La responsabilità contrattuale
nelle relazioni coniugali
4. La responsabilità contrattuale da
violazione del dovere di contribuzione tra coniugi.
5. La responsabilità contrattuale da
violazione di accordi sull’indirizzo della vita familiare.
13. Responsabilità contrattuale e
crisi coniugale.
14. Responsabilità contrattuale e
doveri dei genitori.
Gli studi che, nel corso
degli ultimi anni, sono andati accumulandosi sul tema dei rapporti tra famiglia
e responsabilità civile sembrano prediligere la trattazione dei profili aquiliani, lasciando, per così dire, più
in ombra i temi della responsabilità contrattuale.
Il che, sia chiaro,
appare più che ovvio,
attesa la vivacità
che caratterizza, da ormai svariati anni a questa parte, il settore
dell’illecito extracontrattuale e la velocità con la quale si espandono le
sempre più mobili
frontiere del danno ingiusto, nonché il superamento di atavici pregiudizi sulla condizione femminile, che
avevano in buona sostanza determinato l’idea che la famiglia si trovasse,
rispetto all’area della responsabilità civile, in una situazione di vera e
propria immunità. D’altro canto, la maggior lentezza del cammino percorso della responsabilità ex artt. 1218 ss. c.c.
all’interno del territorio familiare si spiega con le peculiarità di un
contesto, come quello dei rapporti giuridici endofamiliari, rispetto a cui
l’accostamento di concetti quali quello di «obbligazione» o di «contratto» poteva sembrare –
quanto meno sino a non molto tempo addietro – ardito.
Ma il quadro di cui sopra non può non risultare oggi influenzato da
quella «stagione della
negozialità» che da alcuni anni caratterizza i rapporti familiari,
fondati o meno sul matrimonio. Il passaggio, invero, dalla «concezione istituzionale»
alla «concezione
costituzionale» della famiglia, ha spianato la via ad una nozione di negozio giuridico familiare
cui è possibile applicare (in difetto di speciali deroghe normative) la
disciplina generale dettata dal codice per il contratto, secondo
quell’insegnamento di Francesco Santoro-Passarelli che può ormai dirsi recepito – e da tempo –
anche dalla giurisprudenza.
Quest’ultima, per esempio, riconosce da svariati anni a questa parte il
carattere negoziale dell’accordo di separazione personale, di quello di divorzio
su domanda congiunta, nonché di quelle particolari intese di carattere
patrimoniale concluse in sede, in occasione, o anche solo in vista della
separazione personale, della separazione di fatto, del divorzio o
dell’annullamento del matrimonio, qualificate dallo scrivente come «contratti della crisi coniugale».
L’art. 1322 c.c. ha ricevuto concreta applicazione in
un’innumerevole serie di casi che hanno portato il «diritto vivente» a
determinare, in nome del principio dell’autonomia privata (sovente espressamente menzionato nelle
motivazioni delle decisioni), una vera e propria dilatazione dell’usuale contenuto dell’accordo di
separazione, ben al di là di quegli angusti limiti in cui alcuni autori
lo avrebbero voluto inquadrare:
·
si è così deciso,
per esempio, in relazione ad una complessa pattuizione transattiva di tutti i rapporti nati dal
vincolo coniugale, che l’accordo
dei coniugi sottoposto all’omologazione del tribunale ben può contenere rapporti patrimoniali anche «non
immediatamente riferibili, né collegati in relazione causale al regime di
separazione o ai diritti ed agli obblighi derivanti dal matrimonio»
(Cass., 15 marzo 1991, n.
·
L’affermazione
della negozialità tra coniugi (in crisi e non) è giunta al punto che non
destano neppure più stupore, nell’osservatore della giurisprudenza di
legittimità, affermazioni del genere di quella secondo cui «i rapporti patrimoniali tra i
coniugi separati hanno rilevanza solo per le parti, non essendovi coinvolto
alcun pubblico interesse, per cui essi sono pienamente disponibili e rientrano
nella loro autonomia privata» (Cass., 23 luglio 1987, n.
·
In un crescendo
che conosce ormai ben poche battute
d’arresto (Per una vicenda in cui la Corte Suprema, dopo avere ribadito
con dovizia di particolari in motivazione la tesi della negozialità della
separazione consensuale, con un finale «a sorpresa» ha negato l’impugnabilità
del relativo accordo per simulazione
cfr. Cass., 20 novembre 2003, n.
·
si sono così
fondati i rapporti personali e contributivi dei coniugi sulla regola dell’accordo (cfr. artt. 143 e 144 c.c.),
·
si è consolidata
la tesi della natura
contrattuale delle convenzioni
matrimoniali,
·
si è ammessa una
rimarcabile sfera di autonomia
con riguardo ai regimi
patrimoniali
(possibilità di dar vita a regimi patrimoniali atipici),
·
si è concessa la
più ampia libertà
negoziale nei momenti salienti che caratterizzano il fenomeno della crisi coniugale (trasferimenti
immobiliari, negozi a latere, accordi preventivi sulle
conseguenze dell’annullamento, transazioni tra coniugi in crisi),
·
mentre, sul
versante della famiglia di
fatto, si è venuta affermando la validità dei contratti di convivenza e, più in generale,
di tutte le intese patrimoniali in seno al rapporto more uxorio, purché
rispettose dei canoni previsti per il contratto in generale.
·
Ciò, del resto,
conformemente a un’evoluzione che sta caratterizzando le legislazioni di ogni
parte d’Europa, se
è vero come è vero che proprio nella direzione della negozialità e non certo in quella
dell’imposizione di effetti giuridici conseguenti alla sola sussistenza del ménage de fait, si
muovono le soluzioni normative che di recente, in vari paesi del nostro
continente, si sono prefissate di affrontare e risolvere i problemi giuridici
posti dalle convivenze omo- ed eterosessuali. Questa stessa impostazione sembra
ormai destinata a lasciare tracce sempre più profonde anche nella normativa sovranazionale.
Volgendo nuovamente lo sguardo alla situazione italiana,
possiamo infine aggiungere che, quale coronamento della descritta evoluzione,
il legislatore
·
non solo ha
espressamente riconosciuto l’esistenza della categoria dei «contratti disciplinati dal
diritto di famiglia» (Cfr. l’art. 11, d. legis. 9 aprile
2003, n. 70 «Attuazione della direttiva 2000/31/CE relativa a taluni aspetti
giuridici dei servizi della società dell’informazione nel mercato interno, con
particolare riferimento al commercio elettronico», il quale stabilisce
l’inapplicabilità della relativa regolamentazione ai «contratti disciplinati
dal diritto di famiglia». Il richiamo legislativo, ad avviso dello scrivente,
deve intendersi effettuato tanto alle convenzioni matrimoniali, quanto ai contratti della crisi coniugale),
·
ma si è spinto ad
introdurre, quale nuovo tipo negoziale, un «patto
di famiglia» – espressamente definito quale «contratto» (cfr. art. 768-bis c.c.) – idoneo a disattivare, in
relazione a determinati tipi di intese, la tutela riconosciuta da secoli ai
legittimari, così «blindando» alcuni negozi volti alla trasmissione
endofamiliare della ricchezza, rendendoli impermeabili alla possibile incidenza
delle mutevoli vicende che, nel corso degli anni, possono interessare la
compagine familiare.
·
Quasi
contemporaneamente, altri interventi legislativi sono venuti a consentire «atti
di destinazione per
la realizzazione di interessi meritevoli di tutela riferibili a persone con
disabilità», ex art. 2645-ter c.c.,
·
o, ancora ad
aprire ulteriori spazi alla materia degli accordi nell’ambito delle famiglie
legittime e di fatto in crisi, pur in un criticabilissimo e dissennato contesto
di generalizzazione «forzata» e d’imposizione iussu Principis, contro ogni logica, dell’istituto dell’affidamento
congiunto, ribattezzato «condiviso»:
· si pensi alle
disposizioni del nuovo art. 155,
cpv. c.c. (estensibile anche alla materia divorzile, nonché a quella dei
figli di soggetti non coniugati, come disposto dall’art.
· o al nuovo quarto comma dell’art. cit., a mente del quale ciascuno dei
genitori provvede al mantenimento dei figli in misura proporzionale al proprio
reddito «salvo accordi
diversi, liberamente sottoscritti dalle parti».
Per affrontare il peculiare profilo dei rapporti tra
dinamiche familiari e responsabilità
contrattuale, occorre partire dal dato per cui siffatto tipo di
responsabilità costituisce l’obbligo di risarcimento del danno conseguente all’inadempimento di
un’obbligazione, secondo quanto descritto dall’art. 1218 c.c., che prevede
l’ipotesi del «debitore»
che non esegue esattamente «la prestazione dovuta».
In effetti, nel linguaggio legislativo, il termine «debitore» indica
esclusivamente il soggetto passivo dell’obbligazione, e il termine «prestazione» esprime tipicamente l’oggetto del
rapporto obbligatorio. Il fatto dell’inadempimento è così letteralmente
riferito all’inesecuzione dell’obbligazione, come risulta anche dalla
intitolazione del capo in cui è contenuta la norma e dalla sua collocazione nel
titolo che disciplina l’obbligazione in generale.
Sarà poi il caso di sottolineare come, dal punto di
vista terminologico, la denominazione invalsa per descrivere il fenomeno in
questione, vale a dire «responsabilità
contrattuale», sebbene confortata da un lungo uso, sia imprecisa: il contratto,
invero, non è che una delle fonti di obbligazione e pertanto non è corretto
assegnare l’attributo contrattuale alla responsabilità che può derivare dall’inadempimento di qualsiasi
obbligazione, nascente da contratto o da altra fonte, secondo quanto
stabilito dall’art. 1173 c.c.
La questione è dunque quella di vedere se e in che misura possano
darsi, nell’ambito dei rapporti familiari o parafamiliari, vere e proprie obbligazioni.
Ma
che cosa intendiamo per «obbligazione»? |
Il nostro codice civile, che in generale non sembra mostrarsi poi così
restio a fornire definizioni di istituti giuridici (dal testamento alla
proprietà, al contratto, a buona parte dei contratti speciali, all’azienda,
ecc.), non
presenta la nozione
di obbligazione; esso si limita
invece, nelle «disposizioni preliminari» (capo I) del titolo del libro
quarto, a dettare tre disposizioni (artt. 1173, 1174 e 1175), delle quali una
soltanto (il principio della patrimonialità della prestazione) può aiutare
l’interprete nella definizione del concetto in esame. Il progetto ministeriale del codice civile, libro delle
obbligazioni, del 1940 definiva l’obbligazione come «un vincolo in virtù del quale il debitore è tenuto verso il creditore ad una prestazione positiva o
negativa». Nel secondo progetto
ministeriale la definizione sparì e la Relazione al Re (n. 557) chiarì che la
soppressione era stata deliberatamente effettuata, dovendo la definizione
degli istituti giuridici «essere lasciata alla dottrina». Ora, la dottrina si è tradizionalmente rifatta alle definizioni romanistiche,
contenute in due passi delle fonti. Il primo, tratto dalle istituzioni di
Giustiniano (I, 3, 13 pr.), suona nella maniera seguente: «obligatio est iuris vinculum quo
necessitate adstringimur
alicuius solvendae rei, secundum nostrae
civitatis iura». Il secondo è tratto dal digesto (D, 44, 7, 3) ed afferma che «obligationum substantia non in eo consistit, ut
aliquod corpus nostrum, vel servitutem nostram faciat; sed ut alium nobis obstringat ad dandum aliquid, vel faciendum, vel praestandum». Come si
vede, l’art. 1 del citato progetto ministeriale del codice civile manifestava
l’evidente influsso dei suddetti passi, nonché del § 241 BGB che, sotto la rubrica «Natura del rapporto obbligatorio»,
prevede che «Per effetto del rapporto obbligatorio il creditore è autorizzato
a pretendere dal debitore una prestazione, che può anche consistere in un
comportamento negativo». In
conseguenza di quanto testé illustrato può dunque dirsi che l’obbligazione è
un vincolo, cioè
un rapporto giuridico (diritto
soggettivo patrimoniale e relativo) in virtù del quale un soggetto, il debitore, deve tenere
un dato comportamento nell’interesse di un altro soggetto, detto creditore. Il comportamento, detto
prestazione, può consistere a sua volta in un dare, in un fare o in un non fare una determinata cosa. Gli
elementi costitutivi dell’obbligazione possono essere sinteticamente
individuati nei seguenti cinque: (a)
i soggetti, più
precisamente il soggetto attivo (creditore) e quello passivo (debitore); (b)
il contenuto, che
nel caso di specie consiste nella prestazione, cioè nel comportamento (dare, fare o non fare)
che il debitore deve tenere nell’interesse del creditore; (c)
l’oggetto, che è
dato dal bene, dall’utilità, o dal vantaggio che il creditore intende
ottenere con l’adempimento dell’obbligazione; (d)
il vincolo giuridico
(che riunisce i precedenti tre elementi), in forza del quale il debitore è
tenuto ad eseguire la prestazione dovuta ed il creditore ha il diritto di
pretenderne l’esecuzione; (e)
l’interesse del creditore, cui deve
corrispondere la prestazione dovuta. |
Il quesito rileva in modo particolare avuto riguardo
al necessario requisito della patrimonialità della prestazione, secondo quanto disposto
dall’art. 1174 c.c.
E’ noto che la ratio di tale norma –
secondo cui la disciplina dell’obbligazione è applicabile a quelle sole
prestazioni-comportamenti che possono essere valutate in termini pecuniari – è
quella di raccordare le regole sulle obbligazioni a quella che è la realtà dei
rapporti di mercato, nel senso che i valori tutelati sono quelli di scambio:
dunque, non quelli che quel bene o utilità ha per se stesso, ma il valore che
esso ha in quanto mezzo di scambio.
In linea di principio potrebbe apparire dunque problematico reperire obbligazioni «endofamiliari», essendo
la famiglia luogo d’elezione per rapporti che, sebbene caratterizzati dalla
giuridicità e dalla vincolatività, non sono suscettibili di valutazione economica.
Si pensi, ad esempio, all’impegno che due innamorati si
prestassero l’un l’altro di rimanere
reciprocamente fedeli
o ad analogo vincolo che due conviventi
more uxorio intendessero assumere
nell’ambito di un contratto di convivenza: promesse di tal genere non
potrebbero dar luogo ad un’obbligazione, in quanto la fedeltà ad una persona è
un bene che non può essere valutabile in denaro, esattamente come l’impegno a
convivere o l’obbligo di non mutare le proprie convinzioni politiche o
religiose. Lo stesso è a dirsi per l’impegno, ad esempio, di adottare una certa
persona (cfr. Cass., 10 aprile 1964, n.
E’ vero, peraltro, che non fanno difetto autorevoli opinioni dottrinali
(Bianca, Giorgianni) che, anche in relazione ai doveri giuridici non caratterizzati dalla
patrimonialità ammettono, in difetto di un’apposita disciplina
legislativa, la possibilità di un’estensione analogica dei principi in tema d’inadempimento,
ciò che dovrebbe dirsi anche con riferimento alla sanzione del risarcimento del
danno, la quale prescinde dalla patrimonialità dell’obbligo violato.
E questa conclusione potrebbe anche parere confermata dal fatto che
non mancano certo norme codicistiche che espressamente prevedono la sanzione
del risarcimento
del danno per violazioni
di obblighi del diritto di famiglia non sempre qualificabili alla stregua di
obbligazioni: si pensi al disposto dell’art. 382 c.c., correlato al dovere del tutore (nonché
degli altri soggetti indicati dall’art. 424 c.c.) avente ad oggetto quella «cura della persona del minore»
(art. 357 c.c.),
che non può certo ritenersi limitata ai profili di carattere patrimoniale.
Art.
382 c.c. (RESPONSABILITÀ DEL TUTORE E DEL PROTUTORE) 1.
Il tutore deve amministrare il patrimonio del minore con la diligenza
del buon padre di famiglia. Egli risponde verso il minore di
ogni danno a lui cagionato violando i propri doveri. 2.
Nella stessa responsabilità incorre il protutore per ciò che riguarda
i doveri del proprio ufficio. |
Resta però il fatto, incontestabile, che riconoscere e
trattare come inadempimento
di un’obbligazione qualsiasi
violazione di un dovere
giuridico inter coniuges, anche se non caratterizzato dalla
patrimonialità, farebbe perdere di vista la possibilità stessa di configurare
fattispecie di responsabilità
aquiliana tra marito e moglie.
Infatti, ogni violazione di un diritto soggettivo assoluto compiuta da un coniuge contro
l’altro (si pensi all’integrità
fisica, all’onore,
al patrimonio,
ecc.) rappresenta sempre, inevitabilmente, anche la violazione di uno dei doveri scolpiti nell’art.
143 c.c., con
conseguente «contrattualizzazione» di tutte queste ipotesi.
Appare dunque più corretto ritenere che il fenomeno descritto
dall’art. 1218 c.c.
trovi applicazione solo con riguardo a quei doveri giuridici tecnicamente qualificabili come
«obbligazioni» e dunque caratterizzati dalla patrimonialità, secondo quanto disposto
dall’art. 1174 c.c., laddove le violazioni degli altri doveri lasceranno aperto
il campo alla valutazione di ingiustizia del danno per una possibile
applicazione dell’art. 2043 c.c.: problema, questo, da risolvere tenuto conto
dell’opinione che si intenda seguire sui concetti di «danno ingiusto» e di
«meritevolezza di tutela» degli interessi in gioco.
Si vedrà tra breve quali effetti siffatto criterio
restrittivo è in grado di produrre concretamente, avuto riguardo alle
situazioni e ai rapporti giuridici che possono venirsi a creare nell’ambito
delle relazioni tra i componenti il nucleo familiare. Per il momento appare
invece opportuno accennare
brevemente ad un altro
degli ostacoli che vengono usualmente frapposti alla possibilità di
ravvisare fattispecie di responsabilità endofamiliari, vale a dire la sussistenza (con
particolare riferimento al caso dei coniugi) di specifiche sanzioni per violazioni di doveri
familiari previste da apposite norme di legge.
E’ innegabile che molti dei doveri endofamiliari a contenuto sia patrimoniale che non patrimoniale
siano già muniti di una propria
«speciale» sanzione, diversa dal
risarcimento del danno, ciò che potrebbe indurre ad escludere il rimedio
descritto dall’art. 1218 c.c. anche in relazione a doveri qualificabili alla
stregua di obbligazioni ex artt. 1173
ss. c.c. Quanto mai significativa
è la vicenda della violazione
degli obblighi di carattere personale nascenti dall’art. 143 c.c. e, tra questi –
tanto per portare un celebre esempio – il dovere di fedeltà tra coniugi.
L’orientamento tradizionale tende ad escludere in tali casi l’azione
risarcitoria. Anche la Corte di Cassazione si è espressa
in senso negativo,
affermando che «dalla separazione personale dei coniugi può nascere, sul piano
economico (a prescindere dai provvedimenti sull’affidamento dei figli e della
casa coniugale), solo un diritto ad un assegno di mantenimento dell’uno nei
confronti dell’altro, quando ne ricorrono le circostanze specificatamente
previste dalla legge. Tale diritto esclude la possibilità di richiedere,
ancorché la separazione sia addebitabile all’altro, anche il risarcimento dei
danni a qualsiasi titolo risentiti a causa della separazione stessa» (Cass. 6
aprile 1993, n. 4108; cfr. inoltre Cass., 21 marzo 1993, n. 3367, che nega la
presenza di una situazione qualificabile come di danno ingiusto, «che
presuppone una posizione soggettiva attiva tutelata come diritto perfetto»; contra v. Trib. Milano, 4 giugno 2002).
Secondo la Corte, ciò dipende non tanto dal fatto che
«l’addebito del fallimento del matrimonio ad uno soltanto dei coniugi non possa
mai acquistare – neppure in teoria – i caratteri della colpa, quanto perché,
costituendo la separazione personale un diritto inquadrabile tra quelli che
garantiscono la libertà della persona (cioè un bene di altissima rilevanza
costituzionale) ed avendone
il legislatore specificato analiticamente le conseguenze nella disciplina del
diritto di famiglia (cioè nella sede sua propria), deve escludersi – proprio in
omaggio al principio secondo cui inclusio
unius, exclusio alterius – che a tali conseguenze si possano aggiungere anche quelle proprie della
responsabilità aquiliana ex art. 2043
c.c.». Considerazioni, queste, che – ove ritenute accettabili –ben potrebbero
estendersi alla responsabilità contrattuale.
In proposito si è però obiettato (Ferrando) che una posizione di così
netta chiusura non tiene conto delle profonde trasformazioni che hanno investito il diritto di
famiglia e la responsabilità civile. Nel passaggio dalla separazione per colpa
alla separazione per intollerabilità
della convivenza l’istituto ha
perso la connotazione «sanzionatoria» che possedeva nel precedente
sistema, per acquistare quella di rimedio al fallimento del matrimonio. La
pronuncia di addebito
ha un carattere meramente eventuale
ed intende colpire solo quelle condotte che hanno svolto un ruolo determinante,
causale, nel provocare il fallimento dell’unione. D’altro canto, non ogni
violazione dei doveri del matrimonio è causa di addebito, ma soltanto quelle
che hanno determinato la crisi, dal momento che una violazione anche grave, ma
commessa dopo che la vita comune era già irrimediabilmente deteriorata, non
costituisce causa di addebito.
Ancora, occorre tenere
presente che l’evoluzione giurisprudenziale ha variamente circoscritto e marginalizzato il ruolo dell’addebito, sia dando
rilevanza solo a condotte che abbiano questa efficacia causale sul fallimento dell’unione,
sia sancendo la fine del «mutamento di titolo» della separazione, sia, da
ultimo, decretando l’ammissibilità della sentenza «parziale di separazione»,
vale a dire l’ammissibilità di una pronuncia di separazione con rinvio a
separato giudizio della questione relativa all’addebito.
Può dunque dirsi che, per quanto attiene all’obiezione
fondata sull’esistenza, per la violazione dei doveri specifici esistenti inter coniuges, di sanzioni speciali,
che, come tali, impedirebbero il ricorso a rimedi di carattere generale e,
segnatamente, alle fattispecie della responsabilità civile, non pare esservi un ostacolo di
principio al concorso tra
i diversi tipi di rimedio, come dimostrano, del resto, in ambiti molto
diversi tra loro, l’art. 129-bis c.c.
e l’art. 6, ult. cpv., 1. div., l’art. 49 cpv., 1. adoz.
·
In particolare,
ha sicuramente natura risarcitoria
l’ «indennità» che
spetta al coniuge in buona fede nel caso in cui l’annullamento del matrimonio sia imputabile
all’altro (art. 129-bis c.c.): il che conferma che
rimedio giusfamiliare e rimedio risarcitorio non sono, in linea di principio,
tra loro incompatibili
·
e analogamente
può rilevarsi che pure nell’ambito della promessa di matrimonio l’obbligo risarcitorio previsto
dall’art. 81 c.c. –
sulla cui natura molto si discute – tranquillamente convive con il rimedio «tipico» della restituzione dei doni, ex art. 80 c.c.
Quanto sopra appare, poi, ulteriormente confermato da
altre considerazioni. Non sembra infatti che, anche al di fuori del campo specifico del diritto di
famiglia, la presenza di una sanzione specifica per determinate
violazioni impedisca i rimedi generali previsti per l’istituto di riferimento.
Così è del tutto pacifico che, ad esempio, la presenza del rimedio speciale ex art. 2932 c.c. non impedisce certo al creditore di
un’obbligazione avente ad oggetto l’impegno a stipulare un contratto definitivo
di astenersi dal domandare la sentenza costitutiva, e di chiedere invece il
risarcimento ai sensi dell’art. 1218 c.c. Non solo: la giurisprudenza ammette,
correttamente, il concorso
tra rimedio specifico ed azione risarcitoria, riconoscendo che non ogni forma di danno può
essere risarcita dall’esecuzione forzata in forma specifica (Cass., 13 dicembre
1980, n. 6482).
Ai rilievi sin qui svolti potrà infine aggiungersi il
dato fornito dall’introduzione, ad opera dell’art.
Ora, a parte le gravissime questioni processuali che
la norma in oggetto solleva, rimane il fatto che il legislatore ha inteso
chiaramente mostrare che l’inadempimento
ai doveri relativi alla potestà genitoriale può essere fonte di danno risarcibile e che siffatto
risarcimento ben può accompagnarsi
agli usuali rimedi
(modifica dei provvedimenti in vigore), così come a quelli novellamente
introdotti (ammonimento, sanzione amministrativa pecuniaria).
Concludendo sul punto non sembra possa dirsi
che la presenza di sanzioni
specifiche di tipo
giusfamiliare ostacoli
di per sé, e in
linea di principio, il riconoscimento di una responsabilità inter coniuges, aquiliana o
contrattuale che sia.
Semmai, occorrerà insistere sulla necessità di riconoscere, per la
responsabilità contrattuale, l’esistenza di un rapporto obbligatorio e dunque di contenuto patrimoniale, laddove i
doveri coniugali, eccezion fatta per quello di contribuzione ai bisogni della
famiglia, hanno, invece, un contenuto di natura personale, il che spiega perché
gli artt. 1218 ss. c.c. non possano, in linea di massima, trovare applicazione
in questo campo.
Sarà d’uopo
intrattenersi dunque brevemente
·
sul dovere di contribuzione,
per passare successivamente alla responsabilità contrattuale da violazione
delle obbligazioni previste
·
dalle
disposizioni in tema di regimi
patrimoniali,
·
dalle regole (di
fonte legale o convenzionale) relative alla crisi coniugale,
·
da quelle
concernenti i profili patrimoniali del rapporto con la prole.
4. La responsabilità contrattuale da violazione del
dovere di contribuzione tra coniugi.
L’obbligo di contribuire ai bisogni della famiglia,
che l’art. 143, terzo
comma, c.c. pone a carico di entrambi i coniugi, si presenta come
l’attuazione del principio
costituzionale di eguaglianza
nei rapporti patrimoniali tra di essi.
I coniugi hanno, come noto, il dovere di contribuire ai bisogni
della famiglia «ciascuno in relazione
alle proprie sostanze e alla propria capacità di lavoro professionale o
casalingo». Tale dovere riguarda
prestazioni di carattere economico e costituisce, dunque, una vera e
propria obbligazione,
in stretto collegamento con i doveri di assistenza e di collaborazione
nell’interesse della famiglia, rappresentando un completamento di questi
ultimi, sia come supporto economico in chiave solidaristica, sia come già
ricordata espressione del principio di uguaglianza all’interno della comunità
familiare.
Il rimedio in caso di inadempimento non può
essere rinvenuto, secondo quanto suggerito in dottrina, in «un’azione
extracontrattuale al fine di riparare i danni cagionati in violazione del
dovere di contribuzione», posto che la citata presenza di un’obbligazione ex lege deve invece qui indurre a
riconoscere l’esperibilità dell’azione
ex art. 1218 c.c.
A determinare
il carattere di vera e propria obbligazione del dovere di contribuzione
contribuisce l’idea, condivisa quanto meno da una parte della dottrina, secondo
cui un coniuge può
convenire in giudizio l’altro per chiederne la condanna ad adempiere.
Né in senso contrario sembra possano valere le
obiezioni di chi vorrebbe argomentare il distacco della materia in esame dal
diritto comune delle obbligazioni sulla base di considerazioni di tipo
puramente terminologico.
Proprio su questo piano potrà, anzi, notarsi che il termine «obbligazione» compare non solo negli
artt. 148 e 186, lett. c), ma anche
nell’art. 218 c.c.,
così rendendosi chiaro che i rapporti tra coniugi, laddove abbiano ad oggetto
una prestazione patrimoniale, ben possono ricadere sotto il disposto degli
artt. 1173 ss. c.c.
Inoltre, non sembra possano dispiegare soverchio
rilievo le preoccupazioni
sollevate in tema di esecuzione
coattiva, posto che la coercibilità in forma specifica non è certo elemento imprescindibile del rapporto obbligatorio
(ché, altrimenti, non potrebbe considerarsi alla stregua di un’obbligazione
l’impegno assunto da un celebre pittore di eseguire il mio ritratto) e dunque anche
forme di contribuzione «in natura» (si pensi all’attività lavorativa domestica)
ben possono essere sostituite da una prestazione pecuniaria, mercé la condanna
al risarcimento del danno.
A conforto
della soluzione qui proposta circa la natura di vera e propria obbligazione, propria del
dovere di contribuzione
ex art. 143 c.c., giungono del resto, e da tempo, svariate
prese di posizione della giurisprudenza.
Così, già nel 1939, una corte di merito ammetteva l’esperibilità dell’azione revocatoria ordinaria – vale a dire
di un tipico rimedio a tutela del creditore di un rapporto ex artt. 1173 ss. c.c. – da parte della moglie contro atti di disposizione del marito
tendenti a diminuire la garanzia patrimoniale del credito dalla donna vantato a
titolo di mantenimento ai sensi degli abrogati artt. 132 c.c. 1865 e 145 c.c.
1942 (App. Venezia, 10 luglio
Avviso, questo, successivamente per implicito ribadito
dalla Corte di legittimità nel 1971
Cfr.
Cass., 18 marzo 1971, n. 755: «L’obbligazione del marito del mantenimento
della moglie, a seguito della decisione della Corte costituzionale del 24
giugno 1970, n 133, declaratoria della illegittimità costituzionale dell’art
145 cod. civ., è subordinata alla condizione che ella non abbia mezzi
sufficienti per provvedere a se stessa. Non essendo perciò incondizionato e
immanente il credito per mantenimento a favore della moglie, costei non è
legittimata per la sola sua qualità di coniuge a proporre azione revocatoria
nei confronti di atti di disposizione effettuati dal marito». La Cassazione
respinse dunque la domanda non già perché la moglie non potesse qualificarsi,
in astratto, come «creditrice», ma sol perché tale credito era condizionato
alla ricorrenza di determinate circostanze non presenti nel caso di specie |
, la quale, in epoca ancora più recente, ha mostrato
di dare siffatta soluzione per scontata, stabilendo che «Ai fini dell’azione revocatoria promossa nei confronti di un
atto con cui il debitore, a seguito della separazione dal coniuge, abbia
trasferito a quest’ultimo la proprietà di un bene, in adempimento del proprio
obbligo di mantenimento nei confronti del coniuge e dei figli, l’attribuzione
deve qualificarsi a titolo oneroso, salvo che non sia intervenuta,
anteriormente al trasferimento, una riconciliazione tra i coniugi, nel qual
caso si è in presenza di un’attribuzione a titolo gratuito» (Cass., 26 luglio
2005, n. 15603).
5. La responsabilità contrattuale da violazione di
accordi sull’indirizzo della vita familiare.
Dottrina e giurisprudenza si presentano divise sull’attribuzione
del carattere negoziale
all’accordo sull’indirizzo della vita familiare, ex art. 144
c.c.
Peraltro,
qualunque sia la soluzione che si vuole dare a tale problema, è comunque
innegabile che, con la formulazione attuale dell’art. 144 c.c., il legislatore
ha aperto alla regola del
consenso e dunque
alla sfera dell’autodeterminazione dei coniugi, interi «territori dove
regnavano il potere autoritario e la sottomissione» (Rescigno), fissando
una regola fondamentale, al punto che può veramente concordarsi con chi afferma
che l’art. 144 c.c.
costituisce, in sostanza, la fonte
di legittimazione di ogni manifestazione negoziale dei coniugi: l’accordo dei coniugi pone
le regole del ménage e, per ciò
stesso, determina e concretizza il contenuto degli obblighi inderogabili
incidendo, quindi, su di essi.
In ogni caso a chi
scrive sembra che la vincolatività
dell’intesa sia insita
nel concetto stesso di
accordo normativamente previsto, con inevitabile riferimento al canone
scolpito nell’art. 1372
c.c.
Parafrasando un
celebre rilievo di Jemolo,
con riguardo alle intese di separazione consensuale, l’accordo non vincolante finirebbe con il diventare una «figura metagiuridica, una
inutilità per il diritto, se ad un certo momento le parti non restassero
vincolate, in quello che sarà l’apprezzamento dei propri interessi convergenti».
Da tale vincolatività
discenderanno dunque effetti
che, se patrimonialmente apprezzabili (si pensi all’impegno a contribuire alle
necessità materiali della famiglia mediante messa a disposizione di determinati
beni o versamento di determinate somme) non potranno considerarsi se non alla
stregua di obbligazioni,
con la conseguenza che il coniuge interessato sarà legittimato a richiederne
coattivamente
l’adempimento e, in caso di violazione
dell’impegno, a domandare il risarcimento del danno ex art. 1218
c.c.
Anche le norme in tema di comunione legale tra coniugi contengono
svariate disposizioni che possono prestarsi a individuare l’esistenza di vere e
proprie obbligazioni,
di fonte legale, la
cui violazione può dar luogo a responsabilità contrattuale. Tali obbligazioni
possono situarsi
·
sia nel contesto
delle norme attinenti all’individuazione dell’oggetto dell’istituto ex artt. 177 ss. c.c.,
·
che (in
particolare) in quello delle disposizioni sull’amministrazione del patrimonio comune,
·
che, ancora,
nella fase dello scioglimento.
Per quanto attiene al primo momento ci si deve chiedere, innanzi tutto,
se determinati comportamenti
tenuti dai coniugi all’atto della stipula di negozi che portino alla
determinazione quantitativa della massa in comunione legale rispetto a ciascuna
delle altre due masse qui rilevanti, vale a dire i beni personali e quelli in
comunione de residuo, possano ritenersi in violazione
di doveri di fonte legale o convenzionale qualificabili come
obbligazioni e, come tali, generatori di responsabilità ex art. 1218 c.c.
In linea generale potrà dirsi che la legge provvede ad individuare in maniera obiettiva le situazioni
che determinano la ricaduta o meno in comunione legale, a prescindere da comportamenti cui i
coniugi possano reputarsi in qualche modo astretti.
Nella giurisprudenza di merito si è però posto il
problema circa l’esistenza di un obbligo di prestare il proprio assenso all’acquisto che l’altro
intenda effettuare ex art. 179, lett. f) e cpv., c.c.,
qualora di tale fattispecie ricorrano, obiettivamente, gli estremi.
Nella specie, dopo il provvedimento del
presidente del tribunale, urgente e provvisorio, che autorizzava i coniugi (in regime di comunione
legale) a vivere separati, il coniuge non assegnatario dell’abitazione
familiare intendeva
acquistarne
un’altra con fondi di sua esclusiva titolarità. Si rendeva, tuttavia, necessaria la
partecipazione all’atto di acquisto dell’altro coniuge, ai sensi delle
disposizioni citate, al fine di qualificare come personale il bene; in caso
contrario, il bene sarebbe entrato in comunione, non essendo ancora intervenuta
una sentenza definitiva di separazione, ma soltanto l’ordinanza interinale di
cui all’art. 708 c.p.c.
Orbene, l’ingiustificato rifiuto,
da parte del coniuge assegnatario della casa coniugale, di partecipare all’atto
di acquisto (rifiuto che ha, poi, determinato la rinuncia al bene), è stato
ritenuto contrario a buona fede e come tale
fonte di responsabilità extracontrattuale, ex
art. 2043 c.c. Al
riguardo, è stato accordato il risarcimento per le spese sostenute per la trattativa (danno emergente), mentre, a
causa della mancanza di prova, è stato negato il risarcimento del lucro cessante (Trib.
Terni, 3 febbraio
Ad avviso dello
scrivente, la soluzione del problema, anziché in un generico richiamo al concetto di buona fede, va piuttosto
trovata nell’accertamento
dell’esistenza o meno di un preciso
dovere per il coniuge non acquirente di partecipare all’atto. Inutile dire che, se la risposta al quesito
dovesse essere positiva, tale (supposto) dovere giuridico specifico, di
contenuto patrimoniale, andrebbe
considerato alla stregua di un’obbligazione ex
lege e pertanto la relativa violazione darebbe luogo a
responsabilità non già aquiliana (come ritenuto dal giudice di merito nel caso
testé mentovato), ma contrattuale.
Peraltro si può convenire con chi conclude nel senso che tale dovere non è previsto da alcuna delle disposizioni in
tema di comunione legale e, d’altra parte, chi scrive ha cercato in altra sede
di dimostrare che – contrariamente a quella che è ormai l’opinione prevalente
in dottrina e in giurisprudenza – la partecipazione del coniuge non acquirente
non è in alcun modo necessaria per l’acquisto personale ai sensi dell’art. 179
cpv. c.c.
La Cassazione, peraltro, dopo
alcune oscillazioni, è approdata alla tesi della necessaria partecipazione
dell’altro coniuge, così concedendo a quest’ultimo un vero e proprio
(potenzialmente anche capriccioso) diritto di veto: cfr. Cass. 24 settembre
2004, n. |
Un’ipotesi di
responsabilità contrattuale
potrebbe invece
darsi nel caso in cui i coniugi,
in regime di separazione,
mediante apposito accordo
si fossero impegnati a non
compiere acquisti di
un certo tipo prima della stipula di una convenzione di comunione
convenzionale. Il compimento dell’acquisto in violazione del patto impedirebbe
la caduta del bene in comunione (a meno che, ovviamente, i coniugi non si
accordassero per la stipula di una convenzione comprendente anche tale bene),
con conseguente danno per violazione di un’obbligazione ex contractu, ai sensi degli artt. 1218 ss. c.c.
Per quanto attiene alla comunione de
residuo non
vi sono certamente doveri ex lege di conservazione dei beni nel patrimonio di ognuno
dei coniugi sino al momento dello scioglimento, ma potrebbero esservene ex contractu. In tal
caso, però, le parti dovrebbero prevederli con il rispetto dei requisiti
formali ex art. 162 c.c., venendosi così
ad alterare una delle caratteristiche proprie dell’istituto in esame, data
dalla libera disponibilità dei beni sino al momento dello scioglimento del
regime. In tal caso l’alienazione
dei beni medesimi, ancorché non
sanzionabile ex art. 184 c.c.,
esporrebbe il coniuge agente a responsabilità contrattuale verso l’altro.
7. Responsabilità contrattuale ed amministrazione
della comunione legale tra coniugi. Responsabilità ex art. 184 c.c.
e per mala gestio della comunione.
Venendo al profilo dell’amministrazione dei beni in comunione legale,
va osservato come un’ipotesi specifica di responsabilità sia rinvenibile nella
fattispecie disciplinata dall’art. 184 c.c., che riguarda gli atti compiuti senza il consenso
dell’altro coniuge relativamente a beni immobili o mobili registrati. La norma
prevede che il coniuge non consenziente possa agire nei confronti del terzo per
l’annullabilità dell’atto, così ripristinando la precedente situazione
patrimoniale. Tuttavia, se l’atto riguarda un bene mobile non registrato, e quindi l’azione di
annullamento non è esperibile, il coniuge che lo ha compiuto è obbligato, ad
istanza dell’altro coniuge, a ricostituire la comunione nello stato precedente all’atto non
consentito, e, se ciò non è possibile, al pagamento dell’equivalente secondo i
valori correnti.
La disposizione si pone quale sanzione per il mancato rispetto di quanto
stabilito dall’art. 180 c.c., che prevede il consenso di entrambi i coniugi per
il compimento di atti eccedenti l’ordinaria amministrazione.
Come rimarcato in dottrina (Corsi), la norma si
occupa, curiosamente, dei soli profili «esterni», per quanto attiene agli atti concernenti i
beni immobili o
mobili registrati (cfr. i commi primo e secondo), e dei soli rapporti «interni» per quanto
riguarda gli altri beni
(cfr. il terzo comma). Con particolare riguardo a questi ultimi è previsto un particolare obbligo risarcitorio
«in forma specifica»
descritto, per l’appunto come segue: «Se gli atti riguardano beni mobili diversi
da quelli indicati nel primo comma, il coniuge che li ha compiuti senza il
consenso dell’altro è obbligato su istanza di quest’ultimo a ricostruire la comunione nello stato
in cui era prima del compimento dell’atto o, qualora ciò non sia possibile, al
pagamento dell’equivalente secondo i valori correnti all’epoca della
ricostituzione della comunione».
L’art. cit. prevede dunque un vero e proprio risarcimento in forma
specifica e,
subordinatamente
all’impossibilità di questo, un ristoro patrimoniale consistente, per
l’appunto, nel «pagamento dell’equivalente
secondo i valori correnti all’epoca della ricostituzione della comunione».
Nulla è detto, invece, relativamente al risarcimento dell’eventuale danno ulteriore. Sul punto si
ritiene da parte di taluno
che l’obbligo di recuperare alla comunione il bene alienato senza il consenso
dell’altro coniuge – quando questo era necessario – od il suo corrispondente
valore economico, esaurisce,
se adempiuto, ogni ulteriore conseguenza a carico del coniuge autore dell’atto
illegittimamente dispositivo. Ad analoga conclusione perviene parte della
dottrina anche nell’ipotesi che il bene non sia più recuperabile e sia corrisposto il pagamento
dell’equivalente.
Si deve, tuttavia, dare atto della contraria opinione
fondata sulla considerazione che il compimento di un atto di disposizione
compiuto da un coniuge senza il necessario consenso dell’altro, perpetrando la violazione di un preciso obbligo legale ed arrecando una
lesione al diritto di comproprietà dell’altro coniuge sul bene alienato, costituirebbe un atto illecito da cui
conseguirebbe un obbligo
di risarcire il danno.
Questo secondo indirizzo risulta sicuramente preferibile
La natura
contrattuale della responsabilità in esame va, e con forza, ribadita,
per effetto della constatazione secondo cui il coniuge che ha disposto di un
bene comune, anche senza
appropriarsene materialmente
Cass.,
19 marzo 2003, n. |
, viola
per ciò solo il disposto dell’art. 180 c.c. e dunque un dovere giuridico specifico (ex lege), avente sicuro contenuto
patrimoniale e che, come tale, appare definibile alla stregua di una vera e
propria obbligazione, con conseguente applicazione dell’art. 1218 c.c.
Si noti che la stessa regola dovrebbe valere non solo per gli
atti dispositivi di beni mobili non registrati, ma anche per quelli su beni immobili o mobili
registrati, in quanto il coniuge pretermesso non sia riuscito
– per una ragione qualsiasi (intervenuto decorso del breve periodo
prescrizionale previsto dall’art. 184 cpv. c.c., distruzione del bene stesso,
successiva rivendita ad un terzo cui la domanda d’annullamento non sia
opponibile) – a recuperare
il bene stesso o semplicemente non voglia esperire l’azione d’annullamento. In
tal caso si porrebbe peraltro il problema d’un eventuale concorso di colpa, ex art. 1227 c.c., per non avere il
coniuge legittimato proposto azione d’annullamento
Cfr.
Cass., 26 novembre 1994, n. |
Per quanto attiene al danno concretamente risarcibile in questa particolare fattispecie si è
affermato che qui si potrebbe ipotizzare anche il risarcimento del danno esistenziale per il
disagio e lo stress provocato dal comportamento
del coniuge che ha effettuato l’atto di disposizione di un bene di valore
affettivo: ma la soluzione appare difficilmente conciliabile con il disposto
dell’art. 2059 c.c.
In conseguenza dell’affermata natura contrattuale del danno in oggetto,
l’azione risarcitoria sarà sottoposta al termine prescrizionale generale ex art. 2946 c.c., nonché alla sospensione ex art. 2941, n. 1, c.c.
Non appare qui applicabile il rationale di una decisione
di legittimità, risalente al 1987, che ha stabilito l’inapplicabilità della sospensione ex art. 2941, n. 1, c.c. all’azione di annullamento, proposta ai
sensi dei primi due commi dell’art. 184 c.c., relativamente a beni immobili o
mobili registrati.
Cfr.
Cass., 22 luglio 1987, n. |
Sempre rimanendo in tema di responsabilità contrattuale collegata ai
profili di amministrazione
della comunione legale, va detto che un obbligo risarcitorio può sorgere anche a
prescindere dalla violazione del dovere giuridico specifico di ottenere il
consenso dell’altro coniuge per l’alienazione dei beni della comunione (così
come dell’obbligo di contribuzione), qualora un coniuge abbia male amministrato i beni
della comunione.
Al riguardo, l’art. 193 c.c. prevede che la separazione giudiziale dei beni possa essere pronunciata anche
nel caso di cattiva
amministrazione della comunione (primo comma); inoltre, lo stesso
articolo dispone che la separazione dei beni possa essere pronunziata quando
«il disordine degli
affari di uno dei
coniugi o la condotta
da questi tenuta nell’amministrazione dei beni mette in pericolo gli interessi
dell’altro o della comunione o della famiglia oppure quando uno dei coniugi non
contribuisce ai bisogni di questa in misura proporzionale alle proprie sostanze
e capacità di lavoro» (cfr. art. 193 cpv. c.c.).
Appare evidente che,
nel caso in cui la cattiva
amministrazione, da parte di un coniuge, abbia cagionato un pregiudizio all’altro,
quest’ultimo avrà azione per il risarcimento del danno, a prescindere dalla proposizione della domanda di cui all’art. 193 c.c. Tale azione può
essere proposta anche
quando, a causa della cattiva amministrazione, i creditori, ai sensi dell’art. 190 c.c., agiscono sui
beni personali di ciascun coniuge, allorché i beni della comunione non sono
sufficienti a soddisfare i debiti gravanti su di essa.
Anche la responsabilità in
discorso può dirsi di natura
contrattuale, derivando dalla violazione del dovere giuridico specifico, esistente ex lege tra coniugi in comunione legale (e desumibile dal
citato art. 193 c.c.), di gestire
in maniera «non disordinata» la comunione
legale.
8. Responsabilità contrattuale e scioglimento della
comunione legale tra coniugi. Rimborsi e restituzioni ex art. 192 c.c.
Precisi rapporti obbligatori
aventi contenuto patrimoniale
sono poi riscontrabili tra i coniugi nella fase dello scioglimento del regime.
In particolare, l’art. 192 c.c. dispone che «ciascuno dei coniugi è
tenuto a rimborsare alla comunione le somme prelevate dal patrimonio comune per
fini diversi dall’adempimento delle obbligazioni previste dall’art. 186».
Ai sensi del secondo comma, ognuno dei coniugi «E’ tenuto
altresì a rimborsare il valore dei beni di cui all’articolo
Il terzo
comma della disposizione citata prevede poi che «ciascuno dei coniugi
può richiedere la restituzione delle somme prelevate dal patrimonio personale
ed impiegate in spese ed investimenti del patrimonio comune».
Ai sensi del quarto comma, «I rimborsi e le restituzioni si
effettuano al momento dello scioglimento della comunione; tuttavia il giudice
può autorizzarli in un momento anteriore se l’interesse della famiglia lo esige
o lo consente». Infine, l’ultimo capoverso prevede che «Il coniuge che risulta
creditore può chiedere di prelevare beni comuni sino a concorrenza del proprio
credito, in caso di dissenso si applica il quarto comma. I prelievi si
effettuano sul denaro, quindi sui mobili e infine sugli immobili».
Rinviando alle trattazioni monografiche sul tema per i
necessari approfondimenti, si dovrà precisare che, mentre con il termine «rimborsi» si indicano
quelle obbligazioni aventi ad oggetto somme che il singolo coniuge deve rifondere «alla comunione»,
cioè a dire, in buona sostanza, per metà all’altro coniuge, con l’espressione «restituzioni» vengono
designate quelle obbligazioni che vedono il singolo coniuge creditore «nei confronti della comunione»
(e dunque, per metà dell’altro coniuge) della rifusione di spese dallo stesso
effettuate a vantaggio della massa (già) sottoposta al regime legale.
Ora, il principale problema ermeneutico posto dalla materia dei rimborsi contemplati dai primi due commi dell’art. 192 c.c. concerne i suoi rapporti con l’azione risarcitoria ai sensi dell’ult. cpv. dell’art. 184 c.c.: trattasi di figure i cui reciproci contorni non sembrano poi così nitidi, se è vero che esse vengono da molti presentate come tra di loro fungibili .
Ora, se nessun dubbio può sollevarsi sul fatto che
l’operatività dell’art. 192,
primo comma, c.c. è circoscritta alle somme di denaro, è altrettanto
indubbio che tra gli atti per i quali è necessario il consenso di entrambi i
coniugi rientrano pure quelli di disposizione del (bene mobile costituito dal) denaro comune: ne deriva dunque
una possibilità di
sovrapposizione tra le due fattispecie in relazione a tutte le ipotesi
in cui un coniuge si sia appropriato di denaro comune.
La soluzione che appare preferibile, assegna invece
alle norme due diversi campi d’azione anche in
relazione agli atti dispositivi di somme di denaro: l’elemento differenziatore
è qui dato dal fatto che l’art. 184, ult. cpv., c.c. prende pur sempre le mosse dal presupposto
che il coniuge agente abbia posto in essere un atto senza l’accordo richiesto dall’art. 180 c.c. Ne consegue
che la sfera d’azione dell’art. 192, primo comma, c.c. si riduce ai prelievi consentiti dall’altro coniuge.
Sarà appena il caso di rilevare come, da un punto di
vista più generale, la delimitazione
delle sfere di
operatività delle due discipline appaia indispensabile anche in relazione ad
una cospicua serie di conseguenze pratiche:
·
si pensi, tanto
per fare due esempi,
all’individuazione del momento in cui i
rispettivi diritti possono essere esercitati (immediatamente quello ex art. 184 c.c., di regola solo al momento dello scioglimento
quello nascente dall’art. 192 c.c.),
·
al termine di prescrizione, se si
dovesse seguire la tesi prospettata da una parte della dottrina – ma rigettata
dallo scrivente – circa la natura aquiliana dell’illecito di cui all’art. 184
c.c.
Fatte queste precisazioni potrà concludersi sul punto
rilevando che, in caso di atto dispositivo di denaro comune
compiuto da un solo
coniuge senza il consenso dell’altro, a quest’ultimo sarà consentito agire ex art. 184, ult. cpv., c.c. per la sola quota di sua
spettanza, dimostrando (e il relativo onere graverà su di lui) il carattere
comune del denaro prelevato. Il credito in questione è senz’altro di valore.
Il coniuge
«consenziente» non potrà invece agire se non una volta sciolta la comunione,
salvo che il giudice autorizzi il rimborso (art. 192, quarto comma, c.c.) «in
un momento anteriore se l’interesse della famiglia lo esige o lo consente».
Ciò detto potrà concludersi sul tema rilevandosi come
i rimborsi e le restituzioni ex art. 192 c.c. formino comunque
oggetto di una vera e propria obbligazione ex lege da atto
(questa volta, e a differenza di quanto stabilito dall’art. 184 c.c.) lecito, con applicabilità, per
l’ipotesi di mancata loro effettuazione (e, questa volta, conformemente al caso
descritto dall’art. 184 c.c., secondo l’interpretazione proposta dallo
scrivente), della disciplina ex art. 1218 c.c., nonché della prescrizione ordinaria ex art. 2946 c.c.
Si noti che un’altra obbligazione
restitutoria, rispetto a quelle descritte dall’art. 192 c.c., può
nascere a carico del singolo coniuge al momento della divisione del patrimonio
già in comunione legale, a seguito dell’intervenuto scioglimento ex art. 191 c.c., relativamente al
corrispettivo pro quota del godimento che un coniuge
abbia in via esclusiva avuto di beni fruttiferi comuni.
In proposito, infatti, la Cassazione ha stabilito che «All’esito dello scioglimento
della comunione legale ciascun coniuge può domandare la divisione del
patrimonio comune, da effettuarsi secondo i criteri stabiliti agli artt. 192 e
194 c.c., e il coniuge rimasto nel possesso esclusivo dei beni fruttiferi (nel
caso, bene immobile) già appartenenti alla comunione legale è tenuto, in base
ai principi generali (art. 820, terzo comma, c.c.), al pagamento, in favore
dell’altro coniuge, del corrispettivo
pro quota di tale godimento, quali frutti spettanti ex lege, a prescindere da comportamenti leciti
o illeciti altrui. Tali frutti civili si acquistano giorno per giorno in
ragione della durata del diritto (art. 821, terzo comma, c.c.), a far data
dalla domanda di divisione, quale momento d’insorgenza del debito di
restituzione (pro quota) del bene
medesimo (art. 1148 c.c.). (La S.C., dando atto che la corte di merito, facendo
esercizio dei poteri ad essa spettanti, aveva nell’impugnata sentenza
correttamente interpretato la domanda, dall’appellante incidentale erroneamente
qualificata come di risarcimento danni, ha enunciato il principio di cui in
massima)».
Cass., 24 maggio 2005, n. 10896, in Vita notar., 2005, I, p. 1524. |
E’ evidente, dunque,
che pure la mancata
restituzione dei frutti per il periodo
indicato esporrà il
coniuge percettore
dei medesimi a responsabilità
contrattuale per
inadempimento di un’obbligazione di fonte legale.
Lo stesso è a dirsi per
quanto attiene al già ricordato credito alla restituzione
delle somme prelevate
dal patrimonio personale
ed impiegate in spese ed investimenti del patrimonio comune: credito spettante al coniuge ai
sensi dell’art. 192, terzo comma, c.c. all’esito dello scioglimento della
comunione legale. In relazione a questa ipotesi la medesima sentenza testé
citata ha stabilito che tale rapporto è di natura nominalistica (art. 1277 c.c.), essendo
determinato nel suo ammontare all’atto della divisione, previa ripartizione in
parti uguali tra i condividenti delle passività di cui all’art. 186 c.c., e
diventando da tale momento liquido ed esigibile. Come tale, il credito in
questione produce
interessi ex art. 1282 c.c., salvo il
diritto alla rivalutazione monetaria in caso di prova di sofferto danno maggiore
di quello dai medesimi interessi coperto (art. 1224 c.c.) (Cfr. Cass., 24
maggio 2005, n. 10896).
Azioni per il risarcimento del danno inter coniuges sulla base di ipotesi di
responsabilità contrattuale possono derivare anche
· in regime di separazione dei beni (art. 217 c.c.),
· oppure in regime di comunione, ma con riguardo all’amministrazione, da
parte di un coniuge, dei beni personali dell’altro
(art. 185 c.c., che
richiama l’art. 217 c.c.).
Si tratta di ipotesi destinate ad assumere un peso statistico sempre più rilevante, a
fronte della vera e propria «fuga»
delle nuove coppie italiane dal regime di comunione dei beni, dallo scrivente
segnalata in altre sedi.
Al riguardo stabilisce l’art.
217 cpv. c.c. che
«Se ad uno dei coniugi è stata conferita la procura ad amministrare i beni
dell’altro con l’obbligo
di rendere conto dei frutti, egli è tenuto verso l’altro coniuge secondo
le regole del mandato». Ai sensi del terzo comma, «Se uno dei coniugi ha
amministrato i beni dell’altro con procura senza l’obbligo di rendere conto dei
frutti, egli ed i suoi eredi, a richiesta dell’altro coniuge o allo
scioglimento o alla cessazione degli effetti civili del matrimonio, sono tenuti
a consegnare i frutti esistenti e non rispondono per quelli consumati».
Il
capoverso dell’art.
217 c.c. prende
dunque in esame il caso in cui ad uno dei coniugi sia stata conferita la
procura ad amministrare i beni dell’altro con l’obbligo di rendere conto dei
frutti, mentre nel successivo terzo comma viene contemplata l’ipotesi in cui
uno dei coniugi abbia amministrato i beni dell’altro con procura, ma senza
l’obbligo di rendere conto dei frutti.
Tra
i dubbi principali spicca la riferibilità
dell’art. 217 cpv.
c.c. non solo al caso del mandato con rappresentanza, ma, come appare
preferibile, anche
a quello del mandato senza
rappresentanza, come d’altronde induce a ritenere il richiamo
all’obbligo a rendere conto di frutti (1713 c.c.). Per quanto concerne invece
la forma dell’eventuale
procura, dovrà farsi richiamo alla regola generale di cui all’art. 1392 c.c.
In
base all’art. 217, secondo comma, c.c., se è stato convenuto l’obbligo di rendiconto, il coniuge
amministratore sarà tenuto
verso l’altro secondo le regole del mandato. Troverà quindi applicazione in primo luogo l’art. 1710,
primo comma, c.c., in base al quale il mandatario deve eseguire il mandato con la diligenza del buon padre
di famiglia: da quanto detto si arriva dunque alla conclusione che il
coniuge sarà responsabile qualora ometta colposamente di percepire i frutti dei
beni affidatigli, oppure ne cagioni il perimento o il deterioramento. Il
coniuge sarà anche tenuto a corrispondere gli interessi legali sulle somme
riscosse (art. 1714 c.c.) e a provvedere alla custodia dei beni (art. 1718
c.c.).
Ai
sensi dell’art. 217, terzo
comma, c.c., qualora non
sia stato convenuto l’obbligo di rendere conto dei frutti, il coniuge amministratore e i suoi
eredi, a richiesta dell’altro coniuge o al momento del scioglimento o alla
cessazione degli effetti civili del matrimonio, saranno tenuti a consegnare
unicamente i frutti esistenti e non risponderanno invece per quelli che siano già stati consumati.
Venendo
ai caratteri che il
mandato ad
amministrare conferito da un coniuge all’altro deve avere affinché possano
trovare applicazione le norme di cui all’art. 217, cpv. e terzo comma, c.c.,
potrà riassuntivamente dirsi che la tesi preferibile appare quella che
riferisce la disposizione predetta tanto al mandato generale che a quello speciale eventualmente
conferito da un coniuge all’altro, purché si tratti di mandato sempre
revocabile.
In
base alla norma generale di cui all’art. 1709 c.c. il mandato si presume oneroso: si tratta quindi di stabilire se detto
principio possa essere applicato anche relativamente ai casi previsti dall’art.
217, secondo e terzo comma, c.c.
Parte
della dottrina opta per la soluzione affermativa, dedotta dalla citata regola
generale, sostenendo che il coniuge amministratore avrà diritto ad un compenso.
In senso contrario si è osservato che la presunzione di onerosità può in via
generale essere vinta sia offrendo la prova di un patto contrario, sia nei casi
in cui il carattere gratuito possa desumersi dalle circostanze e dal
comportamento delle parti. Visto
che normalmente si accetta di
amministrare i beni del proprio coniuge per spirito di solidarietà, in adempimento del dovere di
collaborazione nell’interesse della famiglia, sembra preferibile presumere che il mandato
conferito da un coniuge all’altro sia gratuito, tanto più che la
presunzione di onerosità fissata dall’art. 1709 c.c. non ha certo carattere assoluto, cosicché
la responsabilità per colpa andrà valutata con minor rigore ai sensi dell’art. 1710, primo
comma, c.c.
L’art. 217, quarto comma, c.c.,
prende in considerazione l’ipotesi in cui uno dei coniugi, nonostante l’opposizione
dell’altro, amministri
i beni di questo o comunque compia atti relativi a tali beni, stabilendo che
egli risponde dei danni cagionati e della
mancata percezione dei frutti. Trattasi, come rilevato in dottrina, di
previsione superflua,
perché pone a carico del coniuge in questione l’obbligo di risarcimento del
danno, conformemente ai principi generali in materia di fatto illecito.
La
disposizione fa riferimento ad una condotta illecita del coniuge, che può consistere in uno o più
atti di amministrazione, di godimento, di disposizione (ad esempio di
alienazione di beni mobili, che possono essere efficaci in base all’art. 1153
c.c.), oppure nell’inosservanza della diligenza richiesta per assicurare la
custodia o la manutenzione o l’efficienza produttiva dei beni, o ancora nella
consumazione o nella mancata percezione dei frutti.
Trattasi
peraltro di ipotesi di responsabilità
aquiliana, per violazione del diritto soggettivo all’integrità del
patrimonio, anche se l’esistenza di un rapporto di coniugio inter partes
viene sicuramente ad agevolare, di fatto, il verificarsi di siffatte
situazioni. Ne consegue che all’obbligo
di risarcire i danni si applicheranno le usuali regole relative all’illecito
extracontrattuale. Gli altri danni, diversi dalla mancata percezione dei
frutti, cui fa riferimento l’art. 217, quarto comma, c.c., saranno gli
eventuali danni materiali che i beni abbiano subito.
L’art.
218 c.c. si occupa,
sempre in relazione ai coniugi in regime di separazione, dell’ipotesi in cui
uno goda dei beni
dell’altro, stabilendo a carico del primo l’applicabilità delle obbligazioni che la legge
pone a carico dell’usufruttuario.
Ne consegue che tale coniuge risponderà, in caso di mancato adempimento ad uno o più di
tali obblighi, ai sensi degli artt. 1218 ss. c.c. La dottrina rileva in proposito che la
prescrizione in commento costituisce il naturale completamento dell’art. 217
c.c.: come, invero, l’art. 217 c.c. attiene al compimento di atti giuridici
coinvolgenti il patrimonio dell’altro coniuge, così l’art. 218 c.c. investe il
profilo del godimento materiale.
Non vi è poi dubbio sul fatto che i coniugi,
nell’esercizio dell’autonomia che viene riconosciuta loro dall’ordinamento,
possano anche concedersi il diritto d’usufrutto (o di abitazione) su uno o più
beni: in tal caso si dovrà riconoscere la diretta applicabilità della relativa
normativa.
Le
obbligazioni a
carico del coniuge che gode dei beni dell’altro sono, secondo l’opinione
prevalente, quelle di cui
agli artt. 981, 1001, 1002, 1004, 1005, terzo comma, 1008, 1009, 1012 e 1013
c.c.
Il
riferimento limitato alle sole
obbligazioni – e non anche ai diritti – nascenti dall’usufrutto esclude la possibilità di
assimilare la posizione del coniuge a quella di un vero e proprio
usufruttuario.
D’altro
canto, in dottrina si afferma che anche le norme dettate in materia di
obbligazioni nascenti dall’usufrutto sono applicabili solo in quanto compatibili con la
peculiarità della situazione. In particolare si ritiene unanimemente applicabile l’art. 1001 c.c., che impone l’obbligo di usare la
diligenza del buon padre di famiglia nel godimento del bene.
Alcuni
Autori, invece, ritengono non
applicabile l’art. 1002 c.c. sull’obbligo di redigere l’inventario e di
prestare idonea garanzia, in considerazione del tipo di rapporto intercorrente
fra le parti e della naturale spontaneità che caratterizza tale situazione.
Più
convincente appare
peraltro il parere della dottrina maggioritaria, favorevole all’estensione al coniuge degli obblighi di
redigere l’inventario e di prestare idonea garanzia, di fronte alla evidente
assenza sul punto di dati testuali che consentano di pervenire all’opposta
soluzione. Né d’altro canto appare possibile escludere l’applicabilità della
norma in oggetto sulla base del rilievo per cui la già avvenuta ingerenza del
coniuge sui beni dell’altro non lascerebbe spazio né per l’inventario né per la
garanzia. Il godimento
potrebbe, invero, protrarsi
anche per un lungo periodo e che il coniuge proprietario potrebbe
avere interesse,
magari in una situazione in cui i reciproci diritti non appaiono ancora
accertati con sufficiente certezza, a premunirsi in tal modo (cioè, appunto, mediante la
predisposizione dell’inventario e la concessione di idonea garanzia) contro possibili abusi.
La
dottrina reputa
altresì applicabili,
come si diceva,
·
gli artt. 1004 e 1005, terzo comma, c.c., relativi
alle spese,
·
gli artt. 1008 e 1009 c.c., in tema di imposte e pesi,
·
l’art. 1013 c.c., in tema di concorrenza nelle spese delle liti.
A
parere di chi scrive, neppure la considerazione del particolare rapporto di
coniugio esistente tra le parti, con il conseguente inderogabile dovere di
contribuire ai bisogni della famiglia e la relativa regola dell’accordo,
consente di escludere l’applicabilità delle disposizioni da ultimo citate,
specie di fronte al carattere
assolutamente generale del rinvio operato dall’art. 218 c.c. alle
disposizioni (tutte, senza eccezione alcuna) in tema di obblighi
dell’usufruttuario.
Senza
dubbio, poi, sarà applicabile
l’art. 1012 c.c.,
in materia di denuncia delle altrui usurpazioni.
La
dottrina pressoché uniforme afferma poi la necessità che venga osservato il disposto
dell’art. 981,
primo comma, c.c., che impone all’usufruttuario di non alterare la destinazione economica del bene.
Un’ulteriore
forma di responsabilità
contrattuale per i coniugi in regime di separazione dei beni può darsi nel caso di inadempimento
all’obbligazione ex lege che può gravare su di un coniuge, avente ad
oggetto l’indennizzo,
in favore dell’altro per i miglioramenti
e le addizioni da quest’ultimo apportati a beni del primo.
L’art.
218 c.c. non prende in considerazione
l’eventualità che un coniuge, godendo dei beni dell’altro, o comunque per
effetto di intromissione nella sfera patrimoniale di quest’ultimo, abbia
apportato miglioramenti o addizioni. Si pone qui il problema di sapere se per
tali miglioramenti o addizioni sia dovuta una qualche forma di indennizzo.
In
primo luogo andrà ricordato che tra coniugi esiste un preciso dovere di contribuzione «ai bisogni
della famiglia» che l’art. 143,
terzo comma, c.c. parametra «alle proprie sostanze e alla propria capacità di
lavoro professionale o casalingo». Si pone dunque il problema se, nell’ipotesi in cui il coniuge sostenga di tasca
propria le spese per effettuare migliorie o addizioni sui beni dell’altro,
in adempimento del proprio obbligo di contribuzione, sulla base di un accordo
precedente circa le modalità di ripartizione fra entrambi dell’onere
contributivo stesso (si pensi ad esempio al caso in cui i coniugi abbiano
concordato di dividersi le spese per la ristrutturazione della casa coniugale
appartenente al solo marito), l’indennizzo debba ritenersi escluso.
Applicando questo principio, una decisione di merito ha respinto la richiesta di pagamento per le prestazioni professionali rese,
avanzata dal marito
architetto il quale si era dato carico di svolgere tutte le attività
occorrenti per la ristrutturazione della casa coniugale, appartenente alla sola
moglie. Considerando l’attività svolta come prestazione non contrattuale posta
in essere nell’interesse della famiglia da ricondursi all’adempimento dell’obbligo di contribuzione,
il giudice ne ha così affermato la totale gratuità (cfr. Trib. Napoli, 4 luglio
In
precedenza la Corte
Suprema aveva invece riconosciuto la possibilità di ottenere un’indennità ex art. 1150
c.c. per il contributo
in denaro fornito dalla moglie al marito per il restauro della casa di quest’ultimo adibita a
residenza familiare, pur avendo affermato che tale contributo era stato
prestato in
adempimento dell’obbligo di contribuzione di cui all’art. 143 c.c. (Cass., 26 maggio 1995, n.
La soluzione del
problema dovrà trovarsi, in linea di massima, nelle norme in tema di gestione d’affari altrui, salvi i casi in cui nel
comportamento tollerante sia eventualmente possibile ravvisare gli estremi di
un mandato tacito (nel qual caso
dovrebbe essere applicato l’art. 1720, primo comma, c.c.). La norma di riferimento dovrebbe
dunque essere costituita, in linea generale, dall’art. 2031, primo comma, c.c., che impone
all’interessato, qualora la gestione sia stata utilmente iniziata, di rimborsare al gestore
tutte le spese necessarie o utili, con gli interessi
dal giorno in cui le spese sono state fatte.
Queste conclusioni
paiono ricevere conforto
da quella giurisprudenza che riconduce proprio al paradigma della gestione d’affari altrui
le spese affrontate
da un coniuge che abbia integralmente
adempiuto all’obbligo di mantenimento dei figli pure per la quota
facente capo all’altro.
Cfr., ex
multis, Cass., 11 novembre 1978, n. 5169; Cass., 25 maggio 1981, n. 3416;
Cass., 1 giugno 1982, n. 3344; Cass., 8 marzo 1983, n. 1687; Cass., 19 marzo 1984, n. 1862; Cass., 21
giugno 1984, n. 3660; Cass., 16 marzo 1990, n. 2199; Cass., 11 luglio 1990,
n. 7211; Cass., 12 marzo 1992, n. 3019; Cass., 5 dicembre 1996, n. 10849;
Cass., 4 settembre 1999, n. 9386. |
Sempre secondo la
predetta impostazione, se
il coniuge abbia agito senza procura o con l’opposizione dell’altro, in
virtù dell’art. 2031,
secondo comma, c.c. – che esclude
che si possa procedere al rimborso integrale con gli interessi qualora gli atti
di gestione siano stati eseguiti contro il divieto dell’interessato – non potrà, invece, farsi
riferimento alla normativa in materia di gestione d’affari.
E’ dunque chiaro che,
ogni qualvolta si dovrà ravvisare nella fattispecie gli estremi di un’obbligazione da gestione
d’affari altrui, la relativa
violazione seguirà le regole dell’illecito contrattuale, ex
artt. 1218 ss. c.c.
Ancora diversa è la questione se
tra coniugi, così come tra conviventi more
uxorio, possano darsi ipotesi di arricchimento ingiustificato. E’ ovvio che, nei casi e per le
fattispecie in cui dovessero ritenersi configurabili obbligazioni ex art. 2041 c.c., le relative inadempienze darebbero luogo a
responsabilità contrattuale.
o
Siffatti
casi andranno rinvenuti soprattutto nelle ipotesi in cui un coniuge si sia arricchito per essersi ingerito nella
sfera patrimoniale dell’altro, ovviamente ove non ricorrano dolo o colpa
(altrimenti si verterebbe nel caso previsto dall’art. 2043 c.c.): si pensi a
casi di gestione patrimoniale complessa, di svariati conti bancari, ecc.
o
Più
complessa è la risposta all’interrogativo se sia ammesso il rimedio dell’arricchimento per
le utilità conseguite allorquando è l’impoverito che si è ingerito nella sfera patrimoniale dell’altro
coniuge, apportandovi vantaggi.
Qui sembra doversi
escludere il rimedio in oggetto, in relazione a quelle prestazioni lavorative
che eventualmente superassero la misura del dovere di contribuzione fissata
dall’art. 143 c.c. Sembra, infatti, che il contesto nel quale le prestazioni
in discorso si vengono a collocare non possa dirsi caratterizzato
dall’onerosità, se si eccettuano, naturalmente, le prestazioni riconducibili
alla fattispecie descritta dall’art. 230-bis
c.c., nonché quelle riferibili a specifici rapporti obbligatori quali quello
lavorativo o societario. Come accade nelle
relazioni more uxorio, per le
prestazioni di facere eccedenti la
misura della contribuzione in forza dell’obbligazione naturale parametrata
sul criterio posto (per i coniugi) dall’art. 143 c.c., anche nell’ambito
della famiglia legittima dovrà trovare applicazione il principio che, al fine
di escludere lo scambio imposto, nega l’azione di arricchimento
ingiustificato a chi si sia impoverito spontaneamente ingerendosi nella sfera
patrimoniale altrui. Andrà dunque escluso il rimedio in oggetto, nell’ambito delle relazioni
matrimoniali, con riguardo a quelle prestazioni lavorative che eventualmente superassero la misura
del dovere di contribuzione fissata – questa volta sub specie obligationis civilis – dall’art. 143 c.c. Se si parte
dal presupposto, infatti, che qui l’adempimento reciproco del dovere di contribuzione è
comunque garantito
dalla natura «civile»
(e non naturale) della relativa obbligazione, pare, invero, potersi
concludere che il contesto
nel quale le prestazioni in discorso (cioè, si ripete, quelle di facere eccedenti la contribuzione
fissata dall’art. 143 c.c.) si vengono a collocare non possa dirsi caratterizzato dall’onerosità, cioè dalla ragionevole aspettativa,
in capo a chi presta, conoscibile dalla controparte, che pure il beneficiario
di tali prestazioni effettuerà contribuzioni in misura superiore al limite di
cui al citato art. 143. Ne consegue che, proprio per l’assenza di un «affidamento» dell’impoverito,
conosciuto o conoscibile dalla controparte, nell’onerosità dell’attività
prestata, il rimedio ex art. 2041
c.c. dovrebbe essere negato. Neppure sembra potersi lasciare spazio alla categoria delle obbligazioni naturali,
atteso che quei doveri
morali e sociali cui il vincolo
matrimoniale dà vita sono stati trasfusi dal
legislatore nel
(positivo e «civile») regime
primario della
famiglia, per cui non residua alcuno «spazio libero» per obbligazioni che non
siano azionabili, ma unicamente legate al fenomeno della soluti retentio. Quanto sopra non esclude – come si è già detto – che il
rapporto possa eventualmente reperire un suo idoneo inquadramento in una
diversa fattispecie, quale, ad esempio, quella descritta dall’art. 230-bis c.c., oppure quelle
riferibili al rapporto lavorativo (subordinato o parasubordinato), ovvero
societario. Questione, tale ultima, che, del resto, andrebbe comunque
esaminata per prima, avendo il rimedio dell’arricchimento ingiustificato
carattere meramente residuale. |
13. Responsabilità contrattuale e crisi coniugale.
Svariate sono le fattispecie in cui si può ipotizzare la presenza di una
responsabilità contrattuale inter
coniuges per violazione di obbligazioni nascenti dalla situazione di crisi
coniugale. La mente corre qui, in primo luogo,
·
al contributo per il
mantenimento del coniuge separato
ex art. 156 c.c.,
·
all’assegno di
divorzio ai sensi dell’art.
·
o, ancora, alle
prestazioni patrimoniali dovute ai sensi degli artt. 129 e 129-bis c.c. per il caso di invalidità del vincolo.
Ciò che preme sottolineare è che la natura contrattuale della
responsabilità per inadempimento di una qualsiasi di siffatte prestazioni si
giustifica non solo nel caso in cui queste siano determinate da un contratto della crisi coniugale,
ma anche nell’ipotesi
in cui esse siano previste da una statuizione giudiziale, definitiva o provvisoria che sia. Anche qui, invero, si può
parlare di obbligazione
nel senso proprio del termine, come dimostrato dal fatto che la giurisprudenza non esita
a fare applicazione, a tutela della posizione del coniuge titolare del credito
a titolo di mantenimento o di assegno divorzile, del più classico degli
strumenti a protezione del creditore (di un’obbligazione) nei confronti degli
atti fraudolenti posti in essere dal debitore: vale a dire l’azione revocatoria.
Cfr.
Trib. Milano, 22 luglio |
D’altro canto, la stessa giurisprudenza non ha
difficoltà ad ammettere la risarcibilità del danno conseguente all’inadempimento
di siffatto tipo di obbligazioni.
Cfr.
App. Perugia, 8 marzo |
Naturalmente, quanto sopra vale pure con riguardo al caso
in cui le parti abbiano eventualmente stabilito che la corresponsione dei
contributi in oggetto sia compiuta in una delle svariate modalità «non tradizionali»:
·
dalla fissazione
del quantum in misura «fluttuante»,
legata al reddito dell’obbligato,
·
alla
determinazione in termini non
monetari,
·
all’attribuzione diretta di redditi o proventi dell’obbligato,
all’effettuazione di rimborsi di spese, alla diretta somministrazione dei mezzi
di sussistenza,
·
al pagamento diretto del canone di locazione e
delle spese accessorie,
·
alla
corresponsione di beni in
natura.
Con particolare riguardo a quest’ultima ipotesi potrà ricordarsi che
il trasferimento di
diritti su beni, mobili o immobili, in sede di contratto della crisi
coniugale – ormai pacificamente ammesso – ove non attuato con effetto reale,
può compiersi per il tramite di un impegno assunto in sede di accordo di
separazione o divorzio e successivamente adempiuto con distinto e separato
negozio attuativo.
Anche l’eventuale inadempimento di tale obbligazione può dar luogo a
responsabilità
contrattuale, salvo il rimedio specifico contemplato nell’art. 2932 c.c. Conformemente a
quanto sopra illustrato, deve però ritenersi che la parte in favore della quale
l’impegno traslativo era stato assunto, possa optare per il risarcimento del danno (contrattuale) nelle forme ordinarie,
rinunziando al rimedio specifico, oppure agire ex artt. 1218 ss. c.c., in concorso con l’azione ai sensi dell’art. 2932 c.c., quando il
danno di cui si intenda chiedere il risarcimento sia, ad esempio, quello da ritardo, per la
mancata disponibilità del bene per un determinato periodo.
A prescindere dai rimedi risarcitori ex artt. 1218 ss. c.c., le obbligazioni qui in
discorso sono rafforzate da una serie di garanzie speciali a tutela dell’adempimento degli
obblighi di carattere pecuniario derivanti dalla separazione e dal divorzio:
·
obbligo di
prestare idonea garanzia
reale o personale,
·
iscrizione
dell’ipoteca giudiziale
ai sensi dell’ articolo 2818 c.c.,
·
sequestro di parte dei beni del coniuge obbligato,
·
ordine ai
terzi, tenuti a corrispondere anche periodicamente somme di danaro
all’obbligato, che una parte di esse venga versata direttamente agli aventi
diritto, ex artt. 156, quarto, quinto
e sesto comma, c.c., 8, primo, secondo e settimo comma, l.div.,
·
distrazione dei redditi ed azione diretta esecutiva ex art. 8, terzo, quarto, quinto e sesto
comma, l.div.
Dovrà poi ammettersi che i coniugi, nell’ambito di un contratto della crisi coniugale, aggiungano alle garanzie
predisposte dal legislatore ulteriori mezzi di tutela preventiva e coazione
all’adempimento non previsti dalle speciali norme dettate per la separazione o
il divorzio. Nulla esclude invero (ed anzi l’esperienza delle controversie in
materia di crisi coniugale sembra caldamente suggerirlo) che i coniugi
prevedano la dazione di una caparra
confirmatoria,
ovvero il pagamento di una penale,
magari nella forma di penalità
di mora determinate sulla base dei giorni di ritardo, in relazione
all’adempimento dell’assegno di separazione o di divorzio, ovvero di altre
prestazioni di tipo patrimoniale.
Un’ulteriore forma di garanzia è infine rappresentata
dal vincolo ex art. 2645-ter
c.c.
In particolare potrà qui dirsi che una recente
decisione di merito è arrivata ad ammettere la norma citata consenta
l’effettuazione di un atto traslativo a beneficio del coniuge (o ex tale), ma
nell’interesse della prole, mercé apposito vincolo ad essa imposto.
14. Responsabilità contrattuale e doveri dei genitori.
Come nei rapporti tra coniugi ex art. 143 c.c., anche nelle relazioni tra genitori e figli i primari doveri che
vengono in considerazione in forza degli artt. 30 Cost., 147 e 148 c.c. presentano eminenti profili di non patrimonialità. Di conseguenza si
dovrà fare rinvio a quanto già illustrato circa la non ravvisabilità di una responsabilità ex artt. 1218 ss. c.c per il caso di eventuale violazione di siffatti
doveri.
Sarà però necessario rilevare in questa sede come la
violazione del dovere di mantenimento
della prole, in quanto relativa ad un obbligo eminentemente patrimoniale, ancorché di fonte legale, non possa sottrarsi alla
categoria dell’illecito contrattuale.
Peraltro, un precedente di legittimità risalente al
La lettura della motivazione della pronunzia consente
peraltro di accertare che il genitore
aveva in effetti corrisposto tutto quanto da lui dovuto a titolo di
mantenimento, seppure in
ritardo. La lesione lamentata non riguardava il profilo patrimoniale
consistente nel danno da mancata o ritardata corresponsione dei mezzi di
sussistenza, quanto il diritto
fondamentale del figlio, come persona umana, ad essere, si potrebbe
dire, «trattato come tale».
Naturalmente, vere e proprie obbligazioni concernenti la prole
minorenne (o maggiorenne, ma non autosufficiente) possono scorgersi anche nella
fase patologica del rapporto coniugale, laddove le determinazioni giudiziali o,
in alternativa, la volontà delle parti, prevedano la corresponsione di assegni per il contributo
al mantenimento dei figli.
Basti ricordare qui l’enfasi posta dalla legge sul rilievo, anche in subiecta materia, degli accordi tra i coniugi (o ex
tali), al punto che l’obbligo – oggi sussistente a seguito della riforma
dell’art. 155 c.c. per effetto della legge sull’affidamento condiviso – per il
giudice di «prendere atto»,
ancor di più di quello, precedente,
di «tener conto»,
sembra tradursi prevalentemente in un dovere di motivazione delle ragioni per
le quali l’intesa viene eventualmente disattesa, motivazioni che non potranno
trovare altro punto di riferimento se non quello dell’eventuale violazione dei
canoni fondamentali espressi dagli artt. 30 Cost., 147 e 148 c.c., o della
regola dell’ «interesse del minore».
Si noti peraltro che il nuovo art. 155, quarto comma, nel prevedere che
ciascuno dei genitori provvede al mantenimento dei figli in misura proporzionale al proprio
reddito «salvo accordi
diversi, liberamente sottoscritti dalle parti», sembra voler addirittura
smentire il
criterio di necessaria
proporzionalità scolpito nell’art. 148, norma sino ad oggi ritenuta
inderogabile, venendo altresì a porre (quanto a tale limitato aspetto) forse
anche un problema di conformità all’art. 30 Cost.
Venendo alle determinazioni specifiche concernenti i profili
patrimoniali, è pacifico che gli accordi tra i coniugi potranno concernere la
determinazione dell’assegno
e delle relative scadenze di corresponsione, mentre non sembra possibile escludere ogni forma di adeguamento automatico.
Il
principio di cui un tempo all’art. 6, undicesimo comma, l.div. e ora all’art.
155, quinto comma, c.c. (estensibile al divorzio ex art. 4, secondo comma, l. 8 febbraio 2006, n. 54) pareva
invero non solo analogicamente applicabile alla materia della separazione (ma
la questione è stata risolta dalle norme testé citate), bensì anche munito
del carattere dell’inderogabilità, posto che pure in questo caso
un’esclusione a priori della
possibilità di adeguare l’assegno al reale valore della somma inizialmente
pattuita appare in contrasto con l’interesse del minore a vedersi mantenuto
quanto meno costante, in termini reali, il contributo del genitore non
affidatario. Anche la giurisprudenza sembrava orientata in questo senso,
negando – in caso di soluzione contenziosa della crisi coniugale, ma con
argomentazioni che paiono estensibili pure alla definizione consensuale – la
possibilità di escludere la rivalutabilità dell’assegno per la prole, pure in
caso di palese iniquità, a differenza di quanto stabilito invece con
riferimento all’assegno di divorzio in favore di uno degli ex coniugi
dall’art. 5, ottavo comma, l.div. (cfr. A. Brescia 20 gennaio |
Un’altra previsione ritenuta dai giudici inammissibile
è quella concernente una rivalutazione
dell’assegno in misura
inferiore rispetto a quella assicurata dall’ «aggancio» agli indici
ISTAT (cfr. Cass., 3 novembre 1994, n.
Il riconoscimento della natura di negozio familiare
all’accordo relativo ai figli, in tutti gli aspetti in cui il medesimo può
manifestarsi, consente anche di estendere ad esso la disciplina in materia contrattuale.
Di grande utilità in proposito, di fronte alla comprovata maggior
sensibilità di tanti genitori (e dei rispettivi legali) ai profili pecuniari
rispetto a quelli affettivi, potrebbe manifestarsi l’inserimento di una o più clausole penali a
garanzia dell’adempimento non solo di doveri di carattere patrimoniale, ma
anche di quelli connessi ai profili personali della potestà. Al riguardo, come
già suggerito in altra sede, potrebbero ipotizzarsi vere e proprie penalità di mora per ogni
giorno di ingiustificato ritardo nella «consegna» o nella «riconsegna» (per
usare i brutti termini in voga nell’ambiente) del minore. Non vengono in questo
caso in considerazione preoccupazioni attinenti alla necessità di garantire il
rispetto di diritti inderogabili della persona, quale quello della libertà in
merito a decisioni di carattere strettamente personale, facendo, anzi, «premio»
su ogni altra considerazione la necessità di salvaguardare in primo luogo
l’interesse della prole.
Il suggerimento in esame, già presentato dall’autore
di questo studio, è stato criticato da chi ha rimproverato allo scrivente di
voler «eludere l’ostacolo» della vincolatività delle intese non patrimoniali inter coniuges, cercando invece di
«liquidare il problema degli effetti dell’accordo a contenuto non
patrimoniale (e della sua violazione), ricollegandovi sanzioni di natura
economica». L’equivoco di una siffatta analisi consiste nel focalizzarsi
esclusivamente su di una parte del tutto circoscritta di un’opera ben più
complessa, per poterne poi predicare l’insufficienza. Ora, non risponde in
alcun modo a verità che chi scrive abbia mai inteso far derivare la
vincolatività dell’impegno dei coniugi su profili non patrimoniali
dall’introduzione di clausole penali. Come evidenziato dall’analisi –
significativamente omessa dal citato Autore – del profilo causale delle
pattuizioni qui in discorso, la vincolatività delle intese non patrimoniali
in oggetto (non qualificabili alla stregua di contratti, alla luce del
disposto dell’art. 1321 c.c.) deriva dal semplice fatto che è il legislatore,
con l’espressa ed inequivocabile attribuzione di rilevanza alle «condizioni
della separazione consensuale» (art. 711 c.p.c.), e alle «condizioni inerenti
alla prole e ai rapporti economici» in sede di scioglimento o di cessazione
degli effetti civili del matrimonio (art. 4, sedicesimo comma, l.div.), a
fornire carattere vincolante ai comportamenti cui le parti intendono
astringersi, a prescindere, dunque, dalla patrimonialità o non patrimonialità
degli stessi. Il
richiamo, dunque, alla clausola penale – contrariamente a quanto ritenuto
dalla surriferita opinione – lungi dall’essere compiuto nel tentativo
(superfluo) di dotare di giuridica vincolatività intese che tale carattere
vincolante già di per se stesse posseggono per effetto delle citate norme
(non prese in considerazione dall’Autore dello scritto cui qui si replica),
deriva dalla semplice applicazione di principi da tempo enunciati in dottrina
e giurisprudenza (per i rinvii all’una e all’altra si rimanda il paziente
lettore ai citati passi dello scrivente: si pensi, tanto per citare qualche
esempio, alle opinioni, ivi riferite, di Santoro-Passarelli, Gangi e Bianca,
oppure alla decisione di legittimità che nel 1983 ritenne applicabili ad un
negozio eminentemente personale, quale l’accordo di riconciliazione tra
coniugi separati, i principi in tema di formazione del consenso contenuti
agli artt. 1326-1328 c.c.: cfr. Cass., 29 aprile 1983, n. |
Un peculiare obbligo di contenuto patrimoniale, gravante sui genitori, è rappresentato
dal dovere di amministrare
correttamente il
patrimonio dei figli minorenni.
Nel caso in cui il patrimonio del minore sia male amministrato,
l’autorità giudiziaria può stabilire le condizioni a cui i genitori devono attenersi
nell’amministrazione o può rimuovere entrambi o uno solo di essi
dall’amministrazione stessa e privarli, in tutto o in parte, dell’usufrutto legale (art. 334, primo comma, c.c.).
Nel caso in cui
sia disposta la rimozione di entrambi i genitori, l’amministrazione è affidata
ad un curatore
(art. 334, secondo comma, c.c.).
Si rileva al riguardo che i fatti che possono giustificare l’intervento del giudice non
sono sostanzialmente diversi da quelli che legittimano la pronuncia di decadenza dalla potestà; sono soltanto meno gravi, secondo la
valutazione discrezionale compiuta dal giudice. La diversa gravità dei fatti,
inoltre, costituisce il parametro non solo per scegliere tra la pronunzia di
decadenza e l’applicabilità dei provvedimenti di cui all’art. 334 c.c., ma
anche, nell’ambito di quest’ultima norma, per graduare le misure da adottare.
Il giudice, infatti, quando le irregolarità non sono gravi
ed appaiono correggibili, può limitarsi a stabilire le condizioni cui i genitori devono attenersi nell’amministrazione,
sotto la vigilanza
del giudice tutelare; può, altresì, privare entrambi i
genitori o solo uno di essi dell’amministrazione dei beni del minore, lasciandoli
nell’esercizio della potestà, quando entrambi o uno solo di essi risultino inidonei
al compito che la legge loro affida. La rimozione dall’amministrazione può a
discrezione del tribunale, accompagnarsi alla privazione totale o parziale
dell’usufrutto legale.
Nel caso il patrimonio del minore abbia subito un pregiudizio a causa di atti di
cattiva amministrazione compiuti dai genitori, questi ultimi potranno essere
chiamati a rispondere dei danni
cagionati, non già ex art. 2043 c.c., bensì in forza dei principi in tema di responsabilità contrattuale:
i genitori sono invero soggetti
passivi di un rapporto obbligatorio ex lege
di carattere patrimoniale che li lega ai figli minorenni, quale uno dei profili
componenti la potestà genitoriale: un rapporto avente ad oggetto la rappresentanza dei figli
stessi e l’amministrazione
dei relativi patrimoni (cfr. art. 320, primo comma, c.c.). Ora, questa amministrazione non può
svolgersi se non nel rispetto del canone della diligenza (e il richiamo al concetto del «buon padre di famiglia»
assume qui un significato quanto mai pregnante!) ex art. 1176 c.c.
Si tenga, inoltre, in considerazione che l’art. 570, secondo comma, n. 1, c.p.,
prevede e punisce la condotta del genitore che «malversa
o dilapida i beni
del figlio minore», con la conseguenza che, nel caso in cui ricorrano gli
estremi di tale reato, vi potrà essere anche la condanna al risarcimento del danno morale.
Per concludere sul punto dovrà ricordarsi che, in caso
di crisi coniugale,
la questione dell’eventuale violazione dei doveri genitoriali, ed in
particolare dei provvedimenti dettati dal giudice relativamente alla prole,
così come degli accordi eventualmente raggiunti inter partes, andrà affrontata – nel caso di attuale pendenza di un giudizio di separazione, di divorzio, di modifica delle relative
condizioni, ovvero ancora di annullamento
del matrimonio – con ricorso al già citato procedimento ex art. 709-ter c.p.c.