La responsabilità contrattuale
nella famiglia di fatto
5. La
responsabilità dei genitori per le obbligazioni contratte dai figli.
Nell’attuale sistema normativo italiano, attesa l’inesistenza di un
dovere giuridico azionabile
di contribuzione tra conviventi
more uxorio e la presenza,
invece, di una semplice obbligazione naturale, sembra impossibile trasfondere
in questa materia le conclusioni sopra esposte in tema di dovere di
contribuzione tra coniugi.
Un’obbligazione
ex lege giuridicamente azionabile esiste, per il vero, nell’ipotesi descritta
dall’art. 342-ter cpv. c.c.,
introdotto dall’art. 2, l. 5 aprile 2001, n.
154 («Misure contro la violenza nelle relazioni familiari»), ai
sensi del quale, nel caso di emanazione di ordine ai sensi del primo comma del
medesimo articolo (ordine di allontanamento dalla casa familiare), il giudice
può disporre «il pagamento periodico
di un assegno a
favore delle persone conviventi che, per effetto dei provvedimenti di cui al
primo comma, rimangono prive di mezzi adeguati, fissando modalità e
termini di versamento e prescrivendo, se del caso, che la somma sia versata
direttamente all’avente diritto dal datore di lavoro
dell’obbligato, detraendola dalla retribuzione allo stesso
spettante».
Trattasi di disposizione su cui grava il pesante sospetto di contrarietà al
canone d’uguaglianza
ex art. 3 Cost., atteso che la medesima concede (per la prima volta
nell’ordinamento giuridico italiano) un assegno all’ex convivente more uxorio dalla funzione prettamente
assistenziale – si noti l’inciso «persone conviventi che
(…) rimangono prive di mezzi adeguati – peraltro nel solo caso di
cessazione «violenta» del rapporto, nulla prevedendo, invece,
nell’ipotesi in cui la relazione venga a terminare in maniera
«civile», con un’evidente discriminazione a seconda di come
il legame venga a sciogliersi e senza tenere conto del fatto che la mancanza di
mezzi adeguati ben può darsi anche quando il convivente
«debole» non subisca violenza alcuna.
Ma, a parte questi rilievi (che s’accompagnano
all’augurio che il legislatore o la Consulta provvedano quanto prima a
colmare la lacuna), non vi è dubbio che la prestazione in oggetto
costituisce l’oggetto di un ben preciso rapporto obbligatorio costituito jussu judicis sulla base della norma citata, la cui violazione espone il
debitore a responsabilità
contrattuale.
Altrettanto è a dirsi in relazione al caso in cui un obbligo
di contribuzione o di mantenimento siano stati previsti in base ad un contratto di convivenza: l’ammissibilità
di una siffatta pattuizione sembra, invero, oggi fuori discussione ed anzi la validità di un
contratto di convivenza avente tale oggetto induce anche ad affermare la
possibilità che le parti stabiliscano l’impegno reciproco di contribuire alle
necessità del ménage
mediante la corresponsione (periodicamente,
o una tantum) di somme di
denaro, ovvero tramite la messa a disposizione di propri beni o della propria
attività lavorativa, eventualmente anche soltanto domestica.
La validità
di tale impegno, che dovrebbe fissare altresì misura e modalità
della contribuzione di ciascuno, non sembra possa contestarsi, così come
quella di una promessa avente a oggetto la reciproca assistenza materiale per
il caso di
necessità.
Al riguardo potrebbe rivelarsi di una certa
utilità la previsione di eventuali situazioni alla stregua di «cause di giustificazione»
per il mancato adempimento dell’obbligo contributivo, come per esempio
nel caso in cui una delle parti dovesse trovarsi senza sua colpa
nell’impossibilità di ricevere reddito (si pensi alla disoccupazione involontaria).
Sulla
validità di contratto di convivenza: |
Sez.
3, Sentenza n. 6381
del 08/06/1993 (Rv. 482709) La
convivenza "more uxorio" tra persone in stato libero non
costituisce causa di illiceità e, quindi, di nullità di un
contratto attributivo di diritti patrimoniali (nella specie, comodato)
collegato a detta relazione, in quanto tale convivenza, ancorché non
disciplinata dalla legge, non contrasta nè con norme imperative, non
esistendo norme di tale natura che la vietino, nè con l’ordine
pubblico, che comprende i principi fondamentali informatori dell’
ordinamento giuridico, nè con il buon costume, inteso, a norma delle
disposizioni del codice civile (vedi artt. 1343, 1354), come il complesso dei
principi etici costituenti la morale sociale di un determinato momento
storico, bensì ha rilevanza nel vigente ordinamento per l’attribuzione
di potestà genitoriali nell’ipotesi disciplinata dall’art.
317 bis cod. civ., come nella normativa della legge 27 luglio 1978 n. |
Trib.
Savona, 29 giugno Nella
specie, una donna aveva convenuto in giudizio il suo ex compagno, chiedendone
la condanna al pagamento della somma di € 5.164,57 (10.000.000 di lire)
sulla base di una causa petendi ricostruita nei termini seguenti dal
giudicante: «poiché, contrariamente agli impegni e alle
obbligazioni assunte in sede di stipula del contratto di convivenza more
uxorio, il convenuto, al contrario dell’attrice, non avrebbe
partecipato al soddisfacimento delle esigenze della famiglia di fatto in
misura eguale e paritaria». Esperita istruttoria orale (è da
supporsi, in forza del disposto del capoverso dell’art. 2721 c.c.), il
tribunale dà atto in sentenza che, secondo quanto dichiarato da un
teste, le parti «in presenza dello stesso teste, avevano verbalmente e
concordemente stabilito che avrebbero partecipato in misura eguale alle spese
inerenti la famiglia di fatto». Posto, dunque, di fronte ad
un’azione di adempimento di un contratto di contribuzione tra
conviventi more uxorio, il tribunale applica analogicamente
l’art. 143 c.c. per «correggere» il contenuto del contratto
che, anche alla luce del criterio ex art. 1366 c.c., viene dal
giudicante «inteso in modo generico e di massima», facendo
«salve le differenti possibilità economiche e lavorative dei componenti
in un dato momento». Di conseguenza – accertato in fatto lo
squilibrio reddituale e patrimoniale in favore della parte attrice e, in
particolare la circostanza che l’uomo «non sembra (…)
disponesse di redditi particolari», mentre la donna «aveva un
reddito costante e sicuro» – il giudice respinge la domanda. La
motivazione viene così a trovarsi «in bilico» tra due rationes
decidendi inconciliabili: la prima, che fa leva
sull’inderogabilità del canone espresso dall’art. 143
c.c., ciò che dovrebbe comportare il riconoscimento (quanto meno in
via incidentale) della nullità dell’intesa, ex art. 1418
c.c.; la seconda, che si basa sull’interpretazione secondo buona fede
di un negozio che, per poter essere interpretato, dovrebbe essere ritenuto
valido… Peraltro nessuna delle due strade appare percorribile: non la
prima, perché – come si è detto – l’art. 143
c.c. (la cui inderogabilità è sancita, tra l’altro, per i
soli coniugi, dall’art. 160 c.c.) non appare in alcun modo riferibile (sub
specie obligationis civilis) alla famiglia di fatto (in senso critico,
sul punto, rispetto alla decisione, cfr. anche la nota di commento di Ferrando, Le contribuzioni tra
conviventi fra obbligazione naturale e contratto, cit., p. 600); non la
seconda, perché in claris non fit interpretatio, né si
comprende per qual motivo (non giustificato da emergenze processuali, quanto
meno citate in sentenza) sarebbe stato presente, al momento della conclusione
del contratto, un «ragionevole affidamento» sul fatto che
l’impegno avrebbe dovuto essere riferito alle «differenti
possibilità economiche e lavorative dei componenti in un dato
momento», anziché ai verba chiaramente usati dalle parti
e che ben avrebbero, tra l’altro, potuto ingenerare un altrettanto
ragionevole affidamento in capo alla donna, circa la futura divisione a
metà di tutte le spese afferenti al ménage. |
La dottrina italiana pare orientata a individuare
quale contenuto dei contratti di convivenza l’obbligo di corresponsione
di somme di denaro a titolo di mantenimento da parte del partner
più abbiente in favore di quello più bisognoso. Ma
c’è da chiedersi se invece non convenga optare per forme negoziali
più collaudate, quali per esempio il contratto di mantenimento vitalizio.
Si tratta della convenzione con la quale una parte
attribuisce all’altra il diritto di esigere, vita natural durante, di essere mantenuta, quale
corrispettivo dell’alienazione di un bene mobile o immobile o della
cessione di un capitale. Più precisamente, l’obbligo del
vitaliziante consiste non
già nel versamento di somme di denaro, ma nella corresponsione, in natura, di vitto, alloggio vestiario e assistenza
medica, anche se la prassi conosce altre pattuizioni di carattere accessorio.
Tali
prestazioni accessorie possono avere natura patrimoniale (v. per esempio il
caso risolto da Cass., 11 novembre 1988, n. |
Proprio l’appartenenza di tali prestazioni al
novero di quelle di fare,
anziché di dare,
ha da sempre indotto la dottrina maggioritaria a evidenziare l’atipicità
del contratto in esame rispetto alla rendita vitalizia, secondo una tesi che
riscuote anche il consenso della Suprema Corte, e che pare senz’altro
preferibile, anche in considerazione del cospicuo numero di altri elementi
differenziatori nei riguardi della figura regolata dall’art. 1872 ss.
Nell’ambito dei rapporti tra conviventi more uxorio
il contratto di mantenimento vitalizio potrebbe però assumere un ulteriore connotato caratterizzante, idoneo ad
allontanarlo definitivamente dalla rendita vitalizia. Nello schema negoziale
potrebbe infatti mancare
la cessione della proprietà di determinati beni dal vitaliziato al
vitaliziante, (specie quando uno dei due difettasse dei mezzi necessari
per un’operazione del genere). In tal caso la controprestazione, a fronte
dell’impegno del vitaliziante, potrebbe essere costituita da un obbligo reciproco di assistenza
materiale, oppure potrebbe mancare del tutto.
Ma a questo punto occorre ammettere che il primo caso
non sembra differire di molto dal contratto di contribuzione che si è cercato di enucleare
in precedenza, mentre nel secondo
appare inevitabile riconoscere la presenza di una donazione. Proprio per questo, la previsione
dell’obbligo di mantenimento a carico di una soltanto delle parti, senza
alcuna controprestazione, richiede necessariamente il rispetto della forma solenne, ex art. 782 c.c.
Nel
senso che «è nulla, per difetto di forma, la donazione contenuta
in una scrittura privata, denominata “transazione”, con cui la
parte si obbliga a versare al beneficiario una determinata somma mensile per
tutta la durata della vita di quest’ultimo» cfr. Cass., 29
novembre 1986, n. |
Peraltro, proprio
l’indiscussa validità del contratto vitalizio di mantenimento induce ad
affermare che una prestazione di tipo contributivo-assistenziale possa essere
efficacemente assunta anche
per un numero considerevole di anni, ovvero per tutta l’esistenza del beneficiario;
l’unico limite sarà dunque costituito dalla durata della vita del
creditore della prestazione.
Come già suggerito
per i rapporti inter coniuges, anche in relazione a siffatti contratti
sarà opportuno prevedere la stipula di apposite clausole penali, che forniranno al
convivente creditore delle prestazioni così garantite un maggior livello
di sicurezza sul relativo adempimento.
Il tema delle penali con cui si è chiuso il
§ precedente induce ad accennare all’argomento piuttosto delicato
dei rapporti con i profili strettamente
personali, quale quello della procreazione, o dei rapporti con la prole.
Per quanto attiene al primo aspetto dovrà
senz’altro ribadirsi la nullità di ogni impegno che preveda l’esecuzione di
prestazioni di carattere sessuale
– in relazione al quale emergerebbe anche il profilo della
contrarietà al buon costume – o, ancora, l’assunzione di un
determinato cognome,
la procreazione
(eventualmente mediante il ricorso a metodi di fecondazione artificiale), o la non procreazione, per
mezzo dell’imposizione dell’obbligo di far uso di sistemi contraccettivi.
V.
BGH, 17 aprile Potrà
essere interessante aggiungere che, svariati anni dopo, il Tribunale di
Milano (cfr. Trib. Milano, 19 novembre |
Ed è inutile dire che, con riguardo a siffatte
fattispecie, neppure la previsione di una penale varrebbe a salvare il rapporto dalla
nullità per violazione del principio della libertà personale.
La
conclusione riceve indiretta conferma dall’art. 79 c.c., che dichiara
nulla qualsiasi penale posta a garanzia di una promessa di matrimonio,
nonché dal fatto che uguale sorte si ritiene comunemente ricollegata a
un’analoga clausola che i coniugi dovessero prevedere a suggello di uno
o più dei doveri ex art. 143
c.c. Significativo
è il caso risolto da OLG Hamm, 24 marzo |
Nella monografia sui regimi patrimoniali della
famiglia di fatto lo scrivente aveva espresso l’opinione secondo cui
sarebbe stato impossibile regolare sotto qualsiasi forma anche gli aspetti
involgenti i rapporti di filiazione
e l’esercizio della potestà dei genitori, che risultano già
disciplinati da norme
di carattere imperativo.
La conclusione va sicuramente ribadita per tutto
quanto attiene al momento
costitutivo del rapporto di filiazione (o comunque di un rapporto
para-familiare). Pertanto, oltre alla già illustrata nullità di ogni
promessa avente a oggetto la procreazione ovvero l’astensione dalla
procreazione, va affermata l’invalidità dell’obbligo che i
conviventi eventualmente assumessero di manifestare la propria disponibilità
all’affidamento
familiare, o al compimento di un’eventuale adozione, nei limiti in cui, ovviamente,
essa possa ritenersi consentita ai soggetti non coniugati.
Lo stesso è a dirsi per l’impegno, da
parte di uno o di entrambi, a effettuare, o ad astenersi dall’effettuare, il riconoscimento della prole generata
dall’unione, o, ancora, a far precedere uno dei due riconoscimenti
all’altro, strumento che altrimenti potrebbe servire (con le limitazioni,
beninteso, fissate dall’art. 262 c.c.) a conseguire lo scopo di far
assumere ai figli il cognome di uno piuttosto che dell’altro dei
genitori.
Diverse appaiono invece le conclusioni per ciò che
attiene agli aspetti attinenti all’esercizio della potestà sui figli comuni.
Invero, come dimostrato in dottrina, dall’art. 317-bis sembra potersi ricavare per implicito il riconoscimento da parte
del legislatore della validità
di intese dirette a regolare tale aspetto, sia in relazione alla coppia in
situazione «fisiologica»
(mercé il rinvio all’art. 316), sia a quella in situazione «patologica» (in cui
l’intervento del giudice è previsto in funzione meramente suppletiva). La
giurisprudenza sembra del resto secondare questa interpretazione, ammettendo la
validità di accordi aventi ad oggetto l’affidamento della prole naturale.
Cfr.
Trib. Palermo, 18 febbraio |
Nessun dubbio dovrebbe poi porsi sull’ammissibilità
dell’eventuale regolamentazione pattizia della misura in cui ciascuno dei
conviventi contribuirà al mantenimento dei figli (eventualmente anche
non minorenni), nonché sul carattere di vera e propria obbligazione di
siffatto tipo di impegno.
Questi risultati ricevono conferma dalle disposizioni della normativa
in tema di affidamento
condiviso, estensibili anche alla famiglia di fatto, per effetto del
citato art. 4, secondo comma, l. 8 febbraio 2006, n. 54.
In forza di queste norme, invero, il giudice è
obbligato a «Prende(re)
atto, se non contrari
all’interesse dei figli, degli accordi intervenuti tra i genitori»
(cfr. art. 155, secondo comma, c.c.). D’altro canto, i conviventi possono
liberamente sottoscrivere
accordi in merito
al mantenimento dei
figli (come stabilito dall’art. 155, quarto comma, c.c.), eventualmente
anche in deroga al criterio di proporzionalità scolpito nell’art.
148 c.c. (e sempre che, come si è visto trattando della materia con
riguardo alla crisi coniugale, tale facoltà di deroga non venga un giorno
colpita da declaratoria di incostituzionalità, nel caso si dovesse ritenere il citato
criterio munito di garanzia costituzionale, ex
art. 30 Cost.).
Il vero problema è, semmai, quello di trovare
un sistema che possa «inchiodare»
le parti alle loro responsabilità, ed ottenere uno strumento che
garantisca contro il rischio che una di esse cambi successivamente idea. Sul
punto varrà la pena riportare in nota gli argomenti in favore della
ammissibilità di una vera e propria procedura di omologazione delle intese di
«separazione consensuale» della coppia di fatto concernenti la
prole, ammissibilità che sembra in qualche modo confermata dalle norme
in tema di affidamento condiviso.
In ogni caso – e concludendo – è
chiaro che, anche a prescindere
dalla assoggettabilità ad omologazione delle intese tra conviventi,
gli accordi
attinenti a profili di carattere patrimoniale (ed in primo luogo la previsione del versamento di contribuzioni periodiche
o anche solo una tantum) costituiranno vere e
proprie obbligazioni,
con conseguente applicabilità degli artt. 1218 ss. c.c. in ipotesi di mancato o inesatto
adempimento.
È da notare che, nella crisi del rapporto di fatto, la questione
dell’eventuale violazione
dei doveri genitoriali ed in particolare dei provvedimenti dettati dal giudice
relativamente alla prole, così come degli accordi eventualmente
raggiunti inter partes, andrà
affrontata – nel caso di attuale pendenza di un giudizio ex art. 317-bis c.c.
– con ricorso al già citato procedimento ex
art. 709-ter c.p.c.
3. La responsabilità verso terzi dei conviventi
more uxorio per le obbligazioni contratte nell’interesse del ménage di fatto.
Trattando delle questioni attinenti alla responsabilità contrattuale dei
componenti la famiglia di fatto verso terzi, ci si potrà chiedere quale sia la responsabilità
verso terzi dei conviventi more uxorio
per le obbligazioni
contratte nell’interesse del ménage.
Non mancano ordinamenti stranieri che, sul solco della radicata esperienza
della solidarité ménagère tra
coniugi, hanno ritenuto di poter estendere la soluzione prevista in quella sede
anche al caso dei conviventi: quanto meno di quelli che abbiano inteso
«solennizzare» il loro rapporto tramite la stipula di un apposito
patto o contratto.
È il caso, ad esempio
dell’art. 515-4 cpv.
del Code civil francese,
introdotto dalla legge sui PACS (art. 1, legge nº 99-944 del 15 novembre 1999),
secondo il quale «Les partenaires sont tenus solidairement
à l’égard des tiers des dettes contractées par
l’un d’eux pour les besoins de la vie courante et pour les
dépenses relatives au logement commun».
Similmente, il § 8 cpv. del Gesetz zur Beendigung der Diskriminierung
gleichgeschlechtlicher Gemeinschaften: Lebenspartnerschaften stabilisce che, per le
coppie omosessuali che abbiano stipulato una eingetragene Lebenspartnerschaft, «§ 1357 [cioè
la norma che introduce per i coniugi la regola della Schlüsselgewalt]
und die §§ 1365 bis 1370 des Bürgerlichen Gesetzbuchs gelten
entsprechend».
Sotto il profilo della tecnica legislativa potrà notarsi che,
mentre l’opzione francese
consiste nella nuova
formulazione di una regola ricalcata su quella concernente la solidarité ménagère
coniugale, ma con essa non esattamente coincidente (difetta infatti per i concubins « pacsés »
ogni richiamo ai limiti di cui all’art. 220, secondo e terzo comma, Code civil), la soluzione germanica consiste in un rinvio puro e semplice al
paragrafo del BGB che disciplina
l’istituto relativamente ai coniugi.
Pure in Spagna il legislatore è invervenuto sul tema. Così la legge catalana 10/1998, de
15 de julio, de uniones estables de pareja stabilisce agli artt. 4 e 5 quanto segue:
«Artículo
4. Gastos
comunes de la pareja.
1. Tienen la consideración
de gastos comunes de la pareja los necesarios para su mantenimiento y el de los
hijos y las hijas comunes o no que convivan con ellos, de acuerdo con sus usos
y su nivel de vida, y especialmente:
a. Los originados en
concepto de alimentos, en el sentido más amplio.
b. Los de
conservación o mejora de las viviendas u otros bienes de uso de la
pareja.
c. Los originados por las
atenciones de previsión, médicas y sanitarias.
2. No tienen la
consideración de gastos comunes los derivados de la gestión y la
defensa de los bienes propios de cada miembro, ni, en general, las que
respondan al interés exclusivo de uno de los miembros de la pareja.
Artículo
5.
Responsabilidad.
Ante terceras personas, ambos miembros de la pareja responden
solidariamente de las obligaciones contraídas por razón de los
gastos comunes que establece el artículo 4, si se trata de gastos
adecuados a los usos y al nivel de vida de la pareja; en cualquier otro caso
responde quien haya contraído la obligación».
Per le altre disposizioni che
contengono principi analoghi cfr., per l’Aragona, la legge 6/1999, del 25
marzo 1999 (relativa a parejas estables no casadas); per la Navarra cfr.
la Ley Foral 6/2000 del 3 luglio 2000 (para la igualdad
jurídica de las parejs estables); per le Isole Baleari cfr. la legge
18/2001 del 19 dicembre 2001 (de Pareja Estables); per la Comunidad
Autónoma di Valencia cfr. la legge 1/2001 del 6 aprile 2001 (por
la que se regulan las uniones de hecho); per la Comunidad
Autónoma di Madrid cfr. la legge 11/2001 del 19 dicembre 2001 (de
Uniones de Hecho de la Comunidad de Madrid); per le Asturie cfr. la legge
4/2002 del 23 maggio 2002 (de Parejas Estables).
Anche in Italia chi scrive ha legato la soluzione del
problema in esame alla stipula di un contratto di convivenza, ben potendosi ipotizzare che nel patto
i conviventi inseriscano clausole volte a disciplinare l’attività
negoziale che ciascuno di essi, al fine di soddisfare le esigenze del ménage, può svolgere
contraendo con terzi.
In particolare, cogliendo un suggerimento della
dottrina straniera, si potrebbe pensare a un esplicito reciproco conferimento di procura (revocabile) in relazione ai negozi
necessari a soddisfare le quotidiane esigenze della vita in comune.
Si eviterebbe
in tal modo la necessità di ricorrere a quegli espedienti enucleati dalla dottrina e dalla
giurisprudenza, soprattutto all’estero, per affermare una responsabilità
anche in capo al convivente rimasto
estraneo al negozio, e che, a giudizio di chi scrive, sono tutti
inevitabilmente destinati ad abortire.
Si pensi, innanzitutto, alla teoria del mandat domestique che, elaborata in Francia tra Otto e
Novecento in relazione alle obbligazioni contratte dalla moglie presso terzi
nell’interesse della famiglia (purché nei limiti di un normale ménage familiare), allorquando
era ancora richiesta l’autorizzazione maritale agli acquisti, venne
estesa, per una supposta identità di ratio,
alle obbligazioni contratte dalla convivente, salvo essere poi abbandonata,
dopo che l’abrogazione dell’autorisation maritale
comportò la sparizione dell’istituto in relazione alla
famiglia legittima.
Nemmeno appaiono invocabili, se non in casi del tutto
marginali, teorie come quelle dell’apparenza, o della tutela dell’affidamento, che pure hanno
riscosso un gran successo all’estero nella materia in discorso e la cui
applicazione è stata proposta anche in Italia.
Invero, il ricorso all’apparence
trompeuse non risulta
praticabile se non nel caso in cui il convivente agente abbia dichiarato o comunque reso evidente di contrarre anche in nome
dell’altro. È noto infatti che tale istituto postula un
negozio posto in essere da un falsus procurator, il
quale abbia agito ponendo in essere quella contemplatio domini,
che costituisce quel riconoscibile riferimento alla sfera patrimoniale altrui
che, se non richiede necessariamente
la menzione espressa
del nome del dominus, presuppone però
comunque la manifestazione
dell’intento del dichiarante di concludere il negozio non per sé,
ma in nome e per conto di un altro soggetto.
Trattasi dunque di situazione assai raramente riscontrabile nelle
fattispecie in esame, che vedono di solito uno dei conviventi agire
esclusivamente in nome proprio, anche se obiettivamente nell’interesse
del ménage. Non va poi
trascurato il fatto che la teoria dell’apparenza viene invocata per porre
rimedio a una situazione in cui il contratto, in quanto concluso (a nome
altrui) dal falso rappresentante, non potrebbe produrre effetto né verso
di questi, né verso il rappresentato. Nel caso di cui si discute,
invece, difetta la spendita del
nome altrui, e pertanto il negozio produce senz’altro effetto nei
confronti del convivente che lo ha stipulato, facendo comunque acquistare al
terzo un debitore.
Per tutti i motivi testé illustrati, dunque,
appare chiaro che l’espediente del reciproco conferimento di una procura, in tanto consente di risolvere il
problema, in quanto il partner agente usi l’accortezza di esprimere ogni volta quella contemplatio domini che costituisce condizione
imprescindibile per l’operatività delle norme in tema di
rappresentanza, ciò che, per le ragioni già espresse, appare
assai difficilmente immaginabile nei negozi di cui si discute.
Di maggior utilità potrebbe rivelarsi semmai un patto tra conviventi
circa la ripartizione
interna delle obbligazioni (ordinarie e
straordinarie) del ménage, con
eventuale specificazione delle singole spese alle quali entrambi i contraenti
sono tenuti a concorrere, nonché delle rispettive percentuali.
È evidente che un accordo del genere potrebbe
essere assunto in seno a un programma
più generale, nel quale si potrebbero prevedere anche impegni
circa la ripartizione
dei rispettivi compiti
analogamente a quanto avviene per quell’accordo che tra i coniugi va
sotto il nome di «indirizzo concordato» (cfr. art. 144 c.c.). Anche
in quest’ambito occorrerà però prestare attenzione a non
inserire clausole contrastanti con l’ordine pubblico in quanto
eccessivamente restrittive della libertà d’azione (per esempio: mi
impegno a non lavorare fuori casa, obbligandomi invece a esplicare la mia
attività nell’ambito del solo lavoro domestico, ecc.).
Proprio su questo tema sarà interessante vedere
come i conviventi possano assumere convenzionalmente un obbligo di contribuzione senza rispettare il criterio della proporzionalità
«in relazione alle proprie sostanze e alla propria capacità di
lavoro professionale o casalingo» scolpito per i coniugi dall’art. 143 c.c., norma
sicuramente non estensibile in via analogica ai conviventi more uxorio,
attesa l’irriferibilità alla famiglia di fatto del disposto
dell’art. 160
c.c.
Appare quindi senz’altro ammissibile una pattuizione con la quale le
parti si impegnino a contribuire in misura paritaria al ménage, pur in presenza di una
situazione di squilibrio patrimoniale e reddituale delle medesime, nonostante
che una decisione di merito abbia ritenuto di dover risolvere proprio questo
specifico problema in senso contrario.
Di particolare interesse – in considerazione
della loro funzione preventiva
rispetto a possibili controversie
al momento dello scioglimento – paiono poi tutte quelle clausole, contenute in
alcuni modelli stranieri di contratti di convivenza, intese ad attribuire (o a
negare) un determinato significato
negoziale ai comportamenti che i conviventi terranno in futuro, durante
il ménage, sia nei reciproci
rapporti, che con riguardo all’attività negoziale verso terzi.
Così, a seconda dei casi e delle intenzioni dei
partners, è opportuno chiarire preventivamente
la sorte delle attribuzioni
patrimoniali che le parti dovessero
eventualmente effettuarsi «a senso
unico» (senza specificarne la natura), magari nell’ambito di
un negozio stipulato con un terzo.
Si pensi al caso «classico» dell’acquisto di un bene,
magari di rilevante entità, presso un terzo, con pagamento del prezzo in tutto o in parte a carico di un convivente e
«intestazione»
del medesimo a nome dell’altro.
Al riguardo il contratto di convivenza potrebbe
previamente stabilire, per atti del genere, vuoi una presunzione di mutuo, vuoi una presunzione
di liberalità
dell’atto, fatto salvo il caso di un’espressa, eventuale,
pattuizione di una restitutio.
Allo stesso modo è consigliabile disciplinare
l’eventuale rimborso
per l’utilizzazione
di beni del compagno, nonché l’onerosità o meno dei servizi
prestati da ciascuno nelle faccende domestiche, oppure a sostegno
dell’attività dell’altro, prevedendo in anticipo che, pur
non stabilendosi reciproci (o unilaterali) obblighi in tal senso, siffatte
prestazioni lavorative, eventualmente di fatto eseguite nel corso della durata
del ménage, vadano o meno retribuite, presumendosi le stesse
eseguite nell’ambito di un rapporto di lavoro subordinato oneroso o, per
converso, di una prestazione resa affectionis vel benevolentiae causa.
L’opinione di cui sopra, già espressa
dallo scrivente, è stata criticata da chi, con particolare riguardo agli accordi diretti
a chiarire preventivamente la sorte delle attribuzioni patrimoniali appena
definite «a senso unico», nonché l’onerosità o
meno dei servizi prestati, ha rilevato che tali patti «sono diretti a
stabilire preventivamente la causa dei vari negozi che in futuro stipuleranno i
conviventi nello svolgimento della loro convivenza senza espressamente indicarne la causa».
Sulla base di tale premessa se ne è concluso
che le clausole qui consigliate contrasterebbero con la regola secondo cui «tutti i negozi, dato il principio della causalità delle
attribuzioni patrimoniali accolto dal nostro ordinamento, devono indicare, a
pena di nullità, la loro causa», che non potrebbe «essere
semplicemente determinabile mediante la relatio ad un precedente negozio
normativo».
Sul
punto sarà sufficiente ricordare, tanto per portare un paio di esempi,
come la nostra più autorevole dottrina ammetta – e da tempo
– la piena validità
di negozi traslativi
a causa esterna, ipotesi alla
quale può poi essere affiancata
anche quella del contratto normativo
o programmatico,
specie tenuto conto dell’incontestabile dato normativo scolpito
nell’art. 1321 c.c., da cui emerge che, mercé lo strumento
contrattuale, le parti possono non solo costituire od estinguere, bensì
anche «regolare»
rapporti giuridici, senza che la disposizione distingua a seconda che tali
rapporti giuridici siano già in essere o meno inter partes.
Del
resto, una volta ammessa la validità del negozio d’accertamento nel nostro
ordinamento, non si riuscirebbe a comprendere per quale ragione tale istituto
non dovrebbe avere cittadinanza nel sistema vigente sol perché concluso
in via preventiva
rispetto ai negozi che si pongono quali possibili fonti, a loro volta, di
situazioni di incertezza.
Infine, un ulteriore aspetto di un simile accordo
programmatico può essere dato dalla fissazione della misura e delle modalità
del rispettivo contributo
al mantenimento,
all’istruzione e all’educazione della prole comune, sia durante il rapporto, che dopo la rottura del medesimo.
In quest’ultimo caso, ferma restando la
già (in altra sede) illustrata possibilità di intervenire
pattiziamente sul tema dell’affidamento, dei diritti di visita e di tutti
i profili attinenti alla potestà sul minore, figlio della coppia di
fatto, non sussistono motivi per negare la validità di una pattuizione diretta alla
ripartizione delle spese connesse all’esercizio del diritto-dovere di cui
sopra. Come si è già detto relativamente ai rapporti
«interni» tra i conviventi, anche in questo caso si potrebbe
ipotizzare il conferimento
di un mandato con procura da un convivente
all’altro per la stipula
dei contratti attinenti all’interesse
del minore (dalla iscrizione alla scuola privata, all’iscrizione
al corso di musica o di danza o alla palestra, al contratto con il dentista,
etc.), con conseguente rilievo «esterno» dell’accordo,
peraltro a condizione che sia, di volta in volta, riscontrabile la presenza di
una (anche non formale, come si è visto) contemplatio domini.
Le conclusioni di cui sopra, già argomentabili
sulla base del disposto dell’art. 317-bis
c.c., ricevono ulteriore
conferma dalle disposizioni della l. 8 febbraio 2006, n. 54, sull’affidamento condiviso dei figli,
nelle coppie tanto legittime che di fatto.
Basti pensare al nuovo art. 155, cpv. c.c., che impone al giudice di
«Prende(re)
atto, se non contrari all’interesse dei figli, degli accordi intervenuti
tra i genitori». Disposizione, questa, che, oltre a riconoscere a pieno
titolo la validità
di accordi tra conviventi sulla gestione
della crisi del rapporto, anche relativamente al delicato aspetto delle
relazioni con la prole, sembra addirittura far presagire l’ammissibilità di una vera
e propria procedura
d’omologazione
degli accordi di separazione consensuale tra conviventi, ad instar di quanto stabilito dall’art. 158 c.c. per i
coniugi e secondo quanto proposto dallo scrivente già sotto il vigore
della previgente normativa.
Ancora, il nuovo quarto comma dell’art. 155 stabilisce che ciascuno dei genitori provvede al
mantenimento dei figli in misura proporzionale al proprio reddito «salvo accordi diversi, liberamente
sottoscritti dalle parti». Principio, questo, che sembra volersi
addirittura porre (per quanto attiene alla derogabilità del criterio di
proporzionalità) in evidente contrasto con quanto stabilito
dall’art. 148 c.c., norma sino ad oggi ritenuta inderogabile, sollevando
altresì (quanto a tale limitato aspetto) forse anche un problema di
conformità rispetto all’art. 30 Cost.
5. La responsabilità dei genitori per le
obbligazioni contratte dai figli.
Ci chiediamo ora se e come i genitori – siano essi, ovviamente, coniugi, conviventi o anche solo genitori naturali non conviventi more uxorio – possano
eventualmente rispondere
delle obbligazioni contratte
verso terzi dai figli
minorenni o da quelli maggiorenni
con essi ancora conviventi e non
autosufficienti.
In proposito potrà notarsi, innanzi tutto, che
il fenomeno della
conclusione di contratti da parte di minori è sicuramente in aumento, in
considerazione, da un lato, del numero ben più elevato, rispetto al
passato, di giovani in grado di accedere al «mercato del consumo» (si pensi, tanto
per citare un esempio, alle possibilità di concludere contratti offerte
dagli strumenti elettronici e telematici) e,
dall’altro, dal sensibile allungamento temporale del periodo di convivenza dei figli, ben
oltre il raggiungimento della maggiore età, con i propri genitori (c.d.
«famiglia lunga»).
Iniziando dal caso dei minorenni va notata l’assenza di
qualsiasi disposizione
che espressamente
renda i genitori parte
del rapporto obbligatorio contratto
dal proprio rampollo.
D’altro canto, è noto che l’ordinamento
non considera validi i contratti stipulati dai minorenni, ma richiede
che gli stessi siano conclusi dai genitori esercenti la potestà o dal
tutore, previa autorizzazione giudiziale.
Va però tenuto presente che il sistema
descritto dagli artt. 320 ss. e 343 ss. c.c. per gli atti eccedenti
l’ordinaria amministrazione e dall’art. 1425 c.c. per i contratti
commina non già la
nullità per i negozi stipulati in deroga alle prescritte
disposizioni, ma l’annullamento
degli stessi.
La conseguenza di tale scelta di politica legislativa
è che i contratti
conclusi dai minori senza la rappresentanza dei genitori o del tutore e le
prescritte autorizzazioni producono
effetti giuridici fino
a quanto non siano annullati (art. 1425 c.c.) su istanza degli stessi incapaci
o di coloro che per essi sono legittimati all’azione di annullamento.
Né, a tal fine, è necessaria la convalida del contratto, che
serve soltanto ad assicurare la definitiva efficacia del negozio, paralizzando
l’azione di annullamento eventualmente esercitata prima che si compia il
termine di prescrizione quinquennale previsto dall’art. 1442 c.c.
Quanto sopra comporta dunque che il contratto non impugnato dal minore può rimanere inadempiuto da parte di
costui. Trattandosi, peraltro, di un debitore inadempiente minore
d’età e, quindi, normalmente privo di un patrimonio e di redditi
propri sui quali far valere le pretese risarcitorie, il terzo creditore potrebbe restare insoddisfatto.
È legittimo, pertanto, chiedersi, se il terzo possa agire giudizialmente
anche nei confronti dei genitori
del minore, nell’ipotesi di inadempimento di quest’ultimo ed
incapienza del suo patrimonio personale (si pensi, a titolo di esempio, al
ragazzo di 15 o 16 anni che acquisti un motorino, magari usato, un capo di
vestiario, un cellulare o un personal computer, magari versando un acconto, e non sia poi in grado di
pagare il residuo prezzo).
Si è osservato al riguardo che nel nostro
ordinamento non vi è una norma che consenta di addossare automaticamente
al genitore l’obbligo di adempiere questo tipo di obbligazioni. Peraltro,
sulla base di alcuni dati
normativi potrebbe forse
essere ricostruita una tale forma di responsabilità contrattuale dei genitori del minore
inadempiente. In particolare, il fondamento di questa responsabilità
potrebbe essere ravvisato nel disposto
dell’art. 322
c.c.
Da tale articolo – che prevede la legittimazione anche dei genitori ad esercitare
l’azione di annullamento del contratto posto in essere dal figlio minore
– potrebbe inferirsi che per i genitori che non esercitino la detta azione né
oppongano al terzo creditore l’eccezione di annullabilità, un’acquiescenza a
tale rapporto obbligatorio e una conseguente loro corresponsabilità per l’inesatta esecuzione dello
stesso. A fronte di un inadempimento del figlio minore e del mancato esercizio
dell’azione di annullamento il creditore potrebbe allora far valere il
proprio diritto al risarcimento dei danni, oltre che direttamente nei confronti
del minore inadempiente, anche nei confronti dei genitori, che finirebbero
così per rispondere per un fatto proprio e non altrui.
Tuttavia, si è obiettato che configurare una tale
responsabilità dei genitori, pur tutelando e favorendo i rapporti
commerciali e la posizione del terzo creditore, sembra porsi in contrasto con il
fondamentale principio di salvaguardia
degli interessi dei minori a cui è informato l’intero
nostro ordinamento.
Si è rilevato infatti in proposito che la
conclusione favorevole alla responsabilità solidale del genitore trascurerebbe di tenere
conto del principio
desumibile dal secondo comma dell’art. 1426 c.c., secondo il quale chi contrae con un
soggetto senza accertarsi della sua età, e dunque della sua
capacità di agire – non essendo sufficiente la semplice
dichiarazione di essere maggiorenne per esonerare il terzo dall’onere di
verificare la reale età dell’altro contraente – e della
conseguente esistenza di una sufficiente garanzia patrimoniale, si assume il rischio del cattivo
esito della contrattazione.
Ma a tali considerazioni si potrebbe però
ulteriormente ribattere,
rilevando che il
comportamento del terzo, che ha contratto con il minore, è
già adeguatamente
sanzionato dalla
presenza di un’invalidità
di protezione, che può essere fatta valere, come tale, dal solo
soggetto nell’interesse del quale il rimedio è stato previsto. Non
sembra corretto, pertanto, sanzionare
ulteriormente il terzo, addossandogli
anche il rischio dell’inadempimento di un rapporto obbligatorio che il
minore ed i suoi legali rappresentanti hanno deciso di consolidare, astenendosi
dal proporre l’azione di annullamento, perché evidentemente, tale
rapporto hanno ritenuto conveniente, peraltro arrogandosi il diritto di non
adempierlo.
In altri termini, se non vi è dubbio che al
minore e ai suoi legali rappresentanti competa il diritto di far venire meno il
vinculum iuris, ciò non
significa certo che essi siano esonerati dal rispettarlo, una volta che abbiano
scelto la via di mantenerlo in vita, tanto più che l’eccezione di
annullamento ben potrebbe essere sollevata anche oltre il quinquennio, nel caso
venissero citati per l’adempimento (cfr. art. 1442, ult. cpv., c.c.):
il mancato esperimento dell’azione o la mancata proposizione
dell’eccezione confermano dunque che l’affare è ritenuto
conveniente per il minore e pertanto non si vede per quali ragioni dovrebbe
derogarsi al fondamentale principio per cui pacta
sunt servanda.
In questo contesto varrebbe la pena chiedersi se, ferma restando la personale responsabilità
del minore per il contratto dallo stesso stipulato e non impugnato, non possa
trovare applicazione il principio espresso dagli artt. 2047 e 2048 c.c., intendendo i concetti di
«danno»
e di «illecito»
contenuti nelle norme citate come riferiti non solo all’illecito
aquiliano, ma anche a quello costituito dall’inadempimento di un rapporto obbligatorio.
Un’apertura
verso un’interpretazione dell’art. 2048 c.c. che ritenga questa
norma estensibile all’ipotesi del danno da illecito contrattuale compiuto
dal minore potrebbe cogliersi in quella giurisprudenza che di tale articolo
ha fatto uso per affermare la responsabilità del genitore del
minorenne che aveva danneggiato un’autovettura presa a noleggio dal
minore stesso: cfr. Cass., 3 luglio 1968, n. 2240, secondo cui «Colui
che ha dato in locazione un’autovettura ad un minore, munito di
patente, conoscendo la sua minore età, può agire a’
termini dell’art. 2048 c.c. nei confronti del di lui genitore, che non abbia
prestato il proprio consenso al contratto, qualora l’autovettura sia
rimasta danneggiata nell’uso fattone dal minore. Infatti non può
ritenersi esente dalla responsabilità, prevista dall’art. 2048
cod. civ., il genitore per il solo fatto che il danno sia stato cagionato a
seguito della volontaria consegna dell’autovettura, fatta dal
danneggiato al minore in attuazione del contratto di locazione,
giacché l’attività del minore, consistente nell’uso
dell’altrui autoveicolo, rientra nella sfera del dovere di sorveglianza
del genitore» (cfr. inoltre, nello stesso senso, Cass., 27 maggio 1975,
n. 2139). E’ evidente che la regola in oggetto, dettata dalla Corte
Suprema per l’inadempimento costituito dalla mancata riconsegna della
cosa locata nello stato in cui si trovava all’inizio del rapporto, ben
potrebbe valere per quell’altra forma di inadempimento rappresentata
dal mancato pagamento del prezzo pattuito per un acquisto operato dal minore. |
Conseguenza di tale premessa non sarebbe tanto l’estensione del rapporto obbligatorio sul
lato passivo e in via
solidale anche ai genitori, ma il riconoscimento dell’esistenza di una situazione di responsabilità per fatto
altrui, che troverebbe il suo fondamento nelle norme citate e
nell’inadempimento del minore. Ciò significa, in pratica, che il terzo non potrebbe convenire in giudizio,
oltre al minore, anche i genitori, se non allegando l’inadempimento del figlio.
Non diversa da quella sin qui illustrata, nelle sue conseguenze
rispetto ai genitori, è l’ipotesi in cui il minore abbia «con raggiri occultato la sua
età», secondo quanto previsto dall’art. 1426 c.c.
Qui,
invero, il contratto
non è annullabile ed al
riguardo si è osservato che la condizione di buona fede del terzo
contraente renderebbe legittima la sua richiesta di tutela.
Ancora una volta appare opportuno riferirsi ai
principi ex artt. 2047 e 2048 c.c., da
ritenersi, per le ragioni sopra illustrate, estensibili al danno da responsabilità contrattuale per inadempimento
delle obbligazioni (in questo caso, validamente) contratte dal minore.
Passando ora all’esame del problema di una ipotetica responsabilità dei
genitori per le
obbligazioni assunte in proprio dai figli maggiorenni, ma non autosufficienti, vi è da dire che, in
tali fattispecie, il contratto concluso è perfettamente valido e vincolante per i figli medesimi, ed estendere ai genitori questo tipo di
obbligazioni appare, de iure condito,
impossibile.
Come si è rilevato in dottrina, il principio di
un’ipotetica responsabilità solidale
(non prevista, come noto, da alcuna specifica disposizione) non può essere fatto discendere
dall’obbligo di mantenimento
imposto ai genitori, anche nei confronti dei figli già maggiorenni ma
non ancora in grado di provvedere alle proprie esigenze, in quanto tale obbligo riguarda solo il dovere, da parte dei
genitori, di fornire l’assistenza
materiale necessaria per le normali
esigenza di vita del figlio. Il
contenuto di tale obbligo non può, dunque, essere dilatato fino al punto
di comprendere anche eventuali inadempimenti contrattuali dei figli.
D’altro canto è più che chiaro che
i principi sopra invocati, espressi dagli artt. 2047 e 2048 c.c., non possono in alcun modo venire qui in
considerazione, avendo gli stessi tratto a persone incapaci e come tali essendo inestensibili
ai maggiorenni capaci di intendere e di volere, avuto riguardo alla tassatività delle ipotesi di
responsabilità per fatto altrui.
Per concludere si potrà poi ricordare che a ben
diverse conclusioni potrà
pervenirsi nel caso in cui dovesse accertarsi che il figlio ha agito quale rappresentante (se maggiorenne) o nuncius (se minorenne) dei genitori o di uno di essi.
In tal caso, infatti, è evidente che i genitori si troverebbero
ad esser obbligati non
già in via solidale con il figlio, ma quali esclusivi soggetti passivi del rapporto
obbligatorio.
Legato a questo tema è poi quello dell’assenza o dell’eccesso di potere
rappresentativo in capo al figlio agente.
In tal ultimo caso, il terzo creditore potrà avvalersi, ricorrendone
tutti i presupposti
(apparente esistenza di un potere di rappresentanza, comportamento colposo
dell’apparente rappresentato nel determinare l’insorgere
dell’apparenza, assenza di colpa del terzo nell’apprezzare il
comportamento colposo dell’apparente rappresentato), del principio di tutela della apparenza di
diritto ed agire,
per ottenere il rispetto delle pattuizioni contrattuali, facendo valere,
dunque, la responsabilità contrattuale dei genitori, ma non in quanto tali, bensì come soggetti «rappresentati»
dall’agire del figlio, e quindi in forza delle disposizioni dettate in tema di rappresentanza (art. 1387‑1399 c.c.
6. Cenni al tema del risarcimento del danno
(aquiliano) subito dal convivente per l’uccisione del partner.
Diverso da quelli sin qui trattati è il tema
della configurabilità di un diritto al risarcimento del danno aquiliano subito dal convivente a seguito dell’uccisione del partner.
Inizialmente la giurisprudenza escludeva siffatta possibilità (cfr., ex multis, C 81/8209, D. e prat. ass. 82, 716; C.pen. sez. VI
82/159410),
Interessante il legame con il contratto, stabilito da
Cass. Pen., 7 luglio
Sez.
1, Sentenza n.
9708 del 07/07/1992 Ud. (dep. 08/10/1992 ) Rv. 191885 In
base al principio del "neminem laedere", sancito nell’art.
2043 cod. civ., danno risarcibile è solo quello che si verifica per la
lesione di un diritto. Pertanto, nel caso di morte di una persona, il
soggetto che con essa conviveva ricevendone vantaggi o prestazioni, che
chiami in giudizio il responsabile dell’evento mortale, deve dimostrare
il suo diritto a quei vantaggi ed a quelle prestazioni della persona
deceduta; diritto che
non può discendere che da legge o da patto. Nessuna di tali
ipotesi ricorre nel caso di convivente "more uxorio", che
conseguentemente è carente di "legitimatio ad causam" per
risarcimento dei danni cagionati dalla uccisione della persona con cui
conviveva. (Fattispecie in tema di omicidio volontario). |
Successivamente è stato riconosciuto il risarcimento prima del
danno morale e poi
del danno patrimoniale
(nei limiti in cui quest’ultimo sia provato) in caso di morte del
convivente more uxorio (Trib. Verona
3-12-1980, Resp. civ. prev. 81, 74;
C.pen. sez. I 94/199108, R. pen. 95,
921).
La più recente giurisprudenza ritiene che
«il diritto al risarcimento da fatto illecito concretatosi in un evento
mortale va riconosciuto – con riguardo sia al danno morale, sia a quello
patrimoniale, che presuppone, peraltro, la prova di uno stabile contributo
economico apportato, in vita, dal defunto al danneggiato – anche al
convivente more uxorio del defunto
stesso, quando risulti concretamente dimostrata siffatta relazione
caratterizzata da tendenziale stabilità e da mutua assistenza morale e
materiale» (C 94/2988, Giust. civ.
94, I, 1849 e G. it. 95, 1366).
Sez.
3, Sentenza n. 2988 del 28/03/1994 (Rv. 485945) Il
diritto al risarcimento da fatto illecito concretatosi in un evento mortale
va riconosciuto - con riguardo sia al danno morale, sia a quello
patrimoniale, che presuppone, peraltro, la prova di uno stabile contributo economico apportato, in vita,
dal defunto al danneggiato - anche al convivente "more uxorio" del
defunto stesso, quando risulti concretamente dimostrata siffatta relazione
caratterizzata da tendenziale stabilità e da mutua assistenza morale e
materiale, al qual fine non sono sufficienti nè le dichiarazioni rese
dagli interessati a fine di formazione di un atto di notorietà,
nè le indicazioni dai medesimi fornite alla pubblica Amministrazione
per fini anagrafici. |
Celebre
obiter, peraltro del tutto
irrilevante nel caso di specie: |
Sez. 3, Sentenza n. 15760 del 12/07/2006 (Rv. 591705)
In
motivazione: IL
DANNO DA MORTE DEI CONGIUNTI (CD DANNO PARENTALE) come danno morale interessa
la lesione (divenendo perdita non patrimoniale) di due beni della vita,
inscindibilmente collegati: a) il bene della integrità familiare, con
riferimento alla vita quotidiana della vittima con i suoi familiari, in
relazione agli artt. 2, 3, 29, 30, 31, 36 Cost. (cfr: puntuale il riferimento
in Corte Cost. 1985 n. 132 cit.); b) il bene della solidarietà
familiare, sia in relazione alla vita matrimoniale che in relazione al
rapporto parentale tra genitori e figli e tra parenti prossimi conviventi, specie
quando gli anziani genitori sono assistiti dai figli, e ciò in
relazione agli artt. 2, 3, 29 e 30 Cost.. L’attuale movimento per la
estensione della tutela civile ai PACS (patti civili di solidarietà
ovvero stabili convivenze di fatto) conduce appunto alla estensione della
solidarietà umana a situazioni di vita in comune, e dunque prima o poi
anche i "nuovi parenti" vittime di rimbalzo lamenteranno la perdita
del proprio caro. Nel caso di specie il
danno parentale interessa una societas stabilizzata con vincolo matrimoniale
e discendenza legittima, onde i referenti costituzionali sono certi. Questa
ricostruzione, costituzionalmente orientata e testata, consente di capire il
principio informatore della tutela risarcitoria integrale di questa figura di
danno morale, principio che informa regole e criteri sottostanti. Commento: L’occasione
per fare esplicito riferimento ai Pacs è stata offerta alla terza
sezione civile di piazza Cavour dal ricorso
dei genitori di un minorenne, Giovanni L., che nel luglio dell’89 mentre
si trovava a bordo di un pedalò a Taormina veniva investito e
scaraventato in mare da un idrogetto condotto da un altro minore. In
seguito all’urto Giovanni moriva all’ospedale di Messina. Di qui
la richiesta alla magistratura dei genitori e del fratello convivente di essere risarciti per i
danni morali conseguenti alla morte del congiunto. E difatti, proprio in un
passaggio della sentenza 15760/06 – depositata il 12 luglio e qui
leggibile tra gli allegati – relativo al corretto riconoscimento di
questo tipo di danno, detto anche «parentale», ai familiari della
vittima, è inserito il riferimento alla coppie di fatto. Gli
“ermellini” hanno sottolineato, con una sorta di chiosa che ha il
sapore di una profezia, che «l’attuale movimento per
l’estensione della tutela civile ai Pacs (patti civili di
solidarietà ovvero stabili convivenze di fatto) conduce appunto alla
estensione della solidarietà umana a situazioni di vita in
comune». Subito dopo, però, la terza sezione civile del “Palazzaccio”
nel rinviare gli atti alla Corte d’appello di Reggio Calabria
«per una corretta valutazione del danno parentale morale diretto»
ha chiarito che nel caso in questione «il danno parentale interessa un societas stabilizzata con vincolo
matrimoniale e discendenza legittima, onde i referenti costituzionali sono
certi». |
Sul
tema della necessaria stabilità e “longevità” della
convivenza: |
Sez.
3, Sentenza n. 8976 del 29/04/2005 (Rv. 581991) In
relazione alla responsabilità civile dalla circolazione di veicoli,
pur in assenza di una normativa specifica, deve riconoscersi rilevanza
sociale, etica e giuridica alla convivenza; pertanto, chi chieda il
risarcimento del danno derivatogli dalla lesione materiale, cagionata alla
persona con la quale convive deve dimostrare l’esistenza e la portata dell’equilibrio affettivo -
patrimoniale
instaurato con la medesima e perciò l’esistenza e la durata di una comunanza di vita e di affetti
con vicendevole assistenza materiale e morale, non essendo a tal fine sufficiente la prova di una relazione amorosa, per quanto
caratterizzata da serietà di impegno e regolarità di
frequentazione nel tempo, perché
soltanto la prova della assimilabilità della convivenza di fatto a
quella stabilita dal legislatore per i coniugi può legittimare la
richiesta di analoga tutela nei confronti dei terzi. Tale prova può essere
fornita con qualsiasi
mezzo, mentre il
certificato anagrafico può tutt’al più provare la
coabitazione, insufficiente a dimostrare la condivisione di pesi e oneri di
assistenza personale e di contribuzione e collaborazione domestica analoga a
quella matrimoniale. |
Convivenza
incestuosa: |
La
sorella che intrattiene una relazione incestuosa con il defunto in un
sinistro stradale va risarcita quale convivente more uxorio Mauro
Di Marzio, Magistrato 1.
La vicenda. Una autovettura compie
un salto di carreggiata e si scontra con un camion. Uno dei passeggeri muore.
Al fine di ottenere il risarcimento del danno patrimoniale e non patrimoniale
subito, otto tra fratelli e sorelle, nonché una sedicente figlia del
defunto, agiscono in giudizio nei confronti dell’assicuratore e del
conducente del veicolo che trasportava il loro congiunto. Su questa vicenda
tristemente consueta si innesta una insolita complicazione giuridica: quella
dell’incesto. Il passeggero perito nell’incidente, infatti,
conviveva more uxorio con una delle sorelle attrici ed era
altresì — almeno in tesi — padre della figlia,
anch’essa attrice, nata dalla relazione incestuosa. Il
giudice, dunque, nello scrutinare la questione, si trova a doversi cimentare,
tra gli altri, con due quesiti: a) se lo status di figlia non
riconoscibile possa essere accertato incidentalmente ai fini del giudizio
risarcitorio; b) se la relazione incestuosa tra il defunto e la sorella
convivente more uxorio debba essere considerata — ed entro quali
limiti — ai fini della liquidazione, in particolare, del danno non
patrimoniale. 2.
L’inammissibilità della domanda della figlia incestuosa. Il tribunale veneziano ha anzitutto dichiarato
inammissibile, per una ragione procedurale, la domanda della (ipotetica)
figlia incestuosa. In
proposito occorre ricordare che, nell’assetto codicistico rimasto
vigente fino alla fine del 2002, i figli incestuosi — usiamo questa espressione
perché accolta dal legislatore, quantunque sia evidente che incestuosi
non siano in tal caso i figli, nei cui confronti quell’appellativo
suona come un ingiusto marchio d’infamia — non erano né
riconoscibili dai genitori, ex art. 251, 1° co., c.c., né
titolari dell’azione per la dichiarazione giudiziale di
paternità e maternità di cui all’art. 269 c.c.,
consentita soltanto «nei casi in cui il riconoscimento è
ammesso». In tale contesto, dunque, l’art. 278, 1° co., c.c.
stabiliva che: «Le indagini sulla paternità o sulla
maternità non sono ammesse nei casi in cui, a norma dell’art.
251, il riconoscimento dei figli incestuosi è vietato». Tale
ultima norma, così marcatamente penalizzate per gli incolpevoli figli,
è però caduta sotto la — diremmo scontata —
dichiarazione di illegittimità costituzionale della medesima laddove,
appunto, escludeva la dichiarazione giudiziale della paternità e della
maternità naturali e le relative indagini, nei casi in cui il
riconoscimento dei figli incestuosi era vietato (Corte cost. 28 novembre
2002, n. 494, , 2002, 44, 26; Foro it., 2004, I, 1053; Dir. fam. pers.,
2003, 622; Giust. civ., 2003, I, 20; Vita not., 2002, 1353; Giur. it., 2003,
1306, I, 1, 868; Familia, 2003, 841; Nuova giur. civ. comm., 2003, I, 543). A
seguito dell’intervento della Consulta, dunque, i figli incestuosi
permangono non riconoscibili, ma possono ambire ad acquistare lo status
filiationis attraverso l’azione per la dichiarazione giudiziale di
paternità e maternità, la quale — ricordiamo incidentalmente
— non richiede più il previo giudizio di ammissibilità
dell’azione di cui all’art. 274 c.c., dichiarato anch’esso
incostituzionale (Corte cost. 10 febbraio 2006, n.50, in questa rivista). Nel
caso esaminato dalla pronuncia in commento, tuttavia, la figlia incestuosa,
nel domandare il risarcimento del danno patito per la morte del padre, aveva
chiesto accertarsi solo incidentalmente la propria qualità di figlia
del defunto. Ed invece, secondo il tribunale di Venezia, l’accertamento
di status non può che essere effettuato in via principale, con
autorità di cosa giudicata: di qui l’inammissibilità
della domanda risarcitoria. Per
la verità, la S.C. ha talora ritenuto ammissibile l’accertamento
incidenter tantum della filiazione naturale, indipendentemente dal
riconoscimento o dall’attribuzione di uno status personale
(Cass. 24 gennaio 1986, n. 467, Foro it., 1987, I, 542). E, tuttavia,
siffatta soluzione è stata ritenuta conforme a legge con riguardo alle
sole fattispecie disciplinate dall’art. 580 c.c. (Diritti dei figli
naturali non riconoscibili) e dall’art. 594 c.c. (Assegno ai figli
naturali non riconoscibili). L’ammissibilità
dell’accertamento incidenter tantum della filiazione naturale,
in altri termini, è stata riconosciuta in favore di coloro — i
figli incestuosi, appunto — che si trovassero
nell’impossibilità assoluta, cioè originaria, di proporre
l’azione per la dichiarazione giudiziale di paternità (Cass. 28
agosto 1999, n. 9065, Vita not., 1999, 1423). Ma, una volta che il
giudice delle leggi ha fatto cadere l’ostacolo all’esercizio
della menzionata azione da parte dei figli incestuosi, non v’è
più ragione di consentire ai medesimi il conseguimento di un
accertamento soltanto incidentale del loro status filiationis. Sicché
anche nei loro confronti ha da valere la regola generale applicata dal
tribunale. 3.
Il risarcimento riconosciuto alla sorella/convivente more uxorio. Provengono talora dalla giurisprudenza apparenti
novità di contenuto pressoché soltanto declamatorio, ma in
realtà tutt’affatto evanescenti. È il caso, recentemente,
della pronuncia della S.C., che ha ricevuto vasta eco sulla stampa quotidiana
e nei notiziari televisivi, la quale, anticipando l’intervento del
legislatore — in vero assai più cauto —, avrebbe
riconosciuto il rilievo giuridico delle unioni di fatto che, un domani,
potrebbero essere disciplinate dai Pacs (Cass. 12 luglio 2006, n.15760, in
questa rivista). In realtà, la sentenza — deludendo le
aspettative provocate dalle immediate valutazioni giornalistiche — si
è cimentata in un assai generico obiter dictum, che, sul piano
dell’esercizio della funzione nomofilattica, lascia il tempo che trova. Profondamente
diverso il caso della sentenza veneziana. Anche in questo caso, nei giorni
scorsi, ne hanno parlato i giornali: ma a ragione, perché la notizia
c’è, ed è rilevante. Ed essa consiste nella liquidazione all’attrice
di una somma calcolata secondo i parametri predisposti non per i fratelli, ma
per i conviventi more uxorio. Che
fratello e sorella — il defunto ed una tra gli altri attori —
convivessero more uxorio è dato di fatto emergente dalla
sentenza con il carattere dell’evidenza. La stessa società
assicuratrice del veicolo danneggiante non la nega, ma sostiene che la tutela
delle unioni di fatto non potrebbe estendersi fino a ricomprendere unioni le
quali non possano trasformarsi in unioni di diritto. Viceversa, secondo il
tribunale, la menzionata tesi sarebbe frutto di «una lettura
anacronistica legata ad una visione eticizzante dello Stato e
dell’ordinamento». Ecco, dunque, l’argomento posto dalla
sentenza a fondamento della soluzione accolta: «Una riconsiderazione del sistema giuridico
basato sulla piena tutela dei diritti dell’individuo sia come singolo
sia nelle formazioni sociali dove si sviluppa la sua personalità,
prescindendo dalla corrispondenza ad un modello di tipo naturale, permette di
tenere nel debito conto anche la posizione dell’attrice, la quale con
la perdita del defunto ha visto venire meno quell’appoggio morale e
materiale normalmente assicurato all’interno di una coppia. È
facile rilevare che se l’art. 29 Cost. riconosce i diritti della
famiglia come società naturale fondata sul matrimonio, non per questo
i diritti di quanti abbiano deciso di muoversi all’interno di un
contesto affatto peculiare, penalmente sanzionato se dal fatto deriva
pubblico scandalo, debbano essere relegati nel campo dell’indifferenza
giuridica». Insomma,
secondo il tribunale — così sembrerebbe potersi riassumere il
principio — la relazione di convivenza more uxorio, attenendo alla
realizzazione personale del soggetto, è comunque dotata di protezione costituzionale ai
sensi dell’art. 2 Cost., il quale riconosce e garantisce i
diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle formazioni
sociali ove si svolge la sua personalità. Nulla rileva, perciò,
che l’art. 29 Cost. riconosca i diritti della famiglia esclusivamente
intesa come «società naturale fondata sul matrimonio», dal
momento che questa disposizione non può svolgere un effetto limitativo
nei confronti di chi voglia realizzarsi al di fuori della famiglia
tradizionale. Anche
in questo caso, in definitiva, come ci ricorda la pronuncia, «il
convenuto deve prendere l’attore esattamente come lo trova»:
principio, questo, mutuato dall’ambiente di common law, ove
è espresso nella formulatake your plaintiff as you find him. Ora,
immaginiamo che la soluzione veneziana fosse stata applicata in un caso di
unione di fatto omosessuale. Il tribunale, in tal caso, avrebbe svolto
un’operazione certo coraggiosa — possiamo in buona sostanza dire
che, se una parte delle forze politiche patrocinano l’introduzione dei
Pacs, è anche perché ritengono che in mancanza di essi la
relazione omosessuale non potrebbe ricevere tutela giuridica —, ma si
sarebbe pur sempre cimentato con una forma di unione della quale, in
positivo, il legislatore nulla dice. Ed allora, sarebbe stato più
agevole sostenere, in buona sostanza, che ognuno può realizzarsi nelle
unioni che crede. La
stessa soluzione, occorre però chiedersi, può con certezza
reggere in un caso in cui l’unione considerata riceve
dall’ordinamento un giudizio di fiero disvalore —
tutt’oggi, dal punto di vista delle persone che ad essa danno vita e
non, ovviamente da quello degli incolpevoli figli — tanto che è
in proposito prevista, sia pure in concorso del presupposto del pubblico
scandalo, il non certo lieve reato di incesto? Tribunale Venezia, Sentenza, Sez. III, 31/07/2006 Il
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N. 9/10/2006 Sullo stesso argomento responsabilità
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