Giacomo Oberto

 

La responsabilità contrattuale

nella famiglia di fatto

 

 

Sommario:

1. La responsabilità contrattuale nell’ambito della famiglia di fatto. Le obbligazioni tra conviventi.

2. La responsabilità contrattuale per violazione di obbligazioni assunte per la prole nell’ambito di un contratto di convivenza.

3. La responsabilità verso terzi dei conviventi more uxorio per le obbligazioni contratte nell’interesse del ménage di fatto.

4. Segue. Accordi programmatici tra conviventi e attività negoziale con i terzi. Cenni alla rilevanza esterna degli accordi dei conviventi relativi alla prole.

5. La responsabilità dei genitori per le obbligazioni contratte dai figli.

6. Cenni al tema del risarcimento del danno (aquiliano) subito dal convivente per l’uccisione del partner.

 

 

1. La responsabilità contrattuale nell’ambito della famiglia di fatto. Le obbligazioni tra conviventi.

 

Nell’attuale sistema normativo italiano, attesa l’inesistenza di un dovere giuridico azionabile di contribuzione tra conviventi  more uxorio e la presenza, invece, di una semplice obbligazione naturale, sembra impossibile trasfondere in questa materia le conclusioni sopra esposte in tema di dovere di contribuzione tra coniugi.

 

Un’obbligazione ex lege giuridicamente azionabile esiste, per il vero, nell’ipotesi descritta dall’art. 342-ter cpv. c.c., introdotto dall’art. 2, l. 5 aprile 2001, n. 154 («Misure contro la violenza nelle relazioni familiari»), ai sensi del quale, nel caso di emanazione di ordine ai sensi del primo comma del medesimo articolo (ordine di allontanamento dalla casa familiare), il giudice può disporre «il pagamento periodico di un assegno a favore delle persone conviventi che, per effetto dei provvedimenti di cui al primo comma, rimangono prive di mezzi adeguati, fissando modalità e termini di versamento e prescrivendo, se del caso, che la somma sia versata direttamente all’avente diritto dal datore di lavoro dell’obbligato, detraendola dalla retribuzione allo stesso spettante».

 

Trattasi di disposizione su cui grava il pesante sospetto di contrarietà al canone d’uguaglianza ex art. 3 Cost., atteso che la medesima concede (per la prima volta nell’ordinamento giuridico italiano) un assegno all’ex convivente more uxorio dalla funzione prettamente assistenziale – si noti l’inciso «persone conviventi che (…) rimangono prive di mezzi adeguati – peraltro nel solo caso di cessazione «violenta» del rapporto, nulla prevedendo, invece, nell’ipotesi in cui la relazione venga a terminare in maniera «civile», con un’evidente discriminazione a seconda di come il legame venga a sciogliersi e senza tenere conto del fatto che la mancanza di mezzi adeguati ben può darsi anche quando il convivente «debole» non subisca violenza alcuna.

Ma, a parte questi rilievi (che s’accompagnano all’augurio che il legislatore o la Consulta provvedano quanto prima a colmare la lacuna), non vi è dubbio che la prestazione in oggetto costituisce l’oggetto di un ben preciso rapporto obbligatorio costituito jussu judicis sulla base della norma citata, la cui violazione espone il debitore a responsabilità contrattuale.

 

Altrettanto è a dirsi in relazione al caso in cui un obbligo di contribuzione o di mantenimento siano stati previsti in base ad un contratto di convivenza: l’ammissibilità di una siffatta pattuizione sembra, invero, oggi fuori discussione ed anzi la validità di un contratto di convivenza avente tale oggetto induce anche ad affermare la possibilità che le parti stabiliscano l’impegno reciproco di contribuire alle necessità del ménage mediante la corresponsione (periodicamente, o una tantum) di somme di denaro, ovvero tramite la messa a disposizione di propri beni o della propria attività lavorativa, eventualmente anche soltanto domestica.

 

La validità di tale impegno, che dovrebbe fissare altresì misura e modalità della contribuzione di ciascuno, non sembra possa contestarsi, così come quella di una promessa avente a oggetto la reciproca assistenza materiale per il caso di necessità.

Al riguardo potrebbe rivelarsi di una certa utilità la previsione di eventuali situazioni alla stregua di «cause di giustificazione» per il mancato adempimento dell’obbligo contributivo, come per esempio nel caso in cui una delle parti dovesse trovarsi senza sua colpa nell’impossibilità di ricevere reddito (si pensi alla disoccupazione involontaria).

Sulla validità di contratto di convivenza:

Sez. 3, Sentenza n. 6381 del 08/06/1993 (Rv. 482709)

La convivenza "more uxorio" tra persone in stato libero non costituisce causa di illiceità e, quindi, di nullità di un contratto attributivo di diritti patrimoniali (nella specie, comodato) collegato a detta relazione, in quanto tale convivenza, ancorché non disciplinata dalla legge, non contrasta nè con norme imperative, non esistendo norme di tale natura che la vietino, nè con l’ordine pubblico, che comprende i principi fondamentali informatori dell’ ordinamento giuridico, nè con il buon costume, inteso, a norma delle disposizioni del codice civile (vedi artt. 1343, 1354), come il complesso dei principi etici costituenti la morale sociale di un determinato momento storico, bensì ha rilevanza nel vigente ordinamento per l’attribuzione di potestà genitoriali nell’ipotesi disciplinata dall’art. 317 bis cod. civ., come nella normativa della legge 27 luglio 1978 n. 392 in ordine alla successione nel contratto di locazione.

Trib. Savona, 29 giugno 2002 in Fam. dir., 2003, p. 596.

Nella specie, una donna aveva convenuto in giudizio il suo ex compagno, chiedendone la condanna al pagamento della somma di € 5.164,57 (10.000.000 di lire) sulla base di una causa petendi ricostruita nei termini seguenti dal giudicante: «poiché, contrariamente agli impegni e alle obbligazioni assunte in sede di stipula del contratto di convivenza more uxorio, il convenuto, al contrario dell’attrice, non avrebbe partecipato al soddisfacimento delle esigenze della famiglia di fatto in misura eguale e paritaria». Esperita istruttoria orale (è da supporsi, in forza del disposto del capoverso dell’art. 2721 c.c.), il tribunale dà atto in sentenza che, secondo quanto dichiarato da un teste, le parti «in presenza dello stesso teste, avevano verbalmente e concordemente stabilito che avrebbero partecipato in misura eguale alle spese inerenti la famiglia di fatto». Posto, dunque, di fronte ad un’azione di adempimento di un contratto di contribuzione tra conviventi more uxorio, il tribunale applica analogicamente l’art. 143 c.c. per «correggere» il contenuto del contratto che, anche alla luce del criterio ex art. 1366 c.c., viene dal giudicante «inteso in modo generico e di massima», facendo «salve le differenti possibilità economiche e lavorative dei componenti in un dato momento». Di conseguenza – accertato in fatto lo squilibrio reddituale e patrimoniale in favore della parte attrice e, in particolare la circostanza che l’uomo «non sembra (…) disponesse di redditi particolari», mentre la donna «aveva un reddito costante e sicuro» – il giudice respinge la domanda.

La motivazione viene così a trovarsi «in bilico» tra due rationes decidendi inconciliabili: la prima, che fa leva sull’inderogabilità del canone espresso dall’art. 143 c.c., ciò che dovrebbe comportare il riconoscimento (quanto meno in via incidentale) della nullità dell’intesa, ex art. 1418 c.c.; la seconda, che si basa sull’interpretazione secondo buona fede di un negozio che, per poter essere interpretato, dovrebbe essere ritenuto valido… Peraltro nessuna delle due strade appare percorribile: non la prima, perché – come si è detto – l’art. 143 c.c. (la cui inderogabilità è sancita, tra l’altro, per i soli coniugi, dall’art. 160 c.c.) non appare in alcun modo riferibile (sub specie obligationis civilis) alla famiglia di fatto (in senso critico, sul punto, rispetto alla decisione, cfr. anche la nota di commento di Ferrando, Le contribuzioni tra conviventi fra obbligazione naturale e contratto, cit., p. 600); non la seconda, perché in claris non fit interpretatio, né si comprende per qual motivo (non giustificato da emergenze processuali, quanto meno citate in sentenza) sarebbe stato presente, al momento della conclusione del contratto, un «ragionevole affidamento» sul fatto che l’impegno avrebbe dovuto essere riferito alle «differenti possibilità economiche e lavorative dei componenti in un dato momento», anziché ai verba chiaramente usati dalle parti e che ben avrebbero, tra l’altro, potuto ingenerare un altrettanto ragionevole affidamento in capo alla donna, circa la futura divisione a metà di tutte le spese afferenti al ménage.

 

La dottrina italiana pare orientata a individuare quale contenuto dei contratti di convivenza l’obbligo di corresponsione di somme di denaro a titolo di mantenimento da parte del partner più abbiente in favore di quello più bisognoso. Ma c’è da chiedersi se invece non convenga optare per forme negoziali più collaudate, quali per esempio il contratto di mantenimento vitalizio.

Si tratta della convenzione con la quale una parte attribuisce all’altra il diritto di esigere, vita natural durante, di essere mantenuta, quale corrispettivo dell’alienazione di un bene mobile o immobile o della cessione di un capitale. Più precisamente, l’obbligo del vitaliziante consiste non già nel versamento di somme di denaro, ma nella corresponsione, in natura, di vitto, alloggio vestiario e assistenza medica, anche se la prassi conosce altre pattuizioni di carattere accessorio.

Tali prestazioni accessorie possono avere natura patrimoniale (v. per esempio il caso risolto da Cass., 11 novembre 1988, n. 6083, in Foro it., 1989, I, c. 1163, in cui il vitaliziante si era impegnato verso il vitaliziato ad effettuarne «il trasporto in macchina in città italiane, della Francia o della Svizzera» e a «ospitare parenti ed amici del vitaliziato in caso di malattia»), ma anche non patrimoniale (si pensi all’impegno di prestare assistenza morale, o compagnia ovvero, ancora, di convivere con il vitaliziato), sulle quali ultime si addensano però dubbi di validità, tanto con riferimento alla possibilità per tali prestazioni di formare oggetto di rapporto obbligatorio e di contratto, ex artt. 1174 e 1321 c.c., quanto, soprattutto, con riguardo agli aspetti d’ordine pubblico per l’eventuale lesione della libertà personale del vitaliziante.

 

Proprio l’appartenenza di tali prestazioni al novero di quelle di fare, anziché di dare, ha da sempre indotto la dottrina maggioritaria a evidenziare l’atipicità del contratto in esame rispetto alla rendita vitalizia, secondo una tesi che riscuote anche il consenso della Suprema Corte, e che pare senz’altro preferibile, anche in considerazione del cospicuo numero di altri elementi differenziatori nei riguardi della figura regolata dall’art. 1872 ss.

 

Nell’ambito dei rapporti tra conviventi more uxorio il contratto di mantenimento vitalizio potrebbe però assumere un ulteriore connotato caratterizzante, idoneo ad allontanarlo definitivamente dalla rendita vitalizia. Nello schema negoziale potrebbe infatti mancare la cessione della proprietà di determinati beni dal vitaliziato al vitaliziante, (specie quando uno dei due difettasse dei mezzi necessari per un’operazione del genere). In tal caso la controprestazione, a fronte dell’impegno del vitaliziante, potrebbe essere costituita da un obbligo reciproco di assistenza materiale, oppure potrebbe mancare del tutto.

Ma a questo punto occorre ammettere che il primo caso non sembra differire di molto dal contratto di contribuzione che si è cercato di enucleare in precedenza, mentre nel secondo appare inevitabile riconoscere la presenza di una donazione. Proprio per questo, la previsione dell’obbligo di mantenimento a carico di una soltanto delle parti, senza alcuna controprestazione, richiede necessariamente il rispetto della forma solenne, ex art. 782 c.c.

Nel senso che «è nulla, per difetto di forma, la donazione contenuta in una scrittura privata, denominata “transazione”, con cui la parte si obbliga a versare al beneficiario una determinata somma mensile per tutta la durata della vita di quest’ultimo» cfr. Cass., 29 novembre 1986, n. 7064, in Riv. notar., 1987, II, p. 837; in Foro it., 1987, I, c. 805.

 

Peraltro, proprio l’indiscussa validità del contratto vitalizio di mantenimento induce ad affermare che una prestazione di tipo contributivo-assistenziale possa essere efficacemente assunta anche per un numero considerevole di anni, ovvero per tutta l’esistenza del beneficiario; l’unico limite sarà dunque costituito dalla durata della vita del creditore della prestazione.

Come già suggerito per i rapporti inter coniuges, anche in relazione a siffatti contratti sarà opportuno prevedere la stipula di apposite clausole penali, che forniranno al convivente creditore delle prestazioni così garantite un maggior livello di sicurezza sul relativo adempimento.

 

 

2. La responsabilità contrattuale per violazione di obbligazioni assunte per la prole nell’ambito di un contratto di convivenza.

 

Il tema delle penali con cui si è chiuso il § precedente induce ad accennare all’argomento piuttosto delicato dei rapporti con i profili strettamente personali, quale quello della procreazione, o dei rapporti con la prole.

 

Per quanto attiene al primo aspetto dovrà senz’altro ribadirsi la nullità di ogni impegno che preveda l’esecuzione di prestazioni di carattere sessuale – in relazione al quale emergerebbe anche il profilo della contrarietà al buon costume – o, ancora, l’assunzione di un determinato cognome, la procreazione (eventualmente mediante il ricorso a metodi di fecondazione artificiale), o la non procreazione, per mezzo dell’imposizione dell’obbligo di far uso di sistemi contraccettivi.

V. BGH, 17 aprile 1986, in FamRZ, 1986, p. 773. I conviventi avevano di comune accordo deciso di non avere figli e all’uopo la donna si era impegnata a fare uso della «pillola»; l’accordo non era però stato da quest’ultima rispettato, tanto che dalla relazione era nato un figlio, al mantenimento del quale il convivente, quale padre naturale, era stato condannato con sentenza passata in giudicato. L’uomo convenne quindi in giudizio la donna chiedendole il risarcimento danni per la violazione dell’accordo sull’uso dei mezzi contraccettivi. La Corte Suprema Federale respinse la domanda affermando la nullità di tale contratto per Sittenwidrigkeit, in quanto «lesivo della più intima sfera di libertà personale».

 

Potrà essere interessante aggiungere che, svariati anni dopo, il Tribunale di Milano (cfr. Trib. Milano, 19 novembre 2001, in Nuovo dir., 2002, II, p. 621) ha affermato lo stesso principio, in un caso esattamente identico, che si differenzia dal primo solo per la maggiore fantasia dell’avvocato italiano, che non solo aveva proposto l’azione di responsabilità ex contractu, ma aveva anche, in subordine, presentato una domanda di responsabilità aquiliana per violazione del principio del neminem laedere, sotto il profilo del (preteso) diritto soggettivo assoluto ad avere rapporti sessuali con una donna senza quelle… fastidiose conseguenze rappresentate dalla nascita di figli non desiderati.

 

Ed è inutile dire che, con riguardo a siffatte fattispecie, neppure la previsione di una penale varrebbe a salvare il rapporto dalla nullità per violazione del principio della libertà personale.

La conclusione riceve indiretta conferma dall’art. 79 c.c., che dichiara nulla qualsiasi penale posta a garanzia di una promessa di matrimonio, nonché dal fatto che uguale sorte si ritiene comunemente ricollegata a un’analoga clausola che i coniugi dovessero prevedere a suggello di uno o più dei doveri ex art. 143 c.c.

 

Significativo è il caso risolto da OLG Hamm, 24 marzo 1987, in FamRZ, 1988, p. 618. Herr K. e Frau R., conviventi more uxorio, concludono una Vereinbarung diretta a regolare la propria vita in comune, nonchè le conseguenze di un’eventuale rottura del ménage. Una delle clausole di tale accordo, redatto per iscritto, prevede testualmente che «per il caso di scioglimento del rapporto more uxorio per iniziativa di K. quest’ultimo si impegna a corrispondere a R., a titolo di indennizzo, la somma di DM 40.000. Nel caso la convivenza di protragga per dieci anni la somma verrà aumentata a DM 80.000. R. e K. concordano nel ritenere esclusa l’operatività del predetto diritto di indennizzo nel caso gli stessi contraggano matrimonio oppure se sarà R. a decidere di sciogliere il legame». La Corte afferma la nullità di tale clausola per due distinti motivi. In primo luogo, perché il contratto è stato concluso quando Herr K. era ancora sposato: la previsione di una penale per lo scioglimento della relazione extramatrimoniale va ritenuta come sittenwidrig ai sensi del § 138 BGB, in quanto diretta a scoraggiare la riconciliazione con la moglie favorendo invece la violazione del dovere di fedeltà coniugale. La seconda ragione (di carattere assorbente, tanto da far ritenere irrilevante la circostanza del successivo divorzio di K.) è che una clausola del genere, anche in considerazione dell’entità della somma, tende allo scopo di «rendere più difficoltoso, se non addirittura impossibile, per il convenuto (K.) lo scioglimento del rapporto di fatto». Secondo i giudici, la conseguente limitazione della libertà di autodeterminazione dell’obbligato nella sfera dei suoi diritti personalissimi deve dunque essere considerata intollerabile, oltre che in contrasto con i principi fondamentali dell’ordinamento (al punto che, secondo la Corte, le conclusioni non potrebbero essere diverse neppure in relazione a una coppia coniugata).

 

Nella monografia sui regimi patrimoniali della famiglia di fatto lo scrivente aveva espresso l’opinione secondo cui sarebbe stato impossibile regolare sotto qualsiasi forma anche gli aspetti involgenti i rapporti di filiazione e l’esercizio della potestà dei genitori, che risultano già disciplinati da norme di carattere imperativo.

La conclusione va sicuramente ribadita per tutto quanto attiene al momento costitutivo del rapporto di filiazione (o comunque di un rapporto para-familiare). Pertanto, oltre alla già illustrata nullità di ogni promessa avente a oggetto la procreazione ovvero l’astensione dalla procreazione, va affermata l’invalidità dell’obbligo che i conviventi eventualmente assumessero di manifestare la propria disponibilità all’affidamento familiare, o al compimento di un’eventuale adozione, nei limiti in cui, ovviamente, essa possa ritenersi consentita ai soggetti non coniugati.

Lo stesso è a dirsi per l’impegno, da parte di uno o di entrambi, a effettuare, o ad astenersi dall’effettuare, il riconoscimento della prole generata dall’unione, o, ancora, a far precedere uno dei due riconoscimenti all’altro, strumento che altrimenti potrebbe servire (con le limitazioni, beninteso, fissate dall’art. 262 c.c.) a conseguire lo scopo di far assumere ai figli il cognome di uno piuttosto che dell’altro dei genitori.

 

Diverse appaiono invece le conclusioni per ciò che attiene agli aspetti attinenti all’esercizio della potestà sui figli comuni.

Invero, come dimostrato in dottrina, dall’art. 317-bis sembra potersi ricavare per implicito il riconoscimento da parte del legislatore della validità di intese dirette a regolare tale aspetto, sia in relazione alla coppia in situazione «fisiologica» (mercé il rinvio all’art. 316), sia a quella in situazione «patologica» (in cui l’intervento del giudice è previsto in funzione meramente suppletiva). La giurisprudenza sembra del resto secondare questa interpretazione, ammettendo la validità di accordi aventi ad oggetto l’affidamento della prole naturale.

Cfr. Trib. Palermo, 18 febbraio 1987, in Dir. fam. pers., 1987, p. 760; Trib. Monza, 22 giugno 1990, in Foro pad., 1991, c. 531 (si noti che il richiamo ai «coniugi», di cui alla massima riportata sulla rivista citata, è frutto di errore: dalla motivazione si desume, infatti, che trattavasi di convivenza more uxorio). Un accenno in proposito sembra essere contenuto anche nella motivazione di una pronunzia di legittimità, secondo cui «l’art. 317-bis pone alcuni criteri attributivi dell’esercizio della potestà e prevede come meramente eventuale e successivo l’intervento del giudice, costruendolo come preordinato a correggere il cattivo funzionamento dei criteri predetti ed eventualmente a stabilire regole alternative, secondo un ampio spettro di ipotesi che arriva fino alla possibilità di escludere entrambi i genitori dall’esercizio della potestà» (cfr. Cass., Sez. Un., 25 maggio 1993, n. 5847).

 

Nessun dubbio dovrebbe poi porsi sull’ammissibilità dell’eventuale regolamentazione pattizia della misura in cui ciascuno dei conviventi contribuirà al mantenimento dei figli (eventualmente anche non minorenni), nonché sul carattere di vera e propria obbligazione di siffatto tipo di impegno.

 

Questi risultati ricevono conferma dalle disposizioni della normativa in tema di affidamento condiviso, estensibili anche alla famiglia di fatto, per effetto del citato art. 4, secondo comma, l. 8 febbraio 2006, n. 54.

 

In forza di queste norme, invero, il giudice è obbligato a «Prende(re) atto, se non contrari all’interesse dei figli, degli accordi intervenuti tra i genitori» (cfr. art. 155, secondo comma, c.c.). D’altro canto, i conviventi possono liberamente sottoscrivere accordi in merito al mantenimento dei figli (come stabilito dall’art. 155, quarto comma, c.c.), eventualmente anche in deroga al criterio di proporzionalità scolpito nell’art. 148 c.c. (e sempre che, come si è visto trattando della materia con riguardo alla crisi coniugale, tale facoltà di deroga non venga un giorno colpita da declaratoria di incostituzionalità,  nel caso si dovesse ritenere il citato criterio munito di garanzia costituzionale, ex art. 30 Cost.).

 

Il vero problema è, semmai, quello di trovare un sistema che possa «inchiodare» le parti alle loro responsabilità, ed ottenere uno strumento che garantisca contro il rischio che una di esse cambi successivamente idea. Sul punto varrà la pena riportare in nota gli argomenti in favore della ammissibilità di una vera e propria procedura di omologazione delle intese di «separazione consensuale» della coppia di fatto concernenti la prole, ammissibilità che sembra in qualche modo confermata dalle norme in tema di affidamento condiviso.

 

In ogni caso – e concludendo – è chiaro che, anche a prescindere dalla assoggettabilità ad omologazione delle intese tra conviventi, gli accordi attinenti a profili di carattere patrimoniale (ed in primo luogo la previsione del versamento di contribuzioni periodiche o anche solo una tantum) costituiranno vere e proprie obbligazioni, con conseguente applicabilità degli artt. 1218 ss. c.c. in ipotesi di mancato o inesatto adempimento.

 

È da notare che, nella crisi del rapporto di fatto, la questione dell’eventuale violazione dei doveri genitoriali ed in particolare dei provvedimenti dettati dal giudice relativamente alla prole, così come degli accordi eventualmente raggiunti inter partes, andrà affrontata – nel caso di attuale pendenza di un giudizio ex art. 317-bis c.c. – con ricorso al già citato procedimento ex art. 709-ter c.p.c.

 

 

3. La responsabilità verso terzi dei conviventi more uxorio per le obbligazioni contratte nell’interesse del ménage di fatto.

 

Trattando delle questioni attinenti alla responsabilità contrattuale dei componenti la famiglia di fatto verso terzi, ci si potrà chiedere quale sia la responsabilità verso terzi dei conviventi more uxorio per le obbligazioni contratte nell’interesse del ménage.

Non mancano ordinamenti stranieri che, sul solco della radicata esperienza della solidarité ménagère tra coniugi, hanno ritenuto di poter estendere la soluzione prevista in quella sede anche al caso dei conviventi: quanto meno di quelli che abbiano inteso «solennizzare» il loro rapporto tramite la stipula di un apposito patto o contratto.

È il caso, ad esempio dell’art. 515-4 cpv. del Code civil francese, introdotto dalla legge sui PACS (art. 1, legge nº 99-944 del 15 novembre 1999), secondo il quale «Les partenaires sont tenus solidairement à l’égard des tiers des dettes contractées par l’un d’eux pour les besoins de la vie courante et pour les dépenses relatives au logement commun».

Similmente, il § 8 cpv. del Gesetz zur Beendigung der Diskriminierung gleichgeschlechtlicher Gemeinschaften: Lebenspartnerschaften stabilisce che, per le coppie omosessuali che abbiano stipulato una eingetragene Lebenspartnerschaft, «§ 1357 [cioè la norma che introduce per i coniugi la regola della Schlüsselgewalt] und die §§ 1365 bis 1370 des Bürgerlichen Gesetzbuchs gelten entsprechend».

Sotto il profilo della tecnica legislativa potrà notarsi che, mentre l’opzione francese consiste nella nuova formulazione di una regola ricalcata su quella concernente la solidarité ménagère coniugale, ma con essa non esattamente coincidente (difetta infatti per i concubins « pacsés » ogni richiamo ai limiti di cui all’art. 220, secondo e terzo comma, Code civil), la soluzione germanica consiste in un rinvio puro e semplice al paragrafo del BGB che disciplina l’istituto relativamente ai coniugi.

 

Pure in Spagna il legislatore è invervenuto sul tema. Così la legge catalana 10/1998, de 15 de julio, de uniones estables de pareja stabilisce agli artt. 4 e 5 quanto segue:

«Artículo 4. Gastos comunes de la pareja.

1. Tienen la consideración de gastos comunes de la pareja los necesarios para su mantenimiento y el de los hijos y las hijas comunes o no que convivan con ellos, de acuerdo con sus usos y su nivel de vida, y especialmente:

a.   Los originados en concepto de alimentos, en el sentido más amplio.

b.   Los de conservación o mejora de las viviendas u otros bienes de uso de la pareja.

c.   Los originados por las atenciones de previsión, médicas y sanitarias.

2. No tienen la consideración de gastos comunes los derivados de la gestión y la defensa de los bienes propios de cada miembro, ni, en general, las que respondan al interés exclusivo de uno de los miembros de la pareja.

Artículo 5. Responsabilidad.

Ante terceras personas, ambos miembros de la pareja responden solidariamente de las obligaciones contraídas por razón de los gastos comunes que establece el artículo 4, si se trata de gastos adecuados a los usos y al nivel de vida de la pareja; en cualquier otro caso responde quien haya contraído la obligación».

 

Per le altre disposizioni che contengono principi analoghi cfr., per l’Aragona, la legge 6/1999, del 25 marzo 1999 (relativa a parejas estables no casadas); per la Navarra cfr. la Ley Foral 6/2000 del 3 luglio 2000 (para la igualdad jurídica de las parejs estables); per le Isole Baleari cfr. la legge 18/2001 del 19 dicembre 2001 (de Pareja Estables); per la Comunidad Autónoma di Valencia cfr. la legge 1/2001 del 6 aprile 2001 (por la que se regulan las uniones de hecho); per la Comunidad Autónoma di Madrid cfr. la legge 11/2001 del 19 dicembre 2001 (de Uniones de Hecho de la Comunidad de Madrid); per le Asturie cfr. la legge 4/2002 del 23 maggio 2002 (de Parejas Estables).

 

Anche in Italia chi scrive ha legato la soluzione del problema in esame alla stipula di un contratto di convivenza, ben potendosi ipotizzare che nel patto i conviventi inseriscano clausole volte a disciplinare l’attività negoziale che ciascuno di essi, al fine di soddisfare le esigenze del ménage, può svolgere contraendo con terzi.

In particolare, cogliendo un suggerimento della dottrina straniera, si potrebbe pensare a un esplicito reciproco conferimento di procura (revocabile) in relazione ai negozi necessari a soddisfare le quotidiane esigenze della vita in comune.

 

Si eviterebbe in tal modo la necessità di ricorrere a quegli espedienti enucleati dalla dottrina e dalla giurisprudenza, soprattutto all’estero, per affermare una responsabilità anche in capo al convivente  rimasto estraneo al negozio, e che, a giudizio di chi scrive, sono tutti inevitabilmente destinati ad abortire.

Si pensi, innanzitutto, alla teoria del mandat domestique che, elaborata in Francia tra Otto e Novecento in relazione alle obbligazioni contratte dalla moglie presso terzi nell’interesse della famiglia (purché nei limiti di un normale ménage familiare), allorquando era ancora richiesta l’autorizzazione maritale agli acquisti, venne estesa, per una supposta identità di ratio, alle obbligazioni contratte dalla convivente, salvo essere poi abbandonata, dopo che l’abrogazione dell’autorisation maritale   comportò la sparizione dell’istituto in relazione alla famiglia legittima.

Nemmeno appaiono invocabili, se non in casi del tutto marginali, teorie come quelle dell’apparenza, o della tutela dell’affidamento, che pure hanno riscosso un gran successo all’estero nella materia in discorso e la cui applicazione è stata proposta anche in Italia.

 

Invero, il ricorso all’apparence trompeuse non risulta praticabile se non nel caso in cui il convivente agente  abbia dichiarato o comunque reso evidente di contrarre anche in nome dell’altro. È noto infatti che tale istituto postula un negozio posto in essere da un falsus procurator, il quale abbia agito ponendo in essere quella contemplatio domini, che costituisce quel riconoscibile riferimento alla sfera patrimoniale altrui che, se non richiede necessariamente la menzione espressa del nome del dominus, presuppone però comunque la manifestazione dell’intento del dichiarante di concludere il negozio non per sé, ma in nome e per conto di un altro soggetto.

Trattasi dunque di situazione assai raramente riscontrabile nelle fattispecie in esame, che vedono di solito uno dei conviventi agire esclusivamente in nome proprio, anche se obiettivamente nell’interesse del ménage. Non va poi trascurato il fatto che la teoria dell’apparenza viene invocata per porre rimedio a una situazione in cui il contratto, in quanto concluso (a nome altrui) dal falso rappresentante, non potrebbe produrre effetto né verso di questi, né verso il rappresentato. Nel caso di cui si discute, invece,  difetta la spendita del nome altrui, e pertanto il negozio produce senz’altro effetto nei confronti del convivente che lo ha stipulato, facendo comunque acquistare al terzo un debitore.

 

Per tutti i motivi testé illustrati, dunque, appare chiaro che l’espediente del reciproco conferimento di una procura, in tanto consente di risolvere il problema, in quanto il  partner agente usi l’accortezza di esprimere ogni volta quella contemplatio domini che costituisce condizione imprescindibile per l’operatività delle norme in tema di rappresentanza, ciò che, per le ragioni già espresse, appare assai difficilmente immaginabile nei negozi di cui si discute.

 

Di maggior utilità potrebbe rivelarsi semmai un patto tra conviventi circa la ripartizione interna delle obbligazioni (ordinarie e straordinarie) del ménage, con eventuale specificazione delle singole spese alle quali entrambi i contraenti sono tenuti a concorrere, nonché delle rispettive percentuali.

È evidente che un accordo del genere potrebbe essere assunto in seno a un programma più generale, nel quale si potrebbero prevedere anche impegni circa la ripartizione dei rispettivi compiti analogamente a quanto avviene per quell’accordo che tra i coniugi va sotto il nome di «indirizzo concordato» (cfr. art. 144 c.c.). Anche in quest’ambito occorrerà però prestare attenzione a non inserire clausole contrastanti con l’ordine pubblico in quanto eccessivamente restrittive della libertà d’azione (per esempio: mi impegno a non lavorare fuori casa, obbligandomi invece a esplicare la mia attività nell’ambito del solo lavoro domestico, ecc.).

 

Proprio su questo tema sarà interessante vedere come i conviventi possano assumere convenzionalmente un obbligo di contribuzione senza rispettare il criterio della proporzionalità «in relazione alle proprie sostanze e alla propria capacità di lavoro professionale o casalingo» scolpito per i coniugi dall’art. 143 c.c., norma sicuramente non estensibile in via analogica ai conviventi more uxorio, attesa l’irriferibilità alla famiglia di fatto del disposto dell’art. 160 c.c.

Appare quindi senz’altro ammissibile una pattuizione con la quale le parti si impegnino a contribuire in misura paritaria al ménage, pur in presenza di una situazione di squilibrio patrimoniale e reddituale delle medesime, nonostante che una decisione di merito abbia ritenuto di dover risolvere proprio questo specifico problema in senso contrario.

 

 

4. Segue. Accordi programmatici tra conviventi e attività negoziale con i terzi. Cenni alla rilevanza esterna degli accordi dei conviventi relativi alla prole.

 

Di particolare interesse – in considerazione della loro funzione preventiva rispetto a possibili controversie al momento dello scioglimento – paiono poi tutte quelle clausole, contenute in alcuni modelli stranieri di contratti di convivenza, intese ad attribuire (o a negare) un determinato significato negoziale ai comportamenti che i conviventi terranno in futuro, durante il ménage, sia nei reciproci rapporti, che con riguardo all’attività negoziale verso terzi.

Così, a seconda dei casi e delle intenzioni dei partners, è opportuno chiarire preventivamente la sorte delle attribuzioni patrimoniali che le parti  dovessero eventualmente effettuarsi «a senso unico» (senza specificarne la natura), magari nell’ambito di un negozio stipulato con un terzo.

Si pensi al caso «classico» dell’acquisto di un bene, magari di rilevante entità, presso un terzo, con pagamento del prezzo in tutto o in parte a carico di un convivente e «intestazione» del medesimo a nome dell’altro.

Al riguardo il contratto di convivenza potrebbe previamente stabilire, per atti del genere, vuoi una presunzione di mutuo, vuoi una presunzione di liberalità dell’atto, fatto salvo il caso di un’espressa, eventuale, pattuizione di una restitutio.

Allo stesso modo è consigliabile disciplinare l’eventuale rimborso per l’utilizzazione di beni del compagno, nonché l’onerosità o meno dei servizi prestati da ciascuno nelle faccende domestiche, oppure a sostegno dell’attività dell’altro, prevedendo in anticipo che, pur non stabilendosi reciproci (o unilaterali) obblighi in tal senso, siffatte prestazioni lavorative, eventualmente di fatto eseguite nel corso della durata del ménage, vadano o meno retribuite, presumendosi le stesse eseguite nell’ambito di un rapporto di lavoro subordinato oneroso o, per converso, di una prestazione resa affectionis vel benevolentiae causa.

 

L’opinione di cui sopra, già espressa dallo scrivente, è stata criticata da chi, con particolare riguardo agli accordi diretti a chiarire preventivamente la sorte delle attribuzioni patrimoniali appena definite «a senso unico», nonché l’onerosità o meno dei servizi prestati, ha rilevato che tali patti «sono diretti a stabilire preventivamente la causa dei vari negozi che in futuro stipuleranno i conviventi nello svolgimento della loro convivenza senza espressamente indicarne la causa».

Sulla base di tale premessa se ne è concluso che le clausole qui consigliate contrasterebbero con la regola secondo cui «tutti i negozi, dato il principio della causalità delle attribuzioni patrimoniali accolto dal nostro ordinamento, devono indicare, a pena di nullità, la loro causa», che non potrebbe «essere semplicemente determinabile mediante la relatio ad un precedente negozio normativo».

        Sul punto sarà sufficiente ricordare, tanto per portare un paio di esempi, come la nostra più autorevole dottrina ammetta – e da tempo – la piena validità di negozi traslativi a causa esterna, ipotesi alla quale può poi essere affiancata anche quella del contratto normativo o programmatico, specie tenuto conto dell’incontestabile dato normativo scolpito nell’art. 1321 c.c., da cui emerge che, mercé lo strumento contrattuale, le parti possono non solo costituire od estinguere, bensì anche «regolare» rapporti giuridici, senza che la disposizione distingua a seconda che tali rapporti giuridici siano già in essere o meno inter partes.

        Del resto, una volta ammessa la validità del negozio d’accertamento nel nostro ordinamento, non si riuscirebbe a comprendere per quale ragione tale istituto non dovrebbe avere cittadinanza nel sistema vigente sol perché concluso in via preventiva rispetto ai negozi che si pongono quali possibili fonti, a loro volta, di situazioni di incertezza.

 

Infine, un ulteriore aspetto di un simile accordo programmatico può essere dato dalla fissazione della misura e delle modalità del rispettivo contributo al mantenimento, all’istruzione e all’educazione della prole comune, sia durante il rapporto, che dopo la rottura del medesimo.

In quest’ultimo caso, ferma restando la già (in altra sede) illustrata possibilità di intervenire pattiziamente sul tema dell’affidamento, dei diritti di visita e di tutti i profili attinenti alla potestà sul minore, figlio della coppia di fatto, non sussistono motivi per negare la validità di una pattuizione diretta alla ripartizione delle spese connesse all’esercizio del diritto-dovere di cui sopra. Come si è già detto relativamente ai rapporti «interni» tra i conviventi, anche in questo caso si potrebbe ipotizzare il conferimento di un mandato con procura da un convivente all’altro per la stipula dei contratti attinenti all’interesse del minore (dalla iscrizione alla scuola privata, all’iscrizione al corso di musica o di danza o alla palestra, al contratto con il dentista, etc.), con conseguente rilievo «esterno» dell’accordo, peraltro a condizione che sia, di volta in volta, riscontrabile la presenza di una (anche non formale, come si è visto) contemplatio domini.

 

Le conclusioni di cui sopra, già argomentabili sulla base del disposto dell’art. 317-bis c.c., ricevono ulteriore conferma dalle disposizioni della l. 8 febbraio 2006, n. 54, sull’affidamento condiviso dei figli, nelle coppie tanto legittime che di fatto.

Basti pensare al nuovo art. 155, cpv. c.c., che impone al giudice di «Prende(re) atto, se non contrari all’interesse dei figli, degli accordi intervenuti tra i genitori». Disposizione, questa, che, oltre a riconoscere a pieno titolo la validità di accordi tra conviventi sulla gestione della crisi del rapporto, anche relativamente al delicato aspetto delle relazioni con la prole, sembra addirittura far presagire l’ammissibilità di una vera e propria procedura d’omologazione degli accordi di separazione consensuale tra conviventi, ad instar di quanto stabilito dall’art. 158 c.c. per i coniugi e secondo quanto proposto dallo scrivente già sotto il vigore della previgente normativa.

 

Ancora, il nuovo quarto comma dell’art. 155 stabilisce che ciascuno dei genitori provvede al mantenimento dei figli in misura proporzionale al proprio reddito «salvo accordi diversi, liberamente sottoscritti dalle parti». Principio, questo, che sembra volersi addirittura porre (per quanto attiene alla derogabilità del criterio di proporzionalità) in evidente contrasto con quanto stabilito dall’art. 148 c.c., norma sino ad oggi ritenuta inderogabile, sollevando altresì (quanto a tale limitato aspetto) forse anche un problema di conformità rispetto all’art. 30 Cost.

 

 

5. La responsabilità dei genitori per le obbligazioni contratte dai figli.

 

Ci chiediamo ora se e come i genitori – siano essi, ovviamente, coniugi, conviventi o anche solo genitori naturali non conviventi more uxorio – possano eventualmente rispondere delle obbligazioni contratte verso terzi dai figli minorenni o da quelli maggiorenni con essi ancora conviventi e non autosufficienti.

 

In proposito potrà notarsi, innanzi tutto, che il fenomeno della conclusione di contratti da parte di minori è sicuramente in aumento, in considerazione, da un lato, del numero ben più elevato, rispetto al passato, di giovani in grado di accedere al «mercato del consumo» (si pensi, tanto per citare un esempio, alle possibilità di concludere contratti offerte dagli strumenti elettronici e telematici) e, dall’altro, dal sensibile allungamento temporale del periodo di convivenza dei figli, ben oltre il raggiungimento della maggiore età, con i propri genitori (c.d. «famiglia lunga»).

 

Iniziando dal caso dei minorenni va notata l’assenza di qualsiasi disposizione che espressamente renda i genitori parte del rapporto obbligatorio contratto dal proprio rampollo.

D’altro canto, è noto che l’ordinamento non considera validi i contratti stipulati dai minorenni, ma richiede che gli stessi siano conclusi dai genitori esercenti la potestà o dal tutore, previa autorizzazione giudiziale.

Va però tenuto presente che il sistema descritto dagli artt. 320 ss. e 343 ss. c.c. per gli atti eccedenti l’ordinaria amministrazione e dall’art. 1425 c.c. per i contratti commina non già la nullità per i negozi stipulati in deroga alle prescritte disposizioni, ma l’annullamento degli stessi.

La conseguenza di tale scelta di politica legislativa è che i contratti conclusi dai minori senza la rappresentanza dei genitori o del tutore e le prescritte autorizzazioni producono effetti giuridici fino a quanto non siano annullati (art. 1425 c.c.) su istanza degli stessi incapaci o di coloro che per essi sono legittimati all’azione di annullamento. Né, a tal fine, è necessaria la convalida del contratto, che serve soltanto ad assicurare la definitiva efficacia del negozio, paralizzando l’azione di annullamento eventualmente esercitata prima che si compia il termine di prescrizione quinquennale previsto dall’art. 1442 c.c.

Quanto sopra comporta dunque che il contratto non impugnato dal minore può rimanere inadempiuto da parte di costui. Trattandosi, peraltro, di un debitore inadempiente minore d’età e, quindi, normalmente privo di un patrimonio e di redditi propri sui quali far valere le pretese risarcitorie, il terzo creditore potrebbe restare insoddisfatto.

 

È legittimo, pertanto, chiedersi, se il terzo possa agire giudizialmente anche nei confronti dei genitori del minore, nell’ipotesi di inadempimento di quest’ultimo ed incapienza del suo patrimonio personale (si pensi, a titolo di esempio, al ragazzo di 15 o 16 anni che acquisti un motorino, magari usato, un capo di vestiario, un cellulare o un personal computer, magari versando un acconto, e non sia poi in grado di pagare il residuo prezzo).

 

Si è osservato al riguardo che nel nostro ordinamento non vi è una norma che consenta di addossare automaticamente al genitore l’obbligo di adempiere questo tipo di obbligazioni. Peraltro, sulla base di alcuni dati normativi potrebbe forse essere ricostruita una tale forma di responsabilità contrattuale dei genitori del minore inadempiente. In particolare, il fondamento di questa responsabilità potrebbe essere ravvisato nel disposto dell’art. 322 c.c.

Da tale articolo – che prevede la legittimazione anche dei genitori ad esercitare l’azione di annullamento del contratto posto in essere dal figlio minore – potrebbe inferirsi che per i genitori che non esercitino la detta azione né oppongano al terzo creditore l’eccezione di annullabilità, un’acquiescenza a tale rapporto obbligatorio e una conseguente loro corresponsabilità per l’inesatta esecuzione dello stesso. A fronte di un inadempimento del figlio minore e del mancato esercizio dell’azione di annullamento il creditore potrebbe allora far valere il proprio diritto al risarcimento dei danni, oltre che direttamente nei confronti del minore inadempiente, anche nei confronti dei genitori, che finirebbero così per rispondere per un fatto proprio e non altrui.

Tuttavia, si è obiettato che configurare una tale responsabilità dei genitori, pur tutelando e favorendo i rapporti commerciali e la posizione del terzo creditore, sembra porsi in contrasto con il fondamentale principio di salvaguardia degli interessi dei minori a cui è informato l’intero nostro ordinamento.

Si è rilevato infatti in proposito che la conclusione favorevole alla responsabilità solidale del genitore trascurerebbe di tenere conto del principio desumibile dal secondo comma dell’art. 1426 c.c., secondo il quale chi contrae con un soggetto senza accertarsi della sua età, e dunque della sua capacità di agire – non essendo sufficiente la semplice dichiarazione di essere maggiorenne per esonerare il terzo dall’onere di verificare la reale età dell’altro contraente – e della conseguente esistenza di una sufficiente garanzia patrimoniale, si assume il rischio del cattivo esito della contrattazione.

Ma a tali considerazioni si potrebbe però ulteriormente ribattere, rilevando che il comportamento del terzo, che ha contratto con il minore, è già adeguatamente sanzionato dalla presenza di un’invalidità di protezione, che può essere fatta valere, come tale, dal solo soggetto nell’interesse del quale il rimedio è stato previsto. Non sembra corretto, pertanto, sanzionare ulteriormente il terzo, addossandogli anche il rischio dell’inadempimento di un rapporto obbligatorio che il minore ed i suoi legali rappresentanti hanno deciso di consolidare, astenendosi dal proporre l’azione di annullamento, perché evidentemente, tale rapporto hanno ritenuto conveniente, peraltro arrogandosi il diritto di non adempierlo.

In altri termini, se non vi è dubbio che al minore e ai suoi legali rappresentanti competa il diritto di far venire meno il vinculum iuris, ciò non significa certo che essi siano esonerati dal rispettarlo, una volta che abbiano scelto la via di mantenerlo in vita, tanto più che l’eccezione di annullamento ben potrebbe essere sollevata anche oltre il quinquennio, nel caso venissero citati per l’adempimento (cfr. art. 1442, ult. cpv., c.c.): il mancato esperimento dell’azione o la mancata proposizione dell’eccezione confermano dunque che l’affare è ritenuto conveniente per il minore e pertanto non si vede per quali ragioni dovrebbe derogarsi al fondamentale principio per cui pacta sunt servanda.

 

In questo contesto varrebbe la pena chiedersi se, ferma restando la personale responsabilità del minore per il contratto dallo stesso stipulato e non impugnato, non possa trovare applicazione il principio espresso dagli artt. 2047 e 2048 c.c., intendendo i concetti di «danno» e di «illecito» contenuti nelle norme citate come riferiti non solo all’illecito aquiliano, ma anche a quello costituito dall’inadempimento di un rapporto obbligatorio.

Un’apertura verso un’interpretazione dell’art. 2048 c.c. che ritenga questa norma estensibile all’ipotesi del danno da illecito contrattuale compiuto dal minore potrebbe cogliersi in quella giurisprudenza che di tale articolo ha fatto uso per affermare la responsabilità del genitore del minorenne che aveva danneggiato un’autovettura presa a noleggio dal minore stesso: cfr. Cass., 3 luglio 1968, n. 2240, secondo cui «Colui che ha dato in locazione un’autovettura ad un minore, munito di patente, conoscendo la sua minore età, può agire a’ termini dell’art. 2048 c.c. nei confronti del di lui genitore, che non abbia prestato il proprio consenso al contratto, qualora l’autovettura sia rimasta danneggiata nell’uso fattone dal minore. Infatti non può ritenersi esente dalla responsabilità, prevista dall’art. 2048 cod. civ., il genitore per il solo fatto che il danno sia stato cagionato a seguito della volontaria consegna dell’autovettura, fatta dal danneggiato al minore in attuazione del contratto di locazione, giacché l’attività del minore, consistente nell’uso dell’altrui autoveicolo, rientra nella sfera del dovere di sorveglianza del genitore» (cfr. inoltre, nello stesso senso, Cass., 27 maggio 1975, n. 2139). E’ evidente che la regola in oggetto, dettata dalla Corte Suprema per l’inadempimento costituito dalla mancata riconsegna della cosa locata nello stato in cui si trovava all’inizio del rapporto, ben potrebbe valere per quell’altra forma di inadempimento rappresentata dal mancato pagamento del prezzo pattuito per un acquisto operato dal minore.

 

Conseguenza di tale premessa non sarebbe tanto l’estensione del rapporto obbligatorio sul lato passivo e in via solidale anche ai genitori, ma il riconoscimento dell’esistenza di una situazione di responsabilità per fatto altrui, che troverebbe il suo fondamento nelle norme citate e nell’inadempimento del minore. Ciò significa, in pratica, che il terzo non potrebbe convenire in giudizio, oltre al minore, anche i genitori, se non allegando l’inadempimento del figlio.

 

Non diversa da quella sin qui illustrata, nelle sue conseguenze rispetto ai genitori, è l’ipotesi in cui il minore abbia «con raggiri occultato la sua età», secondo quanto previsto dall’art. 1426 c.c.

 

 Qui, invero, il contratto non è annullabile ed al riguardo si è osservato che la condizione di buona fede del terzo contraente renderebbe legittima la sua richiesta di tutela.

Ancora una volta appare opportuno riferirsi ai principi ex artt. 2047 e 2048 c.c., da ritenersi, per le ragioni sopra illustrate, estensibili al danno da responsabilità contrattuale per inadempimento delle obbligazioni (in questo caso, validamente) contratte dal minore.

 

Passando ora all’esame del problema di una ipotetica responsabilità dei genitori per le obbligazioni assunte in proprio dai figli maggiorenni, ma non autosufficienti, vi è da dire che, in tali fattispecie, il contratto concluso è perfettamente valido e vincolante per i figli medesimi, ed estendere ai genitori questo tipo di obbligazioni appare, de iure condito, impossibile.

 

Come si è rilevato in dottrina, il principio di un’ipotetica responsabilità solidale (non prevista, come noto, da alcuna specifica disposizione) non può essere fatto discendere dall’obbligo di mantenimento imposto ai genitori, anche nei confronti dei figli già maggiorenni ma non ancora in grado di provvedere alle proprie esigenze, in quanto tale obbligo riguarda solo il dovere, da parte dei genitori, di fornire l’assistenza materiale necessaria per le normali esigenza di vita del figlio. Il contenuto di tale obbligo non può, dunque, essere dilatato fino al punto di comprendere anche eventuali inadempimenti contrattuali dei figli.

 

D’altro canto è più che chiaro che i principi sopra invocati, espressi dagli artt. 2047 e 2048 c.c., non possono in alcun modo venire qui in considerazione, avendo gli stessi tratto a persone incapaci e come tali essendo inestensibili ai maggiorenni capaci di intendere e di volere, avuto riguardo alla tassatività delle ipotesi di responsabilità per fatto altrui.

 

Per concludere si potrà poi ricordare che a ben diverse conclusioni potrà pervenirsi nel caso in cui dovesse accertarsi che il figlio ha agito quale rappresentante (se maggiorenne) o nuncius (se minorenne) dei genitori o di uno di essi.

In tal caso, infatti, è evidente che i genitori si troverebbero ad esser obbligati non già in via solidale con il figlio, ma quali esclusivi soggetti passivi del rapporto obbligatorio.

 

Legato a questo tema è poi quello dell’assenza o dell’eccesso di potere rappresentativo in capo al figlio agente.

In tal ultimo caso, il terzo creditore potrà avvalersi, ricorrendone tutti i presupposti (apparente esistenza di un potere di rappresentanza, comportamento colposo dell’apparente rappresentato nel determinare l’insorgere dell’apparenza, assenza di colpa del terzo nell’apprezzare il comportamento colposo dell’apparente rappresentato), del principio di tutela della apparenza di diritto ed agire, per ottenere il rispetto delle pattuizioni contrattuali, facendo valere, dunque, la responsabilità contrattuale dei genitori, ma non in quanto tali, bensì come soggetti «rappresentati» dall’agire del figlio, e quindi in forza delle disposizioni dettate in tema di rappresentanza (art. 1387‑1399 c.c.

 

 

6. Cenni al tema del risarcimento del danno (aquiliano) subito dal convivente per l’uccisione del partner.

 

Diverso da quelli sin qui trattati è il tema della configurabilità di un diritto al risarcimento del danno aquiliano subito dal convivente a seguito dell’uccisione del partner.

Inizialmente la giurisprudenza escludeva siffatta possibilità (cfr., ex multis, C 81/8209, D. e prat. ass. 82, 716; C.pen. sez. VI 82/159410),

 

Interessante il legame con il contratto, stabilito da Cass. Pen., 7 luglio 1992, in Giur. it., 1992, II, c. 659:

Sez. 1, Sentenza n. 9708 del 07/07/1992 Ud.  (dep. 08/10/1992 ) Rv. 191885

 

In base al principio del "neminem laedere", sancito nell’art. 2043 cod. civ., danno risarcibile è solo quello che si verifica per la lesione di un diritto. Pertanto, nel caso di morte di una persona, il soggetto che con essa conviveva ricevendone vantaggi o prestazioni, che chiami in giudizio il responsabile dell’evento mortale, deve dimostrare il suo diritto a quei vantaggi ed a quelle prestazioni della persona deceduta; diritto che non può discendere che da legge o da patto. Nessuna di tali ipotesi ricorre nel caso di convivente "more uxorio", che conseguentemente è carente di "legitimatio ad causam" per risarcimento dei danni cagionati dalla uccisione della persona con cui conviveva. (Fattispecie in tema di omicidio volontario).

 

 

Successivamente è stato riconosciuto il risarcimento prima del danno morale e poi del danno patrimoniale (nei limiti in cui quest’ultimo sia provato) in caso di morte del convivente more uxorio (Trib. Verona 3-12-1980, Resp. civ. prev. 81, 74; C.pen. sez. I 94/199108, R. pen. 95, 921).

 

La più recente giurisprudenza ritiene che «il diritto al risarcimento da fatto illecito concretatosi in un evento mortale va riconosciuto – con riguardo sia al danno morale, sia a quello patrimoniale, che presuppone, peraltro, la prova di uno stabile contributo economico apportato, in vita, dal defunto al danneggiato – anche al convivente more uxorio del defunto stesso, quando risulti concretamente dimostrata siffatta relazione caratterizzata da tendenziale stabilità e da mutua assistenza morale e materiale» (C 94/2988, Giust. civ. 94, I, 1849 e G. it. 95, 1366).

Sez. 3, Sentenza n. 2988 del 28/03/1994 (Rv. 485945)

 

Il diritto al risarcimento da fatto illecito concretatosi in un evento mortale va riconosciuto - con riguardo sia al danno morale, sia a quello patrimoniale, che presuppone, peraltro, la prova di uno stabile contributo economico apportato, in vita, dal defunto al danneggiato - anche al convivente "more uxorio" del defunto stesso, quando risulti concretamente dimostrata siffatta relazione caratterizzata da tendenziale stabilità e da mutua assistenza morale e materiale, al qual fine non sono sufficienti nè le dichiarazioni rese dagli interessati a fine di formazione di un atto di notorietà, nè le indicazioni dai medesimi fornite alla pubblica Amministrazione per fini anagrafici.

 

 

Celebre obiter, peraltro del tutto irrilevante nel caso di specie:

Sez. 3, Sentenza n. 15760 del 12/07/2006 (Rv. 591705)

In motivazione:

IL DANNO DA MORTE DEI CONGIUNTI (CD DANNO PARENTALE) come danno morale interessa la lesione (divenendo perdita non patrimoniale) di due beni della vita, inscindibilmente collegati: a) il bene della integrità familiare, con riferimento alla vita quotidiana della vittima con i suoi familiari, in relazione agli artt. 2, 3, 29, 30, 31, 36 Cost. (cfr: puntuale il riferimento in Corte Cost. 1985 n. 132 cit.); b) il bene della solidarietà familiare, sia in relazione alla vita matrimoniale che in relazione al rapporto parentale tra genitori e figli e tra parenti prossimi conviventi, specie quando gli anziani genitori sono assistiti dai figli, e ciò in relazione agli artt. 2, 3, 29 e 30 Cost..

L’attuale movimento per la estensione della tutela civile ai PACS (patti civili di solidarietà ovvero stabili convivenze di fatto) conduce appunto alla estensione della solidarietà umana a situazioni di vita in comune, e dunque prima o poi anche i "nuovi parenti" vittime di rimbalzo lamenteranno la perdita del proprio caro. Nel caso di specie il danno parentale interessa una societas stabilizzata con vincolo matrimoniale e discendenza legittima, onde i referenti costituzionali sono certi.

Questa ricostruzione, costituzionalmente orientata e testata, consente di capire il principio informatore della tutela risarcitoria integrale di questa figura di danno morale, principio che informa regole e criteri sottostanti.

 

Commento:

L’occasione per fare esplicito riferimento ai Pacs è stata offerta alla terza sezione civile di piazza Cavour dal ricorso dei genitori di un minorenne, Giovanni L., che nel luglio dell’89 mentre si trovava a bordo di un pedalò a Taormina veniva investito e scaraventato in mare da un idrogetto condotto da un altro minore. In seguito all’urto Giovanni moriva all’ospedale di Messina. Di qui la richiesta alla magistratura dei genitori e del fratello convivente di essere risarciti per i danni morali conseguenti alla morte del congiunto. E difatti, proprio in un passaggio della sentenza 15760/06 – depositata il 12 luglio e qui leggibile tra gli allegati – relativo al corretto riconoscimento di questo tipo di danno, detto anche «parentale», ai familiari della vittima, è inserito il riferimento alla coppie di fatto. Gli “ermellini” hanno sottolineato, con una sorta di chiosa che ha il sapore di una profezia, che «l’attuale movimento per l’estensione della tutela civile ai Pacs (patti civili di solidarietà ovvero stabili convivenze di fatto) conduce appunto alla estensione della solidarietà umana a situazioni di vita in comune». Subito dopo, però, la terza sezione civile del “Palazzaccio” nel rinviare gli atti alla Corte d’appello di Reggio Calabria «per una corretta valutazione del danno parentale morale diretto» ha chiarito che nel caso in questione «il danno parentale interessa un societas stabilizzata con vincolo matrimoniale e discendenza legittima, onde i referenti costituzionali sono certi». 

 

Sul tema della necessaria stabilità e “longevità” della convivenza:

Sez. 3, Sentenza n. 8976 del 29/04/2005 (Rv. 581991)

 

In relazione alla responsabilità civile dalla circolazione di veicoli, pur in assenza di una normativa specifica, deve riconoscersi rilevanza sociale, etica e giuridica alla convivenza; pertanto, chi chieda il risarcimento del danno derivatogli dalla lesione materiale, cagionata alla persona con la quale convive deve dimostrare l’esistenza e la portata dell’equilibrio affettivo - patrimoniale instaurato con la medesima e perciò l’esistenza e la durata di una comunanza di vita e di affetti con vicendevole assistenza materiale e morale, non essendo a tal fine sufficiente la prova di una relazione amorosa, per quanto caratterizzata da serietà di impegno e regolarità di frequentazione nel tempo, perché soltanto la prova della assimilabilità della convivenza di fatto a quella stabilita dal legislatore per i coniugi può legittimare la richiesta di analoga tutela nei confronti dei terzi. Tale prova può essere fornita con qualsiasi mezzo, mentre il certificato anagrafico può tutt’al più provare la coabitazione, insufficiente a dimostrare la condivisione di pesi e oneri di assistenza personale e di contribuzione e collaborazione domestica analoga a quella matrimoniale.

 

 

Convivenza incestuosa:

La sorella che intrattiene una relazione incestuosa con il defunto in un sinistro stradale va risarcita quale convivente more uxorio

Mauro Di Marzio, Magistrato

1. La vicenda. Una autovettura compie un salto di carreggiata e si scontra con un camion. Uno dei passeggeri muore. Al fine di ottenere il risarcimento del danno patrimoniale e non patrimoniale subito, otto tra fratelli e sorelle, nonché una sedicente figlia del defunto, agiscono in giudizio nei confronti dell’assicuratore e del conducente del veicolo che trasportava il loro congiunto. Su questa vicenda tristemente consueta si innesta una insolita complicazione giuridica: quella dell’incesto. Il passeggero perito nell’incidente, infatti, conviveva more uxorio con una delle sorelle attrici ed era altresì — almeno in tesi — padre della figlia, anch’essa attrice, nata dalla relazione incestuosa.

Il giudice, dunque, nello scrutinare la questione, si trova a doversi cimentare, tra gli altri, con due quesiti: a) se lo status di figlia non riconoscibile possa essere accertato incidentalmente ai fini del giudizio risarcitorio; b) se la relazione incestuosa tra il defunto e la sorella convivente more uxorio debba essere considerata — ed entro quali limiti — ai fini della liquidazione, in particolare, del danno non patrimoniale.

2. L’inammissibilità della domanda della figlia incestuosa. Il tribunale veneziano ha anzitutto dichiarato inammissibile, per una ragione procedurale, la domanda della (ipotetica) figlia incestuosa.

In proposito occorre ricordare che, nell’assetto codicistico rimasto vigente fino alla fine del 2002, i figli incestuosi — usiamo questa espressione perché accolta dal legislatore, quantunque sia evidente che incestuosi non siano in tal caso i figli, nei cui confronti quell’appellativo suona come un ingiusto marchio d’infamia — non erano né riconoscibili dai genitori, ex art. 251, 1° co., c.c., né titolari dell’azione per la dichiarazione giudiziale di paternità e maternità di cui all’art. 269 c.c., consentita soltanto «nei casi in cui il riconoscimento è ammesso». In tale contesto, dunque, l’art. 278, 1° co., c.c. stabiliva che: «Le indagini sulla paternità o sulla maternità non sono ammesse nei casi in cui, a norma dell’art. 251, il riconoscimento dei figli incestuosi è vietato». Tale ultima norma, così marcatamente penalizzate per gli incolpevoli figli, è però caduta sotto la — diremmo scontata — dichiarazione di illegittimità costituzionale della medesima laddove, appunto, escludeva la dichiarazione giudiziale della paternità e della maternità naturali e le relative indagini, nei casi in cui il riconoscimento dei figli incestuosi era vietato (Corte cost. 28 novembre 2002, n. 494, , 2002, 44, 26; Foro it., 2004, I, 1053; Dir. fam. pers., 2003, 622; Giust. civ., 2003, I, 20; Vita not., 2002, 1353; Giur. it., 2003, 1306, I, 1, 868; Familia, 2003, 841; Nuova giur. civ. comm., 2003, I, 543).

A seguito dell’intervento della Consulta, dunque, i figli incestuosi permangono non riconoscibili, ma possono ambire ad acquistare lo status filiationis attraverso l’azione per la dichiarazione giudiziale di paternità e maternità, la quale — ricordiamo incidentalmente — non richiede più il previo giudizio di ammissibilità dell’azione di cui all’art. 274 c.c., dichiarato anch’esso incostituzionale (Corte cost. 10 febbraio 2006, n.50, in questa rivista).

Nel caso esaminato dalla pronuncia in commento, tuttavia, la figlia incestuosa, nel domandare il risarcimento del danno patito per la morte del padre, aveva chiesto accertarsi solo incidentalmente la propria qualità di figlia del defunto. Ed invece, secondo il tribunale di Venezia, l’accertamento di status non può che essere effettuato in via principale, con autorità di cosa giudicata: di qui l’inammissibilità della domanda risarcitoria.

Per la verità, la S.C. ha talora ritenuto ammissibile l’accertamento incidenter tantum della filiazione naturale, indipendentemente dal riconoscimento o dall’attribuzione di uno status personale (Cass. 24 gennaio 1986, n. 467, Foro it., 1987, I, 542). E, tuttavia, siffatta soluzione è stata ritenuta conforme a legge con riguardo alle sole fattispecie disciplinate dall’art. 580 c.c. (Diritti dei figli naturali non riconoscibili) e dall’art. 594 c.c. (Assegno ai figli naturali non riconoscibili). L’ammissibilità dell’accertamento incidenter tantum della filiazione naturale, in altri termini, è stata riconosciuta in favore di coloro — i figli incestuosi, appunto — che si trovassero nell’impossibilità assoluta, cioè originaria, di proporre l’azione per la dichiarazione giudiziale di paternità (Cass. 28 agosto 1999, n. 9065, Vita not., 1999, 1423). Ma, una volta che il giudice delle leggi ha fatto cadere l’ostacolo all’esercizio della menzionata azione da parte dei figli incestuosi, non v’è più ragione di consentire ai medesimi il conseguimento di un accertamento soltanto incidentale del loro status filiationis.

Sicché anche nei loro confronti ha da valere la regola generale applicata dal tribunale.

3. Il risarcimento riconosciuto alla sorella/convivente more uxorio. Provengono talora dalla giurisprudenza apparenti novità di contenuto pressoché soltanto declamatorio, ma in realtà tutt’affatto evanescenti. È il caso, recentemente, della pronuncia della S.C., che ha ricevuto vasta eco sulla stampa quotidiana e nei notiziari televisivi, la quale, anticipando l’intervento del legislatore — in vero assai più cauto —, avrebbe riconosciuto il rilievo giuridico delle unioni di fatto che, un domani, potrebbero essere disciplinate dai Pacs (Cass. 12 luglio 2006, n.15760, in questa rivista). In realtà, la sentenza — deludendo le aspettative provocate dalle immediate valutazioni giornalistiche — si è cimentata in un assai generico obiter dictum, che, sul piano dell’esercizio della funzione nomofilattica, lascia il tempo che trova.

Profondamente diverso il caso della sentenza veneziana. Anche in questo caso, nei giorni scorsi, ne hanno parlato i giornali: ma a ragione, perché la notizia c’è, ed è rilevante. Ed essa consiste nella liquidazione all’attrice di una somma calcolata secondo i parametri predisposti non per i fratelli, ma per i conviventi more uxorio.

Che fratello e sorella — il defunto ed una tra gli altri attori — convivessero more uxorio è dato di fatto emergente dalla sentenza con il carattere dell’evidenza. La stessa società assicuratrice del veicolo danneggiante non la nega, ma sostiene che la tutela delle unioni di fatto non potrebbe estendersi fino a ricomprendere unioni le quali non possano trasformarsi in unioni di diritto. Viceversa, secondo il tribunale, la menzionata tesi sarebbe frutto di «una lettura anacronistica legata ad una visione eticizzante dello Stato e dell’ordinamento». Ecco, dunque, l’argomento posto dalla sentenza a fondamento della soluzione accolta: «Una riconsiderazione del sistema giuridico basato sulla piena tutela dei diritti dell’individuo sia come singolo sia nelle formazioni sociali dove si sviluppa la sua personalità, prescindendo dalla corrispondenza ad un modello di tipo naturale, permette di tenere nel debito conto anche la posizione dell’attrice, la quale con la perdita del defunto ha visto venire meno quell’appoggio morale e materiale normalmente assicurato all’interno di una coppia. È facile rilevare che se l’art. 29 Cost. riconosce i diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio, non per questo i diritti di quanti abbiano deciso di muoversi all’interno di un contesto affatto peculiare, penalmente sanzionato se dal fatto deriva pubblico scandalo, debbano essere relegati nel campo dell’indifferenza giuridica».

Insomma, secondo il tribunale — così sembrerebbe potersi riassumere il principio — la relazione di convivenza more uxorio, attenendo alla realizzazione personale del soggetto, è comunque dotata di protezione costituzionale ai sensi dell’art. 2 Cost., il quale riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità. Nulla rileva, perciò, che l’art. 29 Cost. riconosca i diritti della famiglia esclusivamente intesa come «società naturale fondata sul matrimonio», dal momento che questa disposizione non può svolgere un effetto limitativo nei confronti di chi voglia realizzarsi al di fuori della famiglia tradizionale.

Anche in questo caso, in definitiva, come ci ricorda la pronuncia, «il convenuto deve prendere l’attore esattamente come lo trova»: principio, questo, mutuato dall’ambiente di common law, ove è espresso nella formulatake your plaintiff as you find him.

Ora, immaginiamo che la soluzione veneziana fosse stata applicata in un caso di unione di fatto omosessuale. Il tribunale, in tal caso, avrebbe svolto un’operazione certo coraggiosa — possiamo in buona sostanza dire che, se una parte delle forze politiche patrocinano l’introduzione dei Pacs, è anche perché ritengono che in mancanza di essi la relazione omosessuale non potrebbe ricevere tutela giuridica —, ma si sarebbe pur sempre cimentato con una forma di unione della quale, in positivo, il legislatore nulla dice. Ed allora, sarebbe stato più agevole sostenere, in buona sostanza, che ognuno può realizzarsi nelle unioni che crede. La stessa soluzione, occorre però chiedersi, può con certezza reggere in un caso in cui l’unione considerata riceve dall’ordinamento un giudizio di fiero disvalore — tutt’oggi, dal punto di vista delle persone che ad essa danno vita e non, ovviamente da quello degli incolpevoli figli — tanto che è in proposito prevista, sia pure in concorso del presupposto del pubblico scandalo, il non certo lieve reato di incesto?

Tribunale Venezia, Sentenza, Sez. III, 31/07/2006

Il Quotidiano Giuridico - Quotidiano di informazione e approfondimento giuridico N. 9/10/2006

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