GLI ACCORDI
STIPULATI PRIMA DELLE NOZZE IN VISTA DEL DIVORZIO
ALLA
LUCE
DELLE
EVOLUZIONI NORMATIVE E GIURISPRUDENZIALI DEGLI ULTIMI ANNI
Sommario: 1.
Qualche breve considerazione storica e comparata. – 2.
La lezione del diritto europeo. – 3. La tesi italiana della nullità, con particolare riguardo
agli accordi preventivi sulle conseguenze patrimoniali del divorzio. –
4.
Contraddizioni e contorsionismi nella giurisprudenza più recente. Le
decisioni di legittimità nei primi anni 2000 e la « svolta » del
dicembre 2012. – 5. La crisi coniugale come condizione
del contratto prematrimoniale. – 6. La crisi coniugale
in bilico tra causa e condizione del contratto. Gli sviluppi
giurisprudenziali successivi al 2012. – 7. La piena
validità delle intese preventive sulla crisi coniugale, anche nell’odierno
diritto italiano. – 8. Irrilevanza dell’art. 160 c.c.
Ulteriori argomenti in favore della tesi dell’ammissibilità. – 9. Evoluzioni normative recenti e relativi effetti sui
contratti prematrimoniali. – 10. Possibili conseguenze
degli ultimi orientamenti giurisprudenziali in tema di assegno di divorzio. |
1. Qualche
breve considerazione storica e comparata.
L’idea di collegare i rapporti patrimoniali tra due
soggetti che stanno per convolare a giuste nozze al « buon esito » del rapporto
che si va così ad intessere è concezione da sempre legata all’istituto
matrimoniale. Proprio lo studio storico e comparato delle pattuizioni in vista
della celebrazione delle nozze evidenzia il frequente e diffuso riconoscimento
della validità di accordi diretti, per l’eventualità del fallimento del
rapporto di coniugio, a riportare i contraenti, per così dire, nella stessa posizione
di partenza in cui si sarebbero trovati se mai si fossero impegnati in
quell’unione rivelatasi poi così male assortita [1].
A parte le intese contenute nei pacta nuptialia, di cui fanno fede le fonti romane, che in un
numero incredibilmente vasto di casi contemplavano espressamente il divortium quale causa di restituzione
dell’apporto dotale, provvedendo a fissare le concrete modalità dell’attuazione
di tale restitutio [2], va ricordato che pure in epoche nelle quali l’unica
causa di scioglimento del vincolo matrimoniale era rappresentata dalla morte (e
in particolare nell’epoca del diritto intermedio e del diritto comune), i notai
non disdegnavano di prendere in considerazione nei contratti di matrimonio
l’ipotesi della separatio a mensa et
thoro, proprio quale causa di ristabilimento delle condizioni patrimoniali
di partenza dell’una e dell’altra parte [3].
In una prospettiva comparata, è sin troppo noto il
successo che negli Stati Uniti riscuotono ormai da svariati anni i prenuptial agreements in contemplation of
divorce, al termine di un’evoluzione storica [4] sicuramente non esente da contraddizioni, nella quale
ha giocato un ruolo determinante il passaggio dal sistema dello scioglimento
del matrimonio basato fondamentalmente sulla colpa, alla regola del no fault divorce. Gli echi di quella
giurisprudenza e di quell’atteggiamento, anche culturale, nei confronti dei
vantaggi connessi alla definizione in via preventiva di una possibile crisi
coniugale [5] sono giunti – in questo mondo globalizzato – persino
nel nostro per molti versi arretrato Paese, anche se da noi ciò ha fatto premio
è stata piuttosto l’attenzione legata alle vicende di personaggi dello
spettacolo o comunque notori. Oltre Oceano, la materia è oggi retta per lo più
dall’Uniform Premarital Agreement Act
(UPAA) del 1983, adottato da 26 degli
States. Il punto centrale di tale
normativa è costituito dal concetto di unconscionability.
Il termine unconscionability ed il
relativo aggettivo unconscionable
corrispondono in buona sostanza al concetto di iniquità, che nel sistema dell’UPAA, costituisce il principale limite
all’efficacia degli accordi prematrimoniali.
Secondo l’UPAA
un prenuptial agreement non è
eseguibile quando determini una situazione di iniquità, da valutarsi sia con
riferimento al momento della stipulazione dell’accordo, che a quello della sua
esecuzione. Secondo un’opinione diffusa in dottrina, il giudice dovrebbe
limitarsi a dichiarare l’unconscionability
solo in casi di palese iniquità, perché altrimenti si darebbe corso ad una
concezione paternalistica del diritto, che è da ritenersi superata. L’UPAA pone inoltre a carico delle parti
di un prenuptial agreement un obbligo
di « fair e reasonable disclosure », cioè una dichiarazione fedele circa i beni
materiali e finanziari di proprietà, che se disatteso, può determinare nella
parte sfavorita, il diritto di chiedere che l’accordo venga dichiarato «
unenforceable », previa dimostrazione dell’altrui omissione. A questi requisiti
di carattere sostanziale, cui è subordinata la validità del prenuptial agreement, si aggiungono poi
quelli riguardanti la formazione del consenso: oltre alla violazione
dell’obbligo di fair e reasonable disclosure il sistema americano prevede quale causa di nullità
dell’accordo il ricorso all’inganno e alla violenza nella stipulazione dello
stesso, nonché la mancata possibilità di consultare un legale prima della
prestazione del consenso [6].
Al di là dei confini degli States, analoga evoluzione in senso favorevole alla validità delle
intese in discorso s’è manifestata in svariati altri ordinamenti di common law. Così in Gran Bretagna – ove
peraltro già nei primi anni del XIX secolo una celebre monografia dedicata ai
rapporti tra coniugi [7] non esitava a dichiarare sustainable e suscettibile di riconoscimento in our courts of justice ogni « agreement entered into in
contemplation of a future separation » – sembrano ormai definitivamente
superate le difficoltà emerse nel corso del XX secolo, collegate all’idea che
tali contratti, in quanto diretti in qualche modo a favorire il divorzio,
fossero « against public policy and void » [8], anche alla luce della
considerazione secondo cui i giudici d’oltre Manica sembrano oggi assai più
restii d’un tempo a procedere ad una allocazione e divisione del patrimonio
accumulato durante la convivenza o alla previsione di assegni o attribuzioni
patrimoniali d’altro genere in presenza di precisi accordi, i quali vengono
intesi come « evidence of the parties
intentions », di cui la corte non può non tenere conto [9].
Ma la rivoluzione copernicana, in terra d’Albione, si
è operata con il caso Radmacher v Granatino, in relazione al quale, nel 2009,
Per quanto attiene invece all’Australia, vi è da notare
che il tema degli accordi preventivi è affrontato e positivamente risolto dalla
legislazione da molto tempo con riguardo alla posizione dei conviventi more uxorio. Già nel 1984 il De Facto
Relationships Act del Nuovo Galles del Sud aveva stabilito (art. 44) che un
accordo di convivenza potesse essere « made in contemplation of the termination
of a domestic relationship ». Proprio tale disposizione (ora inserita nel Property
(Relationships) Act) ha, in tempi meno remoti, contribuito a determinare
l’introduzione per via legislativa dell’ammissibilità della stipula di prenuptial
agreements, conclusi anche eventualmente in contemplation of divorce,
per effetto della riforma di cui al Family
Law Amendment Act
Non potrà poi tacersi che un atteggiamento favorevole
verso la validità di intese preventive sulle conseguenze del divorzio è
riscontrabile ormai pure in numerosi sistemi dell’Europa continentale. Il caso
più significativo è rappresentato dalla Germania, ove dottrina e giurisprudenza, sulla scorta di una radicata tradizione
storica [13], da sempre avallano la
costante pratica dei coniugi (o meglio,
dei notai) di predeterminare, in sede di stipula degli Eheverträge, gran parte degli effetti di un possibile divorzio tra
le parti, vuoi dettando i criteri per
la determinazione del nachehelicher
Unterhalt (vale a dire dell’assegno divorzile) [14], vuoi rinunziandovi in toto, vuoi ancora escludendo ogni forma
di Versorgungsausgleich (cioè della liquidazione delle aspettative pensionistiche
conseguente allo scioglimento del regime legale della Zugewinngemeinschaft). I citati accordi possono altresì escludere l’eventuale ricorso delle parti a quella Abänderungsklage che, ai sensi del § 323
ZPO, consentirebbe (conformemente a
quanto da noi previsto dagli artt. 710 c.p.c. o dall’art.
Interessante risulta poi anche il raffronto con altre
esperienze geograficamente e culturalmente piuttosto vicine alla nostra.
Si pensi, ad esempio, alla legislazione catalana, la
quale, dopo aver espressamente consentito, sin dal 1998, intese preventive, in
contemplazione di una possibile rottura del rapporto, nel contesto degli
accordi tra conviventi, sia eterosessuali che omosessuali [16], è passata ad ammettere, nel relativo Codi de familia (art. 15), del medesimo
1998, che pure nei capítols matrimonials,
« hom pot determinar el règim econòmic matrimonial, convenir heretaments, fer
donacions i establir les estipulacions i els pactes lícits que es considerin
convenients, àdhuc en previsió d’una ruptura matrimonial » [17], per poi pervenire ad un’articolata definizione di
siffatto tipo di intese nel Codi Civil de
Catalunya del 2008 [18].
Si noti infine che, come già posto in luce in altra
sede [19], alcuni segnali d’apertura in questo senso si vanno
profilando da tempo anche in un sistema che, come quello francese, sino ad oggi
appariva piuttosto chiuso alla possibilità di predeterminare tramite accordi
conclusi in via preventiva an e quantum di prestazioni postdivorzili,
stante anche il dato costituito dall’art. 232 del Code Civil, che consente al giudice di negare l’omologazione
dell’accordo di divorzio nel caso in cui esso non salvaguardi in maniera
sufficiente gli interessi « di uno dei coniugi » [20].
Venendo al significato che i sopra evidenziati
elementi comparativi potrebbero assumere per l’esperienza italiana, va tenuto
conto del fatto che, se si eccettua la citata disposizione catalana, nessuno degli
ordinamenti continentali, nei quali si ammette la validità di intese preventive
sulle conseguenze della crisi coniugale, contiene disposizioni ad hoc, mentre la conclusione favorevole
viene desunta, in buona sostanza, da regole non molto dissimili dalle nostre,
con particolare riguardo al principio di libertà negoziale [21]. Il tutto, del resto, in maniera assolutamente
conforme ad una delle grandi tendenze del moderno diritto di famiglia europeo,
impostato su di un concetto di « dejudicialization of the divorce », vale a
dire sull’idea di un « divorce based on the parties’ autonomy, on the principle
of the best interest of a child, and the principle of assistance to the
spouses/families in solving their conflicts and achieving the (ancillary)
agreements that will balance the interests of all family members » [22].
2. La
lezione del diritto europeo.
Conchiudendo questa panoramica introduttiva non potrà
farsi a meno di notare come l’ « impatto » dei nostri principi con accordi del
genere di quelli qui in esame è comunque destinato ad aumentare, in
considerazione, da un lato, dell’incremento dei matrimoni con cittadini
stranieri (o, in ogni caso, delle unioni caratterizzate dalla presenza di un
elemento di estraneità), nonché, dall’altro, del principio, già introdotto
dall’art.
A quanto sopra s’aggiunga poi ancora che il
Regolamento in tema di legge applicabile alle cause transnazionali di
separazione e divorzio [26] prevede l’attribuzione di un ruolo senza precedenti
all’accordo delle parti. Un accordo, questo, la cui limitazione temporale viene
individuata « al più tardi al momento in cui è adita l’autorità giurisdizionale
» [27]. Ora, proprio la mancata fissazione di un dies a quo per il raggiungimento di
siffatta intesa autorizza a ritenere che tali accordi possano essere stipulati
già al momento della celebrazione delle nozze [28]. Da ciò sembra derivare un’ulteriore conferma
dell’ammissibilità dei contratti prematrimoniali, se non addirittura un
incoraggiamento alla conclusione degli stessi [29].
Ma non basta ancora. Il Regolamento (UE) 2016/1104 del
24 giugno 2016 che attua la cooperazione rafforzata nel settore della
competenza, della legge applicabile, del riconoscimento e dell’esecuzione delle
decisioni in materia di effetti patrimoniali delle unioni registrate [30], pur riferibile a situazioni diverse da quelle
matrimoniali, ma certamente ascrivibili alla galassia familiare, richiama più
volte gli accordi « tra futuri partner
», così manifestando chiaramente un favore verso la pattuizione preventiva
delle conseguenze patrimoniali dell’eventuale rottura dell’unione [31].
La predeterminazione del diritto applicabile sulla
base di un’intesa anteriore, anche di molto, al momento della controversia
appare un dato ormai costante nella normativa dell’U.E. e, più in generale,
transnazionale. Oltre ai casi già citati della legge applicabile alla
separazione e al divorzio, nonché della scelta della legge applicabile al
regime patrimoniale, potrà infatti farsi menzione dell’art. 8 del protocollo
dell’Aia del 23 novembre 2007, relativo alla legge applicabile alle
obbligazioni alimentari, a sua volta richiamato dall’art. 15 del Regolamento
U.E. n. 4/2009 sulle obbligazioni alimentari. Secondo quest’ultimo principio,
le parti possono designare di comune accordo la legge applicabile al loro
rapporto mediante un’intesa che può essere conclusa, testualmente, « at any
time ». E in proposito sarà appena il caso di ricordare che tra tali
obbligazioni ricadono anche le prestazioni assistenziali postmatrimoniali in
sede di separazione e divorzio [32].
Proprio con riguardo all’atto normativo eurounitario
del 2009 sulle obbligazioni alimentari, dovrà ancora menzionarsi il fatto che
qualsiasi contratto prematrimoniale in vista della crisi coniugale in merito
alla determinazione o all’esclusione delle prestazioni di mantenimento,
stipulato in un Paese che ne ammetta la conclusione, beneficia del trattamento
previsto dall’art. 48, con la conseguenza che, se contenuto in un documento
definibile come « atto pubblico » ai sensi dell’art. 2, n. 3, è riconosciuto in ogni altro Stato membro ed
ha la stessa esecutività delle decisioni ai sensi del capo IV del citato
Regolamento.
La nostra giurisprudenza ha
avuto modo di esprimersi svariate volte sulla validità di accordi preventivi in
vista di un’eventuale crisi coniugale, anche se per lo più con riguardo ad
intese concluse in sede di separazione consensuale.
Ponendo mente, invece, alla
fattispecie « americana » dell’intesa conclusa all’atto della celebrazione
delle nozze, va considerata una pronunzia di legittimità, che, già nel lontano,
1984, ebbe ad affermare la compatibilità con l’ordine pubblico internazionale, ex art. 31 prel. (cfr. ora art.
La relativa massima recita
quanto segue: « L’accordo, rivolto a
regolamentare, in previsione di futuro divorzio, i rapporti patrimoniali fra
coniugi, che sia stato stipulato fra cittadini stranieri (nella specie,
statunitensi) sposati all’estero e residenti in Italia, e che risulti valido
secondo la legge nazionale dei medesimi (applicabile ai sensi degli artt. 19 e
20 delle disposizioni sulla legge in generale), è operante in Italia, senza
necessità di omologazione o recepimento delle sue clausole in un provvedimento
giurisdizionale, tenuto conto che l’ordine pubblico, posto dall’art. 31 delle
citate disposizioni come limite all’efficacia delle convenzioni fra stranieri, riguarda
l’ordine pubblico cosiddetto internazionale, e che in tale nozione non può
essere incluso il principio dell’ordinamento italiano, circa l’invalidità di un
accordo di tipo preventivo fra i coniugi sui rapporti patrimoniali successivi
al divorzio, il quale attiene all’ordine pubblico interno e trova conseguente
applicazione solo per il matrimonio celebrato secondo l’ordinamento italiano e
fra cittadini italiani » [33].
Come si è già rimarcato, la
giurisprudenza italiana ha invece avuto più volte occasione di pronunziarsi
circa la validità delle intese che, in sede di separazione consensuale, le
parti raggiungono sull’assetto patrimoniale da dare ad un eventuale (ma, a
questo punto, probabile) futuro divorzio. Anche in questo caso – come per
quello del carattere disponibile o meno del contributo al mantenimento del
coniuge separato e dell’assegno di divorzio – si assiste ad una significativa
evoluzione del pensiero dei giudici di legittimità, da concezioni più «
liberiste » (o, quanto meno, più « possibiliste ») a posizioni di assai più
rigida chiusura. Invero, dopo una serie di aperture nella giurisprudenza degli
anni Settanta dello scorso secolo [34], a partire da una decisione
del 1981
La prima sentenza di tale «
nuovo corso », destinato, pur se tra alterne vicende, a durare sino ad oggi,
concerne il caso di un accordo che prevedeva il diritto per il marito separato
di mantenere fermo per un certo periodo l’ammontare dell’assegno dovuto alla
moglie per il mantenimento di quest’ultima e dei figli, a prescindere da un
eventuale divorzio. Qui
Quattro anni più tardi,
pronunziandosi su una rinunzia alla possibilità di chiedere la revisione
dell’assegno di divorzio, contenuta nell’atto di transazione stipulato tra i
coniugi separati,
I precedenti appena
illustrati trovano ulteriore sviluppo nel corso dei primi anni Novanta dello scorso
secolo, durante i quali si ribadisce la nullità, per illiceità della causa,
dell’accordo tramite il quale i coniugi, in sede di separazione consensuale,
stabiliscono, per il periodo successivo al divorzio, a favore dell’uno il
diritto personale di godimento della casa di proprietà dell’altro [37], o escludono
la facoltà di chiedere la revisione dell’assegno di mantenimento, qualora
sopravvengano giustificati motivi [38]. Ancora, vengono dichiarati
invalidi quegli accordi preventivi nei quali si prevede, sempre in caso di
divorzio, la concessione in godimento alla moglie di beni mobili ed immobili
del marito [39], ovvero la corresponsione di emolumenti ulteriori
rispetto a quelli giustificati da bisogni alimentari [40], oppure viene fissata in
anticipo la spettanza e l’entità dell’assegno di divorzio [41], o, infine, viene decisa la
vendita di un immobile che le parti ritengono in comproprietà, con conseguente
divisione del ricavato [42]. L’indirizzo
più rigoroso continua quindi nel corso degli anni successivi, definitivamente
consolidandosi con altre pronunce ispirate ai medesimi principi [43].
4. Contraddizioni e contorsionismi nella
giurisprudenza più recente. Le decisioni di legittimità nei primi anni 2000 e
la « svolta » del dicembre 2012.
Va però detto, a questo punto, che, a partire
dall’ingresso nel terzo millennio, la nostra giurisprudenza inizia a registrare
alcune decisioni in controtendenza.
Il primo caso fu quello, assai pubblicizzato a suo
tempo dai media (e non a caso
ricordato da diverse sentenze successive) di una decisione dell’ormai lontano
2000 [44], la quale, pur riaffermando il tradizionale principio
della nullità delle intese concluse in sede di separazione, con valore inteso
dalle parti come vincolante anche per il divorzio, rigettò la domanda di nullità
di un accordo preventivo sull’ammontare dell’assegno di divorzio, sulla base
del pretesto che l’invalidità era stata invocata nella specie non dal coniuge
avente diritto all’assegno, bensì dall’altro, che di tale assegno avrebbe
potuto essere onerato.
Il risultato paradossale di siffatta operazione
ermeneutica fu quello di trasformare – al di fuori di ogni previsione di legge
– la nullità per violazione di regole d’ordine pubblico in una sorta di nullità
relativa, la quale potrebbe essere fatta valere soltanto dal coniuge che
avrebbe diritto all’assegno, con buona pace di quanto disposto dall’art. 1421
c.c. E’ del resto innegabile che, se la causa è illecita, la nullità colpisce
l’intero atto; quest’ultimo non può essere lecito nei confronti di una parte e
illecito nei riguardi dell’altra, al punto che, secondo taluno, la sentenza si
sarebbe posta addirittura in violazione dell’art. 3 Cost., poiché avrebbe
riservato un trattamento differenziato a ciascuno dei coniugi.
Il secondo caso, assai meno noto, ma certo non meno
paradossale, fu quello in cui, in quel medesimo anno,
All’antologia di cui sopra potrà aggiungersi ancora
una decisione di legittimità del 2012, da cui emerge che
Un significativo e consapevole distacco
rispetto all’impostazione tradizionale va poi registrato, in seno alla
giurisprudenza di legittimità, a partire da una decisione del dicembre 2012
(Cass., 21 dicembre 2012, n.
Sempre
secondo tale decisum, quale
conseguenza di tali premesse, « L’accordo stipulato prima delle nozze tra i
futuri coniugi, in forza del quale si prevede che la moglie cederà al marito un
immobile di sua proprietà, quale indennizzo delle spese sostenute dallo stesso
per la ristrutturazione di altro immobile, pure di sua proprietà, da adibirsi a
casa coniugale, non configura un’ipotesi di accordo prematrimoniale nullo per
illiceità della causa, né, in particolare, per violazione dell’art. 160 c.c.,
ma un contratto atipico, espressione dell’autonomia negoziale dei coniugi,
sicuramente diretto a realizzare interessi meritevoli di tutela, ai sensi
dell’art. 1322 cpv. c.c.; tale intesa consiste infatti in una datio in solutum, in cui l’impegno
negoziale assunto è collegato alle spese affrontate, e il fallimento del
matrimonio non rappresenta la causa genetica dell’accordo, ma è degradato a
mero evento condizionale » [48]
Questa volta, peraltro, il distinguishing operato dalla Suprema Corte, più che quel « gioco
seducente (fascinating game) che
permette al giudice di common law di
sottrarsi alla soggezione a un determinato precedente vincolante e di
recuperare così ampi spazi di discrezionalità, dichiarando che il caso concreto
in quel momento al suo esame non presenta le stesse circostanze di fatto che
avevano giustificato l’applicazione della regola nel passato », ricorda la «
macchina spaccacapelli » di jheringiana memoria. Una Haarspaltemaschine che, pur se presa a prestito dal « cielo dei
concetti giuridici », su cui il grande giurista tedesco ironizzava, sembra, per
via del suo uso eccessivo, essersi ormai inesorabilmente inceppata.
Qui, infatti,
5. La crisi
coniugale come condizione del contratto prematrimoniale.
Nell’ottica testé delineata,
la riconduzione dell’accordo oggetto della decisione del dicembre 2012 al
novero delle intese « prematrimoniali », mercé il richiamo delle parti al
meccanismo della condizione, appare quanto di più naturale si possa immaginare.
Sebbene
È evidente che il trasferimento dell’immobile non era
previsto come dovuto nel caso in cui il matrimonio non si fosse venuto a
trovare in una situazione di crisi. La persistenza del vincolo avrebbe avuto
l’effetto di conservare il carattere gratuito della prestazione costituita dal
pagamento, da parte del (in allora futuro) marito delle spese di
ristrutturazione di un altro immobile della (in allora futura) moglie.
Negare al contratto in oggetto la natura di patto
prematrimoniale, come invece fa
Proprio lo studio storico e comparato delle
pattuizioni in vista della celebrazione delle nozze evidenzia il frequente e
diffuso riconoscimento della validità di accordi diretti, per l’eventualità del
fallimento del rapporto di coniugio, a riportare i contraenti, come dire, back to square one: cioè, nella stessa posizione
di partenza in cui si sarebbero trovati se mai si fossero impegnati in
quell’unione rivelatasi poi così male assortita.
Quanto sopra – tornando alla disciplina nostrana – è
del resto ciò che ancora oggi i coniugi molte volte fanno quando, in sede di
separazione, chiariscono che determinati acquisti « squilibrati », operati nel
corso dell’unione, vanno « riequilibrati » mercé il ricorso ad atti
ricognitivi, per esempio, di proprietà per quote diverse da quelle demonstratae dal rogito d’acquisto, ma
rispondenti alla proporzione tra i rispettivi apporti di denaro corrisposti al
momento del pagamento del prezzo d’acquisto [50].
E non si venga a dire che un
accordo di questo genere non avrebbe carattere « preventivo ». È chiaro infatti
che, se il momento in cui intese di questo tipo sono raggiunte è quello della
separazione, la valenza (se ci si passa l’espressione) « tombale » alle stesse
accordata ne squaderna la contemplation
of divorce, a prescindere dalla più o meno accorta formale omissione di
ogni richiamo al futuro divorzio, e dunque il carattere « preventivo » (qui non
rispetto al matrimonio, ma rispetto al divorzio, che è ciò che conta in questa
sede), nel senso più volte chiarito.
Del resto, non può tacersi che l’inconsistenza della
tradizionale posizione della giurisprudenza di legittimità è ulteriormente
comprovata proprio dal fatto che le intese preventive sulla separazione
personale, a differenza di quelle sul divorzio, sono state più volte ritenute
valide, pur essendo anch’esse intese preventive su di un futuro, possibile,
mutamento di status.
Irrilevanti appaiono le obiezioni sollevate in
proposito da chi [53] ha evidenziato l’ovvia differenza tra separazione e
divorzio, rappresentata dalla perdurante esistenza del vincolo matrimoniale
nella prima ipotesi, che si caratterizzerebbe così per il suo carattere di
situazione « aperta », rispetto alla seconda. È infatti pacifico che anche la
separazione dà vita ad uno status
familiare: pertanto, se le intese preventive sono da considerarsi nulle in
quanto dirette a « fare mercimonio » di uno status
indisponibile al di fuori del momento solennizzato dalla instaurazione della
relativa procedura di fronte al giudice, non si riesce a comprendere per quale
ragione le obiezioni sollevate contro tali accordi in contemplation of divorce
non dovrebbero poi valere se riferite alla separazione. Per non dire poi della
giurisprudenza di legittimità favorevole agli accordi preventivi in tema di conseguenze
economiche della pronunzia di annullamento del matrimonio [54].
Si noti, poi, che della «
prematrimonialità » dell’accordo oggetto della decisione del 2012 sembra
rendersi ben conto
Le
considerazioni di cui sopra introducono la trattazione di un ulteriore criterio
distintivo, cui
La sentenza d’appello aveva
allora avuto buon gioco a sottolineare che l’impegno negoziale assunto dalla
moglie, prima del matrimonio, di trasferire al marito, in caso di « fallimento
» del matrimonio stesso (ossia in caso di separazione o di scioglimento)
l’immobile, a titolo di indennizzo per le spese affrontate dal marito per la
sistemazione del diverso immobile adibito a casa coniugale, era « un impegno
negoziale che, in sé, non trae[va] il proprio titolo genetico dal matrimonio, e
non [poteva] quindi annoverarsi fra i diritti o doveri nascenti dal matrimonio,
nell’ottica del prefato art. 160 c.c., che vieta appunto gli atti di
disposizione relativi a diritti o doveri “nascenti” dal matrimonio, e sanciti
imperativamente » [56].
Sin
qui, peraltro, il discorso si svolgeva sul solo piano generale della validità tout
court dell’intesa, non certo su quello specifico
dell’intesa, in quanto intesa preventiva.
A sparigliare le carte interveniva
però la stessa corte d’appello, introducendo (pur se, a quanto pare, non
espressamente richiesta sul punto) il tema del carattere preventivo
dell’accordo. Così osservava la corte territoriale: « Si potrebbe, tuttavia, in
ipotesi, sostenere che, al di là della causa formalmente apparente di tale datio in solutum condizionale, in realtà
la causa negoziale effettivamente sottesa (…) fosse quella di istituire una
sorta di abnorme “penale” per il caso di scioglimento del matrimonio, ossia una
prestazione patrimoniale destinata ad avere effetto dissuasivo o penalizzante
in caso di iniziativa intesa a determinare lo scioglimento del matrimonio: se
tale fosse stato l’intento finalistico delle parti, la effettiva causa negotii non avrebbe potuto
intendersi come regolamento preventivo (in sé ammissibile) di rapporti di dare
ed avere patrimoniali riguardanti il rimborso (mediante datio in solutum di altro bene) delle spese come sopra affrontate
dal marito nella prospettiva del matrimonio (in tal senso rilevante solo dal
punto di vista del motivo), ma avrebbe invece dovuto intendersi in termini di
preventiva, preordinata e dissuasiva penalizzazione di iniziative intese alla
risoluzione del vincolo [matrimoniale], e, come tale, sicuramente illecita, in
quanto mirante a condizionare preventivamene la libertà decisionale degli sposi
».
Tale
ipotesi, continuava la decisione di merito, « però potrebbe ritenersi vera solo
nel caso in cui risultasse una forte sproporzione fra le prestazioni (…),
poiché solo dalla eventuale sproporzione di tali contrapposte prestazioni
potrebbe eventualmente dedursi (…) che la reale causa negotii della surrichiamata scrittura del 18/8/89 non fosse
quella di una datio in solutum con
funzione di indennizzo, soggetta all’evento condizionale dello scioglimento del
matrimonio, ma fosse, invece, rispondente ad una ben diversa funzione causale,
mirata a dar vita ad una sorta di “penale” per la iniziativa di scioglimento
del matrimonio ». Seguiva poi l’illustrazione delle ragioni per le quali, nella
specie, tale sproporzione non poteva ritenersi sussistente.
Chiaramente,
la decisione di merito legava, sul piano degli accordi preventivi, la validità
dell’intesa al fatto di aver le parti considerato il « fallimento » dell’unione
alla stregua di una mera condizione del contratto, laddove l’accordo sarebbe
stato nullo se i coniugi avessero dedotto l’evento-divorzio non già in
condizione, ma nella causa del negozio stesso.
Ora,
come dimostrato da chi scrive in altra sede [57], se il dedurre a causa di
un contratto l’impegno a separarsi o a divorziare (o, tutto al contrario, a non
separarsi e a non divorziare) è senz’altro motivo di nullità dell’intesa per
evidente violazione dei principi di ordine pubblico di protezione della libertà
personale nella sfera più intima, ben diversa è la sorte dei contratti che
prevedano tali eventi personali alla stregua di mere condizioni, sospensive o
risolutive, dell’efficacia delle prestazioni patrimoniali ivi contemplate. Ciò
è proprio quanto ha ribadito la corte d’appello, con statuizione confermata
dalla sentenza qui in commento, nella parte in cui rileva che « ove causa
genetica fosse il matrimonio (e il suo fallimento), l’impegno predetto, una
sorta di sanzione dissuasiva volta a condizionare la libertà decisionale degli
sposi anche in ordine all’assunzione di iniziative tendenti allo scioglimento
del vincolo coniugale, sarebbe sicuramente nullo. Ma indice di tale ipotesi potrebbe
essere soltanto una notevole sproporzione delle prestazioni, al contrario non
provata » [58].
Da tali parole traspare
l’intuizione della vera ed unica distinzione possibile in materia: quella,
cioè, tra contratti che vedono il profilo personale dedotto ad oggetto della
prestazione (« in cambio di x mi impegno a divorziare », « in cambio di y mi
impegno a non divorziare ») e quelli che vedono quello stesso profilo dedotto
alla stregua di mero evento in condizione (« nel caso di divorzio mi impegno a
riconoscerti x »). Il richiamo alla « notevole sproporzione delle prestazioni »
cela, in realtà, l’intuizione del tema della penale collegata ad un
comportamento di carattere personale.
Ma, per arrivare a tale
conclusioni, non appare necessario scomodare gli angeli del Begriffshimmel per chiedere loro in
prestito la « macchina spaccacapelli »: le (per
Venendo
agli sviluppi successivi della giurisprudenza di legittimità, sarà il caso di
ricordare che, nel 2013,
Si è così affermato che « È valido il mutuo tra
coniugi nel quale l’obbligo di restituzione sia sottoposto alla condizione
sospensiva dell’evento, futuro ed incerto, della separazione personale, non
essendovi alcuna norma imperativa che renda tale condizione illecita agli
effetti dell’art. 1354, primo comma, cod. civ. » [59].
Per ciò attiene agli sviluppi ulteriormente
successivi, va detto che, a parte due vistosi obiter contenuti, rispettivamente, in una decisione del 2014 [60] ed in una del 2015 [61], la S.C. ha innestato con vigore la… retromarcia nel
corso del 2017.
Così, in una prima sentenza di quell’anno [62], è stato stabilito che « L’assegno divorzile è
indisponibile per quanto concerne la componente assistenziale, sicché ogni atto
intervenuto in altra sede, tendente a precludere o a limitare la richiesta di
un assegno divorzile deve considerarsi nullo. Deriva da quanto precede,
pertanto, che qualora i coniugi, in sede di revisione dell’assegno di
separazione si accordino nel senso che in occasione del divorzio da un lato il
marito avrebbe trasferito in proprietà, alla moglie, un immobile, e la moglie
avrebbe, a sua volta, rinunciato a chiedere un assegno divorzile, la moglie non
può essere costretta a rinunciare alla pretesa a chiedere l’attribuzione di un
assegno di divorzio. Deve escludersi, peraltro - in termini opposti rispetto a
quanto disposto dalla Corte di appello - che l’accordo sia, comunque,
vincolante per il marito così che alla moglie non solo è attribuito un assegno
periodico ma è trasferita anche la proprietà dell’immobile. (In altre parole -
ha evidenziato la Suprema corte - data per acquisita la circostanza che ogni
patto stipulato in epoca antecedente al divorzio, volto a predeterminare il
contenuto dei rapporti patrimoniali del divorzio medesimo, deve ritenersi nullo
per illiceità della causa, è di ogni evidenza che una simile nullità travolge
anche la pattuizione finalizzata a rappresentare il sinallagma. Altrimenti, si
precisa da parte del Supremo collegio, non solo l’attribuzione patrimoniale
concretizzata dall’obbligo a contrarre resterebbe priva di causa, ma verrebbe
finanche vulnerata la nozione di causa del contratto, nella quale rileva il
punto di incontro degli interessi concretamente perseguiti (e nel contratto
espressi), essendo la disciplina del negozio giuridico qualificabile sempre
come disciplina di interessi concreti, assetto di situazioni e rapporti e
sintesi del mutamento così instaurato) ».
Un arresto di poco successivo [63] ha poi ribadito che « Gli accordi con i quali i
coniugi fissano, in sede di separazione, il regime giuridico – patrimoniale in
vista di un futuro ed eventuale divorzio sono invalidi per illiceità della
causa, perché stipulati in violazione del principio fondamentale di radicale
indisponibilità dei diritti in materia matrimoniale, espresso dall’art. 160
cod. civ. Pertanto, di tali accordi non può tenersi conto non solo quando
limitino o addirittura escludono il diritto del coniuge economicamente più
debole al conseguimento di quanto è necessario per soddisfare le esigenze della
vita, ma anche quando soddisfino pienamente dette esigenze, per il rilievo che
una preventiva pattuizione – specie se allettante e condizionata alla non
opposizione al divorzio potrebbe determinare il consenso alla dichiarazione
degli effetti civili del matrimonio. Gli accordi dei coniugi diretti a fissare,
in sede di separazione, i reciproci rapporti economici in relazione al futuro
ed eventuale divorzio con riferimento all’assegno divorzile sono nulli per
illiceità della causa, avuto riguardo alla natura assistenziale di detto
assegno, previsto a tutela del coniuge più debole, che rende indisponibile il
diritto a richiederlo. Ne consegue che la disposizione dell’art. 5, ottavo
comma, della legge n. 898 del 1970 nel testo di cui alla legge n. 74 del 1987 –
a norma del quale, su accordo delle parti, la corresponsione dell’assegno
divorzile può avvenire in un’unica soluzione, ove ritenuta equa dal tribunale,
senza che si possa, in tal caso, proporre alcuna successiva domanda a contenuto
economico -, non è applicabile al di fuori del giudizio di divorzio, e gli
accordi di separazione, dovendo essere interpretati secundum ius, non possono implicare rinuncia all’assegno di
divorzio » [64].
Inutile sottolineare che, del travagliato iter giurisprudenziale di legittimità,
di cui si è tentato di fornire un rapido schizzo nelle pagine che precedono, non
è rinvenibile, nelle due decisioni del 2017 appena citate, traccia alcuna, se
si eccettuano pochi, frettolosi, richiami ad alcune delle decisioni che
riflettono, peraltro, la sola tradizionale tesi negativa [65].
Lasciando la pars
destruens del ragionamento che si è tentato sin qui
di portare avanti, varrà la pena rammentare che gli accordi preventivi
circa le conseguenze della separazione e/o del divorzio non vedono normalmente
(né lo potrebbero), quale loro oggetto diretto, lo status coniugale, come avverrebbe se, per esempio, le parti
stipulassero impegni in termini quali « mi obbligo a non divorziare », « mi
impegno a non chiedere la separazione », « prometto di non far valere alcuna
eventuale causa di invalidità del nostro matrimonio », ecc. [66].
La contrarietà di un siffatto patto ai principi
dell’ordine pubblico non può oggi essere revocata in dubbio. Ma ciò che
l’opinione dominante si preoccupa di impedire è che le determinazioni dei
coniugi circa il loro stato (di persone, appunto, coniugate o meno) siano anche
solo indirettamente influenzate dagli accordi economici in precedenza
stipulati. Tale preoccupazione non ha però ragione di sussistere, ogni qual
volta le parti si limitano a prevedere le conseguenze dell’eventuale
scioglimento del matrimonio, senza impegnarsi a tenere comportamenti
processuali diretti ad influire sullo status
coniugale.
Una prima osservazione, a conforto di questa tesi, proviene
da quella dottrina che ha instaurato in proposito un interessante parallelo con
la situazione « antagonista » rispetto a quella qui in esame, vale a dire la
celebrazione delle nozze. Proprio con riguardo alla « purezza » della volontà
matrimoniale, che non potrebbe subire alcuna compressione, essendo
salvaguardata la assoluta libertà del soggetto in ordine alla celebrazione del
matrimonio, si è osservato che l’ordinamento consente che il soggetto si «
induca » al matrimonio attraverso motivazioni di ordine patrimoniale le quali,
pur non essendo determinanti del consenso, indubbiamente lo orientano e lo
sorreggono. Anzi, l’ordinamento sembra addirittura volere che il soggetto
all’atto del matrimonio « costruisca » le sue prospettive matrimoniali attraverso
la stipulazione delle convenzioni (pre)matrimoniali più idonee alla tutela dei
suoi interessi in relazione alle circostanze e alle esigenze di vita.
L’argomentazione testé riferita costituisce il primo
passo di un’analisi il cui punto cruciale appare quello di vedere se e in che
misura l’ordinamento tuteli la libertà delle parti nelle loro determinazioni
concernenti gli status o comunque gli
aspetti indisponibili dei rapporti umani in quanto attinenti alla sfera delle
relazioni personali e sessuali, con riferimento ai condizionamenti d’ordine
economico che esse possono subire nelle proprie decisioni. E’ noto che la
tutela della libertà delle determinazioni dei soggetti nella sfera personale e
sessuale è rimessa dall’ordinamento alla sanzione della nullità della causa per
violazione dell’ordine pubblico o del buon costume. Peraltro la nullità
consegue sempre al fatto che l’aspetto personale sia portato dai soggetti a
costituire parte integrante della causa (« io mi impegno a darti cento e tu ti
impegni, in cambio, a disconoscere la paternità di tuo figlio »): esso deve
essere, cioè, preso direttamente in considerazione dalle parti come oggetto di
un preciso obbligo che queste (errando, ovviamente) vorrebbero come
giuridicamente vincolante e quindi processualmente azionabile.
Ma la dottrina ammette – e da tempo – che un
comportamento umano non deducibile in obbligazione possa essere dedotto in
condizione e che tra siffatti comportamenti umani ben possa rientrare anche la
volontà di assumere uno status. Ciò
in particolare si verifica quando le parti non intendono con il loro negozio
porre un vincolo, giuridicamente rilevante a tenere o a non tenere quel certo
comportamento, ma si limitano a prefigurare le conseguenze di quest’ultimo,
condizionandovi l’efficacia di un determinato impegno di carattere
patrimoniale. In questo modo può essere fatto sì che il comportamento di
carattere personale non formi oggetto di vincolo, ma venga – di volta in volta
– incoraggiato o scoraggiato a seconda che la promessa di carattere
patrimoniale agisca, in alternativa, quale « deterrente » o « premio » per il
fatto d’aver tenuto o meno quella certa condotta.
Qui il pensiero corre subito alla clausola penale, e
alla disposizione, riflettente un principio di carattere certamente più
generale, racchiusa nell’art. 79 c.c. Ma la clausola penale, proprio perché
strumento di garanzia per l’adempimento di un’obbligazione, presuppone appunto
l’esistenza di un impegno giuridicamente vincolante a tenere quel certo
comportamento (positivo o negativo). La sussistenza di tale impegno – ancorché
non formalmente enunciato dai contraenti – potrebbe proprio essere dedotta dal
carattere « eccessivo » (secondo una valutazione da farsi, ovviamente, caso per
caso) della prestazione patrimoniale promessa sotto la condizione che quel
determinato evento si verifichi (o meno).
Rovesciando ora per un momento la prospettiva in cui
ci si è sino a questo punto collocati e pensando alle pattuizioni dirette a
costituire non già un deterrente, bensì un incoraggiamento per la tenuta di un
determinato comportamento, occorrerà tenere presente quella clausola, in altre
sedi definita « premiale » [67], consistente nell’accordo con cui – all’interno di un
contratto di convivenza – uno dei due partners
dell’unione libera promette all’altro l’adempimento di una prestazione
patrimoniale subordinata all’esecuzione di una prestazione non patrimoniale
dell’altra (per es.: « ti prometto che ti darò cento se mi sarai fedele, se tra
dieci anni coabiterai ancora con me, se tra cinque anni mi avrai dato un figlio
»), oppure ancora nella promessa, effettuata da un fidanzato (o da un terzo)
all’altro di corrispondere a quest’ultimo una somma di denaro nel caso di
celebrazione delle nozze.
Lo stesso dovrebbe valere nel caso di donazione di una
somma di denaro o di un certo bene sospensivamente condizionata alla
circostanza che il matrimonio superi « indenne » un certo lasso di tempo.
Reciprocamente, per chi vede il divorzio come un’eventualità positiva, di
fronte ad una possibile crisi coniugale, dovrebbe avere un senso promettere la
corresponsione di una determinata utilità economica al (futuro) ex coniuge «
debole » al fine di invogliarlo, con l’assicurazione di un vantaggio economico,
a porre più volentieri fine all’unione (« se, nel caso di crisi coniugale,
accederai senza porre condizioni alla mia richiesta di presentazione di ricorso
per divorzio su domanda congiunta mi obbligo sin d’ora a corrisponderti... »).
Siffatte clausole non sembrano in grado di suscitare
obiezioni, posto che con esse l’esecuzione della prestazione di carattere
personale (la prosecuzione della convivenza more
uxorio oltre un certo limite temporale, la celebrazione delle nozze, la
prosecuzione della convivenza matrimoniale, la prestazione del consenso per il
divorzio su domanda congiunta, ecc.) non viene « garantita » dalla presenza di
una forma di coazione giuridica o dalla assicurazione del pagamento di una
penale da parte del soggetto eventualmente inadempiente, ma viene piuttosto
incoraggiata mediante la promessa di un premio da parte di colui che ha
interesse a che il beneficiario tenga quel certo comportamento.
Proprio con riguardo alle clausole « premiali » legate
ad un comportamento personale di una delle parti, potrà aggiungersi che
un’ulteriore conferma viene dallo stesso codice civile, che espressamente
configura (cfr. art. 785 c.c.) il matrimonio (e dunque un fatto, per
definizione, strettamente attinente alla vita personale oltre che costitutivo
di uno status familiae) alla stregua
di una condizione sospensiva delle attribuzioni patrimoniali gratuite
effettuate (si badi: anche l’un l’altro dai promessi sposi) in vista della
celebrazione delle nozze.
Neppure appare trascurabile il sistematico rifiuto, da
parte della giurisprudenza di legittimità, di estendere al di là dei suoi
angusti limiti quella disposizione (art. 636 c.c.) che, in materia di
disposizioni mortis causa, fulmina di nullità – proprio in
quanto attinente ad un aspetto personalissimo – la condizione « che impedisce
le prime nozze o le ulteriori », al punto da affermare la validità della
clausola che subordina le attribuzioni testamentarie alla condizione (generica)
di contrarre matrimonio [68], o di contrarlo con « persona appartenente alla
stessa classe sociale dell’istituito » [69], ovvero ancora di non contrarlo con persona determinata
[70].
Il favore nei confronti di una clausola del genere di
quella sopra definita come « premiale », intesa nel senso testé chiarito,
emerge con evidenza anche in una decisione del 1992, che ha affermato la piena validità
della condizione ex art. 636 c.c.,
quando questa « non sia dettata dal fine di impedire le nozze ma preveda per
l’istituito un trattamento più favorevole in caso di mancato matrimonio, e,
senza per ciò influire sulle relative decisioni, abbia di mira di provvedere,
nel modo più adeguato, alle esigenze dell’istituito, connesse ad una scelta di
vita che lo privi degli aiuti materiali e morali di cui avrebbe potuto godere
con il matrimonio » [71].
In conclusione sul punto, nemmeno l’art. 1354 c.c. può
costituire un ostacolo in ordine alla configurazione del regolamento preventivo
dei rapporti nascenti da un eventuale divorzio alla stregua di negozi
sospensivamente condizionati all’evento dello scioglimento o della cessazione
degli effetti civili del matrimonio, posto che la semplice predeterminazione
delle conseguenze patrimoniali di un futuro ed eventuale divorzio non sembra
poter dispiegare, di per sé, alcun effetto sulla spontaneità del comportamento
attinente allo status.
Nessun dubbio, poi, può sorgere con riguardo al
carattere futuro delle posizioni di cui un contratto prematrimoniale dispone.
Ed invero, ai sensi dell’art. 1348 c.c., « la prestazione di cose future può
essere dedotta in contratto, salvi i particolari divieti di legge ». La
chiarezza di tale disposizione vale a sgombrare il campo dalle perplessità che
potrebbero riferirsi alle regole desumibili dagli artt. 458 e 2937 cpv. c.c.
Questioni, queste ultime, sicuramente mal poste, in quanto il divieto di disporre
della propria eredità mercé un atto tra vivi e l’indisponibilità della
prescrizione prima che si sia compiuta si spiegano in ragione di criteri e
considerazioni affatto particolari ed attinenti, specificamente, agli istituti
in parola. Infatti, il divieto di patti successori trova fondamento
nell’esigenza di tutelare al massimo la libertà testamentaria, mentre la regola
che impedisce una preventiva rinuncia alla prescrizione si spiega con
l’interesse generale su cui si basa l’istituto e con lo sfavore del legislatore
per l’inerzia rispetto all’esercizio di un diritto.
8.
Irrilevanza dell’art. 160 c.c. Ulteriori argomenti in favore della tesi
dell’ammissibilità.
Anche il « classico » richiamo all’art. 160 c.c., al
fine di contrastare la tesi di chi scrive, appare fuori luogo.
Come ampiamente dimostrato in altra sede [72], l’unico modo di far vivere tale disposizione nel
campo del divorzio si risolve infatti nel paradosso della tesi che,
prospettando addirittura un’estensione analogica dell’art. cit., finisce con
l’avvilupparsi in una vera e propria contradictio in adiecto, postulando
una « similitudine di casi » (v. art. 12 cpv. prel.) tra la materia degli
effetti del matrimonio e quella degli effetti del suo ... venir meno.
L’assunto in esame appare, oltre che criticabile per
le ragioni appena illustrate, del
tutto in contrasto con la concezione contemporanea del matrimonio. Come
esattamente osservato già parecchi anni or sono [73], ritenere che il dovere di contribuzione rimanga
inalterato addirittura nonostante la pronuncia di divorzio, « significa
conservare, per quanto si può, la mistica dell’indissolubilità », favorendo il
ritorno alla tesi del carattere pubblicistico del matrimonio, come atto al di
sopra della volontà dei singoli, in palese contrasto con il pensiero dominante,
oltre che con la giurisprudenza della stessa Corte di legittimità, che non ha
mancato di negare, nella maniera più radicale, che nel nostro ordinamento possa
attribuirsi al matrimonio effetti di tipo ultrattivo [74].
A chi scrive sembra poi che lo studio dell’art. 160
c.c. non possa prescindere dalla considerazione del contesto storico in cui lo
stesso è nato, né dalla sua collocazione « topografica » all’interno del
sistema delle norme in materia di rapporti familiari: profili, questi, la cui
attenta considerazione deve senz’altro indurre ad escludere l’operatività della
norma in esame non solo in relazione alla fase post-matrimoniale, bensì alla
situazione di crisi coniugale nel suo complesso, separazione compresa.
La storia dell’art. 160 c.c. insegna che tale norma è
erede dell’art. 1379 c.c. 1865 (« Gli sposi non possono derogare né ai diritti
che appartengono al capo della famiglia, né a quelli che vengono dalle legge
attribuiti all’uno o all’altro coniuge, né alle disposizioni proibitive
contenute in questo codice »), a sua volta mutuata da quell’art. 1388 Code
Napoléon, che non poche polemiche aveva sollevato in sede di lavori
preparatori. Proprio durante la discussione in seno al Consiglio di Stato, di
fronte all’obiezione di Cambacérès, secondo cui non sarebbe sembrato opportuno
porre limiti eccessivi alla libertà negoziale delle parti in sede di contrat
de mariage, venne risposto (da parte di Jean-Baptiste Treilhard) che lo
scopo della norma era unicamente quello di « défendre toute stipulation qui
rendrait la femme chef de la société conjugale », privando il marito (« celui à
qui la nature a donné le plus de moyens pour la bien gouverner ») del diritto –
spettantegli « par la nature même des choses » – di essere di tale unione « le
maître et chef » [75].
Lo spirito era dunque, in buona sostanza, ancora
quello che aveva indotto, diversi secoli prima, Ulpiano a riprovare come contra
bonos mores tutti i patti stipulati « contra receptam reverentiam, quae
maritis exhibenda est » (D. 24, 3, 14).
In questa direzione si mosse costantemente
l’interpretazione della dottrina, sia francese che italiana, che vedeva nelle
disposizioni testé citate una regola speciale dettata a tutela delle
prerogative del marito come capo della famiglia e portava quale esempio della
violazione di tale principio « il patto in virtù del quale i figli nati da un
matrimonio misto dovessero essere educati nella religione della madre, o
l’altro più frequente che i maschi seguissero la religione del padre e le
femmine la religione materna », con la conseguenza che, proprio per effetto del
principio indicato, « se (...) non ostante il patto il marito facesse educare i
figli nella propria religione la moglie non avrebbe azione per impedirlo; ove
lo tentasse, il marito allegando il suo diritto di patria potestà farebbe
respingere la domanda » [76].
L’argomento storico sembra dunque sconsigliare la
riferibilità della norma in esame alla fase patologica del rapporto coniugale:
anche dopo la sostituzione della « regola del capo » con quella della parità,
l’attenzione del legislatore continua ad essere rivolta, nell’art. 160 c.c.,
alla fase di normale svolgimento della vita coniugale, né la parità può essere
conseguita al prezzo di ridurre i coniugi ad uno stato di semi-incapacità, mediante
l’enunciazione di divieti a contrarre, in pieno contrasto con la regola del
pieno accordo sulle « condizioni » (tutte le condizioni!) della separazione,
che caratterizza la soluzione non contenziosa della crisi coniugale (artt. 158
c.c., 711 c.p.c.) [77].
Ciò appare del resto confermato – e si viene così alla
seconda argomentazione, di tipo sistematico – anche dalla collocazione
dell’art. 160 c.c., posto all’interno di un insieme di articoli (quelli in
materia di regime patrimoniale della famiglia) miranti a disciplinare gli
effetti d’ordine economico dell’unione coniugale nella sua fase fisiologica.
Tutto al contrario, è lo stesso legislatore che, disciplinando le conseguenze
patrimoniali della crisi coniugale nel capo V, ci fa comprendere che la regola ex
art. 160 c.c., dettata in apertura del capo successivo, vale quale disposizione
generale (così infatti si intitola
Concludendo sul punto può dunque dirsi che gli
argomenti storici, letterali, logici e sistematici si oppongono, proprio con
riguardo ai contratti prematrimoniali, al dilagare dell’art. 160 c.c. e del
relativo dogma dell’indisponibilità.
Un ulteriore argomento che si trova con una certa
frequenza in merito al tema delle intese tra coniugi in vista di un futuro
divorzio viene presentato quale replica al rilievo secondo cui gli accordi di
carattere preventivo sarebbero stati implicitamente riconosciuti dal
legislatore mediante l’introduzione del procedimento su domanda congiunta. Qui,
si obietta, le cose starebbero diversamente, in quanto nello speciale
procedimento previsto dall’art. 4, sedicesimo (già tredicesimo) comma, l.div.
le intese raggiunte dalle parti sul relativo assetto economico « attengono ad
un divorzio che esse hanno già deciso di conseguire, e quindi non semplicemente
prefigurato » [78].
Ora, non è agevole comprendere quale effetto possa
dispiegare sul carattere disponibile o meno del diritto la circostanza che il
suo evento generatore (il divorzio appunto) sia avvertito dalle parti come «
sicuro », anziché inteso come mero elemento condizionante l’efficacia
dell’accordo; a meno che, in realtà, il ragionamento qui criticato non celi la
preoccupazione di garantire intatta la libertà delle parti in ordine alle
determinazioni concernenti lo status
coniugale. Ma, anche qui, a parte le obiezioni già sviluppate, rimane da
chiedersi perché mai, se l’accordo può essere raggiunto ... la sera precedente
alla presentazione del ricorso congiunto esso non potrebbe essere ugualmente
concluso un mese prima, un anno prima, ovvero addirittura prima della
celebrazione delle nozze.
Se, infatti, la preoccupazione del legislatore fosse
veramente quella di salvare la libertà del consenso sullo stato personale, usque ad ... matrimonii supremum exitum,
andrebbe allora bandita ogni contrattazione sull’assegno che precedesse anche
solo d’un minuto la sentenza di divorzio. Solo due ex coniugi sono in grado di
trattare delle condizioni del loro divorzio in maniera del tutto indipendente
dalla presenza (o dal sospetto della presenza) di un qualche condizionamento
dell’assenso avente ad oggetto lo scioglimento del vincolo all’effettuazione di
una o più concessioni in sede di trattative sugli aspetti patrimoniali. Ne
consegue che, se lo scopo perseguito dal legislatore fosse veramente quello di
rendere la decisione in ordine allo status
del tutto svincolata da ogni trattativa di tipo economico, allora non si
spiegherebbe l’introduzione del divorzio su domanda congiunta, nel quale le
condizioni patrimoniali (insindacabili, secondo l’opinione quasi unanime)
vengono liberamente decise prima che venga adottata in via definitiva, da parte
del giudice, la decisione sullo status.
In definitiva, l’accordo in esame presuppone pur
sempre un atto dispositivo di diritti che alle parti competono per effetto del
divorzio, indipendentemente dal grado di « certezza » con cui tale evento si
prospetti; per non dire del fatto che, se è vero – come appare innegabile – che
il legislatore, con l’introduzione del divorzio su domanda congiunta, ha inteso
riconoscere una stretta interdipendenza tra gli accordi in materia di
conseguenze del divorzio e l’accelerazione della relativa procedura, occorre
allora ammettere che l’ottica che associava lo sfavore nei confronti della
contrattazione privata alla preoccupazione di assicurare la stabilità delle
situazioni familiari è ormai definitivamente superata.
Tutte le considerazioni svolte nel presente §, così
come nel precedente, riassumono le tesi dallo scrivente presentate
all’attenzione della dottrina e della giurisprudenza da decenni [79] e vanno ormai inquadrate nell’ottica ben più ampia
della contrattualizzazione in via preventiva della crisi non solo del matrimonio,
ma anche dell’unione civile e della convivenza di fatto [80], in un contesto, dunque, che, per evidenti ragioni di
spazio, non appare possibile condensare nella presente sede. Lo « stato
dell’arte » sul tema forma oggetto di un volume collettaneo, pubblicato nel
2018, cui si fa rinvio anche per la ricognizione del livello d’accettazione,
nel panorama dottrinale, delle proposte da tempo avanzate dallo scrivente [81].
9.
Evoluzioni normative recenti e relativi effetti sui contratti prematrimoniali.
In chiusura del presente studio non potrà farsi a meno
di rilevare come, pure in un contesto come quello italiano attuale, non
facciano certo difetto elementi evolutivi idonei a dimostrare l’esistenza di
una tendenza favorevole alla validità delle intese in oggetto.
Se, come detto, la giurisprudenza non sembra ancora
pronta a compiere il « grande passo » verso lo sdoganamento dei patti
prematrimoniali, il legislatore, a ben vedere, ha, nel corso degli ultimi anni,
posto una serie di premesse di assoluto rilievo in questa direzione, a
cominciare dal ruolo – ingiustamente disconosciuto fino ad oggi da gran parte
della dottrina – della riforma del lontano 1987, che, con l’introduzione del
divorzio a domanda congiunta, venne, da un lato, ad imporre che l’accordo
patrimoniale dovesse addirittura necessariamente precedere l’istanza per la cessazione del vincolo e, dall’altro, a
chiarire, nel modo più evidente (e comunque in modo del tutto conforme a quanto
già stabilito dal codice civile per la separazione), che l’intervento
giurisdizionale non può toccare, nel modo più assoluto, l’intesa patrimoniale
tra i coniugi, potendo invece riguardare solo le questioni attinenti alla
responsabilità genitoriale, nei suoi vari profili personali e patrimoniali [82].
Se dottrina e giurisprudenza avessero tenuto nel
dovuto conto questi rilievi, sarebbe risultato chiaro da decenni quali sono i
limiti normativi alla tesi della solidarietà post-coniugale: tesi, questa,
certamente fondata sull’art.
L’evoluzione normativa successiva, tutta nel segno
della negozialità inter coniuges, ha
avuto l’andamento travolgente di un vero e proprio « crescendo rossiniano ».
Come messo in evidenza da chi scrive in altra sede, il
varo, nel 2006, di un istituto quale il patto di famiglia non può avere altro
significato se non quello di un chiaro indizio della volontà legislativa di
introdurre un effetto « moltiplicatore di negozialità endofamiliare ». Va
evidenziata sul punto l’assoluta irrilevanza della sopravvenienza rispetto alle
eventuali rinunce espresse dai legittimari in sede di stipula del contratto in
esame, avuto riguardo ai diritti che – al momento dell’apertura della
successione del disponente – potrebbero loro competere per effetto degli atti
dispositivi gratuiti a vantaggio di uno solo (o solo di alcuni) di essi (e ciò
anche di fronte ai successivi mutamenti di valore dei cespiti aziendali,
dell’avviamento e in genere dei beni oggetto del patto di famiglia). Quanto sopra,
ovviamente, a prescindere dal fatto che la situazione patrimoniale del
disponente venga a mutare, magari radicalmente, al momento del suo decesso,
rispetto a quella presente all’atto della stipula del patto di famiglia.
Ciò significa che il discendente non assegnatario
dell’azienda (o di quote sociali) potrebbe essere indotto a sottoscrivere un
patto di famiglia contenente una rinunzia totale o parziale ai diritti che,
come legittimario, gli competerebbero su quei beni, qualora la successione si
aprisse in quel momento, « confidando » su di un residuo patrimonio del
disponente che in quel momento si presenta, anche a prescindere dall’azienda o
dalle quote sociali oggetto del patto, come particolarmente consistente. Ma
siffatta rinunzia conserva intatto il suo effetto (cioè quello di precludere
irrimediabilmente la possibilità di esperire l’azione di riduzione) anche nel
caso in cui, per successive vicende, il patrimonio del disponente dovesse, al
momento del suo trapasso, magari molti anni dopo la firma del patto di
famiglia, sensibilmente contrarsi o addirittura ridursi a zero.
L’insegnamento che si trae dall’evidenziata
indifferenza del legislatore rispetto alla potenzialmente devastante portata
della rinunzia di un soggetto a diritti la cui concreta determinazione è
rinviata nel tempo (e ad un tempo che può essere anche molto remoto, rispetto
al tempo della rinunzia), non sembra poter rimanere senza effetto anche in
altri campi, pure caratterizzati dalla presenza di stretti vincoli familiari.
Il parallelo più evidente è proprio quello con gli
accordi in esame. Qui, tra gli argomenti contrari, quelli sicuramente più « ad
effetto » fanno leva proprio sull’« ingiustizia » del principio che inchioda le
parti al rispetto d’un accordo stipulato magari molti anni prima, nella vigenza
di una situazione di fatto che può essere ben diversa rispetto a quella in cui
la crisi del rapporto viene successivamente a maturare e ad esplodere. Ora,
l’introduzione delle segnalate regole in tema di patto di famiglia sembra voler
dimostrare come, per il legislatore, l’esigenza di stabilità e di certezza nel
corso del tempo dei rapporti patrimoniali, all’interno del complesso e mutevole
intreccio dei legami familiari e delle alterne vicende che possono intervenire,
debba prevalere anche rispetto a considerazioni quali quella della possibile
incidenza di siffatte vicende su rinunce dai membri della famiglia
eventualmente espresse, magari molto tempo addietro, rispetto a diritti non
ancora maturati [83].
All’affermazione della prassi degli accordi
prematrimoniali non può poi non contribuire la vera e propria ventata di novità
normative degli ultimissimi anni.
In particolare l’introduzione della negoziazione
assistita (cfr. artt. 6 e 12, d.l. 12 settembre 2014, n. 132, conv. con modificazioni
in l. 10 novembre 2014, n. 162), con la sua carica « desacralizzante »
dell’intervento giurisdizionale (in buona sostanza, puramente e semplicemente
messo da parte nella maggior parte delle ipotesi), è venuta ad eliminare ogni
dubbio sull’estensione dei poteri dei coniugi (e, oggi, dei soggetti civilmente
uniti). Se, invero, la stessa decisione (e la relativa procedura) sul cessare
della persistenza del vincolo viene integralmente rimessa alla volontà delle
parti, le quali, in presenza delle condizioni di legge (la cui sussistenza non
va peraltro accertata, come detto, dall’autorità giurisdizionale), possono così
incidere direttamente, senza più alcun ricorso al giudice, sul proprio status, a (ben!) maggior ragione deve
ritenersi che ogni statuizione di carattere patrimoniale (purché non coinvolga,
beninteso, i figli minorenni) è lasciata all’arbitrio delle parti stesse, senza
più limiti di carattere formale, sostanziale o anche solo temporale.
Non solo.
La successiva approvazione del c.d. divorzio breve
(cfr. l. 6 maggio 2015, n. 55) ha ulteriormente comportato una deminutio del ruolo concreto delle
procedure separatizie nel contesto della crisi coniugale, oltre tutto
evidenziando l’assurdità della posizione tradizionale che vieta ai coniugi in
fase di separazione di assumere impegni patrimoniali in vista di un divorzio,
così « forzandoli » ad assumere impegni di durata temporale, ormai, minima [84], mentre la riforma sulle unioni civili, le convivenze
di fatto e, soprattutto, i contratti di convivenza (cfr. l. 26 maggio 2016, n.
76), sono venute ad introdurre elementi e fermenti nuovi, idonei a
sensibilizzare l’opinione pubblica circa la necessità (o, comunque,
l’opportunità) di ricorrere sempre più spesso ad una previa definizione per via
negoziale delle questioni patrimoniali potenzialmente connesse all’eventuale
crisi dei legami affettivi.
Nel contesto sin qui delineato va letta anche la
svolta giurisprudenziale degli anni 2017 [85] e 2018 [86] in materia di assegno di divorzio.
Sebbene non certo caratterizzato dal pregio della
linearità [87], il sommovimento che ha variamente scosso ab imis le (relativamente) placide acque
della illogica ed antistorica lettura in termini di « indissolubilità
patrimoniale » del vincolo coniugale, viene a porre in primo piano il tema
della « natura prevalentemente disponibile dei diritti in gioco », secondo
l’espressione testualmente usata dalla motivazione della decisione delle Sezioni
Unite del 2018. Espressione, questa, che, a sua volta, riecheggia i lavori
dello scrivente, da decenni impegnato nel tentativo di dimostrare che la c.d. «
solidarietà post-coniugale » è criterio nella specie determinante, sì, ma solo
laddove i coniugi non decidano di comune accordo di ritenersene svincolati.
Invero, i criteri di pari dignità e di uguaglianza
morale e giuridica tra coniugi (artt. 2, 3 e 29 Cost.), pure evocati dalle
Sezioni Unite, costituiscono un baluardo della parte debole in caso di
disaccordo, ma non sono certo contraddetti dal riconoscimento ai coniugi
(soggetti, da tempo, ormai, non più colpiti da alcuna forma di incapacità) del
diritto di liberamente disporre dei propri diritti e di fare affidamento
vicendevole sugli impegni congiuntamente e liberamente assunti [88]: in omaggio, del resto, proprio a quel principio di «
autoresponsabilità » e di « autodeterminazione », che la stessa Corte
espressamente più e più volte richiama nella decisione del 2018. E ciò per non
dire del fatto che l’inevitabile esasperazione del contenzioso [89] e l’incremento del tasso di discrezionalità
decisionale del giudice [90], conseguenti al non troppo felice intervento delle
Sezioni Unite, non faranno che porre in risalto l’utilità dei rimedi negoziali
preventivi qui in discorso.
Del resto, l’esaltazione di un criterio che impone la
valutazione – a fronte di un’eventuale sperequazione economico-patrimoniale tra
gli ex coniugi – del contributo prestato alla crescita dell’altro (quand’anche
il coniuge artefice dell’avanzata dell’altro sia indipendente economicamente),
in considerazione dei « principi costituzionali di pari dignità e di
solidarietà, che permeano l’unione anche dopo lo scioglimento del vincolo » [91], non può rimanere senza effetti anche nella materia
qui in esame.
La valorizzazione della componente compensativa delle
prestazioni post-divorzili non può effettuarsi se non a discapito, quanto meno
parziale, di quella assistenziale, a sua volta troppe volte confusa [92] con quella alimentare (non presente, ovviamente,
nell’assegno di divorzio) [93]: con conseguente equivoco sulla sua asserita
indisponibilità. Come pure correttamente rilevato in dottrina, fin tanto che si
predicava la funzione esclusivamente (o prevalentemente) assistenziale
dell’assegno divorzile, la sua natura indisponibile era il corollario
(relativamente coerente, ancorché tecnicamente non corretto) della tradizionale
e consolidata affermazione per cui la parte che ha diritto ad una qualsiasi
prestazione assistenziale è ontologicamente debole e quindi non adeguatamente
preparata a stipulare ex ante accordi
che abbiano per oggetto il proprio diritto [94].
Del resto, è pure stato detto, condivisibilmente, che la ratio
decidendi sostanziale posta alla base dell’orientamento giurisprudenziale
contrario alla validità piena dei contratti sugli effetti economici del
divorzio è da individuarsi nell’interesse
patrimoniale del beneficiario del credito costituito dall’assegno
divorzile a mantenere un tenore di vita più agiato. La nullità dei contratti in vista del
divorzio è, in altri termini, funzionale ad un sistema di regole di diritto
pretorio volte a garantire al creditore dell’assegno una adeguata
partecipazione, tendenzialmente vitalizia, alle risorse economiche dell’ex
coniuge. Risulta quindi abbastanza evidente che i due filoni
giurisprudenziali (quello ante 2017 sull’assegno di divorzio e
quello, perdurante, sulla nullità dei contratti in vista della cessazione del
vincolo) fossero intimamente intrecciati e funzionalmente collegati dal
medesimo paradigma ideologico: la (allegata) nullità del contratto
prematrimoniale implica come corollario che la determinazione dell’assegno sarà
operata dal giudice per realizzare l’obbiettivo di garantire al coniuge
economicamente più debole un tenore di vita analogo al precedente, ed in tale
direzione saranno prese le decisioni relative alle altre provvidenze
(assegnazione della casa coniugale, assegni perequativi per i figli) [95].
Di fronte al revirement
delle Sezioni Unite sulla natura dell’assegno divorzile, è perciò ragionevole
attendersi che il nuovo insegnamento sulla funzione composita e prevalentemente
compensativa dell’assegno abbia l’effetto di rendere consapevoli dottrina e
giurisprudenza del fatto che il relativo diritto è negoziabile, posto che chi ha
fatto o si accinge a fare un sacrificio e deve essere indennizzato per esso è
perfettamente in grado di valutare i propri interessi e può validamente
disporre del proprio diritto [96].
La svolta giurisprudenziale qui ricordata, quindi, pur
senza introdurre, di per sé, alcuna novità in relazione ad una situazione
normativa già più che chiaramente orientata nel senso della validità dei patti
prematrimoniali, ha se non altro il merito di rimuovere alcuni elementi che
ancora impediscono a molti (troppi) interpreti di vedere le cose per come
realmente sono.
[1] Per una rassegna critica
dei passi delle fonti romane sul punto e per i necessari rinvii ed
approfondimenti cfr. Oberto, I contratti
della crisi coniugale, I, Milano, 1999, p. 483 ss.; Id., « Prenuptial
agreements in contemplation of divorce » e disponibilità in via preventiva dei
diritti connessi alla crisi coniugale, in Riv. dir. civ., 1999, II, p. 171 ss.; Id., Contratto e
famiglia, in Aa.Vv., Trattato
del contratto, a cura di Roppo,
VI, Interferenze, a cura di Roppo,
Milano, 2006, p. 253 ss.; Id., Gli accordi preventivi sulla crisi coniugale,
in Familia, 2008, p. 25 ss.; v. anche Magagna, I patti dotali nel pensiero dei giuristi classici. Per l’autonomia
privata nei rapporti patrimoniali tra i coniugi, Padova, 2002, passim.
[2] Cfr. Oberto, opp. locc. citt.
[3] Nel Medioevo, il celebre Rolandino
de’ Passeggeri, dopo aver spiegato che (conformemente a quanto unanimemente
ritenuto dal pensiero giuridico dell’epoca) la restitutio dotis era dovuta non solo in caso di scioglimento del
matrimonio per morte, ma anche di separazione, diremmo oggi, personale,
conseguente alla fornicatio del
marito (la restituzione veniva invece esclusa, a titolo sanzionatorio, nel caso
di adulterio della moglie), si intratteneva nella descrizione dei soggetti cui
competeva la richiesta di restituzione ed il tempo in cui tale restituzione
avrebbe dovuto essere fatta, rimettendo la predeterminazione di tali elementi
proprio alla volontà delle parti nell’atto (prematrimoniale) di costituzione di
dote. Ancora nei secoli successivi, in piena età della Controriforma, è dato
rinvenire decisioni di tribunali italiani in senso favorevole alla
predeterminazione delle conseguenze della futura crisi coniugale (da
esplicarsi, ovviamente, solo tramite separazione personale, non essendo
all’epoca il divorzio permesso). Così, una decisione della Rota Romana del 1595
(cfr. Bononien. restitutionis dotis,
16 maggio 1595) stabilì che « Placuit Dominis, sententiam esse confirmanda:
quia cum convenerit, ut in eventum separationis tori, D. Constantius teneretur
D. Lisiae eius uxori praestare scuta 270, pro alimentis, et si in solutione
eorum cessaverit per annum, ipsa possit agere ad restitutionem totius dotis:
& D. Constantius dictam summam non solverit anno 1589. necessario sequitur,
quod dos eidem D. Lisiae debeat restitui »; sulla base della rimanente parte
della motivazione sembra possibile inferire che il pactum nuptiale era stato concluso in vista di una futura possibile
separazione solemniter iudicio ecclesiae
facta, evento che
[4] Oberto, « Prenuptial Agreements in Contemplation of
Divorce » e disponibilità in via preventiva dei diritti connessi alla crisi
coniugale, cit., p. 171 ss.; Id.,
Prenuptial Agreements in Contemplation of
Divorce: European and Italian Perspectives, in Aa. Vv., Party Autonomy in European Private (and)
International Law, Tome I, Edited by Ilaria Queirolo,
Bettina Heiderhoff, Ariccia, 2015,
p. 221 ss. (anche in Contratto e
impresa/Europa, 2016, p. 135 ss.). V. inoltre Al Mureden, Le
rinunce nell’interesse della famiglia e la tutela del coniuge debole tra legge
e autonomia
privata, in Familia,
2002, p. 1014; Id, I prenuptial agreements negli Stati Uniti e
nella prospettiva del diritto italiano, in Fam. e dir., 2005, p. 543.
[5] Basterà al riguardo effettuare una ricerca tramite Google sulla rete, oppure digitare l’espressione prenuptial agreement all’indirizzo www.wikipedia.org.
[6] C.d. independent legal counsel o independent legal advice: cfr. anche http://www.prenuptialagreements.org/; http://www.lawdepot.com/contracts/prenuptial-agreement/.
[7] Clancy, A Treatise of the Rights, Duties, and
Liabilities of Husband and Wife, at Law and in Equity, First American, from
the Third
[8] Cfr. ad es. Davidson, Pre-nuptial agreements, in Recent Developments in English Family Law,
Updated August 2004, già disponibile al sito web seguente: http://www.cr-law.co.uk.
[9] Leech, “With All My Worldly Goods I Thee Endow”?
The Status of Pre-Nuptial Agreements in England and Wales, in Fam. L.Q., 34, 2000, p. 193 ss. Sul tema v. anche Panforti, Gli accordi patrimoniali fra autonomia dispositiva e disuguaglianza
sostanziale. Riflessioni sul Family Law Amendment Act 2000 Australiano, in Familia, 2002, p. 156.
[10] Approfondimenti e commenti in Oberto, Contratti prematrimoniali e accordi preventivi sulla crisi coniugale, cit., p. 71 ss.; Id., Prenuptial Agreements in Contemplation of Divorce: European and Italian Perspectives, cit., p. 228 ss.; Scherpe, Rapporti patrimoniali tra coniugi e convenzioni prematrimoniali nel common law - alcuni suggerimenti pratici, in Riv. dir. civ., 2017, p. 920 ss.
[11] Panforti, op. loc. ultt. citt.
[12] Cfr. la relazione sul Bills
Digest No. 88 1999-2000, Family Law Amendment Bill 1999, preparato
nel 1999 dal Department of the Parliamentary Library del Parliament
of Australia, consultabile all’indirizzo web seguente:
https://www.aph.gov.au/Parliamentary_Business/Bills_Legislation/bd/Bd9900/2000bd088.
[13] Approfondimenti e commenti in Oberto, Contratti prematrimoniali e accordi preventivi sulla crisi coniugale, cit., p. 74 ss.; per i modelli di Eheverträge tedeschi v. anche Oberto, I contratti della crisi coniugale, I, cit., p. 540 ss.; Id., Prenuptial Agreements in Contemplation of Divorce: European and Italian Perspectives, cit., p. 225 ss.
[14] Per un’ampia trattazione al
riguardo cfr. Wönne, Vereinbarungen zum Ehegattenunterhalt,
in Aa. Vv., Das
Unterhaltsrecht in der familienrechtlichen Praxis, a cura di Dose, München, 2011, p. 1184 ss.
[15] Oberto, I contratti
della crisi coniugale, I, cit., p. 540 ss., cui si fa rinvio anche per approfondimenti,
e per la disamina di concreti modelli e clausole adottati in Germania. Per
ulteriori considerazioni sul diritto tedesco v. però anche i rilievi da chi
scrive svolti sulla giurisprudenza d’oltre Reno a partire da una decisione del Bundesverfassungsgericht del 2001 ed una
sentenza del 2004 del Bundesgerichtshof,
a parziale
modifica di una giurisprudenza che, come detto, da sempre ammetteva l’assoluta
validità delle intese prenuziali sulla sorte dell’assegno di divorzio (Id., Contratti
prematrimoniali e accordi preventivi sulla crisi coniugale, cit., p. 89 ss.).
[16] Cfr. gli artt. 3 – per le convivenze eterosessuali – e 22 – per le convivenze omosessuali – della legge catalana n. 10 del 15 luglio 1998, d’unions estables de parella/de uniones estables de pareja, secondo cui i conviventi, sin dall’inizio della loro unione, « pueden regular las compensaciones económicas que convengan en caso de cese de la convivencia con el límite de los derechos que regula este capítulo, que son irrenunciables hasta el momento en que son exigibles ».
[17] Per i richiami Oberto, Contratti prematrimoniali e accordi preventivi sulla crisi coniugale, cit., p. 75 ss.
[18] Ad ulteriore riprova di
tale osmosi, va ricordato che, nel 2010, anche a seguito dell’apertura in
Spagna del matrimonio alle coppie omosessuali, si è proceduto in Catalogna ad
una revisione delle disposizioni sulla convivenza more uxorio, con la conseguenza che oggi il codice civile della
citata regione autonoma iberica (cfr. le modifiche introdotte dalla Ley 25/2010, de 29 de julio) tratta in
modo uniforme le coppie conviventi omosessuali ed eterosessuali, concedendo
loro la possibilità, ove non intendano accedere al matrimonio, di stipulare una escriptura pública, nella quale esse
regolino svariati aspetti patrimoniali della loro unione, persino « en previsió
del cessament de la convivència » (cfr. artt. 234-1 – 234-14 del Codi Civil de Catalunya), con espresso
rinvio, in questo caso, alla dettagliata normativa degli accordi
prematrimoniali all’uopo predisposta dal codice, all’art. 231-20.
Di estremo interesse
appaiono le previsioni proprio di tale ultima disposizione:
« 231-20. Pactes en previsió d’una
ruptura matrimonial
1. Els pactes en previsió d’una ruptura matrimonial es poden atorgar en
capítols matrimonials o en una escriptura pública. En cas que siguin
avantnupcials, només són vàlids si s’atorguen abans dels trenta dies anteriors
a la data de celebració del matrimoni.
2. El notari, abans d’autoritzar l’escriptura a què fa referència l’apartat
3. Els pactes d’exclusió o limitació de drets han de tenir caràcter
recíproc i precisar amb claredat els drets que limiten o als quals es renuncia.
4. El cònjuge que pretengui fer valer un pacte en previsió d’una ruptura
matrimonial té la càrrega d’acreditar que l’altra part disposava, en el moment
de signar-lo, d’informació suficient sobre el seu patrimoni, els seus ingressos
i les seves expectatives econòmiques, sempre que aquesta informació fos
rellevant amb relació al contingut del pacte.
5. Els pactes en previsió de ruptura que
en el moment en què se’n pretén el compliment siguin greument perjudicials per
a un cònjuge no són eficaços si aquest acredita que han sobrevingut
circumstàncies rellevants que no es van preveure ni es podien raonablement
preveure en el moment en què es van atorgar ».
[19] Oberto,
Les contrats prénuptiaux en prévision d’un éventuel divorce et le rôle du
notaire dans la prédétermination des conséquences de la crise du couple, in Europa e diritto privato,
[20] Non andrà peraltro trascurato che quello stesso ordinamento permette ai coniugi, sul versante dei regimi patrimoniali, un’ampia gamma di intese tramite le quali costoro possono, tra l’altro, aménager il regime legale di comunione in contemplazione di un possibile divorzio, prevedendo, in base ad una tradizione risalente al droit coutumier, l’inserimento di clausole che vanno dalla attribuzione (a titolo sia gratuito che oneroso) di beni personali di un coniuge al coniuge superstite, all’assegnazione, all’atto dello scioglimento, di beni comuni, previo pagamento di una somma di denaro predeterminata, o alla facoltà per l’uno o l’altro dei coniugi di prelevare, sempre in occasione dello scioglimento, determinati beni a titolo gratuito, o, ancora, alla possibilità di prestabilire la divisione della massa (o di parte di essa) in parti non uguali, o, infine, all’attribuzione dell’intera massa ad uno solo dei coniugi, con diritto, per l’altro ad ottenere una somma a titolo forfetario (Oberto, La comunione legale tra coniugi, nel Trattato di diritto civile e commerciale, già diretto da Cicu, Messineo e Mengoni, continuato da Schlesinger, Milano, 2010, I, p. 52 ss., ss. 380 ss.; v. anche Id., Contratti prematrimoniali e accordi preventivi sulla crisi coniugale, cit., p. 75 s.; Id., Attualità del regime legale, cit., p. *** ss.).
[21] Ulteriori rilievi di tipo comparato sono disponibili in Oberto, Contratti prematrimoniali e accordi preventivi sulla crisi coniugale, cit., p. 75 s.
[22] Così Aras Kramar, The transformation of divorce procedure in Europe, in Familia, 2018, p. 277 ss., 298.
[25] Non solo: l’accordo sulla
scelta della legge applicabile al regime patrimoniale ben potrà essere
effettuato prima del matrimonio, come chiaramente stabilito dal considerando n.
45 e come del resto reso chiaro dall’art. 22, che consente tale accordo ai coniugi,
ma anche ai nubendi, tanto più che l’accordo tra nubendi sulla legge
applicabile al regime patrimoniale ben può includere i rapporti patrimoniali
che si verranno a determinare anche in conseguenza dello scioglimento del
matrimonio, secondo quanto disposto dall’art. 3.
[26] C.d. Roma III: cfr. il Regolamento (UE) n. 1259/2010 del Consiglio del 20 dicembre 2010, relativo all’attuazione di una cooperazione rafforzata nel settore della legge applicabile al divorzio e alla separazione personale, disponibile online al sito web seguente: http://eur-lex.europa.eu/LexUriServ/LexUriServ.do?uri=OJ:L:2010:343:0010:0016:IT:PDF.
[27] Cfr. art. 5, para. 2, Regolamento n. 1259/2010 cit.
[28] In questo senso anche Rimini, Arrivano i patti prematrimoniali, in La Stampa, 23 novembre 2006, p. 25.
[29] Di « porta aperta agli
accordi prematrimoniali » parlano anche Velletti
e Calò, La disciplina europea del divorzio, in Corr. giur., 2011, p. 733.
[31] Cfr. art. 3, par. 1, lett.
c; art. 22, par. 1; art. 22, par. 1, lett. a, b. Non solo: l’accordo può avere
chiaramente ad oggetto anche gli effetti dello scioglimento dell’unione
affettiva, come reso chiaro dagli artt. 3 e 27 del citato regolamento. Nel
sistema di tale strumento normativo è dunque chiaro che una « convenzione tra partner » è un accordo che ben può
essere concluso (addirittura!) prima dell’inizio della unione registrata e ben
può avere ad oggetto (anche, o solo) la divisione, distribuzione o liquidazione
dei beni all’atto dello scioglimento dell’unione registrata. Ove trasposto alla
realtà italiana il nuovo istituto ha ad oggetto non già le convivenze di fatto
(cfr. art. 3, 1.a: la registrazione è obbligatoria, laddove non è così per le
italiche unioni di fatto), ma certamente le unioni civili, per cui, però, le «
convenzioni tra partner » altro non
sono che le convenzioni matrimoniali, richiamate nel comma 13 (dell’art. unico
di cui si compone la l. 20 maggio 2016, n. 76), mercé il rinvio all’art. 162
c.c.
[32] Oberto, Contratti prematrimoniali e accordi preventivi sulla crisi coniugale, cit., p. 78.
[33] Cass., 3 maggio 1984, n.
[34] Per una completa analisi cfr. Oberto, I contratti della crisi coniugale, I, cit., p. 562 ss.; id., Contratti prematrimoniali e accordi preventivi sulla crisi coniugale, cit., p. 78 ss.
[35]
Cass., 11 giugno 1981, n.
[36]
Cass., 20 maggio 1985, n.
[37] Cass., 11 dicembre 1990, n.
[38] Cass., 2 luglio 1990, n. 6773.
[39] Cass., 1 marzo 1991, n. 2180 (ivi peraltro si trattava del tema dell’assegnazione della casa familiare).
[40]
Cass., 20 settembre 1991, n.
[41] Cass., 6 dicembre 1991, n. 13128.
[42]
Cass., 4 giugno 1992, n.
[43] Così, ad esempio, si vedano: Cass., 11 agosto 1992, n.
[44]
Cass., 14 giugno 2000, n.
[45]
Cass., 1 dicembre 2000, n.
[46]
Cass., 13 gennaio 2012 n.
[47] Nella specie, l’accordo,
consacrato nel verbale di separazione personale, era testualmente concepito nei
termini seguenti: « L’immobile in questione verrà posto in vendita a terzi con
modalità che i coniugi stessi stabiliranno di comune accordo, quando i figli L.
e V. trasferiranno altrove la loro residenza e quindi tale abitazione non sarà
più di loro necessità ». Ora, di fronte ad una simile intesa,
[48] Il caso è assai semplice.
Un giorno prima della celebrazione delle nozze, i futuri coniugi sottoscrivono
una scrittura privata, che, secondo quanto è dato desumere dalla motivazione
della decisione di legittimità, appare concepita nei termini seguenti: « in
caso di fallimento del matrimonio (separazione o divorzio) la moglie cederà al
marito un immobile di sua proprietà, quale indennizzo delle spese sostenute
dallo stesso per la ristrutturazione di altro immobile, pure di sua proprietà,
da adibirsi a casa coniugale; a saldo, comunque, il marito trasferirà alla
moglie un titolo BOT di lire 20.000.000 ». Sulla base di siffatto impegno,
sopravvenuto il giudizio divorzio, il marito propone in tale ultimo processo,
in via riconvenzionale, domanda ex
art. 2932 c.c. per ottenere una sentenza che tenga luogo del trasferimento
immobiliare non effettuato: petitum,
questo, che viene rigettato dal tribunale, laddove la corte d’appello dichiara
« valido ed efficace » l’impegno, « omettendo peraltro pronuncia ex art. 2932 c.c., ed invitando la parte
interessata ad attivarsi, al riguardo, in separata sede ». La moglie propone
allora ricorso contro tale statuizione, appoggiandosi alla tradizionale
giurisprudenza di legittimità sulla nullità delle intese tra coniugi in vista
del divorzio, per violazione dell’art. 160 c.c.
[49]
In tutta onestà, neppure questa volta
il risultato di tale raffinata Haarspaltung
appare condivisibile. In primis si
dovrà notare che la « prematrimonialità » di un contratto della crisi coniugale
nulla ha a che vedere con la sua eventuale « globalità », atteso che nessuno è
in grado di prevedere quali e quanto complessi saranno i rapporti economici
dopo un periodo magari pluriennale di convivenza uti coniuges. Né essa risulta necessariamente legata allo specifico
tema dell’assegno: proprio
[50]
Cfr. ad es. Cass., 18 settembre 2012, n. 15640: qui
[51]
Cass., 5 luglio 1984, n.
[52]
Cass., 12 maggio 1994, n.
[53] Quadri, Autonomia dei
coniugi e intervento giudiziale nella disciplina della crisi familiare, in Familia, 2005, p. 12.
[54]
Cass., 13 gennaio 1993, n.
[55]
Apprendo questa informazione dalla
lettura della decisione di merito confermata dalla sentenza qui in commento,
vale a dire App. Ancona, 14 marzo 2007, n.
[56] Cfr. App. Ancona, 14 marzo 2007, cit.
[57] Per la trattazione del tema si fa rinvio a Oberto, I contratti della crisi coniugale, I, cit., p. 605 ss.; Id., Contratti prematrimoniali e accordi preventivi sulla crisi coniugale, cit., p. 83 s.
[58] Cfr. App. Ancona, 14 marzo 2007, cit.
[59] Cass., 21 agosto 2013, n. 19304.
[60] Cfr. Cass. 20 agosto 2014,
n.
[61] Cfr. Cass., 3 dicembre 2015, n. 24621, nella cui motivazione si dà atto della circostanza che la giurisprudenza più recente non riterrebbe più gli accordi preventivi sul divorzio come contrari all’ordine pubblico (ma nella specie non di un accordo preventivo si trattava, bensì di un’intesa intervenuta in corso di causa).
[62] Cass., 13 gennaio 2017, n. 788.
[63]
Cfr. Cass., 30 gennaio 2017, n.
[64]
Sulla decisione v. peraltro le osservazioni critiche di Rimini, Funzione
compensativa e disponibilità del diritto all’assegno divorzile. Una proposta
per definire i limiti di efficacia dei patti in vista del divorzio, in Fam. e dir., 2018, p. 1047, n. 32, ad
avviso del quale è « opportuno rilevare che, nella vicenda esaminata dalla
Corte – stando alla descrizione del giudizio di merito che si legge nella prima
parte della sentenza – i coniugi non avevano affatto stipulato un patto in
vista del divorzio. Semplicemente il marito aveva riconosciuto alla moglie un
rilevante capitale e la Corte d’Appello aveva negato alla stessa un assegno
divorzile solo sulla base di questa circostanza “attribuendole la valenza di
anticipazione non solo dell’assegno di separazione, ma addirittura di quello di
divorzio”. La Cassazione ha cassato con rinvio la sentenza di merito ritenendo
che essa avesse omesso di applicare i criteri per il riconoscimento e la
determinazione dell’assegno divorzile indicati all’art. 5, comma
[65] Rimarca Gorgoni, Accordi definitivi in funzione del divorzio: una nullità da ripensare, cit., p. 302, nota 23, che « La Suprema Corte collega la propria pronuncia del 2017 ai precedenti anche risalenti, senza aprire ad altri ragionamenti, con una pigra ripetizione di frasi oramai disallineate dal tessuto normativo e dall’evoluzione complessiva dell’ordinamento ».
[66] Per un caso di questo genere cfr. Cass., 21 luglio 1971, n. 2374; sull’irrinunziabilità del diritto a chiedere la separazione v. anche Cass., 6 marzo 1969, n. 714.
[67] Oberto, Contratti prematrimoniali e accordi preventivi sulla crisi coniugale, cit., p. 83 ss.
[68]
Cass., 19 gennaio 1985, n.
[69] Cass., 11 gennaio 1986, n. 102; in Foro it., 1986, I, c. 936; in Giust. civ., 1986, I, p. 1009.
[70] Cass., 19 gennaio 1985, n. 150.
[71]
Cass., 21 febbraio 1992, n.
[72] Oberto, Contratti prematrimoniali e accordi preventivi sulla crisi coniugale, cit., p. 85.
[73] Cfr., con riferimento al
dovere di mantenimento ex art. 145
c.c. 1942, Rossi Carleo, Pronuncia di divorzio e domanda di assegno, Nota a Trib. Roma, 23
settembre
[74] Cfr. Cass., 9 gennaio 1976,
n. 40; Cass., 6 novembre 1976, n. 4034; per analoghe considerazioni v. anche Doria, Autonomia
privata e « causa » familiare. Gli accordi traslativi tra i coniugi in occasione della separazione personale e del divorzio, Milano, 1996, p. 73 ss.;
184 s.
[75] Oberto, Contratti prematrimoniali e accordi preventivi sulla crisi coniugale, cit., p. 85.
[76] Cfr. per es. E. Bianchi, Trattato dei rapporti
patrimoniali dei coniugi secondo il codice civile italiano, Pisa, 1888, p.
70; analoghe considerazioni in Fr. Ferrara
Sen., Teoria del negozio illecito nel
diritto civile italiano, Milano, 1902, p. 112.
[77] Condivide la soluzione, già
proposta dallo scrivente (cfr. Oberto,
Le convenzioni matrimoniali: lineamenti
della parte generale, in Fam. e dir.,
1995, p. 601 ss.), Angeloni, Autonomia privata e potere di disposizione
nei rapporti familiari, Padova, 1997, p.113.
[78]
In questo senso cfr. Cass., 11 agosto 1992, n.
[79] Cfr. Oberto, I contratti della crisi coniugale, I, cit. p. 494 ss., 554 ss., 589 ss.; Id., « Prenuptial agreements in contemplation of divorce » e disponibilità in via preventiva dei diritti connessi alla crisi coniugale, cit., p. 171 ss.; Id., Contratto e famiglia, cit., p. 253 ss.; Id., Gli accordi preventivi sulla crisi coniugale, cit., p. 25 ss.
[80] Cfr. Oberto, Per un intervento normativo in tema di accordi preventivi sulla crisi della famiglia, in Aa. Vv., Accordi in vista della crisi dei rapporti familiari, cit., p. 33 ss.
[81] Cfr. Aa. Vv., Accordi in vista della crisi dei rapporti familiari, cit., passim. Una sintetica, ma brillante ed accurata ricostruzione delle ragioni che presiedono alla tesi della perfetta ammissibilità dei patti prematrimoniali già de iure condito è rinvenibile in Grondona, op. locc. ultt. citt., cui si fa rinvio anche per una serrata critica dell’italica tendenza alla « giurisdizionalizzazione che assume il tratto dell’ipergiurisdizionalizzazione, e che come tale è stata almeno in parte contrastata dai recenti interventi legislativi » (ma, sia consentito aggiungere, esasperata dall’intervento del 2018 delle Sezioni Unite in tema di assegno divorzile). Di rilevante interesse anche l’analisi di Palazzo, Contratti in vista del divorzio e assegno postmatrimoniale, in Aa. Vv., Accordi in vista della crisi dei rapporti familiari, cit., p. 255 ss.
[82] Per le necessarie riflessioni in proposito cfr. Oberto, I contratti della crisi coniugale, I, cit., p. 618 ss.; Id., Contratti prematrimoniali e accordi preventivi sulla crisi coniugale, cit., p. 87 ss.
[83] Cfr. Oberto, Il patto di famiglia, Padova, 2006, p. 7.
[84] Anche Rimini, Funzione compensativa e disponibilità del diritto all’assegno
divorzile. Una proposta per definire i limiti di efficacia dei patti in vista
del divorzio, cit., p. 1043, osserva che « certamente una riflessione sul
tema della validità dei patti in vista del divorzio è quanto mai opportuna. La
tradizionale affermazione della loro nullità riguarda infatti sia i patti
stipulati al momento del matrimonio, o prima di esso e in vista del suo
eventuale fallimento, sia i patti stipulati al momento della separazione per
regolamentare il probabile e prossimo scioglimento del vincolo nel contesto di
una crisi coniugale già attuale. In relazione a quest’ultima ipotesi, non può
sfuggire che la riforma del 2015 – che, modificando l’art. 3, n. 2, lett. b, l.
div., ha ridotto a sei mesi la durata minima della separazione quale
presupposto del divorzio nell’ipotesi in cui la separazione sia consensuale –
attribuisce al problema un rilievo pratico ancora maggiore rispetto al passato.
È infatti naturale che i coniugi, raggiungendo un accordo al momento della
separazione, proiettino l’efficacia della loro transazione oltre un orizzonte
temporale di sei mesi e vogliano quindi definire i loro rapporti anche nella
prospettiva del prossimo divorzio ».
[85]
Cfr. Cass., 10 maggio 2017, n.
[86]
Cfr. Cass., Sez. Un., 11 luglio 2018, n.
[87]
Assai giustamente Macario, Una decisione anomala e restauratrice delle
sezioni unite nell’attribuzione (e determinazione) dell’assegno di divorzio,
Nota a Cass., Sez. Un., 11 luglio 2018, n.
[88] Cfr. per tutti Oberto, Sulla natura disponibile degli assegni di separazione e divorzio: tra
autonomia privata e intervento giudiziale, in Fam. e dir., 2003, p. 389 ss. (parte I), 495 ss. (parte II) e già Id., I contratti della
crisi coniugale, I, cit., p. 388 ss., 421 ss.
[89]
Il dato è saggiamente posto in evidenza da numerosissimi commentatori: cfr. per
tutti Macario, op. loc. ultt. citt.; Morace Pinelli,
L’assegno divorzile dopo l’intervento
delle sezioni unite, Nota a Cass., Sez. Un., 11 luglio 2018, n.
[90] Come condivisibilmente osservato da Patti, Assegno di divorzio: il “passo indietro” delle Sezioni Unite, in Corr. giur., 2018, p. 1200, la determinazione dell’ammontare dell’assegno divorzile, dopo la decisione delle Sezioni Unite, « rimane affidata ad una valutazione del giudice eccessivamente discrezionale ».
[91] Cfr. Fusaro, La sentenza delle sezioni unite sull’assegno di divorzio favorirà i patti prematrimoniali?, in Fam. e dir., 2018, p. 1038.
[92] Come dimostrato in altra sede dallo scrivente: cfr. Oberto, I contratti della crisi coniugale, I, cit., p. 418 ss., 442 ss.
[93] L’equivoco è ancora presente in una parte piuttosto consistente della dottrina contemporanea: cfr. ad es. Bargelli, L’autonomia privata nella famiglia legittima, il caso degli accordi in occasione o in vista del divorzio, in Riv. crit. dir. priv., 2001, p. 303 ss., che individua tra i limiti di liceità degli accordi sul divorzio proprio quello nascente dall’inderogabilità dell’obbligazione alimentare (cfr. Ead., op. cit., p. 313, nota 37): vincolo, questo, che, come noto, esiste tra coniugi, certo, ma non tra divorziati. In quest’ottica sembra collarsi anche Gorgoni, Accordi in funzione del divorzio tra autonomia e limiti, in Persona e mercato, 2018, p. 237, secondo cui « Certamente invalida sarebbe, invece, una rinuncia alla componente assistenziale-alimentare dell’assegno di divorzio, essendo quest’ultima attuativa del principio di solidarietà post-coniugale ». Qui l’erezione a totem del dogma della solidarietà post-coniugale porta addirittura a confondere le due ben distinte funzioni, con conseguente violazione del principio di tassatività dell’elenco normativo dei soggetti tenuti alla prestazione alimentare e (indebita) applicazione della regola dell’irrinunziabilità dettata per questa sola seconda cerchia di soggetti anche a chi, come l’ex coniuge, da tale elenco risulta, per volontà legislativa, escluso (per una presentazione delle ragioni che presiedono alla necessità di distinguere – e continuare a continuare a tenere ben distinte tra di loro – funzione assistenziale e funzione alimentare v. per tutti Oberto, I contratti della crisi coniugale, II, Milano, 1999, p. 798 ss., 844 ss.).
[94] Cfr. Rimini, Funzione compensativa e disponibilità del diritto all’assegno divorzile.
Una proposta per definire i limiti di efficacia dei patti in vista del divorzio,
cit., p. 1042. Anche Gorgoni, Accordi in funzione del divorzio tra
autonomia e limiti, cit., p. 237, rileva che « Sembra esserci un collegamento
logico tra queste due asserzioni: l’ampliamento della funzione dell’assegno
oltre la mera assistenza induce la Suprema Corte ad affermare la natura
«prevalentemente disponibile» dei diritti rilevanti nello scioglimento del
matrimonio ».
[95] Così Palazzo, Contratti in vista del divorzio e assegno postmatrimoniale, cit., p. 280.
[96] Così, almeno in parte, anche Rimini, op. locc. ultt. citt.