo 2007, 263, 267,
secondo cui il legislatore avrebbe gravato l’assegnatario con un duplice onere,
avente ad oggetto, per un verso, la continuazione efficiente dell’attività imprenditoriale
e, per l’altro, la liquidazione della quota dei legittimari esclusi
dall’attribuzione preferenziale). 5.6.
Siffatto nuovo tipo di negozio è sicuramente distinto tanto dalla donazione che dal testamento, ed appare dotato
di una sua autonoma disciplina, che realizza finalità distinte. Così, accanto a
quella di liberalità, che
contraddistingue il trasferimento dell’azienda (o di partecipazioni) a favore
del (o dei) discendenti, s’affianca una finalità solutoria, che concerne la liquidazione – imposta
dalla legge – dei diritti di legittima spettanti ai legittimari non assegnatari
dell’azienda (o delle partecipazioni societarie), salvo loro rinuncia (Oberto 2006, 52 ss.; Lupetti 2006, 3; sembra non comprendere
questa osservazione Amadio, L’utilizzo
del patto di famiglia, Relazione al convegno di studi organizzato da Optime
- Formazione Studi e Ricerche, svoltosi a Milano nei giorni 12 e 13 novembre
2009, 13, secondo il quale la funzione solutoria potrebbe caratterizzare
soltanto l’adempimento del debito liquidativo, «senza nulla dire sul fondamento
che giustifica il costituirsi del debito corrispondente», laddove la tesi
esposta circa la funzione solutoria delle attribuzioni agli altri potenziali
legittimari è volta proprio a dimostrare che la prestazione del destinatario
dell’azienda o delle partecipazioni societarie è caratterizzata da una funzione
solutoria, intesa quale «prezzo» del sacrificio degli altri legittimari, i
quali rinunziano, sottoscrivendo il patto, ad ogni possibile azione a tutela dei
loro futuri ed eventuali diritti di legittimari in relazione ai trasferimenti
oggetto del patto). 5.7. La tesi di
cui sopra non appare incompatibile con quella, sicuramente convincente, già
prospettata in dottrina (da Lupetti
2006, 4), che ravvisa nella nuova figura una causa unitaria, rappresentata dalla funzione di regolamentazione
dei futuri assetti successori dei legittimari in ordine all’azienda ceduta, ad
instar di quanto da tempo proposto in relazione ai contratti della crisi
coniugale (Oberto, I contratti della crisi coniugale, I,
Milano, 1999, 703 ss.). La causa di questi negozi consiste, invero, nella
determinazione definitiva dell’assetto dei rapporti tra coniugi in crisi, ma,
come tale, può coinvolgere anche attribuzioni in favore di terzi soggetti (si
pensi ai figli), rispetto ai quali siffatti atti dispositivi assolvono finalità
solutorie dell’obbligo di mantenimento, ovvero, quando tali finalità
travalicano, possono anche manifestare un intento liberale. Ne deriva che la
necessità di individuare una figura negoziale nuova, dotata di una sua causa
tipica – quale indiscutibilmente si realizza con il patto di famiglia – non
esclude la possibilità di riconoscere la presenza di distinte funzioni, per i
rapporti che possono (o, come nel caso di specie, debbono) comporlo, la cui
combinazione viene a porre in essere il nuovo tipo di negozio: una funzione
liberale, nell’attribuzione a favore del destinatario (o dei destinatari)
dell’azienda o delle quote sociali, ed una funzione solutoria, nelle attribuzioni
in favore degli altri legittimari. 5.8. Secondo
una diversa prospettiva, il patto verrebbe a connotarsi quale fonte di una
serie di attribuzioni collegate in vista della distribuzione, proporzionale ad
altrettante quote, del valore della massa rappresentata dai beni d’impresa:
saremmo di fronte, in altri termini, ad un insieme di apporzionamenti legati da
un nesso di reciproca subordinazione funzionale, giustificandosi perciò
l’inquadramento della figura qui considerata entro la categoria dei fenomeni funzionalmente divisori. A
conferma dell’esattezza di questa impostazione viene anche richiamato il
meccanismo divisionale di cui all’art. 720, il quale, risolvendosi
nell’acquisto dell’intero bene da parte di uno solo dei condividenti e nella
liquidazione degli altrui diritti di quota mediante il venire in essere di
crediti pecuniari di valore corrispondente, condurrebbe ad un esito identico a
quello ora realizzabile attraverso il patto di famiglia (Amadio 2006, 75; cfr. inoltre, sebbene
con toni più sfumati, Id. 2007,
345 ss.; per l’accostamento del patto ai fenomeni divisionali, inoltre, Zoppini 2006, 275; ad avviso di Ieva 2007, 54, il patto, di cui si
assume che dia luogo ad una successione separata e anticipata, comporterebbe
sia l’implicita devoluzione – in favore dell’assegnatario per la sua quota di
legittima nonché per la disponibile e in favore dei non assegnatari per la sola
quota di legittima a ciascuno spettante – sia la contestuale divisione,
mediante un sistema di conguagli in denaro, di un bene considerato come non
divisibile; in termini critici quanto a tutte tali impostazioni si veda
ampiamente, tuttavia, Delle Monache,
Successione necessaria e sistema di
tutele del legittimario, cit., 154 ss.). 5.9. Altri ancora poi riconosce nel patto un negozio caratterizzato
da una causa successoria, e ciò nel
senso che esso, pur essendo idoneo a determinare il trasferimento attuale dei
beni d’impresa che ne costituiscono l’oggetto, si presenterebbe come
funzionalmente destinato a regolare la successione del disponente rispetto ai
beni medesimi. In questa prospettiva, del tutto irrilevante viene giudicata la
sussistenza di qualsiasi connotato di liberalità, giacché, vertendosi in tema
di successioni, sarebbe la relativa disciplina a dover trovare applicazione,
eccetto che per le regole formali dettate con riguardo al testamento (Sicchiero 2006, 1264 ss.).
6 Rapporti con il divieto dei patti
successori. 6.1. Sul tema dei
rapporti tra patto di famiglia e divieto dei patti successori (su cui v. sub
art. 458 c.c.) va tenuto presente che la proposta di legge n. 3870 dell’8
aprile 2003 – da cui ha preso le mosse il provvedimento normativo in commento –
specificava che «la ratio del provvedimento deve essere rinvenuta nell’esigenza di superare in relazione
alla successione di impresa la rigidità del divieto dei patti successori, che
contrasta non solo con il fondamentale diritto all’esercizio dell’autonomia
privata, ma altresì e soprattutto con la necessità di garantire la dinamicità
degli istituti collegati all’attività d’impresa». A tale notazione fa
poi eco, sul piano normativo, l’espressa modifica, disposta dall’art.
7 I soggetti dei trasferimenti: il disponente
e la questione della sua qualità di imprenditore. 7.1. Il tenore letterale dell’art. 768-bis c.c. («…l’imprenditore trasferisce…») può far sorgere il dubbio
che una delle condizioni necessarie per la stipula di un patto di famiglia sia
costituita dal necessario possesso, in capo al trasferente, della qualità – in
alternativa alla titolarità di partecipazioni societarie – di imprenditore. Il
termine «imprenditore» compare però
non solo nella norma citata, ma anche negli artt. 768-quater e 768-sexies c.c.:
disposizioni, queste, dalle quali appare evidente l’utilizzo di
quell’espressione per designare comunque il disponente, visto che nessuna
menzione è fatta del «titolare di partecipazioni societarie». Ne esce
rafforzata l’impressione che il termine «imprenditore» sia utilizzato qui in
modo improprio e atecnico, con la
conseguenza che il nuovo istituto sarà applicabile anche alle ipotesi in cui il
trasferente sia, sì, titolare d’azienda (o di un ramo di essa), ma non sia
qualificabile come imprenditore ex
art. 2082 c.c. D’altro canto, la tesi dell’inapplicabilità
della normativa a ipotesi in cui il trasferente sia proprietario dell’azienda,
sebbene non imprenditore, lascerebbe comunque insoddisfatti. Basti pensare
all’esclusione che ne deriverebbe nel caso di azienda affittata allo stesso
discendente candidato assegnatario della stessa (Oberto 2006, 79). 7.2.
Neanche per ciò che attiene, poi, al «titolare di partecipazioni societarie», la legge richiede la
qualifica di imprenditore. Del resto non si
reperiscono nel sistema indici sicuri e condivisibili che consentano di limitare
la disciplina a partecipazioni qualificate in senso quantitativo o qualitativo,
anche se che tali elementi avranno, probabilmente, un’influenza pratica, nel
senso che non sarà frequente il ricorso all’istituto in esame per
partecipazioni economicamente poco rilevanti. In senso contrario si è osservato
che considerare il patto di famiglia estensibile a qualsiasi donazione di
partecipazioni – e non già limitato a quella donazione di quote/azioni che
rappresentino la partecipazione al capitale sociale della società nella quale
il donante esplica la propria attività imprenditoriale – consentirebbe di
rivestire con l’involucro del patto di famiglia qualsiasi trasmissione
patrimoniale. Ne conseguirebbe, quindi, che, anche dal punto di vista
oggettivo, partecipazione societaria oggetto del patto potrebbe essere quella
sola «partecipazione rilevante ai fini
della gestione dell’impresa» (così Iannaccone,
Patto di famiglia: ascoltiamo chi
l’ha voluto, in FederNotizie,
marzo 2006, 57), o che «assicuri il controllo su una azienda di famiglia» (così Friedmann, Prime osservazioni sui patti di famiglia, in FederNotizie, marzo 2006, 62;
sostanzialmente nello stesso senso v. anche Bolano
2006, 94, il quale rileva che «solo colui che abbia una partecipazione maggioritaria
al capitale dell’impresa può, quale dominus
effettivo dell’impresa stessa, deciderne l’eventuale trasmissione». Di analogo
avviso è Petrelli 2006, 415 ss.). 7.3. A questa impostazione si può però agevolmente obiettare che, come
rilevato da altri osservatori, risulta enormemente difficile rinvenire una
discriminante che, per ogni tipo di società, in modo esaustivo valga a far discernere,
nell’ambito delle partecipazioni societarie, quelle dotate di apprezzabile
peso nella cura dell’attività sociale e quelle che, invece, ne siano
sprovviste; ne consegue pertanto che, per non sacrificare alle ragioni della
disciplina successoria le une, appare preferibile accettare l’eventualità che,
del nuovo regime, beneficino anche le altre (Caccavale 2006b, 8; Oberto 2006, 80). 7.4. Dal momento che nessun requisito viene richiesto in capo al
trasferente partecipazioni societarie, deve concludersi che la normativa potrà
trovare applicazione anche per il socio
di minoranza e addirittura per il socio «risparmiatore» o solo nudo proprietario. Per contro, l’espressione usata dall’art. 768-bis c.c. («…trasferisce, in tutto o in parte, l’azienda, (…)
trasferisce, in tutto o in parte, le proprie quote…») può far sorgere il dubbio
che non possa essere oggetto del patto un diritto di usufrutto sulle stesse
partecipazioni. Ma la norma in esame – proprio avuto riguardo all’atecnicismo
delle espressioni usate – ben può essere estensivamente letta come facente
riferimento al «titolare di diritti (di ogni genere, purché disponibili),
su aziende o rami d’azienda, nonché su partecipazioni societarie». D’altro
canto, proprio la riserva d’usufrutto costituisce, anche alla luce della
normativa sul patto di famiglia, l’unico sistema in grado di consentire
all’imprenditore di riservarsi, usque ad
vitae supremum exitum, il controllo dell’impresa e pertanto (non solo il
trasferimento del diritto d’usufrutto, ma) anche il trasferimento della sola
nuda proprietà potrebbe ritenersi rientrare nella fattispecie in questione (Oberto 2006, 81; sull’ammissibilità di
un patto di famiglia avente ad oggetto la cessione della nuda proprietà
dell’azienda cfr. Zoppini 2000,
1269).
8. I soggetti dei trasferimenti: discendenti e
ascendenti. 8.1. La norma in commento prevede
che i soggetti destinatari del trasferimento dell’azienda o delle
partecipazioni societarie siano «discendenti».
Ne consegue che non solo il figlio, ma anche il
discendente nipote o pronipote può essere beneficiario delle
attribuzioni in discorso, e ciò indipendentemente dall’eventuale premorienza
del suo ascendente, legittimario del disponente. Peraltro quest’ultimo (cioè il
diretto legittimario del disponente: vale a dire il padre dell’accipiens, o il nonno, a seconda che il
destinatario del trasferimento sia, rispettivamente, nipote o pronipote del
disponente) dovrà necessariamente sottoscrivere il patto, come stabilito dal
successivo art. 768-quater, primo comma, c.c., ove si prevede
testualmente che al contratto debbano partecipare anche il coniuge e «tutti
coloro che sarebbero legittimari ove in quel momento si aprisse la
successione nel patrimonio dell’imprenditore» (Fietta,
Patto di famiglia, in CNN notizie. Notiziario di informazione del
Consiglio Nazionale del Notariato, 14 febbraio 2006, 4, dell’articolo in
formato .pdf). L’imprenditore, dunque, ben potrebbe
decidere di trasferire l’azienda (o la società di cui è «titolare») al nipote
che nell’attività manageriale abbia dato miglior prova del proprio padre, «saltando» così una generazione nella
titolarità e nell’amministrazione dell’impresa di famiglia (ma, in tal caso,
anche gli appartenenti alla «seconda generazione» dovrebbero comunque
partecipare, come legittimari del disponente, all’atto). 8.2. La previsione dei soli discendenti esclude la
possibilità che il disponente possa valersi delle norme del patto per
trasferire azienda o partecipazioni societarie al coniuge o ai suoi fratelli,
o ai discendenti di costoro, o,
ancora, agli eventuali ascendenti.
La scelta è stata giustificata come legata alla necessità di realizzare «un
effettivo passaggio generazionale nella gestione dell’impresa» (così Zoppini 2000, 1272), anche se tale ratio non sembra in grado di spiegare la
motivazione dell’inestensibilità del patto al passaggio zio-nipote o
prozio-pronipote. Ciò, naturalmente, non esclude che un trasferimento verso
questi soggetti avvenga, pur se con strumenti (e con effetti) diversi da quelli
descritti dagli artt. 768-bis ss.
c.c. (Oberto 2006, 82 ss.). 8.3. Si pone poi il problema se al
contratto debbano (o, quanto meno, possano) partecipare anche gli ascendenti del
disponente, posto che costoro non rientrano
nel novero dei soggetti che «sarebbero
legittimari ove in quel momento si aprisse la successione», ma che
potrebbero diventarlo nel caso di premorienza dei discendenti (Oberto 2006, 82 ss.). I legittimari
«sopravvenuti» cui fa richiamo oggi l’art. 768-sexies, primo comma, c.c. non possono invero essere quelli divenuti
tali per premorte del loro dante causa, legittimario del disponente (vale a
dire quelli cui fa richiamo l’art. 536 ult. cpv., c.c.), bensì solo quelli
direttamente legittimari del disponente medesimo: dal nuovo coniuge, al figlio
(del disponente) nato, riconosciuto o dichiarato successivamente al patto, a
quello che comunque, benché già in vita al momento del patto, non vi avesse in
qualche modo partecipato. 8.4. Ai discendenti, invece, dei figli legittimi e naturali, cui
l’art. 536 ult. cpv. c.c. riserva i medesimi diritti che competono ai figli
legittimi e naturali del disponente, il patto è comunque opponibile, posto che
essi succedono iure repraesentationis
e pertanto si trovano nella medesima situazione del loro dante causa, cui il
diritto verso il disponente era a suo tempo già stato (ovviamente: solo per la
parte relativa all’oggetto del patto) liquidato, o che a tale diritto aveva
rinunziato. In altre parole, i discendenti predetti non potrebbero mai
ritenersi «terzi» rispetto al patto, posto che i diritti dagli stessi vantati
sono per l’appunto «gli stessi» (così, infatti, si esprime il citato art. 536,
ult. cpv., c.c.) già vantati dal soggetto da essi rappresentato: le limitazioni
(o addirittura, le eventuali esclusioni, vuoi per effetto di iniziale rinunzia,
vuoi per successiva estinzione determinata dall’intervenuto adempimento
dell’obbligo di liquidazione) di tali diritti varranno dunque, tali quali, nei
riguardi dei discendenti del rappresentato, sia nel caso di sua rinunzia
all’eredità, che di sua premorienza rispetto al disponente. Come il
rappresentato non avrebbe potuto pretendere alcunché alla morte del disponente
sui beni oggetto del patto, per avere egli già ricevuto soddisfazione, così i
suoi discendenti non potranno vantare per tale peculiare titolo alcuna pretesa
(Oberto 2006, 85 s.). 8.5. Quanto poi ai figli non riconoscibili del disponente,
pure ai quali la legge riserva non una quota ereditaria, ma il semplice diritto
alla corresponsione di un assegno vitalizio (art. 594), va tenuto presente che,
per effetto della pronuncia di incostituzionalità dell’art. 278 di cui alla
sentenza della Corte Cost. n. 02/494, essi possono ora agire per l’ottenimento
della dichiarazione giudiziale della paternità o maternità naturali:
dichiarazione da cui discende il conseguimento del relativo status e l’acquisto dei diritti
successori che ad esso si riconnettono (art. 573). Quando perciò il patto di
famiglia intervenga dopo che la filiazione sia stata giudizialmente dichiarata,
esso necessiterà della partecipazione anche dei figli irriconoscibili (così Delle Monache
2009, 747). 8.6. Dubbio appare se
possa avere rilievo l’eventuale compimento di atti, da parte del legittimario
potenziale, che siano idonei a determinarne lo stato di indegnità rispetto al disponente; si è osservato in proposito che
la risposta ad un tale quesito dipende probabilmente dalla nozione che si sia
disposti ad accogliere dell’indegnità, nell’alternativa tra la tesi che la
concepisce nei termini di un’incapacità a succedere (sicché l’indegno, se la
successione si aprisse nel momento in cui il patto viene stipulato, dovrebbe
considerarsi privo di qualunque diritto sul patrimonio ereditario) e la
prospettiva tradizionale alla cui stregua, per contro, essa è intesa concretare
una causa di rimozione ope iudicis
dell’acquisto (l’indegno essendo pur sempre un soggetto nei cui confronti
intanto opera la delazione) (Delle
Monache 2009, 747). 8.7. Il problema, si rileva, si
atteggia in maniera diversa allorché il comportamento che è all’origine
dell’indegnità sia posto in essere nel
lasso di tempo che intercorre tra la stipulazione del patto di famiglia e
l’apertura della successione del disponente. Chi riconosce nel patto un
negozio che, dal punto di vista funzionale, si presenterebbe specificamente
caratterizzato nel senso dell’attitudine a predisporre una regola pensata in
vista della successione del disponente, conclude poi, di conseguenza, che le
attribuzioni per suo tramite divisate dovrebbero intendersi sottoposte alla
disciplina dettata dal diritto successorio: si applicherebbero così,
certamente, le norme relative all’indegnità a succedere, ma poi anche, ad es.,
la regola prevista dall’art. 634 – a scapito del generale disposto di cui
all’art. 1354 – nel caso di inserimento di una condizione impossibile o
illecita. Diversamente, quando la causa del patto di famiglia, avuto riguardo
alle attribuzioni traslative che in esso trovano la loro fonte, venga
fondamentalmente identificata con un fine di liberalità, i comportamenti degli
assegnatari, idonei a determinare l’indegnità a succedere, rileveranno
eventualmente, se posteriori al perfezionamento della fattispecie, alla stregua
di una causa di revocazione dell’atto ex
art. 801. Se poi tali comportamenti sono posti in essere, sempre nel lasso
temporale in questione, da uno degli esclusi dall’attribuzione preferenziale,
non ne discenderà un esito sostanzialmente diverso, atteso che alla
liquidazione della quota spettante a ciascuno di tali soggetti deve
riconoscersi la natura, nei rapporti con il disponente, di una liberalità indiretta,
laddove l’art. 809 estende espressamente alle liberalità atipiche o indirette,
appunto, le norme che regolano la revocazione delle donazioni per causa di
ingratitudine (cfr. sempre Delle Monache 2009, 747). 8.8. Dubbia si presenta la
questione se la stipula del patto di famiglia sia possibile anche da parte di
quell’imprenditore o titolare di partecipazioni societarie che, oltre a non
avere coniuge, vanti un unico discendente
(per la negativa cfr. Oppo 2006, 443;
Petrelli 2006, 434 s.;
diversamente, tuttavia, Oberto
2006, 86; Zoppini 2006, 275). Invero, l’eventualità che legittimari possano sopravvenire
(per la nascita di un figlio o la celebrazione di nozze), alla luce della
disposizione dell’art. 768-sexies
c.c., deve indurre a ritenere che il patto sia liberamente stipulabile tra il
solo disponente e l’assegnatario. In tale accordo le parti dovranno pertanto
fissare il valore dell’attribuzione, fermo restando che gli eventuali
legittimari sopravvenuti potranno aderire al patto stesso, ovvero rimanerne
estranei, senza in tal modo dover subire alcuna eventuale conseguenza
pregiudizievole (Oberto 2006, 86). 8.9.
Sempre in tema di soggetti del patto di famiglia basterà in questa sede solo
citare l’esistenza di problemi relativi alla rappresentanza, sia volontaria
che legale (per un approfondimento
dei quali cfr. Oberto 2006, 86
ss.).
9 Oggetto
dell’attribuzione del disponente. Il trasferimento dell’azienda. 9.1. L’oggetto dell’attribuzione
del disponente è descritto dall’art. 768-bis
c.c. come un trasferimento che investe «in tutto o in parte, l’azienda»,
o «in tutto o in parte, le (…) quote» del «titolare di partecipazioni
societarie». Si tratta dunque di un effetto reale, che investe il diritto di
proprietà (o, come si è visto, di usufrutto: cfr. supra, sub n. 7) sui beni
descritti dalla disposizione citata, che ben potrebbe essere preceduto da un
obbligo di tipo meramente preliminare (Oberto
2006, 46). 9.2. In base alla sicura applicabilità della disciplina
generale del contratto, non contraddetta in
parte qua da elementi normativi in senso contrario, dovrà pure ammettersi
che l’efficacia del patto nel suo complesso, così come anche del solo effetto
reale, possano essere sottoposti a termine o a condizione. Così,
ad esempio, le parti potranno prevedere che l’effetto traslativo dell’azienda o
delle partecipazioni societarie si produrrà solo nel momento in cui i
destinatari di siffatte attribuzioni avranno interamente liquidato le quote
degli altri legittimari, secondo le stime previste in contratto, oppure che la
nascita di un nuovo legittimario determinerà automaticamente il venir meno
degli effetti del patto. Termini e condizioni possono apporsi anche
all’efficacia delle singole partecipazioni dei vari contraenti (Oberto 2006, 93 s.). 9.3. Venendo
ai possibili beni oggetto dell’effetto reale, il primo interrogativo concerne
l’azienda. Trattandosi qui di un complesso di beni dotato, come noto, del
carattere di universitas, ci si
chiede se il patto possa riguardare anche solo singoli beni aziendali.
Sul punto il richiamo alla ratio
della riforma – tesa a conciliare il diritto dei legittimari con l’esigenza
di assicurare continuità all’impresa, garantendo la dinamicità degli istituti
collegati all’attività di impresa, assicurando la massima commerciabilità dei
beni nei quali si traduce giuridicamente l’attività stessa: l’azienda, nella
quale si realizza l’impresa individuale, e le partecipazioni sociali nelle
quali si concretizza l’impresa collettiva, quella svolta cioè in forma
societaria – sembra indurre a
circoscrivere l’espressione «in parte» al solo caso della cessione di ramo
d’azienda (Oberto 2006, 93
s.). 9.4. Dovrà trattarsi, dunque, di una parte dell’azienda che
di quest’ultima riproduca, in scala più o meno ridotta, tutte le caratteristiche e che possegga un grado di autonomia tale
da poter essere gestita separatamente dal corpo principale. In proposito sarà
possibile ricorrere al concetto di ramo d’azienda, come elaborato con riguardo
al disposto dell’art. 2112 c.c., nel testo successivo alle modifiche di cui
alla l. 2 febbraio 2001, n. 18, in
applicazione della direttiva CE n. 98/50 (per ulteriori approfondimenti
e per la casistica prospettabile si fa rinvio a Oberto
2006, 95 ss.). 9.5. Si è poi affermato
che non sembrano sussistere limiti
all’autonomia privata nel configurare l’oggetto del trasferimento di
azienda e le relative pattuizioni. Conseguentemente, sarà legittimo, ad
esempio, escludere dal trasferimento i crediti e debiti aziendali preesistenti,
o, nei limiti consentiti dall’art. 2558 c.c., i contratti aziendali; potrà
essere liberamente pattuito il trasferimento o meno di ditta, insegna, marchi,
brevetti, singoli beni mobili ed immobili facenti parte del complesso, alla
sola condizione che permanga l’idoneità produttiva ed organizzativa del
complesso dei beni costituenti l’azienda ai fini della continuazione dell’attività
d’impresa (così Petrelli 2006, 420
s.). 9.6. Nel caso l’azienda
afferisca ad una impresa familiare ex art. 230-bis c.c., l’art. 768-bis
c.c. impone che il trasferimento avvenga «compatibilmente con le disposizioni
in materia», per l’appunto, di impresa familiare. Anche senza assegnare
all’istituto la qualifica di donazione, sembra potersi affermare che il
carattere gratuito e liberale dell’attribuzione in discorso escluda che in capo
ai partecipanti all’impresa familiare sorga il diritto di prelazione
sull’azienda trasferita (ex artt.
230-bis, quinto comma, 732 c.c.) (Balestra 2006, 378; Id. 2009, 507s.; Petrelli 2006, 415; Oberto
2006, 97; contra Condò, op. loc. ultt. citt., secondo cui «il patto di famiglia non potrà
superare il diritto di prelazione previsto dall’art. 230-bis»; Fusaro 2008,
882), il quale, per sua natura spetta solo a fronte di contratti a titolo
oneroso (per quest’ultima osservazione Merlo
2006b, 8 s.; nel senso che «l’istituto della prelazione, traducendosi
nella sostituzione di un soggetto all’altro nella posizione di acquirente
dietro un predeterminato corrispettivo, è naturalmente riferibile ai soli
trasferimenti onerosi» v. CC 12 gen. 1989/93, GC, 1990, II, 563; RN 1989, II,
1244; GC, 1989, I, 1378; escludono il diritto di prelazione previsto dall’art.
230-bis c.c. nel caso di
trasferimento gratuito Balestra, L’impresa familiare, Milano, 1996, 317; Palmeri, Del regime patrimoniale della famiglia, II, Bologna-Roma, 2004,
169). 9.7. Relativamente
all’interrogativo sul significato dell’inciso «compatibilmente con le
disposizioni in materia di impresa familiare». In proposito è stato osservato
che il riferimento alla disciplina dell’impresa familiare può essere
interpretato alla stregua di una deroga
di quanto disposto dal primo comma dell’art. 230-bis c.c., nel senso che quanto attribuito ai legittimari non
assegnatari non deve costituire corrispettivo dell’attività da loro svolta
nell’ambito dell’impresa familiare e comunque non deve integrare una
partecipazione agli utili dell’impresa od agli incrementi dell’azienda
proporzionale alla quantità e qualità del lavoro prestato (così Merlo 2006b, 9). D’altro canto,
determinando comunque il patto una alienazione dell’azienda, il titolare dovrà procedere a liquidare preventivamente i
familiari che collaborano nell’impresa, secondo quanto previsto dal quarto
comma dell’art. 230-bis c.c. Se poi
il collaboratore è un legittimario potenziale del disponente, il diritto
medesimo si cumulerà con quello previsto dall’art. 768-quater, 2° co. (Petrelli
2006, 415).
10 Oggetto
dell’attribuzione del disponente. Il trasferimento delle partecipazioni
societarie. 10.1. Per quanto attiene invece alle partecipazioni
societarie, occorre prendere atto della circostanza che il legislatore non
ha ritenuto di introdurre alcuna distinzione, per cui la norma sarà applicabile
anche alle c.d. «società di godimento» (così Oberto 2006, 98 s.; contra
Petrelli 2006, 421 s., il quale
riconosce peraltro che il notaio non è in grado di sapere, con i mezzi a sua
disposizione, se con i beni del patrimonio sociale venga o meno esercitata
attività d’impresa), nelle quali non si ha esercizio organizzato di
attività economica, pur con tutti i
problemi di validità che le medesime possono suscitare alla luce del disposto
dell’art. 2248 c.c.: norma, del resto, facilmente eludibile e quotidianamente
elusa mediante «società di comodo», costituite mediante la fittizia
enunciazione, nel contratto costitutivo, dell’intento di esercitare una data
attività di impresa (cfr. per tutti Galgano,
sub art.
11 Costituzionalità della limitazione
all’azienda e alle partecipazioni societarie. Il caso della divisio inter
liberos coinvolgente altri beni. 11.1. Secondo l’opinione preferibile e conforme al testo
della norma, il patto di famiglia può avere ad
oggetto solo i beni descritti dall’art.
768-bis c.c., con esclusione,
pertanto, di qualsiasi altro tipo di cespite. La conformità a Costituzione di siffatta scelta normativa è stata
argomentata in sede di lavori preparatori, rilevandosi in proposito che l’art.
3 della Carta Fondamentale «consente trattamenti differenziati in presenza di
situazioni diverse», mentre «oggetto del patto di famiglia è l’azienda, la
quale per la sua funzione economica – che trova un’apposita tutela nel
principio espresso dall’articolo 41 della Costituzione – si distingue rispetto
agli altri beni, mobili o immobili, che possono essere oggetto di successione.
Conseguentemente la diversa disciplina dell’azienda rispetto agli altri beni
che costituiscono l’asse ereditario giustifica il diverso regime giuridico cui
essa può essere sottoposta» (cfr. il resoconto della seduta della Commissione
affari costituzionali del Senato, sottocommissione per i pareri, del 31 gennaio
2006, n. 276, nel corso della quale il senatore Pastore, con l’accordo della
Commissione, ha sostenuto la conformità della nuova normativa all’art. 3 Cost.
sulla base dei rilievi riportati nel testo; v. inoltre Petrelli 2006, 404 s.). 11.2.
Ha peraltro destato perplessità nei primi commentatori la circostanza che la
legge non abbia previsto l’ipotesi forse più frequente nella pratica: cioè
quella del genitore che, mentre attribuisce ad alcuni figli l’azienda (o un
ramo di essa, o le partecipazioni sociali), agli altri trasferisca altri tipi di beni (Fietta, Patto di famiglia, cit., 8).
Effettivamente, tale fattispecie non viene in alcun modo disciplinata dalla
legge. 11.3. Peraltro, una parte
della dottrina tende ad ammettere che, mediante il patto di famiglia, il
disponente, oltre a destinare l’azienda o le partecipazioni societarie a
qualcuno dei suoi discendenti, possa trasferire atri suoi beni (immobili, titoli, denaro) ai
partecipanti non assegnatari dei beni d’impresa (Petrelli 2006, 441 s.; Delfini,
in De Nova, Delfini, Rampolla
e Venditti 2006, 24 ss.; parla, al
riguardo, di un patto di famiglia «di tipo verticale», Lucchini Guastalla, sub
art. 768-quater c.c., NLCC, 58 s.).
Ad avviso di alcuni Autori, invero, proprio questa sarebbe l’ipotesi da
ritenere disciplinata nel 3° co. dell’art. 768-quater, là dove si parla di «beni assegnati con lo stesso contratto
agli altri partecipanti non assegnatari dell’azienda»: una tale dicitura,
invero, risulterebbe appropriata soltanto ove interpretata come riferita alle
attribuzioni effettuate dal disponente, mentre ciò che il discendente prescelto
è tenuto a prestare, in denaro o altrimenti, a titolo di liquidazione della
quota dovuta ai restanti legittimari potenziali non rientra, a rigore, nel
concetto di assegnazione (Delle
Monache 2009, 743). 11.4. In
senso contrario si è però obiettato
che la deroga al divieto di patti successori
è prevista limitatamente al solo patto di famiglia, così come disciplinato
dagli artt. 768-bis ss. c.c., per cui
un’interpretazione che coinvolga nella disciplina dello stesso altri beni, pur
se funzionali al patto, non sembra conforme alla lettera della novella; né,
tanto meno, sembra ipotizzabile nella specie il ricorso all’estensione
analogica, di fronte al carattere eccezionale delle norme in discorso:
carattere reso evidente dal già evidenziato rapporto dialettico
regola-eccezione rispetto al principio generale ancora contenuto nell’art. 458
c.c. (Oberto 2006, 102). Ne segue
che, nel patto di famiglia, l’autonomia negoziale, pur indiscutibilmente
presente, in quanto legata alla natura contrattuale dell’atto, non potrà
spingersi al di là dei limiti sopra indicati. Essa potrà quindi muoversi
esclusivamente nel perimetro dell’interpretazione estensiva, ma non potrà certo
colmare le vistose lacune di questa normativa abborracciata, mediante l’unico
procedimento ermeneutico astrattamente idoneo all’uopo, cioè appunto,
l’analogia, vietata ogni qualvolta ampliare spazi alla negozialità delle parti
significherebbe porre in essere un patto successorio dai contenuti più ampi di
quello delineato dagli artt. 768-bis
ss. c.c. 11.5. Da quanto sopra
deriva che non potrà qualificarsi come patto di famiglia l’attribuzione con la
quale un soggetto operi una divisio inter liberos per atto tra vivi,
disponendo immediatamente il trasferimento dell’azienda (o di partecipazioni
sociali) nei confronti di uno o più discendenti, immediatamente e
contestualmente cedendo beni diversi agli altri legittimari. Peraltro, non può
neppure escludersi, almeno in linea di principio, che i due negozi possano di
fatto coesistere, magari «fisicamente» contenuti nel medesimo rogito, nel senso
che potremo avere un patto di famiglia per il primo profilo e una donazione per
il secondo. Si è quindi sostenuto (Oberto
2006, 104) che, ad esempio, il genitore A che si trovi ad essere coniugato con
B e ad avere come figli C e D potrà, in unico atto, trasferire la sua azienda a
C, contestualmente donando altri beni a B e a D. D’altro canto, nulla osterebbe
a che, a fronte dell’attribuzione dell’azienda dal genitore al figlio C e di
altri beni a B e a D, questi ultimi dichiarino di rinunziare alla liquidazione
che competerebbe loro per effetto del trasferimento dell’azienda al solo figlio
C. Ovviamente la disattivazione delle tutele dei legittimari potrà valere solo
per il primo negozio, per cui i rapporti potranno risultare, alla fine,
«disequilibrati», pur in presenza di attribuzioni di pari valore. Peraltro, il
«vantaggio riducibile» attribuito a B e D (visto che il valore dell’azienda
trasferita a C non potrebbe più venire in considerazione nella riunione
fittizia ai fini del calcolo della legittima) potrebbe annullarsi o scemare,
per effetto di successive donazioni o disposizioni testamentarie, questa volta
a favore del solo C.
Forma. — A pena di nullità il contratto deve
essere concluso per atto pubblico.
1.1. Il requisito in oggetto risponde all’intento, comune alla donazione,
di tutela della effettività e
spontaneità della volontà del disponente di compiere l’atto di liberalità;
un’ulteriore conferma della necessità della cautela formale dell’atto pubblico
in caso di attribuzioni liberali di beni viene, del resto, dall’art. 2645-ter
c.c., che prevede la trascrizione degli atti di destinazione, nella sola
forma di atto pubblico, in forza dei quali l’autonomia privata realizza
interessi meritevoli di tutela «riferibili a persone con disabilità, a
pubbliche amministrazioni o ad altri enti o persone fisiche» (cfr. Manes 2006, 556). 1.2. La legge non impone peraltro espressamente la forma dell’atto pubblico notarile, né la presenza di testimoni. Esclusa la
possibilità di configurare il patto alla stregua di una donazione (v. sub art. 768-bis c.c., n. 4; contra, Caccavale 2006b, 28 s., che proprio
dalla qualificazione del patto alla stregua di una donazione fa derivare la
necessaria presenza di testimoni), per quanto attiene al primo aspetto (cioè
alla forma necessariamente, o meno, notarile), il richiamo alla «dichiarazione
agli altri contraenti certificata da un notaio», di cui all’art. 768-septies,
n. 2, c.c., consente di desumere l’intento del legislatore di imporre ad
substantiam la forma dell’atto notarile per la stipula del patto: se, infatti,
l’intervento del notaio è espressamente richiesto per l’esercizio del diritto
di recesso, a maggior ragione deve ritenersi che siffatto intervento sia
domandato per la stipula di quell’atto che siffatto diritto potestativo di
recesso può prevedere (ed anzi deve
espressamente prevedere, perché il recesso possa validamente compiersi) (Oberto 2006, 58). 1.3. Se ne è desunta l’impossibilità di dar vita al patto ex
artt. 768-bis ss. c.c., in sede, ad
esempio, di stipula di un contratto
della crisi coniugale di fronte a cancelliere in verbale di separazione o
di divorzio su domanda congiunta: ciò ancora a prescindere, naturalmente, dal
profilo della possibilità o meno della partecipazione all’udienza anche di
soggetti che non sono parti, in senso tecnico, della procedura, quali i figli (Oberto 2006, 58; sul tema della
possibilità di dar vita ad un contratto della crisi coniugale coinvolgente
eventualmente terzi soggetti cfr. Id.,
I contratti della crisi coniugale,
II, cit., 1153 ss.; Id., Prestazioni
«una tantum» e trasferimenti tra coniugi in occasione di separazione e divorzio,
Milano, 2000, 135 ss., 154 ss.). 1.4.
Per ciò che attiene poi alla presenza dei testimoni,
va ricordato che l’attuale versione dell’art. 48 l.notar., così come riformata
dall’art. 12, lett. b) e c), l. 28 nov. 2005/246 («Semplificazione e riassetto normativo per l’anno 2005»), non
consente in alcun modo un’estensione analogica al patto di famiglia della
disposizione dettata in tema di forma della donazione o della convenzione
matrimoniale, atteso il carattere pacificamente eccezionale – ricavabile dal
raffronto con il precedente art. 47 – che la disposizione è venuta ad assumere
(reputa invece «probabilmente più corretta l’interpretazione che ritiene
necessaria l’assistenza dei testimoni» Petrelli
2006, 427; contra Rampolla, in De Nova, Delfini,
Rampolla e Venditti 2006, 13 s.). 1.5.
In ogni caso, poiché è stata da più parti prospettata la tesi della
riconducibilità del patto di famiglia all’archetipo della donazione, appare
opportuno, dal punto di vista pratico, suggerire
ai notai di disporre comunque l’intervento in atto dei testimoni. La loro
presenza, invero, sebbene del tutto superflua, allo stato attuale della
legislazione, non determina comunque l’invalidità dell’atto, laddove la loro
assenza comporterebbe rischi di nullità, ove avesse ad affermarsi la tesi della
donazione (Oberto 2006, loc. ult. cit.).
Partecipazione. — Al contratto devono partecipare
anche il coniuge e tutti coloro che sarebbero legittimari ove in quel momento
si aprisse la successione nel patrimonio dell’imprenditore.
Gli assegnatari dell’azienda o delle partecipazioni
societarie devono liquidare gli altri partecipanti al contratto, ove questi non
vi rinunzino in tutto o in parte, con il pagamento di una somma corrispondente
al valore delle quote previste dagli articoli 536 e seguenti; i contraenti
possono convenire che la liquidazione, in tutto o in parte, avvenga in natura.
I beni assegnati con lo stesso contratto agli altri
partecipanti non assegnatari dell’azienda, secondo il valore attribuito in
contratto, sono imputati alle quote di legittima loro spettanti; l’assegnazione
può essere disposta anche con successivo contratto che sia espressamente
dichiarato collegato al primo e purché vi intervengano i medesimi soggetti che
hanno partecipato al primo contratto o coloro che li abbiano sostituiti.
Quanto ricevuto dai contraenti non è soggetto a
collazione o a riduzione.
Sommario: 1. I soggetti. Il problema della partecipazione di
tutti i legittimari. — 2. La posizione del coniuge. — 3. L’oggetto della prestazione dei destinatari dell’azienda
o delle partecipazioni societarie. La liquidazione delle quote dei legittimari
e il problema dell’intervento del disponente nella liquidazione. — 4. Il pagamento rateizzato o differito nel tempo della
liquidazione. — 5. La liquidazione in natura e
l’eventuale assegnazione con successivo contratto. — 6.
Sulla natura di liberalità indiretta della liquidazione in denaro o in natura.
— 7. Conseguenze del patto sulla successione del
disponente. Collazione, riduzione, riunione fittizia e imputazione ex se. Le attribuzioni ricevute dai
legittimari non assegnatari. — 8. Segue. Le attribuzioni ricevute dagli assegnatari.
1 I soggetti. Il problema della partecipazione
di tutti i legittimari. 1.1. Ai
sensi del primo comma dell’articolo in commento «Al contratto devono
partecipare anche il coniuge e tutti coloro che sarebbero legittimari ove in
quel momento si aprisse la successione nel patrimonio dell’imprenditore». Al
riguardo una parte consistente della dottrina ritiene che la partecipazione al patto di famiglia da
parte di tutti i legittimari sia necessaria ad
validitatem. In particolare indurrebbe a tale conclusione la
considerazione del carattere necessariamente plurilaterale del negozio, la sua
struttura essendo caratterizzata dall’intervento di soggetti appartenenti a tre
diverse categorie: l’imprenditore o il titolare di partecipazioni societarie
(disponente), il discendente o i discendenti cui vengono attribuite l’azienda o
le partecipazioni societarie (partecipanti assegnatari dei beni d’impresa), gli
altri potenziali legittimari in vita al momento della conclusione dell’accordo
(partecipanti non assegnatari dei beni d’impresa): in questo senso cfr. Balestra 2006, 372; Id. 2007, 26; Id. 2009, 484 s.; Baralis 2006, 223; Delle Monache
2006, 893 ss.; Id. 2009, 741; Friedmann, Prime osservazioni sui patti di famiglia, cit., 62; Inzitari, Dagna, Ferrari
e Piccinini 2006, 42, 54 s., 244
ss.; Tassinari 2006, 162; Vitucci 2006, 448; De Nova, in De
Nova, Delfini, Rampolla e Venditti 2006, 3; Ieva
2007, 48, 53. 1.2. Nel senso,
non di una generica plurilateralità, bensì del carattere costantemente trilaterale del patto di famiglia cfr. Gazzoni 2006, 219 s., secondo il quale i
discendenti assegnatari e i rimanenti legittimari potenziali – gli uni e gli
altri se in numero superiore ad uno – formerebbero due parti soggettivamente
complesse e che, in quanto tali, contribuirebbero alla formazione dell’accordo
mediante un atto collettivo. 1.3.
Chi poi ritiene che il patto sia caratterizzato dall’idoneità a realizzare una
funzione divisionale (sul punto, v. supra, sub art. 768-bis, n. 5),
argomenta da ciò per concludere nel senso dell’applicabilità ad esso dei
principi ispiratori della disciplina della divisione, tra i quali va annoverato
quello che richiede la partecipazione al riparto di tutti gli aventi diritto (Amadio 2006, 75; Id. 2006b, 886). 1.4. Altri Autori pervengono poi alla medesima soluzione
sottolineando che la denominazione
prescelta dal legislatore (patto di famiglia) indurrebbe a ritenere necessaria,
per l’appunto, la partecipazione di tutti i legittimari del disponente (rectius: di tutti coloro che sarebbero
legittimari, se si aprisse la successione nel momento della stipula del patto),
anche ai sensi degli artt. 1420 e 1446 c.c., con la conseguenza che l’omessa
partecipazione, in questo caso, determinerebbe non l’inefficacia, ma la nullità
ab origine del contratto (così Buffone 2006, loc. ult. cit.; nello stesso senso v. pure Venchiarutti, Patto di
famiglia e successione nell’impresa, in Persona
e danno, 20 marzo 2006, disponibile all’indirizzo web seguente: http://www.personaedanno.it/site/sez_browse1.php?browse_id=3359&campo1=23&campo2=211a;
in senso critico rispetto a tale presa di posizione v. però Caccavale 2006b, 13 ss.; per una sintesi
delle diverse posizioni della dottrina cfr. Fusaro
2008, 873 ss.). 1.5.
Peraltro, secondo un’opinione radicalmente diversa (Oberto 2006, 67 ss.) la soluzione
all’interrogativo circa la necessaria partecipazione di tutti i legittimari
potenziali va verificata alla luce del disposto dell’articolo 768-sexies c.c., secondo il quale «all’apertura
della successione dell’imprenditore, il coniuge e gli altri legittimari che non
abbiano partecipato al contratto possono chiedere ai beneficiari del contratto
stesso il pagamento della somma prevista dal secondo comma dell’articolo 768-quater, aumentata degli interessi legali.
L’inosservanza delle disposizioni del primo comma costituisce motivo di
impugnazione ai sensi dell’articolo 768-quinquies». 1.6. Ora, secondo i sostenitori della tesi della necessaria
partecipazione, ad validitatem, di
tutti i legittimari, questo articolo potrebbe riferirsi ai soli legittimari
sopravvenuti (si pensi ai figli nati o adottati successivamente, o al nuovo
coniuge) (nello stesso senso Venchiarutti,
op. loc. ultt. citt.), ma a tale
impostazione si è obiettata la possibilità di prospettare un’altra lettura: vale
a dire quella secondo cui, proprio dal tenore di questa norma, può ricavarsi
che la sanzione per la mancata
partecipazione di uno o più legittimari già esistenti al momento della stipula
del patto non consiste nella nullità del patto medesimo, ma nell’applicazione
delle sole conseguenze di cui all’art. 768-sexies
c.c. (Oberto 2006, 67 ss.; in
senso conforme v. Petrelli 2006, 427
ss.), e dunque della sola inefficacia per i legittimari non partecipanti al
patto, come dimostrato dal tenore letterale della disposizione da ultimo
citata, che sembra suffragare proprio questa seconda soluzione. 1.7. Invero – si è osservato – basterà tenere
presente che l’art. 768-sexies c.c.,
lungi dallo stabilire che gli effetti del patto si estendono anche ai
legittimari che non lo abbiano sottoscritto, si limita a prevedere che tali
terzi «possono» chiedere ai beneficiari
del contratto stesso il pagamento della somma prevista dal secondo comma
dell’articolo 768-quater, aumentata degli interessi legali, con
conseguente possibilità di desumere
l’intento del legislatore di consentire
a costoro di aderire al patto, fermo restando che, in caso contrario, ad
essi il patto non sarà opponibile, in applicazione, del resto, del generale
principio scolpito nell’art. 1372 cpv. c.c. (così Oberto 2006, 67 s.; contra
Petrelli 2006, 452, secondo cui i
legittimari sopravvenuti sarebbero addirittura vincolati al patto e potrebbero
unicamente esperire le azioni ex art.
768-sexies c.c.). 1.8. La dottrina che sostiene il
carattere necessariamente plurilaterale
del negozio conclude invece per la nullità
del patto in cui si verifichi la mancata partecipazione all’accordo contrattuale
di anche uno solo dei legittimari in
pectore non assegnatari dei beni d’impresa (Gazzoni
2006, 219; Inzitari, Dagna,
Ferrari e Piccinini 2006, 42, 54 s., 244 ss.; contra, e nel senso che la mancata partecipazione di un
legittimario già esistente determini la mera inopponibilità del patto nei suoi
confronti, Petrelli 2006, 432 s.; Oberto 2006, 67 ss.; in tale ultimo
senso v. anche Oppo 2006, 441; La Porta 2007, 24, che intende il patto
di famiglia come contratto a favore di terzo rispetto a cui l’acquisto del
beneficiario – tali essendo i legittimari esclusi dall’attribuzione
preferenziale – si perfezionerebbe soltanto nel momento della sua adesione). 1.9. In senso contrario alla tesi della
nullità, si pone in evidenza la necessità di tenere conto del riferimento
testuale ai «legittimari che non abbiano partecipato al contratto», anziché ai
(soli) «legittimari che non abbiano potuto partecipare al contratto»; questo
elemento, unito alla predisposizione della speciale sanzione dell’inefficacia
del patto verso quei legittimari che – per qualsiasi ragione e senza
differenziazione alcuna in merito al momento d’acquisto della loro qualità di
legittimari – «non abbiano partecipato al contratto», consente di superare la tesi della «nullità virtuale»
per violazione di una norma imperativa (art. 768-quater c.c.): di
nullità virtuale non appare, invero, possibile parlare allorquando il legislatore
commini espressamente, come si è visto, una diversa sanzione (quella, per
l’appunto, dell’inefficacia nei confronti dei soggetti non partecipanti al
patto), incompatibile con la nullità (così Oberto
2006, 69). 1.10. V’è ancora da
aggiungere che, ad avviso dei fautori della tesi della nullità per mancata
partecipazione di tutti i legittimari potenziali, il patto potrebbe formare
oggetto di conversione,
trasformandosi in una o più donazioni traslative (cfr. per tutti Delle Monache 2009, 741; sul tema della
conversione del patto di famiglia cfr. inoltre infra, sub art. 768-quinquies).
2 La posizione del coniuge. 2.1. Del tutto peculiare appare la
posizione del coniuge del
disponente, quale soggetto che può trovarsi a perdere, successivamente alla stipula
del patto, la qualità di legittimario, non solo per effetto di predecesso
rispetto alla scomparsa del disponente, ma anche in conseguenza di divorzio. 2.2. Da taluno (Fietta,
Patto di famiglia, cit., 14: cfr.
inoltre infra, sub art. 768-sexies, n.
2) si è sollevato l’interrogativo circa la sussistenza di un obbligo, in capo
al coniuge firmatario del patto, di restituire
quanto eventualmente ricevuto, una volta che il rapporto di coniugio dovesse
venire meno per effetto della cessazione degli effetti civili o dello
scioglimento del matrimonio. 2.3. In
senso contrario si è osservato che le attribuzioni in esame posseggono una loro
giustificazione ben precisa, riscontrabile non già nelle disposizioni in tema di
successione, ma nell’attribuzione inter
vivos oggetto del patto di famiglia. Gli artt. 768-bis ss. c.c. non solo non
prevedono alcun obbligo di restituzione nel caso la qualità di legittimario
dovesse venire a cessare, ma danno chiaramente ad intendere che l’eventuale
presenza, all’atto del decesso del disponente, di un «parco legittimari»
diverso da quello esistente al momento della firma del patto, non costituisce
in alcun modo ragione di scioglimento del contratto. Tutto al contrario,
all’apertura della successione del disponente, il coniuge e gli altri
legittimari che non abbiano partecipato al negozio «possono chiedere ai
beneficiari del contratto stesso il pagamento della somma prevista dal secondo
comma dell’articolo 768-quater,
aumentata degli interessi legali», in base ad una norma (art. 768-sexies c.c.), che offre ai legittimari
«terzi» solo l’alternativa tra la possibilità di aderire al patto e quella di
avvalersi degli strumenti ordinari a tutela della quota di legittima, senza
alcuna possibilità di impugnare il patto medesimo (a meno che, una volta che il
legittimario abbia aderito allo stesso, le altre parti non adempiano
all’obbligo di liquidazione previsto dalle norme citate: cfr. Oberto 2006, 73). 2.4. In base a tale rilievo può pertanto pervenirsi alla
conclusione per cui la premorienza
di uno dei legittimari rispetto al disponente non può determinare il diritto
degli altri partecipanti di chiedere agli eredi non discendenti del premorto
(si pensi al coniuge, in assenza di figli) la restituzione di quanto ricevuto
per effetto del patto da parte del legittimario predeceduto (l’interrogativo è
posto da Fietta, Patto di famiglia, cit., 14). Lo stesso
vale anche per il coniuge che venga a cessare di essere tale per effetto di
divorzio dal disponente. 2.5. Si è
soggiunto sul punto che, in correlazione con la natura contrattuale del patto
di famiglia e in applicazione dei principi in tema di autonomia privata, si
potrebbe ipotizzare l’apposizione di una condizione
risolutiva al patto di famiglia, in forza della quale la partecipazione del
coniuge al patto verrebbe meno in caso
di divorzio, con conseguente obbligo di restituzione di quanto
eventualmente ricevuto. La conclusione sembra rafforzata dalle conclusioni cui
la dottrina unanime perviene in caso di donazioni tra coniugi. Non vi è infatti
incertezza tra gli Autori sulla liceità della donazione, sia obnuziale che in
costanza di matrimonio, risolutivamente condizionata alla pronunzia di
divorzio: la condizione avente ad oggetto lo scioglimento del matrimonio per
divorzio (ma anche, è da ritenere, per separazione legale o di fatto), invero,
non può intendersi come divietante quello scioglimento, quindi non è illecita.
Essa non coarta una libertà fondamentale e preziosa, né può ipotizzarsi
costituisca una remora alla richiesta di divorzio, vista la perdita del
vantaggio conseguente alla donazione. Più semplicemente, è il fatto in sé,
eventuale e futuro, eletto a condizione, ad operare in termini risolutivi.
Quanto sopra riceve del resto conferma dalla comparazione con l’ordinamento
tedesco, in cui si ammette la piena validità del negozio di trasferimento di un
bene mobile da un coniuge all’altro, con riserva di un Rückforderungsrecht für den Fall der Scheidung (per i rinvii e i
necessari approfondimenti si rimanda a Oberto
2006, 75; allo stesso studio si rimanda per l’analisi dei problemi posti
dal caso di successivo passaggio a nuove
nozze del disponente, così come della sorte delle attribuzioni effettuate
in favore di contraenti premorti al
disponente). 2.6. Escluso dalla
partecipazione al patto deve intendersi, in ogni caso, il coniuge separato con addebito, al quale la legge attribuisce il
solo diritto all’assegno di cui all’art. 548 cpv., sempre che il de cuius fosse tenuto a corrispondergli
un assegno al momento della sua morte (Zoppini
2006, 279).
3 L’oggetto
della prestazione dei destinatari dell’azienda o delle partecipazioni
societarie. La liquidazione delle quote dei legittimari e il problema
dell’intervento del disponente nella liquidazione. 3.1. L’oggetto della prestazione dei
destinatari dell’azienda o delle partecipazioni societarie è descritto come
segue dall’art. 768-quater cpv. c.c.:
«Gli assegnatari dell’azienda o delle partecipazioni societarie devono
liquidare gli altri partecipanti al contratto, ove questi non vi rinunzino in
tutto o in parte, con il pagamento di una somma corrispondente al valore delle
quote previste dagli articoli 536 e seguenti; i contraenti possono convenire
che la liquidazione, in tutto o in parte, avvenga in natura» 3.2. La dottrina sottolinea che il richiamo all’art. 536 c.c. deve ritenersi
improprio. Come chiarisce lo stesso art. 536, la quota cui ivi si allude è
«quota di eredità», e cioè frazione aritmetica del relictum al lordo dei debiti ereditari; le porzioni indicate dagli
artt. 537 ss. sono invece tali rispetto al patrimonio complessivo netto del de cuius, calcolato. secondo quanto
dispone l’art. 556, tenendo conto anche degli atti di liberalità inter vivos che egli abbia compiuto. Ne
deriva che nessun senso ha il citato riferimento all’art. 536: laddove, per
effetto dell’art. 768-quater cpv., i
partecipanti non assegnatari dei beni d’impresa avranno diritto, sul valore di
questi ultimi, ad una quota pari a quella individuata, in misura diversa a
seconda della qualità e del numero dei legittimari, dagli artt. 537 ss.
(sottolinea come, in pratica, assumano rilievo i soli artt. 537, 542 ed
eventualmente 548, 1° co., Gazzoni 2006,
221; diversamente. nel senso che, richiamandosi agli art. 536 ss., il
legislatore avrebbe inteso rinviare all’intera disciplina in materia di
legittima, Lucchini Guastalla, sub art. 768-quater
c.c., NLCC, 60). Sulla base di quanto sopra si afferma allora che la
base di calcolo, ai fini della determinazione del valore delle quote spettanti
ai non assegnatari dell’azienda o delle partecipazioni societarie alienate, è
esclusivamente rappresentata dai beni attribuiti ex pacto (Amadio 2006,
74; Petrelli 2006, 437). 3.3. Se si ritiene l’impossibilità di un utilizzo del patto di famiglia per
operare una divisio inter liberos con assegnazione di beni
diversi dall’azienda o dalle partecipazioni societarie, ne segue che nel caso
(tutt’altro che infrequente) in cui il figlio imprenditore non possegga i beni
o il denaro necessari per operare la liquidazione dei diritti spettanti agli
altri legittimari, si potrà ipotizzare un intervento
da parte del disponente che, in alternativa, doni denaro e/o beni vuoi al
figlio imprenditore, vuoi direttamente agli altri legittimari. Per ciò che
attiene alla prima ipotesi si sono esattamente poste in luce in dottrina le
controindicazioni fiscali del doppio trasferimento, nel caso in cui, per l’appunto,
il genitore intendesse donare
all’assegnatario il denaro e/o i beni necessari perché costui effettui la
liquidazione del dovuto agli altri legittimari (Cfr. Fietta, Patto di famiglia, cit., 8). 3.4. Si è peraltro rimarcato che ancora
più sconcertanti appaiono i risvolti sul piano civilistico: queste attribuzioni
gratuite, invero, non sono definibili se non come donazioni e pertanto sono soggette a collazione (salvo che il
donante, magari consigliato all’uopo dal notaio, escluda tale effetto, peraltro
nel rispetto del disposto dell’art. 737 cpv. c.c.), nonché a riduzione, a differenza di quanto
stabilito per i beni aziendali o per le partecipazioni sociali. L’esperimento
dell’azione di riduzione potrà essere evitato (per lo meno: a condizione che
non intervengano alterazioni successive, per effetto di donazioni o
disposizioni testamentarie lesive della legittima) mediante una donazione di denaro in parti uguali a tutti
i legittimari. A questo punto i discendenti assegnatari dell’azienda o
delle partecipazioni potranno utilizzare la loro parte per liquidare gli altri
legittimari. Tale sequenza, se risulta corretta dal punto di vista normativo,
incontra delle possibili controindicazioni fiscali, trattandosi – come già
evidenziato – di doppio trasferimento, avuto altresì riguardo al fatto che il
trasferimento da parte dell’assegnatario a favore degli altri legittimari è
qualificabile quale trasferimento oneroso (così Oberto
2006, 105). 3.5. Nel caso invece in
cui il disponente provvedesse egli stesso alla liquidazione della quota in favore degli altri legittimari, si
potrebbe configurare una donazione indiretta
a favore dell’assegnatario dell’azienda o delle partecipazioni societarie, in
base al principio secondo cui l’adempimento del debito altrui costituisce, per
l’appunto, liberalità indiretta, se eseguito animo donandi, cui non sarebbero, con ogni probabilità, applicabili
le norme che escludono l’esenzione da collazione e da riduzione, non rientrando
siffatta operazione nello schema negoziale delineato dagli artt. 768-bis ss. c.c.; lo stesso varrebbe anche
per il caso in cui a tale liquidazione provvedesse un terzo, non legato da un
rapporto di provvista con i beneficiari (Oberto
2006, 106). 3.6. Il pagamento da
parte del terzo o del disponente non
costituisce patto successorio, atteso che il pagamento non è un contratto. Ma,
anche a prescindere dalla diatriba sulla natura negoziale o meno del pagamento,
esso non sarebbe comunque ascrivibile alla categoria dei negozi contemplati
dall’art. 458 c.c., non disponendosi di diritti rientranti in una successione.
Per questa medesima ragione non si vedono ostacoli alla stessa partecipazione
del terzo (il disponente, è invece, ovviamente, parte necessaria del negozio)
all’atto, quale soggetto che – pur non essendo parte del patto di famiglia –
corrisponda la liquidazione gravante sugli assegnatari dell’azienda o delle
quote sociali (Oberto 2006, 106 s.).
3.7. Ciò che può apparire
problematica è l’estensione dell’art. 768-quater
ult. cpv. c.c. al caso della liquidazione
operata dal disponente (per il terzo, invece, il problema non può porsi,
atteso che lo stesso non è, per definizione, parte del patto e che gli effetti
descritti dalla norma in oggetto sono riferiti alla sola successione del
disponente). La disposizione stabilisce che «Quanto ricevuto dai contraenti non
è soggetto a collazione o a riduzione». Secondo un’opinione, diversa è la
risposta a seconda che consideriamo i legittimari che hanno ricevuto tale
liquidazione, da un lato, e gli assegnatari dell’azienda o delle partecipazioni
societarie, dall’altro, nei confronti dei quali la liquidazione operata dal
disponente ha la natura di donazione indiretta. Per ciò che attiene ai primi,
già rimanendo sul terreno dell’interpretazione letterale sembra possibile far
rientrare nella citata dizione normativa quanto ricevuto dai legittimari non
destinatari dell’azienda o delle partecipazioni sociali, visto che l’accento è
posto dalla legge, per l’appunto, su «quanto ricevuto», anche se tale pagamento
è stato effettuato, anziché dai cessionari dell’azienda o delle partecipazioni,
dal disponente (Oberto 2006, 107). 3.8. Diversa è la conclusione per
quanto attiene invece agli assegnatari
dell’azienda o delle partecipazioni societarie, dal momento che
l’arricchimento conseguito da costoro per effetto della donazione indiretta
(effettuata dal disponente) dipende dal versamento di una somma di denaro che,
in realtà, non è stata «ricevuta» da loro (essendo stata ricevuta, invece,
dagli altri legittimari), per lo meno nel senso in cui tale espressione va
intesa nella norma in oggetto. Inoltre non sembra esservi dubbio sul fatto che
questa donazione indiretta, se dovesse ritenersi «coperta» dall’art. 768-quater c.c., e dunque non soggetta a
collazione né a riduzione, verrebbe a violare il divieto dei patti successori,
in quanto il suo trattamento alla stregua dell’atto di trasferimento
dell’azienda o delle partecipazioni societarie si scambierebbe pur sempre con
il consenso prestato dagli altri legittimari alla loro liquidazione, con
l’effetto di inibire, per il tempo successivo alla morte del disponente,
l’esercizio delle azioni a tutela dei legittimari medesimi. Ne deriva che tale attribuzione dovrà ritenersi
sottoposta tanto a collazione che a riduzione (Oberto 2006, 107 s.). 3.9.
Avverte infine la dottrina che non bisogna confondere la c.d. rinunzia
degli altri partecipanti alla liquidazione della quota, qual è prevista
dall’art. 768-quater cpv., con la remissione del debito di cui all’art.
1236. La prima si configura infatti come una clausola del patto di famiglia in virtù
della quale, in deroga a quanto disposto dallo stesso art. 768-quater cpv., le parti convengono che
nulla sia dovuto ai partecipanti non assegnatari dei beni d’impresa o che
questi acquistino un credito inferiore al valore della quota ad essi spettante
sui beni medesimi (Delle Monache
2006, 900).
4 Il
pagamento rateizzato o differito nel tempo della liquidazione. 4.1. L’eventuale
ipotesi di un pagamento rateizzato o
differito nel tempo (magari
collegato ad un effetto sospensivo dell’efficacia del trasferimento
dell’azienda o delle partecipazioni societarie) appare compatibile con la struttura del patto di famiglia, né comunque
sembra in grado di porsi in contrasto con norme
imperative (Oberto 2006, 107). Sebbene
il testo dell’art. 786-quater,
secondo comma, c.c., sembri presupporre la contestualità della liquidazione,
offrendo solo l’alternativa che al denaro possano, su accordo dei partecipanti,
sostituirsi beni in natura, il comma successivo del citato articolo ammette
espressamente la possibilità di un contratto di assegnazione che, anche se
strettamente collegato al primo, può concludersi in un momento successivo.
Appare dunque ragionevole supporre che tale concessione all’autonomia privata
contenga in sé anche la previsione della possibilità di un pagamento della somma rappresentante la liquidazione dei diritti
dei legittimari in forma dilazionata,
o rateizzata (cfr. Caccavale 2006b, 31, secondo cui «Anche il momento
dell’adempimento della predetta obbligazione deve ritenersi rimesso alla
disponibilità delle parti, le quali possono dunque convenire di posticiparlo ad
una fase successiva rispetto a quella della stipulazione del patto e della
eventuale liquidazione della quota dei legittimari»). 4.2.
L’adempimento differito, dal canto suo, se da eseguirsi in natura, si
configurerà come negozio traslativo di
adempimento, del quale, a beneficio della certezza l’art. 768‑quater, terzo comma, c.c.
postula come necessaria l’expressio
causae. Non può del resto neppure escludersi l’ipotesi di un
trasferimento differito, ma ad efficacia reale, nel senso che la vicenda
traslativa (sia dell’azienda o delle partecipazioni societarie, che della
liquidazione in natura dei diritti dei legittimari) si operi automaticamente
allo scadere di una certa data o al verificarsi di un determinato avvenimento
futuro ed incerto. 4.3. E’ anche
ipotizzabile che le parti concludano un accordo novativo con il quale l’obbligazione pecuniaria venga sostituita
con un’obbligazione avente ad oggetto un bene diverso dal danaro, ovvero che
gli obbligati (cioè gli assegnatari) adempiano la loro prestazione
originariamente prevista in denaro mediante datio
in solutum, trattandosi di diritti pacificamente disponibili (cfr. Caccavale 2006b, 31; Fietta, Patto di famiglia, cit., 10). In tal caso, trattandosi di istituti di carattere
generale, non sembra richiesta la partecipazione all’accordo di tutti i
soggetti del patto, bensì solo del debitore e del creditore della prestazione
in discorso. In senso contrario alla ravvisabilità nella specie di una datio
in solutum si è invece asserito che l’attribuzione di cui qui si
discute, anziché estinguere, impedisce il venire in essere dell’obbligazione
pecuniaria di cui all’art. 768-quater,
2° co. Ciò posto, nulla è d’altra parte d’ostacolo a che l’attribuzione
compiuta dall’assegnatario in favore degli altri partecipanti all’accordo
contrattuale si sostanzi, invece che nel trasferimento attuale di un dato bene,
nell’assunzione di un obbligo di dare. Nel qual caso la successiva prestazione
eseguita dal debitore assumerà i contorni propri della figura dell’adempimento
traslativo (così Delle Monache 2009, 748).
4.4. Uno dei quesiti
attinenti alla liquidazione delle quote dei legittimari non assegnatari
dell’azienda o delle partecipazioni societarie concerne la possibilità che i partecipanti al patto concordino l’attribuzione a favore
dei non assegnatari di somme di denaro (o beni) di ammontare minore o maggiore rispetto a quanto corrisponda al
risultato matematico legislativamente previsto. 4.5. La prima ipotesi è sicuramente autorizzata dal richiamo
dell’art. 768-quater cpv. c.c. alla
possibilità che i legittimari rinunzino «in tutto o in parte» ai loro
diritti. La questione sarà semmai quella di vedere se tale rinunzia (totale o parziale, a seconda dei casi) possa darsi per
implicita nel caso in cui la liquidazione in loro favore (pur partecipando gli
stessi, ovviamente, al contratto) sia, rispettivamente, assente o inferiore
rispetto al dovuto. Per quanto attiene, invece, alla
liquidazione di somme superiori, sembra ragionevole ritenere che anche in
siffatte ipotesi si rientri nel patto di famiglia, con la conseguenza che anche
tali attribuzioni potranno considerarsi protette dalla disciplina di cui alla
legge (Fietta, Patto di famiglia, cit., 6; Petrelli
2006, 439). Del resto, l’istituto giuridico di riferimento è quello
contrattuale, per cui, in assenza di una disposizione proibitiva, è la regola
dell’autonomia negoziale che deve trovare espressione, magari con l’ulteriore
ausilio del procedimento di interpretazione estensiva delle norme in tema di
patto di famiglia (Oberto 2006,
112 s., ove si soggiunge che, dal momento che le attribuzioni di cui qui si
parla provengono non già dal disponente, ma dai destinatari dell’azienda o
delle quote, potrà porsi il problema della ravvisabilità, per la parte
eccedente al valore determinato ai sensi di legge, degli estremi di una
liberalità da parte di colui che effettua la liquidazione agli altri
legittimari; dovrebbe qui trattarsi in particolare di una liberalità indiretta,
poiché l’attribuzione è causalmente «coperta» dal patto di famiglia, ma
determina comunque un arricchimento non previsto da tali disposizioni).
5 La
liquidazione in natura e l’eventuale assegnazione con successivo contratto. 5.1. Ai sensi dell’art. 768-quater, cpv., seconda parte, c.c., «i
contraenti possono convenire che la liquidazione, in tutto o in parte, avvenga
in natura». Al riguardo la dottrina si è chiesta quale sia la valenza normativa
di una disposizione che si limita a ribadire la possibilità per le parti di novare l’obbligazione
pecuniaria: possibilità che già discende direttamente dal principio di
autonomia privata (sul punto cfr. Caccavale
2006b, 32). 5.2.
All’osservazione si è però obiettato che la novazione – sicuramente ammissibile
– presupporrebbe comunque la conclusione di un diverso e successivo negozio,
laddove la legge consente qui direttamente, nello stesso patto di famiglia,
di prevedere la liquidazione in natura. Il significato precipuo della norma
viene dunque ad essere quello di autorizzare l’impugnazione per errore anche per
il caso di errore sul valore, non solo dell’azienda o delle partecipazioni, ma
pure del bene sostitutivo del danaro: valore altrimenti (in via di principio)
irrilevante (Caccavale 2006b, 32 s.). 5.3. Stabilisce poi l’art.
768-quater, terzo comma, seconda
parte, c.c. che «l’assegnazione può essere disposta anche con
successivo contratto che sia espressamente dichiarato collegato al primo e
purché vi intervengano i medesimi soggetti che hanno partecipato al primo
contratto o coloro che li abbiano sostituiti». 5.4. Si è sostenuto in proposito che, poiché il bene oggetto del
patto di famiglia è già trasferito definitivamente in capo all’assegnatario, non è ravvisabile un patto successorio dispositivo.
Infatti i legittimari non assegnatari, ricevendo la liquidazione, alienano una
porzione della quota di riserva su un bene già uscito dalla massa ereditaria (Merlo 2006b, 8). Proprio l’esclusione del carattere di patto
successorio deve indurre l’interprete ad ammettere l’estensione analogica della disposizione in oggetto al caso, non
previsto dalla norma, in cui con atto successivo sia effettuata una
liquidazione in denaro (ovvero anche in denaro) e non già mediante (o solo
mediante) l’assegnazione di beni (Oberto
2006, 114). 5.5. In relazione alla
disposizione in commento si rileva altresì che il legislatore ha previsto un
caso di collegamento negoziale. Si
tratta di un collegamento volontario e non necessario, poiché, malgrado sia
espressamente previsto dalla legge, la creazione del nesso, che accomuna i due
negozi, è affidata alla libera scelta delle parti. E’, inoltre, un collegamento
unilaterale, poiché il secondo negozio è subordinato e accessorio rispetto al
primo e ne segue la medesima sorte (Merlo,
Il patto di famiglia, cit., p. 8). 5.6. La fattispecie va collegata con la
necessità che i legittimari, ove non liquidati, esprimano chiaramente una rinunzia ai loro diritti, non essendo
tale rinunzia desumibile dal solo fatto che della liquidazione non sia fatta
menzione. Ne segue che l’ipotesi in oggetto presuppone necessariamente che le
parti, nel patto di famiglia, abbiano fissato
e determinato il valore dell’azienda o delle partecipazioni societarie, nel
contempo rinviando ad un atto successivo non già il mero adempimento della
prestazione, esattamente determinata in contratto, a favore dei legittimari
(cosa peraltro, come si è già rilevato, sicuramente ammissibile), ma la stessa
liquidazione di tali diritti: liquidazione che, come si è visto, potrebbe
essere effettuata in misura più o meno ampia rispetto ai criteri fissati dalla
legge. Naturalmente, risponde all’interesse dei legittimari che i criteri di
tale liquidazione siano predeterminati nel patto (e sarà quanto mai opportuno
che il notaio inviti le parti ad effettuarla), ma l’eventuale assenza di tali
criteri – alla luce delle norme vigenti – non sembra possa determinare la
nullità del contratto (Oberto
2006, 115).
6 Sulla natura di liberalità indiretta della liquidazione in denaro o in natura. 6.1. Sempre in relazione alla liquidazione dei diritti dei legittimari
esclusi, si è affermato da una parte della dottrina (cfr. Caccavale 2006b, 25 s.) che questa liquidazione sarebbe una liberalità
indiretta da parte dell’assegnante. Ciò spiegherebbe il fatto che essa va
attribuita alle quote di legittima che i beneficiari vantano verso il
disponente, nonché la dispensa da collazione e imputazione. 6.2. Di
contro si è rilevato che i citati effetti sono legati alle specifiche norme in
tema di patto di famiglia ed all’interpretazione che delle stesse si voglia
dare, mentre rimane il fatto che appare assai difficile scorgere una
liberalità là ove, come nel caso di specie, l’ «arricchimento» di chi
riceve la liquidazione s’incrocia con un ben preciso sacrificio da parte sua,
consistente nella rinunzia a far valere ogni pretesa che su quell’attribuzione
dovesse nascere sulla base delle norme a tutela dei legittimari, ciò che
evidentemente impedisce ogni possibile ricostruzione alla stregua di una
donazione indiretta (Oberto 2006,
118). 6.3. Il rilievo deve valere, a maggior ragione, in relazione ai legittimari
che, non avendo partecipato al patto, decidessero ai sensi dell’art. 768-sexies c.c. di aderirvi, una volta
aperta la successione. Qui tale adesione, atteso l’incontestabile diritto di
tali soggetti di non aderire al patto, ma di
avvalersi, ove lo preferiscano, delle tutele disposte dalle norme a
protezione dei legittimari, assume valore transattivo in relazione ad un
diritto ormai pienamente maturato nei loro confronti.
7 Conseguenze del patto sulla successione del
disponente.
Collazione, riduzione, riunione fittizia e imputazione ex se. Le attribuzioni ricevute dai
legittimari non assegnatari. 7.1. Quanto agli effetti delle attribuzioni compiute in seno al patto di
famiglia sulla vicenda successoria del disponente, va ricordato che le norme
che vengono in considerazione al riguardo sono, in primo luogo, l’ultimo comma
dell’art. 768-quater c.c., secondo
cui «Quanto ricevuto dai contraenti non è soggetto a collazione o a riduzione»,
nonché il terzo comma del medesimo articolo, per il quale «I beni assegnati con
lo stesso contratto agli altri partecipanti non assegnatari dell’azienda,
secondo il valore attribuito in contratto, sono imputati alle quote di
legittima loro spettanti». 7.2. Il tenore letterale della prima delle
due disposizioni non sembra lasciare adito a dubbi sulla circostanza che non
solo la liberalità ricevuta dagli assegnatari, ma anche l’attribuzione compiuta
a favore dei legittimari esclusi, benefici dell’esenzione da
collazione e riduzione (Oberto
2006, 119 ss.; cfr. anche Caccavale 2006,
35, il quale pone peraltro l’accento sui motivi di equità e
ragionevolezza di tale soluzione). 7.3.
D’altro canto, la seconda delle disposizioni in discorso (sull’imputazione dei
beni ricevuti dai legittimari non assegnatari delle rispettive quote di
legittima) sembra porsi in contraddizione con il sistema. Un sistema che
mostra, in primo luogo, di volere del tutto escludere che i beni assegnati con
il patto tornino in gioco, visto che ne impedisce l’assoggettamento a riduzione
e collazione, tenuto poi anche conto del fatto che, per regola comune,
all’esonero da collazione consegue anche quello da imputazione (cfr. art. 564, ult. cpv., c.c.), nonché, per
interpretazione corrente (per tutti cfr. Capozzi,
Successioni e donazioni, I,
Milano, 1983, 303; cfr. inoltre Palazzo,
Le successioni, I, Introduzione al diritto successorio,
istituti comuni alle categorie successorie, successione legale, TR. IUDICA-ZATTI, Milano, 1996, 535), l’esonero dalla confluenza nella riunione
fittizia. E d’altro canto proprio la negazione del carattere donativo e
liberale dell’attribuzione in favore dei legittimari non assegnatari
dell’azienda o delle partecipazioni societarie dovrebbe indurre ad escludere
che costoro debbano procedere ad imputare ex
se e a «conferire» nella riunione fittizia quanto ricevuto a titolo di
liquidazione: si pensi, ad esempio, a quanto accade in relazione alle
attribuzioni gratuite ricevute ex
art. 770 cpv. c.c. «in occasione di servizi resi o comunque in conformità agli
usi», che, escluse da collazione e da riduzione (cfr. artt. 742, terzo comma,
809 cpv. c.c.), non sono soggette neppure alla riunione fittizia (CC 23 apr.
1969/1311; Oberto 2006, 119 ss.). 7.4.
Per ciò che attiene, dunque, alla disposizione (contenuta nel terzo comma
dell’art. 768-quater), secondo cui «I
beni assegnati con lo stesso contratto agli altri partecipanti non assegnatari
dell’azienda, secondo il valore attribuito in contratto, sono imputati alle
quote di legittima loro spettanti», la necessità di un’imputazione ex se in senso tecnico sarebbe
giustificabile, secondo alcuni (Fietta,
Il patto di famiglia, cit., 9) configurando le attribuzioni in discorso
alla stregua di donazioni indirette del disponente. Di contro si è però
rilevato (Oberto 2006, 119 ss.)
che il carattere di queste prestazioni può definirsi come tutt’altro che
liberale. D’altro canto, non andranno trascurati alcuni elementi testuali,
quali il fatto che la norma si riferisca, curiosamente, ai soli «beni
assegnati» in natura e non già alla liquidazione in denaro, nonché la
stessa collocazione della disposizione, che, anziché essere inserita
nell’ultimo comma (dedicato alle «ricadute successorie» del patto), segue
immediatamente la concessione della possibilità che i diritti dei legittimari
siano soddisfatti, per l’appunto, in natura e non in denaro. 7.5. Si è
così prospettata una lettura della disposizione volta ad intendere
l’espressione «sono imputati alle quote di legittima» in maniera del tutto
atecnica, cioè come riferita al fatto che, se le parti concordano
nell’attribuzione di beni, il valore di questi va espresso in contratto ed è
«imputato» – cioè riferito – all’importo corrispondente alla quota del valore
dell’impresa (o delle partecipazioni societarie). Ne consegue che, se ad
esempio, il valore dell’azienda è 90 e la quota del legittimario è 30 e se si
attribuisce al predetto legittimario un bene del valore di 20, l’assegnatario
dell’azienda dovrà ancora corrispondere (in denaro o in natura) la somma di 10.
In altri termini, il termine «imputazione» va riferito non già all’imputazione ex se da compiersi al momento
dell’apertura della successione del disponente, ma, molto più semplicemente,
alla maniera in cui nel patto viene concretamente determinata la prestazione a
vantaggio dei legittimari non assegnatari dell’azienda (o delle partecipazioni
societarie). Secondo questa tesi, dunque, quanto ricevuto dai legittimari
non andrà a comporre alcuna riunione fittizia, né dovrà essere imputato ex se al momento dell’apertura della
successione del disponente (Oberto
2006, 119 ss.).
8 Segue. Le
attribuzioni ricevute dagli assegnatari.
8.1. Un ulteriore problema investe poi la
necessità (o meno) che quanto ricevuto dagli assegnatari dell’azienda o delle
partecipazioni societarie confluisca nella riunione fittizia e sia imputato ex se da parte di costoro, sempre al
momento dell’apertura della successione del disponente. Rileva una parte della
dottrina (Caccavale 2006, 35)
che lo sbarramento posto dall’esonero
da riduzione e collazione, in aggiunta alla constatazione che nella
liquidazione del legittimari esclusi la legge non prescrive di tenere conto di
altre liberalità o lasciti provenienti dallo stesso disponente, vale a tradurre
la questione in quella di dover stabilire se gli assegnatari dell’azienda o
delle partecipazioni debbano, o meno, vedersi conteggiare, a loro carico, il
valore eccedente le quote di legittima, già calcolate con esclusivo
riferimento all’uno o agli altri cespiti, quale da essi stessi acquisito in
virtù del patto di famiglia. 8.2. In proposito si è prospettato il
seguente caso. Posto che l’azienda assegnata ad uno dei figli dell’imprenditore
sia del valore, quale calcolato all’epoca del patto, di 300 e che l’assegnatario abbia liquidato all’altro fratello la
quota di 100 (cfr. art. 537, cpv.,
c.c.), egli avrà contabilizzato, a suo favore, oltre che il valore di 100,
corrispondente alla sua quota di legittima, anche il restante valore di
ulteriori 100, corrispondente alla quota disponibile, quale sempre ragguagliata
al cespite assegnato. Ora il dilemma consiste proprio nel decidere se, apertasi
la successione, l’assegnatario debba anche imputare alla sua quota di legittima
quel residuo valore che pure ha effettivamente conseguito nel suo patrimonio (Caccavale 2006, 35). 8.3. Sul punto si è constatato che l’efficienza dell’impresa può anche
richiedere, in aggiunta alla inamovibilità dell’assegnazione, anche la
stabilità dell’assetto economico quale originariamente realizzato con il patto.
A ciò s’aggiunga che la cennata conclusione può desumersi per implicito dal
fatto che il legislatore abbia escluso, per le attribuzioni di cui al patto,
l’azione di riduzione e la collazione. Tali esclusioni rendono evidente la voluntas legis di considerare le attribuzioni
in discorso del tutto sottratte ad ogni tipo di effetto successorio, con un
conseguente risultato di «sterilizzazione» di quella massa rispetto al
resto del patrimonio del disponente. Ciò in quanto la determinazione dei
rapporti dare-avere in base alle regole a tutela della legittima è già avvenuta
e si è esaurita al momento della conclusione del patto (Oberto 2006, 122 ss.). 8.4. D’altra parte costituisce
regola generale del diritto successorio che all’esonero da collazione consegua
anche quello da imputazione (cfr. art. 564,
ult. cpv., c.c.), nonché l’esonero dalla confluenza nella riunione
fittizia. Ne consegue che, a prescindere dagli incrementi o decrementi
patrimoniali del de cuius intervenuti
dopo la stipula del contratto, al momento dell’apertura della successione del
disponente gli assegnatari dell’azienda o delle partecipazioni avranno il
diritto di vedersi calcolata la loro quota a prescindere dalle attribuzioni
ricevute con il patto. Ciò non solo con riguardo al valore della disponibile
sull’azienda o sulle partecipazioni oggetto del patto, ma con riferimento al
valore complessivo delle attribuzioni ricevute. Ne consegue dunque che,
nell’esempio sopra riportato, l’assegnatario non dovrà neppure contabilizzare,
al momento della apertura della successione del genitore, la somma di 100
corrispondente al valore della sua legittima su quell’azienda. 8.5. Al momento
dell’apertura della successione del disponente, pertanto, i legittimari
«terzi» potranno liberamente decidere se aderire o meno al patto (con le
conseguenze ex art. 786-sexies c.c.), così subendo anche gli
effetti del mancato computo dell’azienda
(o delle partecipazioni societarie oggetto del patto) nella riunione fittizia e
nell’imputazione ex se da parte
dell’assegnatario. In alternativa, costoro potranno decidere di non aderire
al patto e di invocare le norme a tutela dei legittimari. In tal caso si
procederà ad una determinazione della quota ad essi riservata, che sarà però
effettuata in maniera diversa rispetto a quella degli altri legittimari che
abbiano aderito al patto. Il fatto che si possa pervenire ad un calcolo della
legittima su basi diverse per questa categoria di legittimari rispetto agli
altri non deve destare stupore. Appartiene alla fisiologia del patto di
famiglia che i legittimari rimasti estranei al contratto non ne subiscano gli
effetti, con la conseguenza che, per loro, la riunione fittizia comprenderà
anche i beni trasferiti con il patto, mentre, solo nei loro rapporti, gli
assegnatari tali beni dovranno imputare ex
se. Per questi stessi legittimari non varrà poi neppure l’esenzione da
collazione e riduzione, per cui essi potranno agire ex artt. 553 ss. c.c. (Oberto
2006, 122 ss.).
Vizi del consenso. — Il patto può essere impugnato
dai partecipanti ai sensi degli articoli 1427 e seguenti.
L’azione si prescrive nel termine di un anno.
1.1.
L’art. 768-quinquies c.c. prevede la possibilità di impugnare il patto di famiglia per vizi del consenso ai sensi degli
artt. 1427 ss. c.c. La disposizione è stata ritenuta superflua, discendendo il principio di impugnabilità dalla natura
contrattuale del patto (Oberto
2006, 130 s.). 1.2. Superflua non è
invece la riduzione del termine d’impugnativa, portato da cinque ad un anno. A differenza di quanto
disposto dalla formulazione della norma in esame nel disegno di legge C/3870-A,
della Commissione Giustizia della Camera dei Deputati, secondo cui l’azione si
sarebbe dovuta prescrivere «nel termine
di un anno dalla conoscenza del vizio», l’art. cit. non fissa il dies
a quo per il computo del termine annuale. Nonostante ciò, appare
ragionevole presumere che il termine di riferimento sia pur sempre quello stabilito
dall’art. 1442 cpv. c.c., che ancora la decorrenza al giorno in cui è cessata la violenza o è stato
scoperto l’errore o il dolo, tenuto conto del fatto che la norma novellamente
introdotta rinvia agli artt. 1427 «e seguenti» e dunque, tra le norme «seguenti»
ben può rientrare l’art. 1442 c.c. (Buffone,
op. loc. ultt. citt.; Lupetti 2006, 9; Oberto 2006, 132 s.; Venchiarutti, op. loc. ultt. citt.; Villani,
Il nuovo patto di famiglia, in Pratica fiscale e professionale, n. 10,
6 marzo 2006;). 1.3.
Il vero problema è invece quello di comprendere se l’espresso richiamo
alla sola disciplina dei vizi del consenso induca ad escludere altre possibili forme d’impugnativa,
sulla base dell’applicazione dei principi generali in tema di contratto. Così,
taluni escludono, ad esempio, l’applicabilità degli artt. 1425 e 1426 c.c.,
giustificando tale scelta in considerazione della forma imposta al patto:
l’atto pubblico dovrebbe, invero, essere sufficiente a scongiurare il pericolo
che, al momento della stipulazione del patto di famiglia una delle parti versi
in stato di incapacità, ovvero sussistano raggiri usati dal minore (in questo
senso cfr. Villani, Il nuovo patto di
famiglia, loc. cit.). 1.4.
Si è peraltro replicato che, allora, non si riuscirebbe a comprendere perché
mai siffatte disposizioni trovano pacifica applicazione in relazione ad ogni
altro contratto stipulato per atto pubblico. Del resto, neppure l’eventuale
autorizzazione da parte dell’autorità giudiziaria – qui non richiesta per il
patto, a meno che, ovviamente, a stipularlo non siano chiamati incapaci o
semi-incapaci – vale a «proteggere» un negozio da eventuali impugnative in base
alle disposizioni che prevedono ipotesi di nullità, annullabilità o rescindibilità
(Oberto 2006, 133 ss.; per un
approfondimento del tema con riguardo agli accordi in sede di separazione
consensuale tra coniugi cfr. Id., Simulazioni
e frodi nella crisi coniugale (con qualche accenno storico ad altri ordinamenti
europei), nota a Cass., 5 marzo 2001, n. 3149, FA, 2001, 795 ss.; Id., Simulazione
della separazione consensuale: la Cassazione cambia parere (ma non lo vuole
ammettere), nota a Cass., 20 novembre 2003, n. 17607, CG, 2004, 315 ss.). 1.5. Si è poi anche rilevato che sembrerebbe
assurdo limitare l’impugnativa del patto al caso dell’annullamento per vizi del
consenso, laddove è pacifico che lo stesso potrebbe di fatto presentare profili
di nullità: si pensi, ad esempio,
alla violazione dei principi in tema di forma per atto pubblico, in relazione
ai quali l’art. 768-ter c.c. commina
espressamente la sanzione della nullità. Si pensi anche, e sempre a titolo
d’esempio, al trasferimento di beni non rientranti nel disposto dell’art. 768-bis c.c., posto che, come si è avuto
modo di dire, l’estensione dei principi sul patto di famiglia a beni diversi
dall’azienda (o da un ramo di essa) o dalle partecipazioni societarie
presupporrebbe un’estensione analogica della disposizione vietata dal carattere
eccezionale della stessa (Oberto
2006, 133 ss.). 1.6. E’ anche stata
avanzata la possibilità che si verifichino ipotesi di conversione negoziale. Così, ad esempio, il trasferimento nullo,
perché avente ad oggetto beni diversi dall’azienda o dalle partecipazioni
societarie, potrà produrre gli effetti di una donazione, sempre che di tale
contratto siano stati rispettati i requisiti formali (e questa costituisce una
ragione di più perché il patto sia stipulato alla presenza di testimoni, anche
se tale presenza non appare stricto iure
necessaria), qualora, come richiesto dall’art. 1424 c.c., «avuto riguardo allo
scopo perseguito dalle parti, debba ritenersi che esse lo avrebbero voluto se
avessero conosciuto la nullità» (cfr. Oberto
2006, 134 s.). 1.7. In proposito si
è sottolineato che la conclusione non può ritenersi in contrasto con la
negazione della tesi che ravvisa nel patto di famiglia una donazione. Invero,
ferma restando la finalità liberale dell’attribuzione dal disponente ai
destinatari dell’azienda o delle quote societarie, tale finalità si presenta
nel patto appaiata alla liquidazione in denaro o in natura in favore degli
altri legittimari, o alla rinunzia da parte di costoro: liquidazione che
risponde a finalità solutorie del «prezzo» per la rinunzia ai diritti che a
costoro spetterebbero in quanto legittimari. Ma le due prestazioni (quella cioè
effettuata dal disponente e quelle compiute dai destinatari dell’azienda o
delle partecipazioni societarie), pur se elementi essenziali del patto, non
sono poste tra di loro in corrispondenza biunivoca, con la conseguenza che
sembrano poter vivere vite autonome. Così, mentre la prima attribuzione potrà
essere fatta salva grazie alla conversione del patto, alle condizioni
precisate, in una donazione, più problematico sembra il salvataggio delle
attribuzioni in favore degli altri legittimari, essendo assai difficile
immaginare l’esistenza di un «contratto diverso» che produca gli effetti
descritti dall’art. 768-quater, cpv.,
c.c. (e che sfugga al divieto dei patti successori: Oberto 2006, 134 s.). 1.8.
Per le ragioni sopra illustrate dovrà poi anche ammettersi una convalida, alle condizioni richieste
dall’art. 1444 c.c., di eventuali patti di famiglia annullabili (Oberto 2006, 135; così anche Petrelli 2006, 458). 1.9. In relazione alla specifica
ipotesi dell’annullabilità per errore,
si è ritenuto che la falsa rappresentazione del valore dell’azienda o delle
partecipazioni societarie alienate con il patto di famiglia potrebbe assumere
rilevanza, ex art. 1429, n. 2, alla
stregua di un errore sulle qualità essenziali del bene (Sicchiero 2007, 63 ss.). 1.10. Si rimarca che, nel caso delle partecipazioni in società di
capitali, il problema è ulteriormente complicato dalla presenza dello schermo
costituito dalla personalità giuridica; se si volesse tuttavia ammettere che i
beni sociali non possano considerarsi estranei al patto di famiglia (pur avente
come oggetto immediato la partecipazione societaria), ne deriverebbe non solo
la rilevanza dell’errore sulle qualità di tali beni, ma anche, per gli
assegnatari, la rilevanza dell’aliud pro alio e del difetto delle qualità
promesse ex art. 1497 (Gazzoni 2006, 227). 1.11. Altra dottrina ha sottolineato (Delle Monache
2009, 750) che l’interrogativo concernente il rilievo dell’errore per certi
versi si interseca con il problema se al patto di famiglia risulti applicabile,
relativamente alla liquidazione della legittima spettante ai partecipanti non
assegnatari dei beni d’impresa, l’istituto della rescissione del negozio divisorio per lesione. Quello di cui
all’art. 763 è del resto un rimedio il quale postula la semplice sussistenza di
un divario obiettivo, in misura superiore al quarto, tra ciò che il
condividente leso avrebbe dovuto ricevere in base alla divisione e quanto gli è
stato invece assegnato. Sicché, a voler ammettere l’applicabilità dell’art. 763
al patto di famiglia (in tal senso Amadio
2006b, 886 s.; contra Oberto 2006, 36; Delle Monache 2009, 750), l’errore sul valore venale dei
beni d’impresa alienati assumerebbe pratica rilevanza, come autonoma causa di
impugnazione, rispetto ai soli casi in cui l’entità della lesione non superasse
la soglia (il quarto del valore della quota) oltre la quale è consentito agire
in rescissione (Delle Monache 2009, 750). 1.12. Il patto di famiglia, in quanto contratto, sarà impugnabile con tutti i rimedi
attinenti al profilo del sinallagma
(oltre che genetico, anche) funzionale, con particolare riguardo a
quelli risolutori. In proposito
nulla impedirà alle parti di prevedere termini essenziali per l’adempimento (ad
es.: la corresponsione differita o rateizzata della liquidazione) o di inserire
clausole risolutive espresse, o magari anche penali per il caso di
inadempimento di una determinata obbligazione (si pensi sempre al caso in cui
determinate prestazioni siano previste come differite). 1.13. Andrà infine tenuto presente che, ai sensi dell’art. 40, 4°
co., d. lgs. n. 5 del 2003, l’istanza proposta agli organismi di conciliazione
di cui al medesimo decreto – organismi ai quali sono preliminarmente devolute, ex art. 768-octies, le controversie in materia di patto di famiglia – produce
sulla prescrizione i medesimi effetti interruttivi della domanda giudiziale, a
partire dal momento in cui l’istanza stessa sia stata comunicata alle altre
parti con mezzo idoneo a dimostrarne l’avvenuta ricezione (cfr. Delle Monache
2009, 750).
Rapporti con i terzi. — All’apertura della
successione dell’imprenditore, il coniuge e gli altri legittimari che non
abbiano partecipato al contratto possono chiedere ai beneficiari del contratto
stesso il pagamento della somma prevista dal secondo comma dell’articolo 768-quater,
aumentata degli interessi legali.
L’inosservanza delle disposizioni del primo comma
costituisce motivo di impugnazione ai sensi dell’articolo 768-quinquies.
Sommario: 1. I legittimari «che non hanno partecipato al
contratto»: loro individuazione. — 2. Nascituri
concepiti, figli naturali e coniuge divorziato. — 3.
Il diritto dei legittimari-terzi. — 4. La
sanzione di cui al secondo comma.
1 I
legittimari «che non hanno partecipato al contratto»: loro individuazione. 1.1.
Secondo la tesi prevalente i
legittimari presi in considerazione dalla disposizione in commento possono
essere solo quelli che hanno conseguito tale qualità dopo la stipula del patto,
posto che i legittimari potenziali già esistenti al momento predetto dovrebbero
partecipare a pena di nullità alla stipula del negozio in questione (v. supra, sub art. 768-quater, n. 1).
Si afferma dunque che per «coniuge» ed «altri legittimari», ai sensi
della disposizione in commento devono intendersi unicamente quei soggetti il cui rapporto di coniugio o
parentela con il disponente si sia costituito soltanto dopo la stipulazione del
patto di famiglia (Balestra 2006,
376; Gazzoni 2006, 222; Vitucci 2006, 473 ss.; Delle Monache
2009, 751). 1.2. In senso
contrario si è rilevato che la norma in commento non pone distinzioni
tra legittimari rimasti «terzi» perché, sebbene già esistenti, non abbiano
sottoscritto per le più svariate ragioni (dissenso, incapacità, assenza,
irreperibilità) il contratto e legittimari «terzi» perché nati (si pensi a
figli sopravvenuti del disponente) o divenuti (si pensi al nuovo coniuge o al
figlio adottato) o riconosciuti (si pensi al soggetto di cui sia stato
dichiarato o riconosciuto il rapporto di filiazione naturale o accertato il
rapporto di filiazione legittima) quali legittimari solo in epoca successiva
alla stipula del negozio (Oberto
2006, 48 s., 126 ss.). Un corollario di tale constatazione risiede nel fatto
che, a fronte della predisposizione del rimedio in esame, consistente nella
possibilità che il legittimario sopravvenuto aderisca al patto di
famiglia, quest’ultimo, a prescindere dalla questione sulla sua natura
donativa, non sarà comunque revocabile per sopravvenienza di figli: Oberto 2006, 126; nello stesso senso
cfr. Merlo, Il patto di famiglia, cit., 10; Zoppini
1998, 1272. 1.3. I legittimari sopravvenuti, cui fa richiamo l’art. 768-sexies, primo comma, c.c., non possono
essere quelli divenuti tali per premorienza
del loro dante causa, legittimario del disponente (quelli, cioè, cui fa richiamo
l’art. 536 ult. cpv., c.c.), bensì solo quelli direttamente legittimari del
disponente medesimo: dal nuovo coniuge
(sulla cui peculiare situazione v. supra,
sub art. 768-quater, n. 2), al figlio (del disponente) nato, riconosciuto o
dichiarato successivamente al patto, a quello che comunque, benché già in vita
al momento del patto, non vi avesse per qualunque ragione partecipato (Oberto, 2006, 48 s., 72 ss., 126 ss.). 4.4. Ai discendenti, invece, dei figli legittimi e naturali, cui l’art. 536
ult. cpv. c.c. riserva i medesimi diritti che competono ai figli legittimi e
naturali del disponente, il patto è comunque opponibile, posto che essi
succedono iure repraesentationis e
pertanto si trovano nella medesima situazione del loro dante causa, cui il
diritto verso il disponente era a suo tempo già stato (ovviamente: solo per la
parte relativa all’oggetto del patto) liquidato, o che a tale diritto aveva
rinunziato. 1.5. Tornando agli effetti di quanto disposto
dall’art. 768-sexies cit., il termine
«possono» di cui alla
norma in commento è stato interpretato nel senso che sarebbe in facoltà dei
legittimari sopravvenuti chiedere ai beneficiari del patto di famiglia una
somma commisurata al valore della quota di legittima, solo qualora all’apertura
della successione non vi siano nell’asse ereditario altri beni sui quali
soddisfarsi (Merlo, Il patto di famiglia, cit., 10). In senso contrario si è però notato che di
questa regola non vi è traccia nel testo normativo, soggiungendosi che, semmai,
l’impiego del verbo «potere» fa sorgere il dubbio (da risolversi in modo
positivo) che, per effetto del principio della privity of contract (art. 1372 c.c.) i legittimari «terzi», non
vincolati in modo alcuno al patto di famiglia, abbiano pur tuttavia il diritto
di aderirvi, per effetto di una sorta di diritto di «opzione ex lege»: quanto sopra,
naturalmente, fermo restando che, in alternativa, la legge consente loro di
valersi degli ordinari strumenti a tutela dei legittimari (Oberto 2006, 128).
2 Nascituri concepiti, figli naturali e
coniuge divorziato. 2.1. L’art.
462, 1° comma, c.c., equipara, sotto il profilo della capacità di succedere, il
nato a chi sia invece solo concepito al momento dell’apertura della
successione: sicché l’art. 768-quater,
1° comma, c.c., va interpretato nel senso che tra i potenziali legittimari ivi
contemplati vadano compresi anche i figli del disponente (o, eventualmente, i
suoi ulteriori discendenti) non ancora
nati e tuttavia già concepiti quando il patto viene perfezionato (la loro
partecipazione all’accordo essendo possibile mediante l’intervento sostitutivo
di un curatore speciale, nominato ai sensi dell’art. 320, ult. cpv. c.c.) (Zoppini 2006, 279; Fusaro 2008, 872 s.). Si è quindi
ritenuto che, su queste basi, gli «altri legittimari» di cui parla l’articolo
in comm. andranno identificati, più precisamente, con i figli o gli ulteriori
discendenti del disponente che non fossero neppure concepiti nel momento in cui
è stato stipulato il patto di famiglia (Delle
Monache 2009, 751). 2.2. Quanto ai figli naturali riconosciuti,
occorrerà avere riguardo alla data in cui è compiuto l’atto di riconoscimento,
benché la sua efficacia (come anche è a dire a proposito della dichiarazione
giudiziale di maternità o paternità naturali) abbia efficacia retroattiva al
momento della nascita. Ciò significa che il figlio riconosciuto dovrà
considerarsi compreso tra i soggetti titolati a partecipare al patto di
famiglia, ovvero acquisterà il semplice diritto di cui all’articolo in commento
a seconda che il riconoscimento sia stato perfezionato o no (o, in caso di
dichiarazione giudiziale, la domanda, poi accolta, sia stata proposta o no)
anteriormente alla stipulazione del patto medesimo (Delle Monache
2009, 751; contra Gazzoni 2006, 223, per il quale il
figlio naturale nato prima, ma riconosciuto o dichiarato tale dopo il
perfezionamento del patto di famiglia, sarebbe invece legittimato a farne
valere la nullità). 2.3. Nel caso di
riconoscimento per testamento, con
la conseguenza che i suoi effetti verranno a prodursi solo dal giorno
dell’apertura della successione (art. 256 c.c.), il figlio andrà sempre
ricondotto al novero dei terzi presi in considerazione dall’art. 768-sexies c.c. (cfr. Delle Monache
2009, 751, secondo cui concludere altrimenti per l’ipotesi che il testamento
abbia preceduto la formazione del patto di famiglia, e ciò facendo leva sulla fictio di cui all’art. 768-quater, 1° comma, equivarrebbe invero ad
attribuire rilevanza ad un atto per sua natura destinato – qual è, appunto, il
negozio testamentario – a rimanere del tutto privo di efficacia fino alla morte
del testatore (contra Bonilini 2007, 395). 2.4. Il coniuge sopravvenuto deve
intendersi legittimato a far valere la pretesa di cui all’articolo in
commento, anche nel caso in cui il disponente, al momento del patto, fosse
sposato con altra persona (Delle Monache 2009, 751). 2.5. Con specifico riguardo al caso di scioglimento del primo
matrimonio per divorzio, ritiene
parte della dottrina che l’ex coniuge debba restituire la somma che, per effetto della stipulazione del patto,
abbia già ricevuto a titolo di liquidazione della sua quota di legittima (Balestra 2006, 381s.). Altri Autori
hanno invece asserito che, qualora sia pronunciata una sentenza definitiva di separazione con addebito, il coniuge
non dovrebbe restituire quanto a suo tempo ricevuto, essendo comunque
l’acquisto sorretto da giusta causa: quando però sopravvenga il divorzio e il
disponente si risposi, il nuovo coniuge, dopo l’apertura della successione,
potrebbe pretendere solo dall’ex coniuge divorziato il pagamento della somma da
questi percepita, corrispondente al valore della propria quota, giungendosi
altrimenti all’esito di imporre al discendente alienatario dei beni d’impresa
una duplice liquidazione della quota medesima (Gazzoni
2006, 223). Non manca poi chi, ponendosi in un’ottica diversa, ha affermato
che, in tutte le ipotesi in cui il partecipante escluso dall’attribuzione preferenziale
non assuma in seguito la qualità di legittimario (come nel caso di divorzio,
premorienza o rinunzia all’eredità), la liquidazione a suo tempo versatagli
dovrebbe considerarsi, ex post, come
non dovuta (Petrelli 2006, 459).
In senso diametralmente opposto si è invece dimostrato, anche alla luce
dell’analisi storica, che il coniuge, a prescindere dalla separazione (con
addebito o meno), così come dal divorzio, nulla
dovrà mai restituire agli eredi del disponente (Oberto 2006, 73; v. anche supra, sub art. 768-quater, n. 2).
3 Il
diritto dei legittimari-terzi. 3.1.
Il credito preso in considerazione dalla norma in oggetto è un credito pecuniario per una somma pari
al valore della quota di legittima a lui spettante, ex artt. 537 ss. c.c., sui
beni d’impresa attribuiti con il patto stesso (oltre agli interessi legali,
come si specifica nella disposizione in esame). Il valore del compendio non va
rideterminato, ma rimane quello stabilito nel patto di famiglia (Ieva 2001, 188 s.; Id. 2007, 44; Gazzoni 2006, 222; Zoppini 2006, 275 s.; Delle
Monache 2009, 752). 3.2.
E’ da ritenersi che l’espressione «possono chiedere…», di cui alla norma
in commento, non denoti tanto il conferimento ai legittimari «terzi» di un
potere d’azione, da esercitarsi tramite l’esperimento di una procedura simile
all’azione di riduzione (questo è invece l’avviso di Fietta, Patto di
famiglia, cit., 13). Essa indica, semmai, la presenza di una situazione in
cui i terzi possono aderire al
patto, mediante manifestazione di volontà unilaterale (rivestita, è da
presumersi, delle stesse forme previste per il patto di famiglia), di adesione
ad una sorta di «opzione ex lege».
Solo nel caso di successivo inadempimento all’obbligo di liquidazione, da parte
degli altri contraenti, secondo quanto previsto dalla norma, i legittimari già
«terzi», ora parte del patto, potranno proporre azione d’impugnazione ai sensi
dell’ultimo capoverso dell’art. 768-sexies
c.c. I legittimari «terzi» potranno
decidere di non aderire al patto e dunque di valersi degli ordinari
strumenti a tutela della loro posizione (Oberto
2006, 68 s., 126 ss.; analogamente, Checchini,
Patto di famiglia e principio di
relatività del contratto, RDC, 2007, 296 ss.; contra Delle Monache 2009, 752). 3.3. In caso di adesione al patto da parte dei legittimari
sopravvenuti, a costoro compete il diritto di chiedere «ai beneficiari del
contratto stesso il pagamento della somma
prevista dal secondo comma dell’articolo 768-quater, aumentata degli interessi legali».
Il diritto in oggetto compete dunque nei confronti di tutti gli altri
contraenti (diversi dal disponente, che non è «beneficiario» di alcunché) e
quindi non solo degli assegnatari (Oberto
2006, 128; contra Delle Monache 2009, 752). 3.4. Tale somma, in base alla norma
richiamata, è quella «corrispondente al valore delle quote previste dagli
articoli 536 e seguenti». 3.5. Posto
quindi, che, come doveroso, sia stato indicato nell’originario patto di
famiglia il valore dell’azienda o delle
partecipazioni societarie, il quantum
dovuto ai legittimari sopravvenuti sarà determinato sulla base di quel valore.
Ciò a prescindere dal fatto che gli importi effettivamente riconosciuti e
corrisposti agli altri legittimari, per effetto di rinunzie totali o parziali,
o, al contrario, di atti di liberalità, sia stato diverso o addirittura pari a
zero (Oberto 2006, 128). 3.6. Per effetto dell’applicazione
della regola generale in tema di obbligazioni con più soggetti ex latere debitoris (cfr. art. 1294
c.c.) dovrà affermarsi la natura
solidale dell’obbligazione in discorso (cfr. Merlo, Il patto di
famiglia, cit., p. 10; Petrelli 2006, 458; Oberto 2006, 128).
4 La
sanzione di cui al secondo comma. 4.1. Curiosa è poi la sanzione comminata per l’inadempimento dell’obbligo
di liquidazione, con il conferimento all’ex legittimario sopravvenuto del
potere di chiedere l’annullamento del contratto. Costituisce un’indubbia
distonia del sistema aver previsto, per un’alterazione del sinallagma
funzionale, uno strumento tipicamente diretto a porre rimedio alle alterazioni
del sinallagma genetico, quale, per l’appunto, l’azione di annullamento (Oberto 2006, 128 s.). Si è del resto
osservato che, in termini pratici, la norma si traduce nel rendere incerto il
destino del patto per un lasso temporale eventualmente anche assai lungo, in
caso di longevità del disponente (Balestra
2006, 383 s.; Id. 2009, 491 s.). 4.2. Altri tuttavia ha osservato come
l’anomalia in discorso si giustificherebbe, da un punto di vista equitativo,
considerando che i legittimari che invece hanno partecipato al patto di
famiglia potrebbero, nel caso rimanga inadempiuto l’obbligo di liquidazione
della loro quota, agire con l’azione di risoluzione
(Gazzoni 2006, 227; nega, per
contro, l’esperibilità ditale azione, Oppo
2006, 444). 4.3. Si è proposto in
dottrina che l’inciso «inosservanza
delle disposizioni» vada inteso non già come equivalente ad «inadempimento di
obblighi» (quale sarebbe il mancato pagamento del dovuto) e che lo stesso possa
riferirsi a diversa fattispecie, cioè al mancato funzionamento del sistema previsto
dal secondo comma dell’art. 768-quater c.c., dovuto a vizi quali, ad esempio, l’imprecisione
dell’aspetto valutativo (Fietta,
Patto di famiglia, cit., 13 s.). 4.4. In senso contrario si è
osservato che la tesi appare troppo antiletterale. D’altro canto l’esistenza di
errori di valutazione potrà rilevare se ed in quanto sia il frutto di un vizio
del consenso, in relazione al quale l’azione di annullamento è già esperibile ex art. 768-quinquies c.c. Occorre dunque rassegnarsi all’idea che il legislatore,
nella sua sovrana discrezionalità, ha fatto ricorso ad un’azione attinente al
piano della validità del negozio per sanzionare l’inadempimento di quanto
stabilito nel contratto (Oberto
2006, 128 s.). 5.5. Come per l’ipotesi «normale» di annullamento ex art. 768-quinquies c.c. l’azione sarà disciplinata dagli artt. da 1441 a
1446 c.c., ma sottoposta a termine di prescrizione annuale, decorrente dal
giorno della stipula del contratto: cioè del contratto perfezionatosi con
la sua adesione all’originario patto di famiglia. Quest’ultima conclusione
deriva dalla semplice constatazione che nessuna delle situazioni descritte dal
capoverso dell’art. 1442 c.c. sembra adattabile al caso di specie, con la
conseguenza che sarà il comma terzo del citato articolo a doversi applicare. Da
notare, poi, che la ricostruzione qui proposta – secondo cui il diritto di
«chiedere ai beneficiari del contratto stesso» la liquidazione altro non è se
non la previsione della possibilità per il legittimario «sopravvenuto» di
aderire all’originario contratto – consente di evitare un’altra evidente
distonia, rappresentata dal fatto che, altrimenti opinando, dovrebbe ammettersi
che l’azione di annullamento di un contratto è stata concessa a un terzo, del
tutto estraneo al contratto stesso (Oberto
2006, 129).
Scioglimento. — Il contratto può essere sciolto o
modificato dalle medesime persone che hanno concluso il patto di famiglia nei
modi seguenti:
1) mediante diverso contratto, con le medesime
caratteristiche e i medesimi presupposti di cui al presente capo;
2) mediante recesso, se espressamente previsto nel
contratto stesso e, necessariamente, attraverso dichiarazione agli altri
contraenti certificata da un notaio.
Sommario: 1. Lo
scioglimento del patto «mediante diverso contratto». — 2. Lo scioglimento del patto per recesso.
1 Lo scioglimento del patto «mediante diverso
contratto». 1.1. Si ritiene che il
negozio diretto a sciogliere o a modificare il patto di famiglia rientri nella
stessa definizione contenuta nell’art. 1321 c.c. (Merlo, Il patto di
famiglia, cit., 11), ma le disposizioni qui in commento sono in gran parte
(se si prescinde, cioè, dalle raccomandazioni in tema di forma) superflue, atteso che, avuto riguardo
alla natura pacificamente contrattuale del patto di famiglia, risulta più che
evidente che un contratto possa essere sciolto per mutuo dissenso o modificato
da tutti i suoi contraenti (cfr. art. 1372 c.c.) e che, in base all’art. 1373
c.c. i contraenti originari possano attribuire ad uno o a più di essi il
diritto potestativo di recedere (Oberto
2006, 130). 1.2. Inutile dire che,
qualora nel patto di famiglia si dovesse riconoscere un contratto costantemente bilaterale – nel senso
che la partecipazione dei singoli legittimari esclusi dall’attribuzione
preferenziale si verrebbe comunque a tradurre in una serie di atti adesivi
esterni all’accordo contrattuale (così, Caccavale
2006, 38 ss.) – sembrerebbe derivarne che, quali soggetti legittimati allo
scioglimento o alla modifica andrebbero intesi soltanto il disponente e i
discendenti assegnatari dei beni d’impresa. In realtà, è dubitabile che, una
volta determinatasi la conversione della legittima in un credito pecuniario a
favore dei legittimari cui non sono stati trasferiti i beni d’impresa, gli
stessi possano essere privati del diritto ormai acquisito senza che occorra un
loro atto di consenso: o perlomeno si dovrà dire, argomentando in base alla
disciplina del contratto a favore di terzi, che un tale atto di consenso sarà
indispensabile nei casi in cui il legittimario abbia aderito al patto di
famiglia (cfr. Delle Monache 2009, 753). 1.3. Per quanto attiene alla struttura
soggettiva del contratto diretto a sciogliere o modificare il patto di
famiglia, dovrà riconoscersene la natura di negozio plurilaterale, al cui perfezionamento devono partecipare
tutti i soggetti che sottoscrissero il patto, laddove quelli che ad esso
restarono estranei non dovranno esprimere il loro consenso, se vorranno, come
sopra chiarito (v. supra, sub art. 768-quater, n. 1) continuare a non essere vincolati all’accordo (che
continua a restare per loro res inter
alios acta, né pregiudica i diritti che a loro, in quanto legittimari,
competono). Il mutuo dissenso dovrà dunque essere concluso da tutti coloro che hanno preso parte al patto di famiglia e, di
conseguenza, anche i non assegnatari dell’azienda o delle partecipazioni
sociali saranno tenuti a restituire quanto ricevuto a titolo di liquidazione
(così Merlo, Il patto di famiglia, cit., 13). 1.4. Per ciò che attiene alla formulazione dell’art. 768-septies
n. 1 c.c., si è rilevato (Merlo,
Il patto di famiglia, cit., 12) che
la stessa sembra confermare la teoria, sostenuta in dottrina (cfr. Capozzi,
Il mutuo dissenso nella pratica notarile,
VN, 1993, 635 ss.), in base alla quale il mutuo dissenso è attuabile anche quando ha per oggetto lo
scioglimento di un contratto i cui effetti si sono interamente prodotti (ad
avviso di Gazzoni, Manuale di
diritto privato, Napoli, 2004, 1008, il mutuo dissenso rappresenta un
negozio con esclusivi effetti solutori e non è idoneo a produrre l’effetto traslativo
costituito dal ritrasferimento, di conseguenza, secondo tale tesi, l’effetto
del ritrasferimento verrebbe prodotto da un atto separato solutionis causa,
giustificato dal pregresso accordo). In definitiva, col mutuo dissenso
del patto di famiglia, l’azienda o le partecipazioni sociali trasferite ritornano nel patrimonio del disponente,
ripristinando la situazione precedente. 1.5.
Per quanto attiene all’espressione «medesime
caratteristiche», contenuta nella norma in commento, pare dover essere riferita
ai requisiti di forma previsti per il patto di famiglia, requisiti che dovranno
essere osservati anche con riguardo alla conclusione del successivo contratto
teso a determinare lo scioglimento o la modifica del primo. 1.6. Quanto poi ai «medesimi presupposti», richiesti dalla
legge rispetto a tale contratto, la formula è stata interpretata nel senso di
un richiamo alle condizioni sostanziali ed economiche sussistenti al momento
del patto e che ne avevano giustificato il perfezionamento: occorrerebbe, in
altri termini, che l’azienda assegnata con il patto di famiglia sia ancora
integra o che la partecipazione societaria trasferita conservi una consistenza
sufficiente a consentire la gestione dell’impresa collettiva (Delle Monache
2009, 753).
2 Lo scioglimento del patto per recesso. 2.1.
Per quanto attiene, poi, al recesso,
si è affermato che la facoltà concessa dall’art. 768-septies, n. 2, c.c., sarebbe
difficilmente attuabile. Ciò in quanto tale previsione legislativa si scontra
con il disposto dell’art. 1373 c.c., che, in tema di recesso unilaterale,
riconosce la facoltà di recedere solo finché il contratto non abbia avuto un
principio di esecuzione. Al di fuori di tale ipotesi, il recesso può essere
esercitato nei contratti ad esecuzione continuata o periodica, facendo salve
tuttavia le prestazioni già eseguite (Merlo,
Il patto di famiglia, cit., 13). Si è
però obiettato che, avuto riguardo all’effetto
reale tipicamente prodotto dal
patto, il contratto viene ad «avere esecuzione» fin dal momento della sua
stipula. Ciò non toglie però che il legislatore abbia qui chiaramente inteso
far salva la possibilità per i contraenti di prevedere siffatta facoltà (Oberto 2006, 131). 2.2. Anche in assenza della disposizione in commento, si sarebbe
potuto consentire alle parti di pervenire ai medesimi risultati, utilizzando la
facoltà concessa dall’ultimo capoverso dell’art. 1373 c.c., pur a dispetto
della natura «non ad esecuzione continuata o periodica» del patto di famiglia.
Secondo l’opinione preferibile, oltre che prevalente in dottrina, invero, non
vi è motivo di intendere restrittivamente la disposizione testé citata: ragion
per cui, anche nei contratti non di
durata, appare sensato ammettere che le parti possano pattuire che il
recesso sia esercitabile anche dopo che si sia dato principio alla loro
esecuzione (per i rinvii cfr. Oberto
2006, 130 s.). Il diritto di recesso
può essere convenzionalmente attribuito
a ciascuna delle parti contraenti. Tuttavia, mentre il recesso del disponente e
quello del destinatario dell’attribuzione preferenziale determineranno lo
scioglimento del patto di famiglia, quest’ultimo risulterà soltanto modificato
in caso di recesso di un partecipante non assegnatario dei beni d’impresa (Petrelli 2006, 462 s.). 2.3. Qualora si assuma che, ai fini del
valido perfezionamento del patto di famiglia, dovesse intendersi necessaria la
partecipazione di tutti i legittimari potenziali esistenti, non si potrebbe al
contempo concludere che, dall’un lato, sarebbe ammessa l’ipotesi della
concessione di un potere di recesso ad
nutum in capo a ciascuno di tali legittimari e che, dall’altro, l’esercizio
di codesto potere non avrebbe riflessi sul perdurare del vincolo tra gli altri
contraenti (Delle Monache 2009, 753). Si è così osservato
che, ammessa l’universalità soggettiva del patto, delle due l’una: o (a) il
recesso attuato da uno dei legittimari esclusi dall’attribuzione preferenziale
dovrà essere concepito come fattore che determina la caducazione dell’intero
contratto, o (b) non si potrà ritenere in realtà consentito, rispetto ai
legittimari stessi, il recesso ad nutum,
ma solo il conferimento di un potere di sciogliersi dal vincolo contrattuale
condizionato al ricorrere di una giusta causa, oppure al verificarsi di
specifiche circostanze previamente individuate dai contraenti (Delle Monache
2009, 753). Quanto alla prima delle opzioni in gioco – quella, cioè, per cui
dovrebbe riconoscersi all’atto di recesso posto in essere da uno dei non
assegnatari dei beni d’impresa l’attitudine a travolgere l’intero patto di
famiglia – sembra contrastata dal tenore del dettato dell’art. 768-septies, ai sensi del quale il contratto
«può essere sciolto o modificato», parimenti, sia attraverso un accordo
successivo intervenuto tra i medesimi contraenti (n. 1), sia «mediante recesso»
(se espressamente previsto) di uno ditali contraenti (n. 2): la legge contempla
perciò il caso di un recesso con valenza soltanto modificativa del patto di
famiglia, e tale non può essere se non il recesso proveniente da uno degli
esclusi dall’attribuzione preferenziale. Non rimarrebbe pertanto che concludere
per l’inammissibilità della concessione, a favore dei non assegnatari dei beni
d’impresa, di un potere di recesso da esercitarsi ad nutum, tale potere dovendo invece essere collegato alla presenza
di una giusta causa o comunque al verificarsi di determinati presupposti che le
parti provvederanno a specificare (così sempre Delle
Monache 2009, 753). 2.4. In realtà, l’evidente lontananza
di siffatta conclusione dal testo legislativo (che non pone distinzioni, né
reca riferimenti al concetto di giusta causa o a istituti similari) dimostra,
ancora una volta, l’insostenibilità della tesi che richiede ad validitatem la partecipazione di
tutti i legittimari potenziali alla stipula del patto di famiglia. 2.5. Circa la forma del recesso, e nonostante la poco perspicua terminologia
utilizzata dal legislatore (il quale parla, nell’art. 768-septies n. 2, di una dichiarazione, da indirizzare agli altri
contraenti, che dev’essere «certificata da un notaio»), sembra che non possa
dubitarsi della necessità dell’atto pubblico (Delle
Monache 2009, 753). 2.6. L’esercizio del diritto potestativo di recesso
determinerà il venir meno degli effetti dell’intero negozio, se a recedere
saranno il disponente o il destinatario dell’azienda o delle partecipazioni
azionarie. Per ciò che attiene agli altri legittimari, il recesso di costoro
comporterà solo l’obbligo di restituzione di quanto ricevuto e, ovviamente, la
non estensibilità nei loro confronti degli effetti del patto, con il risultato
che i medesimi verranno a trovarsi nella situazione descritta dall’art. 768-sexies c.c. Attese le inevitabili
complicazioni e gli immaginabili strascichi dell’atto in oggetto, si raccomanda
ai notai di fare assai parco uso di questa clausola (Oberto 2006, 132).
Controversie. — Le controversie derivanti dalle
disposizioni di cui al presente capo sono devolute preliminarmente a uno degli
organismi di conciliazione previsti dall’articolo 38 del decreto legislativo 17
gennaio 2003, n. 5.
Sommario: 1.
Generalità. Controversie sul patto di famiglia e tentativo stragiudiziale di
conciliazione. — 2. L’ambito oggetto di applicazione
della norma; clausole compromissorie e arbitrato societario. — 3. Lo svolgimento delle procedure di
conciliazione.
1 Generalità.
Controversie sul patto di famiglia e tentativo stragiudiziale di conciliazione.
1.1. La disposizione richiamata dalla norma in commento (e cioè l’art.
38, d. legisl. 17 gen. 2003, n. 5) prevede, in relazione ai procedimenti in
materia di diritto societario e di intermediazione finanziaria, nonché in
materia bancaria e creditizia, la costituzione, da parte degli enti pubblici o
privati, che diano garanzie di serietà ed efficienza, di organismi deputati, su istanza
della parte interessata, a gestire un tentativo di conciliazione.
Tali organismi debbono essere iscritti in un apposito registro tenuto presso il
Ministero della giustizia. Il registro e le modalità di iscrizione sono
regolate dal d. legisl. 23 lug. 2004, n. 222 (sulla disciplina della
conciliazione stragiudiziale in materia societaria cfr. Minervini, SOC, 2003, 657 ss.; Brunelli, Clausole compromissorie, dell’arbitrato e
della conciliazione stragiudiziale in materia societaria, Aa. Vv.,
La riforma delle società. Aspetti applicativi, a cura di Bortoluzzi, 421 ss.; Miccolis, RDC, 2004, II, 97 ss.; Sanzo e Migliaccio,
Della conciliazione stragiudiziale, Nuovo dir. soc. Cottino, 2998
ss.; sui provvedimenti attuativi cfr. Brunelli,
VN, 2004, 1734 ss.; Soldati, C,
2004, 1074 ss.; Picaroni, SOC,
2004, 1424 ss.). 1.2. Non vi è dubbio che la norma si inquadra in
una linea di tendenza – che sta progressivamente emergendo negli ultimi anni –
volta a superare le lungaggini e gli inconvenienti della giustizia civile,
avvalendosi di procedure alternative di risoluzione delle controversie
(così Petrelli 2006, 465; nello
stesso senso v. anche Brunelli, Arbitrato
e conciliazione, Aa. Vv., Patti di famiglia per l’impresa,
cit., 318; sul tema delle ADR, v. per tutti Alpa,
Modi stragiudiziali di composizione dei conflitti-ADR, Aa. Vv.,
La parte generale del diritto civile, 2, TR. SACCO, 179; Brunelli,
Clausole compromissorie, dell’arbitrato e della conciliazione stragiudiziale
in materia societaria, cit., 318 ss., 327 ss.; Ead., N, 2005, 195; Venditti,
Articolo 2 (art. 768 octies), De
Nova, Delfini, Rampolla e
Venditti, Il patto di famiglia, cit., 83 ss.; Oberto 2006, 135 ss.). 1.3. Il problema principale consiste
nel comprendere il significato dell’espressione «sono devolute
preliminarmente». Si è rilevato in proposito (cfr. Buffone 2006, cit.) che, secondo la Corte costituzionale
(cfr. da ultimo Corte Cost., 8 giu. 2005, n. 221, con ampi richiami ai
precedenti della stessa Corte in motivazione), l’arbitrato deve essere una scelta e non un’imposizione
legislativa. È noto del resto che, come più volte ribadito dalla Consulta,
poiché la Costituzione garantisce ad ogni soggetto il diritto di agire in
giudizio per la tutela dei propri diritti ed interessi legittimi, «il
fondamento di qualsiasi arbitrato è da rinvenirsi nella libera scelta delle
parti: perché solo la scelta dei soggetti (intesa come uno dei possibili modi
di disporre, anche in senso negativo, del diritto di cui all’art. 24, 1o
co., Cost.) può derogare al precetto contenuto nell’art. 102, 1o
co., Cost. [...], sicché la “fonte” dell’arbitrato non può più ricercarsi e
porsi in una legge ordinaria o, più generalmente, in una volontà autoritativa»,
con conseguente incostituzionalità delle norme che prevedano forme di arbitrato
obbligatorio (Corte Cost., 8 giu. 2005, cit.). All’osservazione può però
obiettarsi (cfr. Oberto 2006, 136)
che altro è mediazione e altro è arbitrato. Inoltre, altro è mediazione
preliminare all’instaurazione della causa (assimilabile al tentativo
obbligatorio di conciliazione, che si ha, ad esempio, nel rito del lavoro) e
altro è arbitrato obbligatorio. Come esattamente rimarcato in dottrina (cfr. Venditti, op. cit., 85), la
compatibilità del tentativo obbligatorio di preventiva conciliazione, rispetto
al libero esercizio del diritto di azione di cui all’art. 24, 1o
co., Cost., ha già superato il vaglio del giudice delle leggi (cfr. Corte
Cost., 13 lug. 2000, n. 276, G CIV, 2000, I, 2499). 1.4. Semmai la vera obiezione, sul piano dell’opportunità, investe
la scelta di politica legislativa di demandare l’opera di mediazione, in una
materia caratterizzata da profili di esasperato tecnicismo nel campo del
diritto successorio (ma anche di quello familiare e contrattuale in genere), a
organismi di conciliazione propri del settore commerciale e societario.
2 L’ambito
oggetto di applicazione della norma; clausole compromissorie e arbitrato
societario. 2.1. Venendo all’ambito oggettivo d’applicazione
della norma ci si chiede se la disposizione trovi applicazione in relazione
alle controversie che riguardino comunque il patto di famiglia, ovvero solo a
quelle originate dalle specifiche disposizioni di cui agli artt. 768 ss., con
particolare riguardo alle impugnative previste dagli artt. 768-quinquies
e 768-sexies, cpv. Si pensi ad esempio a controversie determinate dalla
violazione di clausole statutarie di gradimento, un richiamo alle quali
può scorgersi nel riferimento di cui all’art. 768-bis alla necessità che
i trasferimenti delle partecipazioni sociali rispettino le differenti tipologie
societarie. Il quesito potrebbe anche concernere clausole di arbitraggio ex
art. 1349 per la determinazione del valore dell’azienda trasferita. Si pone poi
anche la questione dell’ammissibilità di procedure cautelari, prima del
tentativo di conciliazione. Agli interrogativi di cui sopra si è risposto
prospettando la necessità di indagare caso per caso l’effettivo campo di
applicazione della disposizione (così Venditti,
op. cit., 86), anche se il tenore della stessa appare di una ampiezza
tale da non ammettere eccezioni, in relazione ad ogni tipo di controversia che
sia in qualsiasi modo ricollegata all’esistenza delle disp. di cui agli artt.
768-bis ss. 2.2. Trattandosi comunque di diritti disponibili non
sembra impossibile ipotizzare (ed anzi, auspicare) l’inserimento di clausole
compromissorie (ora definite anche «convenzioni d’arbitrato» dal capo I, titolo
VIII, del libro IV del codice di procedura civile, dopo la riforma di cui al d.
legisl. 2 feb. 2006, n. 40), che demandino la devoluzione delle controversie
sorgenti dal patto di famiglia – una volta superata eventualmente senza
soluzione conciliativa la fase della mediazione – a collegi arbitrali a
composizione notarile (cfr. Oberto,
op. loc. ultt. citt.; nello stesso senso v. anche Brunelli, Arbitrato e conciliazione,
in Patti di famiglia per l’impresa, cit., 339 ss.). 2.3. Per
quanto attiene più strettamente all’arbitrato, occorre tenere presenti i
possibili diversi beni oggetto di trasferimento: azienda e partecipazioni
societarie. Nel primo caso, il trasferimento di un’azienda comporterà
l’applicazione della disciplina dell’arbitrato ordinario. Nel secondo, proprio
il trasferimento di partecipazioni societarie potrebbe innescare l’applicazione
della disciplina dell’arbitrato societario. In effetti, l’art. 1, d. legisl. n.
5 del 2003, che individua l’ambito di applicazione del provvedimento, indica, al
1o co., lettera b), il «trasferimento delle partecipazioni
sociali, nonché ogni altro negozio avente ad oggetto le partecipazioni sociali
o i diritti inerenti». 2.4. L’arbitrato societario disciplinato
dal d. legisl. n. 5 del 2003 costituisce una figura di arbitrato sui generis,
con caratteristiche che lo distinguono dall’arbitrato disciplinato dal codice
di procedura civile. In particolare è comminata la sanzione della nullità per
le clausole compromissorie statutarie che non conferiscano il potere di nomina
degli arbitri a soggetto estraneo alla società (cfr. art. 34, d. legisl. n. 5
del 2003). In proposito, l’art. 35 del citato d. legisl. n. 5 del 2003 dichiara
inderogabili le disposizioni dell’art. 34 cit., il quale a sua volta fa
riferimento ai soli rapporti nascenti dallo statuto sociale, riferendosi
espressamente (cfr. la relativa rubrica) alle «clausole compromissorie
statutarie». D’altro canto, la clausola arbitrale di cui qui si discute non
troverebbe la sua genesi nello statuto sociale, bensì, per l’appunto, nel patto
di famiglia. L’ampiezza del tenore letterale dell’art. 1 d. legisl. n. 5 del
2003 consiglia però tuzioristicamente di rimettere la nomina degli arbitri ad
un terzo tutte le volte in cui il patto di famiglia comporti il trasferimento
di partecipazioni societarie (così Brunelli,
Arbitrato e conciliazione, in Patti di famiglia per l’impresa,
cit., 341).
3 Lo svolgimento delle procedure di
conciliazione. 3.1. A differenza di quanto è previsto, ad es., nella
legge sul franchising (l n. 129/2004, art. 7), nel caso del patto di
famiglia la conciliazione è devoluta a tutti gli organismi di conciliazione
di cui all’art. 38 cit. e non solo alle camere di commercio. Secondo parte
della dottrina non è chiaro tuttavia se il riferimento agli organismi di cui
all’art. 38 valga solo ad individuare il soggetto competente ad erogare il
servizio di conciliazione, o non valga piuttosto ad estendere alle
conciliazione in materia di patto di famiglia l’intera disciplina di cui agli
artt. 38 - 40 del decreto n. 5/03 (cfr. Cuomo
Ulloa, La conciliazione. Modelli di composizione dei conflitti,
Padova, 2008, 378 s.). Quest’ultima soluzione appare tuttavia preferibile,
atteso il carattere assolutamente generale e generico del rinvio operato dalla
norma in esame. 3.2. Lo svolgimento
del procedimento di conciliazione, secondo l’art. 38 cit., dovrà aver luogo
nell’osservanza dei successivi articoli 39 e 40 dello stesso d. legisl. n. 5
del 2003, con la conseguenza, in particolare, che i contraenti, nell’atto
pubblico con cui è concluso il patto di famiglia, avranno la facoltà di
indicare specificamente l’organismo di conciliazione. Inoltre, il mancato
preventivo esperimento della conciliazione, senza che sia rilevabile
d’ufficio dal giudice, dovrà essere fatto valere dalla parte interessata nella
prima difesa; la proposizione della domanda di conciliazione produrrà sulla
prescrizione i medesimi effetti di quella giudiziale. Nel caso di successo del
tentativo di conciliazione sarà redatto processo verbale che, previo
accertamento della regolarità formale, andrà omologato dal presidente del
tribunale nel cui circondario ha sede l’organismo di conciliazione. Il verbale
acquisterà così l’efficacia non soltanto di titolo per l’iscrizione
dell’ipoteca giudiziale, ma anche di titolo esecutivo sia per l’espropriazione
forzata, sia per l’esecuzione forzata in forma specifica (cfr. Busani, G DIR, 2006, 49; in senso
parzialmente difforme cfr. Venditti,
op. cit., 89, secondo cui le norme di procedura ex art. 40 cit.
non potranno trovare diretta applicazione, se non richiamate nei regolamenti
adottati dagli organismi di conciliazione e nei limiti in cui l’autonomia
privata possa farvi riferimento). 3.3. Il
fatto che la conciliazione debba svolgersi dinanzi ad un organismo iscritto
dovrebbe rendere applicabili anche alle conciliazioni in esame tutte le disposizioni
regolamentari di cui al d.m. 222 del 2004: dovendo pertanto il procedimento
di conciliazione svolgersi secondo il regolamento di procedura depositato
dall’organismo adito (così anche Cuomo
Ulloa, ibidem). Per questa ragione dovrebbe applicarsi, anche
alle conciliazioni in esame, la norma sugli effetti della domanda di conciliazione, spettando all’organismo
adito trasmettere la stessa alla controparte con i mezzi idonei a provarne la
ricezione previsti nel regolamento: troveranno applicazione inoltre le norme contenute
nel regolamento dell’organismo adito in materia di riservatezza e di
imparzialità. così come le regole dettate per la formazione e la qualificazione
professionale del conciliatore (così Cuomo
Ulloa, ibidem). 3.4.
Andrà ancora tenuto conto del fatto che, per effetto dell’art. 5, primo comma,
del d.lgs. 4 mar. 2010/28, «chi intende
esercitare in giudizio un’azione relativa ad una controversia in materia di
condominio, diritti reali, divisione, successioni ereditarie, patti di
famiglia, locazione, comodato, affitto di aziende, risarcimento del danno
derivante dalla circolazione di veicoli e natanti, da responsabilità medica e
da diffamazione con il mezzo della stampa o con altro mezzo di pubblicità,
contratti assicurativi, bancari e finanziari, è tenuto preliminarmente a
esperire il procedimento di mediazione ai sensi del presente decreto ovvero il
procedimento di conciliazione previsto dal decreto legislativo 8 ottobre 2007,
n. 179, ovvero il procedimento istituito in attuazione dell’articolo 128-bis del testo unico delle leggi in
materia bancaria e creditizia di cui al decreto legislativo 1° settembre 1993,
n. 385, e successive modificazioni, per le materie ivi regolate». 3.5. Fino alla entrata in vigore
dell’art. 54, quinto comma, l. 18 giugno 2009, n. 69, che ha disposto
l’abrogazione del «rito societario», atteso che l’articolo 768-octies
non aveva introdotto direttamente novità nella specifica materia, in
applicazione dell’articolo 1, lett. b), del d. legisl. n. 5 del 2003, si
doveva ritenere che, una volta instaurato il giudizio, andasse seguito il c.d.
«rito societario» (artt. 1 ss., d. legisl. n. 5 del 2003) soltanto ove
nella specie il disponente si fosse servito del patto di famiglia per
trasferire partecipazioni societarie. Al contrario, qualora
l’imprenditore avesse trasferito «in tutto o in parte l’azienda», si sarebbe
dovuto applicare il procedimento ordinario di cognizione (così Busani, ibidem; Oberto, ibidem). Quest’ultima
regola deve trovare ora sempre applicazione per qualsiasi ipotesi di processo
in materia di patto di famiglia, a condizione che sia stato instaurato
successivamente all’entrata in vigore della citata riforma processuale del 2009.
3.6. Da ultimo va aggiunto che il
decreto legislativo 4.3.2010, n. 28, attuativo dell’art. 60 l. 18.6.2009, n.
69, in materia di mediazione finalizzata alla conciliazione delle controversie civili e commerciali è venuto a
stabilire, all’art. 5, primo comma, che «chi intende esercitare in giudizio
un’azione relativa ad una controversia in materia di condominio, diritti reali,
divisione, successioni ereditarie, patti
di famiglia, locazione, comodato, affitto di aziende, risarcimento del
danno derivante dalla circolazione di veicoli e natanti, da responsabilità
medica e da diffamazione con il mezzo della stampa o con altro mezzo di
pubblicità, contratti assicurativi, bancari e finanziari, è tenuto
preliminarmente a esperire il procedimento di mediazione ai sensi del presente
decreto ovvero il procedimento di conciliazione previsto dal decreto
legislativo 8 ottobre 2007, n. 179, ovvero il procedimento istituito in
attuazione dell’articolo 128-bis del
testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia di cui al decreto
legislativo 1° settembre 1993, n. 385, e successive modificazioni, per le
materie ivi regolate», quale condizione di procedibilità della domanda. E’
altresì previsto che tale disposizione acquisti efficacia decorsi dodici mesi
dall’entrata in vigore del decreto legislativo e solo per i processi
successivamente instaurati.
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