LA CONVIVENZA DI FATTO.
I RAPPORTI PATRIMONIALI ED IL CONTRATTO
DI CONVIVENZA
1. Introduzione. La definizione di «convivenza di fatto»: carattere «familiare» ed estensione della stessa. 2. Segue. La posizione dei conviventi «vincolati» da matrimonio ed i riflessi sui contratti di convivenza. 3. Gli effetti patrimoniali della convivenza e i (gravi) silenzi della riforma (rinvio). 4. Il contratto di convivenza: considerazioni generali; tipicità del negozio e contenuto esclusivamente patrimoniale. 5. Il contratto di convivenza: forma e impossibilità di conclusione per fatti concludenti. 6. Il contratto di convivenza e la sua «pubblicità». 7. Il contratto di convivenza e i contenuti mancati. 8. Il contratto di convivenza e il «regime primario» di contribuzione. Il contratto di mantenimento. 9. Segue. Modo e
misura della contribuzione convenzionale tra conviventi. 10. Segue. Sulla
possibilità di fissare (o, per converso, di escludere) limiti temporali alla
contribuzione tra conviventi. 11. Segue. Sulla
possibilità di apporre termini o condizioni. 12. Il regime dei beni e degli acquisti. La comunione tra
conviventi introdotta dalla novella. Principali problemi posti dal rinvio
agli artt. 177 ss. c.c. 13. Segue. La
concreta estensione del principio di libertà contrattuale. 14. Dies a quo e
dies ad quem di operatività del
regime di comunione tra conviventi. Risoluzione del contratto di convivenza. 15. Il
regime patrimoniale della rottura (contenziosa o consensuale) della
convivenza di fatto. |
1.
Introduzione. La definizione di «convivenza di fatto»: carattere
«familiare» ed estensione della stessa.
Il considerevole lasso di tempo sprecato e la quantità
di energie profuse nel lungo processo che ha portato all’affermazione (peraltro
solo parziale) dei basilari principi di civiltà giuridica che stanno alla base
della riforma qui in commento, hanno purtroppo distolto l’attenzione da quelli
che sono i veri problemi della
disciplina introdotta con la riforma. Ci si intende riferire a quelle gravi ed
imperdonabili lacune, a quei difetti di coordinamento con il sistema
(civilistico e pubblicistico) vigente, a quelle irrimediabili «cadute» di
tecnica legislativa e a quelle aperte dimostrazioni di assoluta ignoranza dei
più elementari principi dell’ordinamento, che, già segnalate in altra sede con
riguardo al profilo delle unioni civili [1], si squadernano in tutta la loro gravità nella
disciplina della «convivenza di fatto», proprio con particolare riferimento ai
delicatissimi profili di carattere patrimoniale [2].
Va detto, a mo’ di premessa, che, prima ancora di
entrare nel dettaglio delle relazioni di tipo patrimoniale tra conviventi, la
novella tenta di fornire una definizione del rapporto che, per l’appunto,
quelle relazioni dovrebbero presupporre [3]. Peraltro, chiamando «“conviventi di fatto” due
persone maggiorenni unite stabilmente da legami affettivi di coppia e di
reciproca assistenza morale e materiale, non vincolate da rapporti di
parentela, affinità o adozione, da matrimonio o da un’unione civile» (comma 36,
art. 1, 1, l. 20 maggio 2016, n. 76, «Regolamentazione delle unioni civili tra
persone dello stesso sesso e disciplina delle convivenze», in G. U. n.118 del
21 maggio 2016, in vigore dal 5 giugno 2016), il legislatore omette di colmare,
già da subito, la gravissima lacuna costituita dalla mancata specificazione dei
limiti di rilevanza dei citati rapporti di parentela o affinità, prevista
invece per gli impedimenti matrimoniali (e dell’unione civile), per i quali
sono espressamente individuati i gradi (di parentela e affinità) entro cui la
creazione del rapporto non viene consentita (cfr. art. 87 c.c., richiamato per
l’unione civile dall’art. 1, comma 4, lett. c),
della riforma qui in commento) [4]. Il problema, atteso il carattere eccezionale della
disposizione, non sembra superabile mercé il ricorso all’analogia rispetto al
matrimonio. Alla convivenza more uxorio,
dunque, tra parenti e affini in qualsiasi grado (anche eventualmente remoto),
non saranno applicabili le disposizioni speciali dettate dalla riforma in
esame.
Un punto, se non altro, può darsi per fermo. Come si è
detto in altra sede per l’unione civile [5], anche in relazione alla convivenza di fatto il
legislatore italiano riconosce tale formazione sociale, espressamente, come
«famiglia», come appare desumibile dalla semplice lettura, ad es., dei commi 45
e 61, secondo periodo, del testo in commento, o dall’art. 230-ter c.c., introdotto dal comma 46.
Nessun dubbio, poi, sul fatto che la parte della
riforma destinata ai «conviventi di fatto» si applica non solo alle coppie
formate da soggetti di sesso diverso, bensì anche alle coppie omosessuali i cui
membri non intendano celebrare un’unione civile. Il contrario avviso, già
comparso in alcuni dei primissimi commenti [6], soffre dell’influenza dell’errata visione che ha
condotto a trasfondere in unico, certo non brillante, testo legislativo le
risposte (rectius: i conati di
risposta) a due istanze fondamentalmente diverse, se non addirittura opposte
tra di loro: vale a dire, da un lato, la richiesta da parte del mondo (rectius: di una parte del mondo)
omosessuale di aprire il matrimonio alle coppie dello stesso sesso e,
dall’altro, l’esigenza di fornire regole agevoli e «leggere» per le coppie
(omosessuali o eterosessuali che siano), le quali consapevolmente desiderino
convivere senza assumere i diritti e i doveri nascenti dal matrimonio o
dall’unione civile [7].
2. Segue. La posizione dei conviventi
«vincolati» da matrimonio ed i riflessi sui contratti di convivenza.
Considerazioni analoghe a quelle presentate nel §
precedente valgono per la convivenza che si caratterizzi per l’essere i partners – o anche uno solo di essi –
privi dello stato libero. Per questa ragione sarà opportuno anticipare qui
considerazioni che valgono per la specifica materia dei contratti di
convivenza.
Chi scrive aveva avuto modo di chiarire in altre sedi
(cui si fa rinvio, al fine di non appesantire la presente trattazione), prima
dell’approvazione della novella in esame, che l’assenza di stato libero in capo
ad uno o ad entrambi i partners ben
difficilmente avrebbe potuto dispiegare conseguenze sulla validità di eventuali
contratti di convivenza [8]. Oggi, a fronte di una normativa che, come quella in
esame, limita espressamente la nozione di convivenza di fatto alle persone «non
vincolate da rapporti di parentela, affinità o adozione, da matrimonio o da
un’unione civile», appare inevitabile concludere che le disposizioni in esame
non possano trovare applicazione con riguardo ai casi di convivenze composte da
soggetti di cui uno sia legato o civilmente unito ad una terza persona (o,
ovviamente, entrambi siano legati o civilmente uniti a terze persone), a
prescindere dal fatto che il matrimonio (o l’unione civile) sia in uno stato di
crisi che abbia dato luogo ad una separazione legale [9].
In altre parole, occorre constatare che il riformatore
del 2016, fuorviato dalla confusione concettuale derivante dall’aver trattato
nel medesimo testo normativo di due situazioni così radicalmente diverse, quali
l’unione civile e la convivenza di fatto [10], ha ritenuto di dover individuare, anche in relazione
alla convivenza more uxorio, qualcosa
di analogo ad una categoria di «impedimenti», ad instar di quanto accade per il matrimonio e l’unione civile. Il
sospetto testé rappresentato è, del resto, destinato a ricevere conferma dalla
considerazione delle norme in materia di nullità del contratto di convivenza [11].
Ora, va considerato che, come si chiarirà anche in
seguito, qualsiasi contratto diretto a regolare i rapporti patrimoniali tra i
conviventi a causa della convivenza è «contratto di convivenza», secondo la
definizione della novella, che di tale negozio ha fatto un contratto nuovo e
tipico. E’ evidente quindi che un soggetto che si trovi nella situazione
descritta dalla legge come impeditiva, proprio a causa della citata norma sulla
nullità, non potrà stipulare quel tipo di contratto. Ne deriva dunque che il
notaio che riceverà l’atto pubblico contenente un contratto di convivenza, o il
notaio o l’avvocato che ne autenticheranno la relativa scrittura privata,
dovranno accertarsi dello stato libero di entrambe le parti contraenti, anche
in considerazione del fatto che, come previsto dal comma 51 dell’art. 1 della
novella qui in commento, essi dovranno attestare la conformità degli accordi
«alle norme imperative e all’ordine pubblico».
Quanto appena detto non vale (e si ritorna così al
principio generale di applicazione dei rimedi di diritto comune) per gli
effetti diversi dall’ammissibilità della stipula di contratti di convivenza,
così come per quelli non legati a profili disciplinati dalla riforma, proprio
perché lì non sussistono specifiche norme impeditive. Ne consegue che i
conviventi, pure se ancora vincolati da precedente matrimonio, ben potranno
invocare rimedi (non espressamente vietati dalla novella, anzi da questa
addirittura ignorati) quali l’obbligazione naturale, l’arricchimento ingiustificato,
la tutela possessoria, etc.
3. Gli
effetti patrimoniali della convivenza e i (gravi) silenzi della riforma
(rinvio).
Sarà il caso di far presente, a questo punto, che,
quanto agli effetti patrimoniali, la riforma in commento appare quanto mai
deludente.
Nulla è detto, infatti, con riguardo al
tema «classico» (e statisticamente assai più ricorrente e rilevante nel
contenzioso tra ex conviventi, rispetto, ad esempio, al contratto di
convivenza) della sussistenza di un’obbligazione naturale di assistenza morale
e materiale ed ai rimedi in qualche modo ad essa connessi, nei casi in cui il
soggetto naturaliter «obbligato»
abbia, sì, «adempiuto», ma poi si sia pentito (o, come sovente accade, sia
passato a miglior vita, lasciando eredi ferocemente determinati a «recuperare»
quanto dal loro dante causa, a loro avviso, ingiustamente «sperperato») e
richieda in restituzione l’esborso effettuato o, al contrario, mai abbia
soddisfatto il dovere morale e sociale di cui sopra, pur di fronte all’ «adempimento»
del partner, con le relative
conseguenze in tema di possibile esperimento dell’azione di arricchimento
ingiustificato e di ripetizione dell’indebito.
L’argomento non può essere qui svolto per
ragioni di spazio, per cui si rinvia ad altri lavori dello scrivente [12]. In questa sede sarà opportuno soffermarsi
soprattutto sul contenuto delle principali tra le scarsissime disposizioni
consacrate al tema dei rapporti patrimoniali tra conviventi, vale a dire i
commi da 50 a 64, dedicati, per l’appunto, ai contratti di convivenza. Altre
questioni d’ordine patrimoniale attengono alla disciplina della sorte, dopo la
rottura, della casa familiare [13], nonché all’impresa familiare [14].
4. Il
contratto di convivenza: considerazioni generali; tipicità del negozio
e contenuto esclusivamente patrimoniale.
Le numerose elaborazioni dottrinali e la casistica
giurisprudenziale [15] in tema di contratti di convivenza sembrano aver
lasciato del tutto indifferente il riformatore del 2016. Lo stesso è a dirsi
per la ricca messe di modelli e clausole che, nel 2013, nel perdurante vuoto
normativo, un’iniziativa del Consiglio Nazionale del Notariato, unica nel suo
genere, si era premurata di raccogliere e vagliare criticamente – sotto la
direzione e il coordinamento del prof. Luigi Balestra e dello scrivente – nel
contesto dell’elaborazione di un vero e proprio vademecum per la tutela patrimoniale del convivente more uxorio in sede di esplicazione
dell’autonomia negoziale [16].
Nessuno (o quasi), invero, dei temi ivi affrontati e
ampiamente discussi risulta essere stato preso minimamente in considerazione
dal testo qui in commento.
Il comma 50 apre la trattazione (si fa per dire) del
tema, con l’affermazione di principio secondo cui «I conviventi di fatto
possono disciplinare i rapporti patrimoniali relativi alla loro vita in comune
con la sottoscrizione di un contratto di convivenza».
Trattasi di enunciazione certamente opportuna, sebbene
stricto iure superflua. Pur essendo,
infatti, quasi universalmente accettata la tesi dell’ammissibilità di contratti
di convivenza, l’espressa previsione a livello legislativo era comunque
auspicabile, per almeno due motivi. Da un lato, per la funzione, per così dire,
«promozionale» dell’intervento, che avrebbe dovuto contribuire alla
realizzazione dello scopo di evitare la proposizione, in futuro, di lunghe ed
intricate controversie giudiziarie; dall’altro, in considerazione del fatto che
la previsione dell’ammissibilità della stipula di contratti di convivenza si
sarebbe potuta (e ragionevolmente dovuta: ma parlare di ragionevolezza con
questo legislatore appare esercizio del tutto vano!) accompagnare alla espressa
soluzione per via legislativa di alcuni dei rilevanti nodi ermeneutici che
dottrina e giurisprudenza non avevano mancato nel corso degli ultimi anni di
segnalare.
Purtroppo, la soluzione concretamente prescelta è una
tale miseria intellettuale e giuridica da vanificare del tutto la funzione
«promozionale» sopra evidenziata. Quanto alla soluzione dei problemi «tecnici»,
come si dirà tra poco, il numero delle questioni sollevate ex novo dalla novella appare decisamente superiore a quello dei
pochissimi interrogativi risolti.
Tornando al citato comma 1, andranno comunque
evidenziati gli scarsi «punti fermi» che sembrano individuabili.
In primo luogo va considerato che il riformatore del
2016 ha inteso tipizzare il contratto di convivenza. Ci troviamo così di
fronte, ora, ad un nuovo contratto tipico, sebbene non ritenuto «degno» di
essere inserito nel corpus del codice
civile [17].
In secondo luogo va sottolineata la (se non altro)
chiara presa di posizione in tema di contenuto dei contratti in oggetto, volta
per l’appunto ad escludere che il «contratto» (e non «patto», «accordo»,
«pattuizione», «negozio», «convenzione» o altro) possa avere ad oggetto
rapporti diversi da quelli patrimoniali (come è invece il caso, ad es., per il PACS francese).
Un cenno ai profili non patrimoniali si può forse
cogliere altrove, in particolare nel comma 36, che parla di reciproca
assistenza non solo materiale, ma anche «morale». In quella sede non si
stabilisce, però, la sussistenza di un dovere giuridico in tal senso,
limitandosi la disposizione a prevedere che, perché possa parlarsi di
«convivenza di fatto», le due parti siano «unite stabilmente da legami
affettivi di coppia e di reciproca assistenza morale e materiale». Il piano è
dunque quello delle constatazioni e dei presupposti della fattispecie, non
quello dei rapporti giuridici che dalla fattispecie discendono. La riforma
sembra quindi presupporre che vincoli giuridici di assistenza morale e
materiale non nascano né dal rapporto di fatto, né dalla stipula di un
contratto di convivenza. Anche «l’indicazione della residenza» sembra non
formare oggetto di alcun obbligo (cfr. il comma 53, lett. a: comunque la mancata
effettuazione di tale fissazione non risulta essere sanzionata, a differenza di
ciò che accade tra i coniugi, laddove analogo comportamento, ove riferibile ad
un coniuge, è punibile (ancorché in modo non automatico) con l’addebito della
separazione personale [18].
5. Il
contratto di convivenza: forma e impossibilità di conclusione
per fatti concludenti.
Il comma 51 prevede che «Il contratto di
cui al comma 50, le sue modifiche e la sua risoluzione, sono redatti in forma scritta,
a pena di nullità, con atto pubblico o scrittura privata con sottoscrizione
autenticata da un notaio o da un avvocato che ne attestano la conformità alle
norme imperative e all’ordine pubblico».
L’imposizione delle citate formalità, se
sicuramente commendevole (ma il discorso vale solo per l’atto pubblico in
presenza di testimoni) per ciò che attiene alla scelta del regime patrimoniale
degli acquisti, particolarmente se si ammette – come in effetti si vedrà a
tempo debito [19] – che i conviventi possano dar vita a regimi diversi,
in tutto o in parte da quello ex
artt. 177 ss. c.c., viene ad introdurre una prescrizione eccessivamente onerosa
per quanto riguarda profili quali l’obbligo di contribuzione o l’accordo volto
a fornire al convivente debole i mezzi di sussistenza, o altre provvigioni (si
pensi, ad es., all’abitazione nella casa familiare o in altri immobili), nel
caso di crisi del rapporto. Sul punto va tenuto presente che, come si dirà, un
contratto di convivenza può anche non contenere alcuna disposizione in tema di
regime patrimoniale degli acquisti: peraltro, anche in tale caso il citato
requisito formale «pesante» viene imposto.
Si noti, poi, che la pessima qualità della tecnica
legislativa adottata sembra, almeno a tutta prima, porre un problema di non
poco conto.
Ed invero, l’espressa menzione, prima dell’inciso «a
pena di nullità», della «forma scritta» sembra voler esprimere l’idea che la
regola formale ad substantiam investa
non già le due alternative dell’atto pubblico e della scrittura privata
autenticata (da notaio o avvocato), bensì la «forma scritta» in generale. Si
apre dunque, almeno come tesi astratta, la possibilità di una lettura che
ammetta la stipula di un contratto di convivenza per semplice scrittura
privata. Viene infatti da chiedersi per quale ragione sarebbe menzionata expressis verbis la forma scritta, posto
che non sembrano immaginabili atti pubblici o scritture private autenticate che
il requisito della forma scritta non soddisfino! A convincere, peraltro, della
non percorribilità di tale via soccorre il successivo comma 52, che, ai fini
della pubblicità dell’accordo, considera solo i casi dell’atto pubblico o della
scrittura privata autenticata.
La disposizione in materia di forma, pur a fronte
delle citate criticità, possiede, se non altro, l’unico pregio di porsi in
controtendenza rispetto alla china, presa da una parte della dottrina, anche di
quella più recente, circa la possibilità di desumere la conclusione di un
contratto di convivenza dal comportamento dei partners, «come espressione di una loro concorde volontà attuosa» [20]. In altri termini, secondo la teoria qui criticata,
la semplice instaurazione di una convivenza more
uxorio dovrebbe indurre a ritenere
l’esistenza di un accordo implicito diretto, quanto meno, alla prestazione
della contribuzione reciproca, se non alla ripartizione in misura uguale degli
incrementi di ricchezza accumulati durante il ménage. La proposta, riecheggiante assai da vicino la tesi dell’implied cohabitation contract,
che tanta fortuna ha avuto oltre Oceano, è stata da chi scrive in altra sede
criticata [21]. Non vi è dubbio, comunque, che, per effetto della
riforma qui in commento, ogni contratto riconducibile alla fattispecie in esame
dovrà non solo risultare frutto di un’esplicita manifestazione di volontà delle
parti, ma andrà rivestito della forma richiesta ora dalla legge.
Quanto sopra varrà anche in relazione a tutti quegli
accordi che prima della riforma si sarebbero potuti costituire vuoi verbis (si pensi, ad es., alla
determinazione della contribuzione o del mantenimento o alla concessione di un
comodato sulla casa familiare), vuoi anche solo con il semplice rispetto della
forma scritta (si pensi ancora alla concessione di un comodato sulla casa
familiare o alla costituzione di un diritto reale su di essa, ecc.). E’ chiaro,
infatti, che il contenuto del contratto descritto dal comma 53 cit., per come
testualmente presentato («Il contratto può
contenere…»), può essere il più vario e si estende ad abbracciare tutti, senza
distinzione alcuna, i possibili «rapporti patrimoniali relativi alla loro [i.e.: dei conviventi] vita in comune»
(cfr. il comma 50). Qualunque tipo di accordo così caratterizzato, dunque,
andrà considerato (anche a prescindere dalla sua possibile astratta
riconducibilità a figure negoziali diverse: comodato, donazione, mandato,
mantenimento vitalizio, ecc.) alla stregua di un contratto di convivenza e come
tale sottoposto alle regole formali di cui sopra.
6. Il
contratto di convivenza e la sua «pubblicità».
Dispone il comma 52 che, «Ai fini dell’opponibilità ai
terzi, il professionista che ha ricevuto l’atto in forma pubblica o che ne ha
autenticato la sottoscrizione ai sensi del comma 51 deve provvedere entro i
successivi dieci giorni a trasmetterne copia al comune di residenza dei
conviventi per l’iscrizione all’anagrafe ai sensi degli articoli 5 e 7 del
regolamento di cui al decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 1989,
n. 223». Ora, l’indicazione dell’iscrizione all’anagrafe ai sensi degli artt.
citt. non sembra possedere alcun senso compiuto. Le disposizioni in tema di
anagrafe, a differenza di quelle (rectius:
di taluni profili di quelle) in tema di stato civile, hanno esclusivamente ad
oggetto persone: certo non contratti [22]. Se dunque non interverrà una modifica normativa
della disciplina dell’anagrafe, non si riesce a comprendere come la disciplina
in commento potrà ricevere concreta attuazione.
Al di là di tali profili tecnici vi è
però un dubbio ancora più radicale.
Che significa, concretamente,
«opponibilità ai terzi»? Certo non si parla qui dell’opponibilità della convivenza. Convivenza e contratto
di convivenza sono fattispecie ben distinte. Ergo, quest’ultimo non viene in alcun modo in considerazione [23] quando il riformatore prevede, ad es.,
l’opponibilità, a determinati effetti, del rapporto more uxorio in sé e per sé considerato a certi soggetti: si pensi
agli eredi del proprietario della casa di residenza comune (comma 42), o al
locatore di quest’ultima (comma 44) o, ancora, agli enti o istituti che
procedono alla redazione delle graduatorie per l’assegnazione di alloggi di
edilizia popolare (comma 45). Soggetti, questi, tutti che sono sottoposti a
determinati effetti derivanti dal rapporto di convivenza di fatto tra due
persone con cui vengono in qualche modo in relazione, a prescindere dalla
sussistenza di un contratto di convivenza.
Se dunque si considera che il comma qui
in esame tratta della sola opponibilità del contratto di convivenza (e non della
convivenza in sé) e che, in difetto di disposizioni specifiche in deroga, vale
per il contratto il principio generale scolpito nell’art. 1372 c.c., attesa
l’assoluta povertà dei contenuti individuati dalla riforma (per i contenuti non
menzionati e certamente possibili, come si dirà in seguito, difettano comunque
principi espressi in deroga alla regola della privity of contract, per cui sarebbe vano ulteriormente strologare
al riguardo), resta che l’unico punto in relazione al quale siffatta opponibilità
potrebbe avere un qualche rilievo sarebbe quello del regime di comunione
legale. Ma anche con riguardo a tale aspetto, come si dirà a tempo debito [24], la disposizione non sembra possedere alcun senso
compiuto.
7. Il
contratto di convivenza e i contenuti mancati.
Prima di esaminare i contenuti del contratto di
convivenza previsti dalla riforma in commento sarà il caso di spendere qualche
parola su almeno alcune delle numerosissime situazioni e possibili pattuizioni
sulle quali la predetta ha (non si comprende se per dolo o colpa) omesso di
esprimersi.
In primo luogo occorrerà esternare il più vivo
rammarico per la mancata riproduzione di tre disposizioni assai rilevanti, pur
contenute nella prima versione del c.d. «testo Cirinnà» [25], vale a dire le seguenti:
«3) i diritti e le obbligazioni di natura patrimoniale
derivanti per ciascuno dei contraenti dalla cessazione del rapporto di
convivenza per cause diverse dalla morte;
4) che in deroga al divieto di cui all’articolo 458 e
nel rispetto dei diritti dei legittimari, in caso di morte di uno dei
contraenti dopo oltre sei anni dalla stipula del contratto spetti al superstite
una quota di eredità non superiore alla quota disponibile. In assenza di
legittimari, la quota attribuibile parzialmente può arrivare fino a un terzo
dell’eredità;
5) che nei casi di risoluzione del contratto di cui
all’articolo 17 della presente legge sia previsto l’obbligo di corrispondere al
convivente con minori capacità economiche un assegno di mantenimento
determinato in base alle capacità economiche dell’obbligato, al numero di anni
del contratto di convivenza e alla capacità lavorativa di entrambe le parti».
In particolare, la prima delle tre citate
disposizioni, sostanzialmente riproduttiva di quanto già stabilito da svariati
ordinamenti di diverse parti del mondo già numerosi anni fa, avrebbe
consentito, saggiamente, ai contraenti di predeterminare le conseguenze
patrimoniali di un’eventuale rottura dell’unione, con possibili (e benefiche)
ricadute anche sul versante degli accordi prematrimoniali [26]. Sarà però qui il caso di osservare che non solo una
previsione tanto opportuna è stata (non si comprende perché) stralciata dal
d.d.l., ma che, addirittura, si potrebbe dubitare ora della possibilità per le
parti di inserire comunque una clausola del genere, alla luce di quanto
disposto dal comma 56, che fa divieto di sottoporre il contratto a condizione o
a termine [27].
La seconda delle sopra citate previsioni normative,
inopinatamente estirpata dal d.d.l., sarebbe venuta a porre un’eccezione al
divieto dei patti successori. Certo, essa avrebbe posto un problema di
«coerenza» con l’assenza di un’analoga previsione nei rapporti inter coniuges [28], ma avrebbe potuto comunque produrre l’effetto di un
auspicabile lancio di un sasso in acque da troppo tempo stagnanti e che neppure
le infelici modalità con cui l’introduzione del patto di famiglia è stata
realizzata [29] hanno saputo smuovere [30].
Infine, l’eliminazione, nel testo definitivo,
dell’originaria previsione ad hoc
sull’assegno di mantenimento viene a porre il dubbio che una disposizione
negoziale del genere non sia consentita, anche se al risultato affermativo può
forse pervenirsi per altra via [31].
La prima constatazione in materia di contenuto dei contratti
di convivenza è dunque quella per cui la disposizione sembra segnalarsi più per
ciò che essa non dice (o non dice più), che non per quanto espressamente
indicato.
8. Il
contratto di convivenza e il «regime primario» di contribuzione.
Il contratto di mantenimento.
Se, come si è visto, la riforma non contiene
disposizioni sul «regime primario» della convivenza di fatto, essa prevede
invece (una volta tanto, del tutto condivisibilmente) che le parti possano
liberamente intervenire sul punto stabilendo, nel contratto di convivenza «b)
le modalità di contribuzione alle necessità della vita in comune, in
relazione alle sostanze di ciascuno e alla capacità di lavoro professionale o
casalingo» (cfr. il comma 53, lett. b.
La formulazione della norma appare, almeno sul piano
formale, esente da critiche. Essa risulta ricalcata sul disposto dell’art. 143
c.c., sostanzialmente prevedendo che possa costituire oggetto di vincolo
negoziale ciò che tra conviventi non forma oggetto di obbligo (civile) ex lege, ma solo di obbligazione
naturale [32]. Su questo specifico punto la riforma presenta dunque
il non trascurabile pregio di spazzar via, una buona volta per tutte, le
residue perplessità, sollevate da una parte peraltro del tutto minoritaria
della dottrina, sull’ammissibilità di contratti di convivenza diretti alla
previsione per via negoziale di un dovere civilmente vincolante di contenuto
analogo a quella che, in assenza di contratto, sarebbe una mera obbligazione
naturale: in altre parole, si allude qui alla nota questione della possibilità
di «trasformare» un’obbligazione naturale in obbligazione civile [33].
In primo piano si pone pertanto l’impegno reciproco di
contribuire alle necessità del ménage
mediante la corresponsione (periodicamente o una tantum) di somme di
denaro, ovvero tramite la messa a disposizione di propri beni o della propria
attività lavorativa, eventualmente anche soltanto domestica [34].
La validità di tale impegno, che dovrebbe fissare
altresì misura e modalità della contribuzione di ciascuno, non sembrava potersi
contestare già prima della riforma qui in commento [35]. Lo stesso dovrebbe dirsi per la validità di una
promessa avente a oggetto la reciproca assistenza materiale per il caso di
necessità [36]. Al riguardo potrebbe rivelarsi di una certa utilità
la previsione (ancorché non contemplata, ma certo non esclusa dalla riforma) di
eventuali situazioni alla stregua di «cause di giustificazione» per il mancato
adempimento dell’obbligo contributivo, come per esempio nel caso in cui una
delle parti dovesse trovarsi senza sua colpa nell’impossibilità di ricevere
reddito (si pensi alla disoccupazione involontaria).
Prima della novella qui in esame la dottrina italiana
pareva orientata a individuare quale possibile contenuto dei contratti di
convivenza anche l’obbligo unilaterale di corresponsione di somme di denaro a
titolo di mantenimento da parte del partner
più abbiente in favore di quello più bisognoso [37]. L’osservazione conserva, ad avviso
dello scrivente, valore. Ma c’è da chiedersi se invece non convenga optare per
forme negoziali più collaudate, quali per esempio il contratto di mantenimento
vitalizio [38]. Rinviando ad altra sede
l’approfondimento di questo discorso [39], va però ricordato il già
evidenziato carattere generale della formulazione contenuta al comma 53 cit.,
in merito all’individuazione dei contorni del contratto di convivenza.
In forza di tale principio le regole della novella
concernenti questo tipo di negozio dovranno trovare applicazione, pur in
presenza di rapporti riconducibili a fattispecie negoziali tipiche o atipiche,
eventualmente prevalendo per specialità rispetto a queste ultime [40].
9. Segue. Modo e misura della contribuzione convenzionale tra conviventi.
Come già detto, del tutto analogamente a quanto avviene
tra coniugi (peraltro, per questi ultimi, per effetto di un’obbligazione che
nasce ex lege quale naturale effetto
del matrimonio e non già, come tra conviventi, per via della stipula di un
contratto), non vi è dubbio che la contribuzione potrà esplicarsi non solo
tramite la compartecipazione alle spese del ménage,
bensì anche (in tutto o in parte) mettendo a disposizione il proprio contributo
lavorativo domestico e/o uno o più locali idonei ad ospitare lo svolgimento
della vita familiare (si pensi alla residenza principale e/o alla residenza per
le vacanze, ecc.).
Una delle questioni dibattute e non risolte dalla riforma
è se l’accordo sulla contribuzione possa derogare rispetto ai criteri di
proporzionalità di cui all’espressione «in relazione alle sostanze di ciascuno
e alla capacità di lavoro professionale o casalingo», che il comma 53 b) ripropone in questa sede, sulla
falsariga di quanto disposto dall’art. 143 c.c. per i coniugi e dall’art. 1,
comma 11, della legge qui in commento, in relazione ai partners di un’unione civile omosessuale.
La questione ha fatto oggetto, anni or sono, di una
decisione di merito [41]. Diversamente da quanto opinato da quella sentenza,
miglior partito sembra proprio quello che consiglia la possibilità per i
conviventi di regolare liberamente quantità e modalità di contribuzione, anche
eventualmente a prescindere dal criterio della proporzionalità, posto che
l’inderogabilità di tale regola è sancita da una norma (art. 160 c.c.) che il
codice civile riferisce ai soli coniugi e che la riforma di cui qui si discute
ha esteso ai soli partners
dell’unione civile (cfr. art. 1, comma 13, terzo periodo, della novella qui in
esame), tacendo invece in relazione ai soggetti del contratto di convivenza.
10. Segue. Sulla possibilità di fissare (o, per converso, di escludere) limiti temporali alla contribuzione tra conviventi.
Un problema legato a siffatto
tipo di negozi riguarda la possibilità della previsione di eventuali limiti
d’ordine temporale all’obbligo di contribuzione così fissato. In proposito, si
può innanzitutto ritenere valida anche un’espressa subordinazione degli effetti
del vincolo obbligatorio alla durata del rapporto di fatto, in quanto una
clausola del genere verrebbe a concretare una condizione risolutiva
ordinariamente (e non meramente) potestativa. Inutile dire che una siffatta
cautela appare consigliabile per il partner che figuri quale unico (o
prevalente) obbligato e voglia porsi al riparo dal rischio di dover continuare
ad adempiere anche dopo la rottura del legame.
Come si è invero dimostrato in
altra sede [42], la
presupposizione non sembra poter giocare alcun ruolo nel contesto dei rapporti
tra conviventi. D’altro canto, come si dirà tra breve [43] la
possibilità di introdurre clausole del genere di quello qui illustrato non
appare contraddetta dalla disposizione della novella che fa divieto di apporre
termini o condizioni al contratto di convivenza.
Assai più delicato appare
invece l’aspetto della possibilità di pattuire una durata minima del periodo di
corresponsione della contribuzione (consistente eventualmente anche nella
prestazione lavorativa, specie se domestica) o del mantenimento,
indipendentemente dalla durata del ménage.
Una simile clausola – una delle poche in grado
di costituire una vera garanzia per il convivente «debole» – già ritenuta
valida prima della riforma in commento [44], si
deve confrontare ora con il disposto dell’art. 1, comma 54, lett. b), della
novella, che concede ad ognuna delle parti un diritto di recesso dal contratto
di convivenza, il cui esercizio ben potrebbe travolgere una pattuizione del
genere di quello qui descritto. In realtà, attesa l’evidente disponibilità dei
diritti (patrimoniali) di cui qui si discute, la disposizione appena citata
potrà formare oggetto di rinunzia nel contratto di convivenza, o, comunque, di
una clausola nella quale si specifichi che l’eventuale esercizio del diritto di
recesso non travolgerà l’effetto dell’attribuzione del diritto di percepire un
assegno (o del diritto di abitazione, ecc.), in termini e limiti derivanti
dall’accordo delle parti.
Lo strumento contrattuale è poi sicuramente idoneo a
regolamentare il diritto di abitazione
del partner che non sia proprietario dell’appartamento ove si svolge il ménage.
Il tema è stato affrontato in altra sede, cui si fa rinvio [45].
11. Segue. Sulla possibilità di apporre termini o condizioni.
Come già accennato, l’infelicissima tecnica legislativa
attraverso cui si è attuata la riforma qui in commento viene a presentare ex novo un problema in ordine alla
possibilità di prevedere la cessazione della contribuzione, sotto ogni
possibile forma (anche, ad es., di assegno di mantenimento o di messa a disposizione
di un immobile), in caso di rottura dell’unione. Anzi, a ben vedere, la
questione appare ancora più generale e viene a porsi con riguardo a qualsiasi
previsione negoziale che leghi l’erogazione di una prestazione patrimoniale,
nel contratto di convivenza, così come il suo eventuale venir meno, ad un
avvenimento futuro ed incerto, così come ad un termine (iniziale o finale)
certo.
In effetti, una quanto mai improvvida disposizione della
novella stabilisce che «Il contratto di convivenza non può essere sottoposto a
termine o condizione. Nel caso in cui le parti inseriscano termini o
condizioni, questi si hanno per non apposti» (cfr. art. 1, comma 56, della
riforma in esame), laddove, prima dell’introduzione di questa disposizione
normativa, non si dubitava in dottrina che le prestazioni oggetto di un
contratto di convivenza ben potessero essere temporalmente legate alla durata
stessa del ménage o comunque
collegate ad una condizione, tanto sospensiva che risolutiva, così come ad un
termine, tanto iniziale che finale [46].
Ora, a fronte dell’evidente assurdità delle conclusioni
cui si perverrebbe se si volesse applicare anche alle clausole qui in esame il
citato comma 56, va considerato, in
primis, che le relative disposizioni sembrano il frutto di un evidente
fraintendimento legislativo di quelle che sono le finalità di un contratto di
convivenza nella libera unione.
La ragione vera della presenza del citato scampolo di
prosa normativa risiede nell’ottica radicalmente errata in cui i conati di
riforma degli ultimi decenni si sono andati muovendo in Italia.
Come dimostra la storia dei disegni di legge in materia e
come (inutilmente) denunciato più volte da chi scrive [47], alla chiarezza dei testi (e,
prima ancora, delle idee) non ha potuto giovare il tipo d’approccio
costantemente prescelto dall’italico legislatore nell’accostarsi ai problemi
delle coppie omosessuali e delle famiglie di fatto. Un approccio che sempre ha
manifestato una certa qual dose di confusione, talora evidente, tra le due
radicalmente diverse prospettive che un intervento normativo in questo settore
avrebbe dovuto perseguire. Da un lato, quella che mirava a porre fine, una
buona volta per tutte, alla persistente discriminazione verso le persone
omosessuali in merito alla possibilità di suggellare con il vincolo
matrimoniale la propria unione affettiva. Dall’altro, quella che aveva per
scopo la soluzione di una serie di problemi giuridici inevitabilmente destinati
a sorgere da una convivenza tra persone (di sesso diverso, così come dello
stesso sesso) che, però, coscientemente, per le più svariate ragioni, avessero
liberamente escluso la via del matrimonio.
Quest’ultima, e solo quest’ultima, era la considerazione
che si sarebbe dovuta porre alla base di un’ipotetica disciplina ad hoc dei contratti di convivenza.
Disciplina che avrebbe dovuto, quindi, mirare alla costituzione, per via
negoziale, di un rapporto giuridico fonte di reciproci diritti e doveri che
possono anche per taluni aspetti assomigliare a quelli di due soggetti i quali
vivano, come si soleva affermare nei secoli passati, in schemate matrimoniali, ma che da questi divergano per modo di
costituzione e di cessazione, nonché per qualità, quantità ed intensità di
effetti.
L’evidente confusione delle due ben diverse prospettive
ha portato ai risultati attuali: da un lato l’attribuzione, a chi faceva valere
istanze di parità di trattamento rispetto alle coppie eterosessuali, di un
evidente ed avvilente minus rispetto
al matrimonio; dall’altra, l’imposizione a chi chiedeva una regolamentazione
«leggera» di una forma di unione diversa da quella coniugale, di pesi, oneri ed
orpelli para-matrimoniali, del tutto superflui, se non addirittura dannosi.
Questo è proprio il caso del citato comma 56, che si
«giustifica» in un’ottica puramente «matrimoniale», posto che, mentre ha un
senso stabilire che il matrimonio, per la «gravità» del vincolo che lo
caratterizza, e, soprattutto, per il fatto di essere un negozio giuridico
essenzialmente personale, non possa essere sottoposto a termini o condizioni [48], non ha, invece, costrutto
alcuno stabilire lo stesso principio per un contratto che, come quello di
convivenza, si colloca all’interno di un genus
caratterizzato dalla patrimonialità degli effetti e per il quale l’apposizione
di termini e condizioni risulta un quid
del tutto «normale». Tant’è vero che, anche nel campo coniugale, l’apponibilità
di termini e condizioni (non al negozio matrimoniale in sé, ma) alle relative
convenzioni patrimoniali appare in tutto e per tutto ammissibile [49].
In definitiva, le ragioni di cui sopra non possono
indurre se non ad una forma di interpretazione restrittiva della disposizione
contenuta nel citato comma 56. Si deve, cioè, ritenere che il divieto di
termini e condizioni attenga a quei soli elementi accidentali che siano
eventualmente apposti al contratto nel suo complesso e non già a questa o
quella peculiare statuizione patrimoniale, a questa o quella particolare
clausola. Del resto, proprio in questi termini letterali sembra esprimersi la
norma: «Il contratto di convivenza» (e non: questo o quel particolare effetto
di esso) «non può essere sottoposto a termine o condizione».
12. Il regime dei beni e degli
acquisti. La comunione tra conviventi introdotta dalla
novella. Principali problemi posti dal rinvio agli artt. 177 ss. c.c.
Fonte di gravissime perplessità è data dall’assetto
concretamente impresso dal d.d.l. al regime patrimoniale dei beni e degli
acquisti operati in corso di convivenza, sulla base del combinato disposto
della lett. c) del comma 53 e del
successivo comma 54 dell’art. 1 della novella.
Va considerato, in primo luogo, che le citate
disposizioni non elencano quali siano tutti i regimi astrattamente a
disposizione dei conviventi, limitandosi a menzionare (con una semplice relatio) quello della comunione legale
tra coniugi. Peraltro il citato comma 54, attribuendo ai conviventi la
possibilità di «modificare» il regime scelto nel contratto di convivenza,
sembra sottintendere che vi possano essere anche opzioni di tipo diverso.
Non solo. Poiché la frase in cui si sostanzia la citata
lett. c) è retta dall’espressione «Il
contratto può contenere:…» (può, per
l’appunto, e non: deve), se ne desume
che l’unico regime ivi menzionato, cioè quello della comunione legale, in
realtà, tra conviventi «legale» (i.e.: «normale», in assenza di deroghe) non è,
essendo chiaro che ben può essere stipulato un contratto di convivenza che
nulla preveda sul punto. La prima considerazione è dunque quella secondo cui,
se i conviventi stipulano un contratto di convivenza nel quale non fanno
menzione del regime (e a maggior ragione, ovviamente, se non stipulano alcun
contratto di convivenza), essi continueranno a vivere «senza regime» e dunque
ad essi non saranno applicabili gli artt. 177 ss. c.c. [50].
Il problema vero è posto però dai casi in cui, per loro
(dis)avventura, gli ardimentosi conviventi dovessero proprio optare per
siffatto regime comunitario.
Al riguardo è sfuggito al frettoloso riformatore che la
comunione legale tra coniugi (così come ora tra i partners dell’unione civile) è un regime che, inter coniuges, va, come si dice, «per legge» ed opera non solo
quando l’acquirente dichiara di esservi soggetto, ma anche quando un qualsiasi
acquisto rilevante ex art. 177, lett.
a), c.c., sia effettuato, anche «separatamente», da uno dei due soggetti a tale
regime sottoposti.
Inoltre, il regime coniugale legale, richiamato sic et simpliciter dalla norma qui in
commento, si colloca, come noto, all’interno di un (peraltro bislacco e
criticatissimo) sistema di pubblicità «in negativo», risultante dal raffronto
tra i registri di stato civile (non quelli anagrafici!) e i pubblici registri
immobiliari, per cui, allorquando un qualsiasi soggetto vende o acquista beni
immobili o mobili registrati, i terzi potenziali aventi causa dovrebbero essere
in grado di sapere se quel trasferimento ha inciso su di una situazione di
comunione legale, vuoi ex latere
venditoris, vuoi ex latere emptoris;
lo stesso è a dirsi, naturalmente, per i creditori, che sono trattati in modo
assai differenziato, in relazione alla «categoria» cui appartengono (se, cioè
creditori «della comunione» o creditori «personali»), a seconda che essi
tentino di agire in executivis contro
beni comuni o, viceversa, personali dei coniugi: cfr. artt. 186, 187, 188, 189
e 190 c.c. [51].
Nulla di tutto ciò appare immaginabile in relazione alla
comunione di cui qui si discute, che è à
la fois «legale», per effetto del rinvio espresso «alla sezione III del
capo VI del titolo VI del libro primo del codice civile», e «convenzionale»,
perché nasce pur sempre da un accordo. A parte il gioco di parole, sarà però
opportuno ricordare, per evitare ogni equivoco, che comunque il «regime legale»
(nel senso di «normale» e «automatico») dei conviventi, ancorché legati da
apposito contratto di convivenza, è e resta pur sempre, come detto, la più
totale assenza di qualsiasi regime. Il regime di comunione, che è legale
(sempre nel senso di «normale» e «automatico») per coniugi e partners dell’unione libera, entrerà in
funzione per i conviventi solo a condizione che ciò sia stato espressamente
pattuito nel contratto di convivenza redatto nei modi e nelle forme descritti
(si fa per dire) dalla novella (commi 50 ss.).
Ora, ciò che scandalizza l’interprete non è tanto la
circostanza che un regime legale possa scaturire da una manifestazione
negoziale: chi scrive ha già trattato dell’argomento in altra sede, con
riguardo proprio ai casi di comunione (legale) tra coniugi nascente non ex lege, ma da apposita convenzione [52], con conclusioni che debbono ora
trasporsi anche ai partners
dell’unione civile. Ciò che lascia sbigottiti, invece, è che non si siano
minimamente affrontate, neppure a livello di mero abbozzo, le conseguenze
dell’introduzione di un regime come quello di cui agli artt. 177 ss. c.c. nel
campo delle relazioni tra conviventi.
Qui, tanto per fermarsi alle lacune più vistose, se non
verrà istituito un adeguato sistema pubblicitario, il terzo non si troverà mai
e poi mai in condizione di sapere se il bene rispetto al quale intende porsi
quale avente causa o creditore agente in
executivis sia di proprietà esclusiva del suo dante causa/debitore, ovvero
in contitolarità con il (la) convivente. Inutile dire che, per le ragioni già
illustrate [53], non può certo ritenersi idonea
la prescrizione secondo cui il professionista che ha ricevuto o autenticato il
contratto «deve provvedere entro i successivi dieci giorni a trasmetterne copia
al comune di residenza dei conviventi per l’iscrizione all’anagrafe ai sensi
degli articoli 5 e 7 del regolamento di cui al decreto del Presidente della
Repubblica 30 maggio 1989, n. 223» (comma 52).
L’unico caso, invero, astrattamente immaginabile di
sicura opponibilità di tale situazione è infatti quello in cui il convivente eventualmente
pretermesso all’atto dell’acquisto immobiliare o mobiliare (con riguardo ad un
bene mobile registrato) abbia avuto l’accortezza di proporre domanda
d’accertamento della ricaduta in comunione di tale acquisto e l’abbia
tempestivamente trascritta sui pubblici registri immobiliari contro il proprio
convivente (che, a questo punto, sarà piuttosto da ritenere ex tale…).
13. Segue. La concreta estensione del principio di libertà contrattuale.
Nulla viene poi stabilito dalla riforma sui limiti alla
libertà negoziale dei conviventi in sede di determinazione del concreto assetto
dei reciproci rapporti. Qui, l’unico labilissimo accenno al riguardo risiede
nel tenore del già citato comma 54, secondo cui «Il regime patrimoniale scelto nel contratto di convivenza può essere
modificato in qualunque momento nel corso della convivenza con le modalità di
cui al comma 51».
Da quanto sopra può desumersi,
innanzi tutto, che ai conviventi che avessero optato per la comunione è
consentito tornare a quella situazione di «assenza di regime» che caratterizza
i partners i quali, anche eventualmente in presenza di un contratto di
convivenza, non avessero però previsto la comunione (oppure, naturalmente, non
avessero stipulato alcun contratto di convivenza). Siffatta situazione, si
badi, non è perfettamente coincidente con quella dei coniugi in regime di
separazione dei beni, per i quali vige comunque un «regime», che comporta
l’applicazione di regole speciali (si pensi ad es. a quanto stabilito dagli
artt. 217, 218 e 219 c.c.), non riferibili (per lo meno, in assenza di apposita
convenzione, come si dirà tra un attimo) allo status di chi non è
coniugato [54].
A questo punto diviene però
indispensabile tentare di comprendere se l’espressione «può essere modificato»
si limiti a quanto testé esposto, ovvero sottenda la possibilità di introdurre
modifiche convenzionali ai due regimi testé individuati, sì da immaginare, da
un lato, la creazione di una comunione convenzionale del genere di quella
descritta dagli artt. 210 e 211 c.c., o, tutto all’opposto, di un regime di
separazione in cui le regole di cui agli artt. 217, 218 e 219 c.c. vengano
introdotte per via pattizia.
Non vi è dubbio che, in
omaggio al generale principio di libertà contrattuale, cui il legislatore non
sembra certo aver inteso qui derogare [55], le
«modifiche» possono estendersi a ricomprendere tutte quelle previsioni che
norme imperative, ordine pubblico, o buon costume non vietino. Al di là di
quanto così grossolanamente disposto dai citati commi 53 e 54, le parti
potranno così continuare a dar vita a situazioni di contitolarità del genere di
quelle preconizzate già diversi anni or sono dallo scrivente, quali ad es.
comunioni (ordinarie) derivanti da impegni di carattere obbligatorio, se non
addirittura da negozi traslativi ad effetti eventuali e differiti, assunti in
sede di contratto di convivenza [56]: il
tutto, naturalmente, con il limite di opponibilità ai terzi solo nel pieno
rispetto delle regole generali di sistema a tal fine preposte. E così
l’eventuale comunione convenzionale che dovesse abbracciare anche immobili di
cui ciascuno dei conviventi era titolare prima dell’inizio del rapporto more
uxorio sarà opponibile solo a condizione di risultare da un atto
assoggettato a trascrizione sui pubblici registri immobiliari, e così via.
Al di là dei poteri appena descritti, non vi è dubbio
che, nonostante l’assordante silenzio della riforma, i contratti di convivenza
ben potranno contenere ulteriori provvidenze di tipo patrimoniale rispetto a
quelle sopra (e infra) descritte: si
pensi, tanto per riportare un paio di esempi, alla libera costituibilità di
vincoli di destinazione nell’interesse della famiglia, ex art. 2645-ter c.c. [57], alla istituzione di trusts familiari, eventualmente «interni» [58] e via dicendo.
14. Dies a quo e dies ad quem
di operatività del regime di comunione tra
conviventi. Risoluzione del contratto di convivenza.
Dubbi di una certa serietà investono poi
l’identificazione dei due momenti più rilevanti per il regime patrimoniale:
vale a dire quelli che ne marcano, rispettivamente, l’insorgere e la
cessazione.
Quando inizia il regime?
Nel campo matrimoniale la risposta a questa domanda
appare relativamente semplice, atteso che il dies a quo di operatività della comunione legale è identificabile,
in assenza di opzione per un regime diverso, con quello di celebrazione delle
nozze; nel caso di scelta del regime di separazione, la comunione entra in
gioco a decorrere dal successivo momento dell’eventuale stipula della relativa
convenzione.
Il vero problema è, semmai, legato al fatto che tra
conviventi, a differenza di ciò che accade nel caso della coppia coniugata, fa
difetto un negozio personale formale, solenne e provvisto di data certa quale
il matrimonio (o, per le coppie omosessuali, la stipula dell’unione civile), la
convivenza di fatto essendo definita dalla stessa legge in commento alla
stregua della situazione di «due persone maggiorenni unite stabilmente da
legami affettivi di coppia e di reciproca assistenza morale e materiale, non
vincolate da rapporti di parentela, affinità o adozione, da matrimonio o da
un’unione civile».
Ora, l’unico elemento che sia qui fornito di una data
certa è costituito, per l’appunto, dal contratto di convivenza (o dalla sua
«modifica», necessitante delle stesse forme). Del resto, come già detto, la
novella è chiara nel legare la comunione al contratto di convivenza e non alla
convivenza. Dovrà quindi concludersi che il regime eventualmente «previsto»
sarà operativo a decorrere dalla stipula del contratto di convivenza.
L’interrogativo che sorge spontaneo, però, a questo
punto, è se la concorde volontà dei paciscenti possa determinare un dies a quo diverso, legato o ad un
termine iniziale, o ad una condizione sospensiva. Qui, da un lato, l’ampia
facoltà di modifica «in qualunque
momento nel corso della convivenza», prevista dal testo normativo, e
dall’altro l’evidente irriferibilità della condicio
iuris di cui alla regola si nuptiae
sequantur, sembrerebbero convincere dell’ammissibilità di un accordo di tal
genere. Non si dimentichi, del resto, che l’opinione prevalente, storicamente
fondata ed assolutamente preferibile (oltre che evidentemente armoniosa
rispetto alla concezione contrattuale) in materia di convenzioni matrimoniali,
consente l’apposizione di termini e condizioni a queste ultime. Non si
comprenderebbe, pertanto, perché mai analoga regola non dovrebbe valere per i
contratti di convivenza.
L’unico dubbio sembrerebbe però suggerito dall’improvvida
disposizione, già ricordata, di cui al comma 56, a mente della quale «Il
contratto di convivenza non può essere sottoposto a termine o condizione. Nel
caso in cui le parti inseriscano termini o condizioni, questi si hanno per non
apposti». Si sono peraltro già esposte le ragioni [59] che consigliano di limitare
l’operatività della regola ai soli elementi accidentali eventualmente apposti
al contratto nel suo complesso e non già a singole clausole di esso. Sembra
dunque doversi affermare la possibilità di far decorrere il regime di comunione
a partire da un termine iniziale o dall’avverarsi di una condizione sospensiva
eventualmente previsti nel contratto di convivenza.
Venendo ora al tema dell’accertamento del dies ad quem di operatività del regime
va detto che, anche con riguardo a questo delicato profilo, le norme in
commento tacciono del tutto. Inutile ricordare la capitale importanza
dell’accertamento di questo momento, a decorrere dal quale l’effetto
coacquisitivo scolpito nell’art. 177, lett. a), c.c., per gli acquisti operati
dopo tale data, viene meno.
Neppure soccorre più di tanto, in questa sede, il
richiamo alle norme in tema di comunione legale tra coniugi. L’art. 191 c.c.
individua [60], come noto, inter coniuges, gli eventi idonei a determinare lo scioglimento del
regime legale, alcuni dei quali possono considerarsi riferibili anche ai
conviventi: dichiarazione di assenza o di morte presunta, separazione
giudiziale dei beni, mutamento convenzionale di regime, fallimento,
scioglimento convenzionale di azienda ai sensi dell’ult. cpv. dell’art. 191
c.c.
Peraltro, l’evento più rilevante dal punto di vista
statistico, vale a dire la crisi del rapporto di convivenza, non viene preso in
considerazione nei suoi effetti sul regime, laddove ben difficilmente sembra
prospettabile un’estensione analogica delle disposizioni di cui al citato art.
191 c.c. in materia di crisi coniugale. Queste ultime, infatti, appaiono
strettamente legate ad una «ritualizzazione» (annullamento del matrimonio,
separazione e divorzio, nelle rispettive variegate forme di manifestazione
procedurale: giurisdizionali o meno che siano), cui la crisi della famiglia di
fatto rimane, per effetto della novella qui in esame, del tutto estranea.
Le uniche norme della riforma qui in commento latamente
riferibili al caso in esame sembrano essere costituite da quelle di cui ai
commi 59, 60 e 61 dell’art. 1 della presente riforma.
Poiché, peraltro, le disposizioni in esame appaiono
carenti in ordine alla cessazione del regime di comunione, non rimarrà che
concludere nel senso che il dies ad quem
del regime di comunione tra conviventi va identificato nei momenti seguenti.
(a)
In caso di scioglimento del contratto di convivenza concordato o
unilaterale: nel momento in cui «la risoluzione viene redatta nelle forme di
cui al comma 51». Inutile soggiungere che, con riguardo allo specifico problema
dell’eventuale riconciliazione, per la coppia (dapprima non più e poi di nuovo)
convivente non varrà il principio dottrinale e giurisprudenziale di automatica
ricostituzione del regime legale [61], essendo il dato normativo
piuttosto chiaro nel collegare la nascita (e dunque, pure l’eventuale
rinascita) della comunione tra conviventi alla (necessaria) stipula di un
contratto.
(b)
In caso di matrimonio o unione civile tra i conviventi stessi o tra un
convivente ed altra persona: nel momento in cui tali eventi hanno luogo. Qui
potrà aggiungersi che quanto disposto dai commi 62 e 63 non sembra rilevare ai
fini dello scioglimento del regime, trattandosi di attività meramente
complementare e successiva.
(c)
Per le altre cause descritte dall’art. 191 c.c. varranno le regole
elaborate con riguardo ad ogni singola causa di scioglimento della comunione
legale; così, ad es., in caso di morte di uno dei contraenti, l’effetto
estintivo si produrrà dal momento in cui tale evento ha luogo, e così via [62].
Appare quasi superfluo aggiungere che la parte aggiunta
all’attuale comma 60 dal «maxiemendamento» presentato al Senato il 25 febbraio
2016 non risulta di alcuna utilità. Stabilire, infatti, che «Qualora il
contratto di convivenza preveda, a norma del comma 53, lettera c), il regime
patrimoniale della comunione dei beni, la sua risoluzione determina lo
scioglimento della comunione medesima e si applicano, in quanto compatibili, le
disposizioni di cui alla sezione III del capo VI del titolo VI del libro primo
del codice civile» significa esprimere un’ovvietà addirittura deprimente (è
come dire che «se si verifica una causa di scioglimento del regime legale, si
applicano le norme in tema di scioglimento del regime legale»).
Stabilire, poi, che «Resta in ogni caso ferma la
competenza del notaio per gli atti di trasferimento di diritti reali
immobiliari comunque discendenti dal contratto di convivenza» significa
stabilire una cosa gravemente errata, posto che nel nostro ordinamento risulta
ancora vigente l’art. 1350 c.c., che non impone – purtroppo, come più volte
spiegato dallo scrivente [63] – l’atto notarile per la
validità di un trasferimento immobiliare [64]. Se, invece, l’intento è solo
quello di chiarire che quella dell’atto pubblico continua ad essere (unitamente
alla scrittura privata autenticata o verificata) l’unica forma idonea alla
trascrizione di un titolo negoziale sui pubblici registri immobiliari ex art. 2657 c.c., si afferma allora un
principio risaputo. A quest’ultima lettura induce il confronto con quanto
stabilito dall’art. 5, d.l. 12 settembre 2014, n. 132, conv. in l. 10 novembre
2014, n. 162, in materia di negoziazione assistita, laddove si prevede la
necessaria autentica da parte di un «pubblico ufficiale a ciò autorizzato»
degli atti «soggetti a trascrizione», al fine di consentire l’effettuazione di
siffatta pubblicità.
15. Il
regime patrimoniale della rottura (contenziosa o consensuale)
della convivenza di fatto.
In caso di rottura inter vivos della convivenza di fatto, il comma 65 dell’art. 1 in
esame prevede che «il giudice stabilisce il diritto del convivente di ricevere
dall’altro convivente e gli alimenti qualora versi in stato di bisogno e non
sia in grado di provvedere al proprio mantenimento. In tali casi, gli alimenti
sono assegnati per un periodo proporzionale alla durata della convivenza e
nella misura determinata ai sensi dell’articolo 438, secondo comma, del codice
civile. Ai fini della determinazione dell’ordine degli obbligati ai sensi
dell’articolo 433 del codice civile, l’obbligo alimentare del convivente di cui
al presente comma è adempiuto con precedenza sui fratelli e sorelle».
Al riguardo si è correttamente rilevato in dottrina [65] che apprezzabile è la scelta di riservare al
convivente meno abbiente una certa tutela patrimoniale, nel caso di rottura
della convivenza, proporzionata alla durata della stessa. È opportuno, infatti,
che la solidarietà familiare si manifesti anche all’interno del rapporto fra
conviventi, differenziando però le unioni di breve durata da quelle protrattesi
nel tempo.
Il c.d. «maxiemendamento» presentato dal Governo al
Senato il 25 febbraio 2016 ha eliminato un’evidente discrasia contenuta nelle
prime due versioni del «d.d.l. Cirinnà», che, con una duplice disposizione,
prevedevano tanto il diritto agli alimenti, che quello al mantenimento [66]. La soluzione concretamente adottata ha però un
sapore certamente «punitivo» per il partner
debole. Nulla impedisce, peraltro, come già detto, alla libertà negoziale delle
parti di pattuire, vuoi durante la convivenza ed in contemplation della rottura, vuoi eventualmente all’atto in cui
essa si realizza, l’obbligo per l’ex convivente «forte» di contribuire in vario
modo (messa a disposizione di beni, erogazione di assegno mensile, prestazione una tantum, ecc.) al mantenimento
dell’ex partner.
Inutile aggiungere,
poi, che, in considerazione del tenore della norma in questione, l’ex
convivente avente diritto ad una prestazione alimentare (o ad un assegno di
mantenimento, alla corresponsione del quale il partner si fosse eventualmente obbligato) non potrà avvalersi dei
rimedi processuali e degli interventi cautelari concessi a garanzia del
mantenimento del coniuge (o del partner
dell’unione civile) separato (o separando). Il contributo andrà chiesto per le
vie ordinarie ed eventualmente preceduto (o accompagnato), le cas échéant, da una «comune» domanda di sequestro conservativo, ex art. 671 c.p.c.
Quanto poi all’ipotesi di una rottura
consensuale della convivenza di fatto, va considerato che nessuna norma sembra
trattarne espressamente, se si eccettua lo spunto che si può ricavare dal comma
59, lett. a), in cui si prevede che
«59. Il contratto di convivenza si risolve per: a) accordo delle parti».
Nessuna previsione stabilisce se tale accordo possa
contenere previsioni in merito ai rapporti patrimoniali degli ex conviventi.
Ancora una volta, però, il richiamo ai principi generali in tema di libertà
contrattuale deve indurre a ritenere ammissibili veri e «propri contratti della
crisi della convivenza di fatto», secondo una serie di schemi e previsioni più
volte in altre sedi illustrate dallo scrivente [67]. In tal modo si potrà anche porre rimedio al grave
errore compiuto dal riformatore del 2016 nella non approvazione di quella
disposizione che, pure, compariva nella prima versione del «testo unificato
Cirinnà», secondo cui, nei casi di risoluzione del contratto si sarebbe potuto
prevedere «l’obbligo di corrispondere al convivente con minori capacità
economiche un assegno di mantenimento determinato in base alle capacità
economiche dell’obbligato, al numero di anni del contratto di convivenza e alla
capacità lavorativa di entrambe le parti» [68].
[1] Cfr. Oberto,
I rapporti patrimoniali nelle unioni
civili e nelle convivenze di fatto, in Aa.
Vv., La nuova regolamentazione delle unioni civili
e delle convivenze – Legge 20 maggio
2016, n. 76, Torino, 2016, p. 30 ss.
[2] Ai fini del contenimento del presente lavoro nei
termini quantitativi imposti dalle regole redazionali relative a questo
commento, si è omessa la solita nota introduttiva dedicata all’elencazione dei
contributi dottrinali in materia: una parte di essi sarà ricavabile di volta in
volta (anche mercé gli ulteriori rinvii) dalle citazioni inserite nelle note
che seguono.
[3] Sul tema della definizione della convivenza, dei suoi
limiti, dell’ammissibilità di una convivenza e di un contratto di convivenza,
ad es., tra soggetti legati da matrimonio con terzi, ma separati ed altre
questioni del genere v. per tutti Oberto,
I diritti dei conviventi. Realtà e
prospettive tra Italia ed Europa, Padova, 2012, p. 4 ss.
[4] La lacuna è stata segnalata anche nel parere del
Comitato per la legislazione della Camera dei Deputati, emesso il 12 aprile
2016 (disponibile al sito web
seguente: http://www.centrostudilivatino.it/wp-content/uploads/2016/04/Parere-del-Comitato-per-la-Legislazione-della-Camera.pdf),
secondo cui «al comma 36. si dovrebbe specificare il grado di parentela e di
affinità che rappresenta un impedimento alla convivenza di fatto».
[5] Cfr. Oberto,
I rapporti patrimoniali nelle unioni
civili e nelle convivenze di fatto, cit., p. 38 ss., 52 ss.
[6] Cfr. ad es. Maglione
e Pascasi, Coppie di fatto: la legge «segue» i giudici, in Il Sole 24 ore, Lunedì 9 Maggio 2016 -
N. 126, p. 26. Le Autrici danno assolutamente per scontato che le norme
novellamente introdotte dalla riforma del 2016 sulle convivenze di fatto si
applichino esclusivamente alle coppie eterosessuali.
[8] Oberto, I regimi patrimoniali della famiglia di
fatto, Milano, 1991, p. 209 ss.; Id.,
I diritti dei conviventi. Realtà e prospettive
tra Italia ed Europa, cit., p. 4 ss. La questione si sarebbe, invero,
dovuta affrontare non già sotto il profilo della causa, visto che il legame more uxorio si pone, in rapporto al
contratto di convivenza, alla stregua di un semplice motivo. Anche su questo
piano si sarebbe presentato però il problema della possibilità di ascrivere
alla categoria dei motivi illeciti pure quello consistente nella lesione di un
diritto (relativo) altrui (nella specie, i diritti alla fedeltà, coabitazione,
assistenza morale e materiale). L’argomentazione decisiva riposava peraltro
sulla constatazione che ogni contratto diretto a porre le basi economiche di
una convivenza, anche se illecita, ha come proprio motivo primario non già la
violazione del diritto altrui, bensì appunto la concreta predisposizione di
quei mezzi idonei a consentire alla coppia di convivere. Era dunque palese
l’assenza, nel contratto in esame, di uno dei requisiti fondamentali di cui
all’art. 1345 c.c., vale a dire la circostanza che il (comune) motivo illecito
si qualifichi come quello esclusivamente determinante del consenso dei
contraenti.
[9] Per approfondimenti, impossibili nella presente sede,
cui è stato imposto il rispetto di rigorosi limiti di spazio, cfr. Oberto, I rapporti patrimoniali nelle unioni civili e nelle convivenze di fatto,
cit., p. 61 ss.
[11] Cfr. il comma 57, che fulmina di nullità gli accordi
conclusi «…a) in presenza di un vincolo matrimoniale, di un’unione civile o di
un altro contratto di convivenza; b) in violazione del comma 36…».
[12] Cfr. Oberto,
I rapporti patrimoniali nelle unioni
civili e nelle convivenze di fatto, cit., p. 107 ss.
[13] Per la cui disamina si fa rinvio a Oberto, I rapporti patrimoniali nelle unioni civili e nelle convivenze di fatto,
cit., p. 123 ss.
[14] Su cui cfr. Oberto,
Ancora sulla pretesa gratuità delle
prestazioni lavorative subordinate rese dal convivente more uxorio, Nota a
Cass., 19 settembre 2015, n. 19304, in Fam.
e dir., 2016, p. 132 ss. (in particolare 149 ss., per una disamina della
presente riforma).
[15] Per la trattazione del tema e per una serie di richiami dottrinali e giurisprudenziali al riguardo si fa rinvio a Oberto, I regimi patrimoniali della famiglia di fatto, cit., p. 151 ss.; Id., I diritti dei conviventi. Realtà e prospettive tra Italia ed Europa, cit., p. 81 ss., 89 ss. Per alcuni rilevanti contributi successivi cfr. inoltre Spadafora, Rapporto di convivenza more uxorio e autonomia privata, Milano, 2001, p. 163 ss.; Balestra, Convivenza more uxorio e autonomia contrattuale, in Giust. civ., 2014, p. 133 ss.; Delle Monache, Convivenza more uxorio e autonomia contrattuale (Alle soglie della regolamentazione normativa delle unioni di fatto), in Riv. dir. civ., 2015, p. 944 ss.
[16] Cfr. Consiglio
Nazionale del Notariato, Guida operativa in tema di convivenza.
Vademecum sulla tutela patrimoniale del
convivente more uxorio in sede di
esplicazione dell’autonomia negoziale. Contratti
di convivenza open day, 30 novembre 2013, Roma, 2013 (il testo è
disponibile, tra l’altro, al seguente sito web:
http://www.notaicomolecco.it/wwwnotaileccocomoit/Downloads/Guida%20operativa_Contratti%20di%20convivenza.pdf.
[17] Sull’atipicità del contratto di convivenza, in
relazione alla situazione anteriore alla riforma del 2016, cfr. Balestra, Convivenza more uxorio e
autonomia contrattuale, cit., p. 146 ss.
[18] Cfr. Cass., 6 marzo 1979, n. 1400, in Giur. it., 1981, I, 1, c. 994, con nota di Runfola Testini; Cass., 13 maggio 1986, n. 3168, in Foro it., 1986, I, c. 2147; in Vita notar., 1986, I, p. 775; in Dir. fam. pers., 1986, I, p. 958; in Giust. civ., 1987, I, p. 1537; Cass., 3 ottobre 2008, n. 24574.
[20] Falzea, Problemi attuali della famiglia di fatto, in Aa. Vv., Una legislazione per la famiglia di fatto?, Napoli, 1988, p. 52; contra D’Angeli, La famiglia di fatto, Milano, 1989, p. 423. In Francia è rimasta isolata l’opinione secondo cui il giudice, valutando il comportamento delle parti, potrebbe ritenere l’esistenza di un «contrat tacite d’aide et d’assistance mutuelle», che obbligherebbe i conviventi «tant pendant l’union que après la rupture à subvenir aux besoins éventuels du partenaire» (Ganancia, Droits et obligations résultant du concubinage, in Gaz. Pal., 1981, Doctrine, p. 19). Per la dottrina più recente, orientata nel senso criticato nel testo, cfr. Palmeri, Il contenuto atipico dei negozi familiari, Milano, 2001, p. 66 ss.; Venuti, I rapporti patrimoniali tra i conviventi, in Aa. Vv., Le relazioni affettive non matrimoniali, a cura di Romeo, Torino, 2014, p. 287; Ferrando, Contratto di convivenza, contribuzione e mantenimento, in Fam. e dir., 2015, p. 729.
[21] Cfr. Oberto,
I rapporti patrimoniali nelle unioni
civili e nelle convivenze di fatto, cit., p. 69 ss.
[22] Ciò balza agli occhi sulla base della semplice lettura dei richiamati artt. 5 e 7 del regolamento di cui al decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 1989, n. 223.
[23] Se non, eventualmente, quale elemento indiziario
(certo mai come elemento costitutivo) nel caso in cui, in un possibile
processo, si contestasse la sussistenza del rapporto di fatto.
[25] Cfr. il comma 4 dell’art. 14 di tale d.d.l., come
risultante alla data del 2 luglio 2014 (il documento è disponibile al seguente
indirizzo web: http://www.senato.it/leg/17/BGT/Schede/Ddliter/46051.htm).
[26] Significative al riguardo le esperienze, ad esempio,
dell’Australia e della Catalogna, per una disamina delle quali si fa rinvio a Oberto, I rapporti patrimoniali nelle unioni civili e nelle convivenze di fatto,
cit., p. 78 ss.
[28] Non per niente si veda al riguardo quanto stabilito
dalle varie proposte di legge in tema di contratti prematrimoniali (su cui v.
per tutti Oberto, Suggerimenti per un intervento in tema di
accordi preventivi sulla crisi coniugale, in Fam. e dir., 2014, p. 88 ss.).
[29] Cfr. ad es. Oberto,
Il patto di famiglia, Padova, 2006, passim.
[30] Si tenga poi conto del fatto che l’introduzione di siffatto tipo di pattuizioni avrebbe consentito di affrontare una serie di questioni, vale a dire quelle legate alla successione mortis causa di uno dei conviventi, rimasta totalmente negletta dalla riforma qui in commento. Basti dire al riguardo che, da un lato, il partner non solo non è considerato legittimario, ma neppure successibile ex lege, in assenza di testamento. Ma non basta ancora. Nessuna disposizione «agevolativa» di tipo fiscale è stata prevista per la successione testamentaria del convivente, trattato quindi alla stregua di un qualsiasi estraneo al nucleo familiare del de cuius, con la conseguenza che il convivente il quale intenda assicurare la tranquillità economica al proprio partner anche dopo la propria morte potrà, sì, istituirlo erede, ma, in tal modo lo esporrà al prelievo fiscale previsto per la successione di un qualunque estraneo alla famiglia del de cuius.
Vero è che oggi l’area delle famiglie «costrette» a
rimanere fuori dal vincolo matrimoniale (o paramatrimoniale, nel caso
dell’unione civile) si è considerevolmente ristretta al passato: alla coppia gay che vuole acquisire pieni diritti
successori può oggi consigliarsi di scegliere l’unione civile, mentre sempre
più rari sono i casi di conviventi eterosessuali che non possono unirsi in
matrimonio per la perdurante presenza di un precedente vincolo coniugale, ove
si considerino le novità introdotte dal c.d. «divorzio breve». Resta il fatto
che per una serie di motivi, talora pienamente legittimi (desiderio di non
pregiudicare le aspettative di eventuali figli di primo letto, timore di dover
affrontare seri problemi e rilevanti spese in caso di rottura di un legame
della cui solidità non si è ancora pienamente certi), talora meno (desiderio di
non perdere una pensione di reversibilità), sembrerebbe de iure condendo (ma, come detto, quest’occasione è stata persa!)
corretto preservare, da un lato, la possibilità delle parti di non unirsi in
matrimonio, attribuendo, dall’altro, taluni effetti successori (ancorché non
coincidenti con quelli discendenti dal vincolo da coniugio) ad un rapporto
affettivo sfociato in una convivenza more
uxorio di una certa durata.
[32] Sullo sviluppo storico e la realtà attuale di tale
idea v. per tutti Oberto, I regimi patrimoniali della famiglia di
fatto, cit., p. 83 ss.; Id., I diritti dei conviventi. Realtà e
prospettive tra Italia ed Europa, cit., p. 33 ss.
[33] Il tema è approfondito in Oberto, I regimi
patrimoniali della famiglia di fatto, cit., p. 156 ss.; Id., I
diritti dei conviventi. Realtà e prospettive tra Italia ed Europa, cit., p.
92 ss.; ulteriori elaborazioni del tema in Balestra,
Convivenza more uxorio e autonomia contrattuale, cit., p. 143
ss.
[34] Sul punto, per i necessari approfondimenti, cfr. Oberto, I regimi patrimoniali della famiglia di fatto, cit., p. 241 ss.; Id., Le prestazioni lavorative del convivente more uxorio, Padova, p. 114 ss.; per la dottrina successiva cfr. Franzoni, I contratti tra conviventi «more uxorio», in Riv. trim. dir. proc. civ., 1994, p. 752 ss.; del Prato, Patti di convivenza, in Familia, 2002, p. 982 ss. Sul peculiare punto dei rapporti tra contratto di convivenza e contribuzione cfr. Ferrando, Contratto di convivenza, contribuzione e mantenimento, cit., p. 722 ss.
[35] Cfr. per tutti, nonché per i richiami alla dottrina straniera, Oberto, I regimi patrimoniali della famiglia di fatto, cit., p. 241 ss.; Id., I diritti dei conviventi. Realtà e prospettive tra Italia ed Europa, cit., p. 116 ss.
[36] Cfr. Steinert,
Vermögensrechtliche Fragen während des Zusammenlebens und nach Trennung Nichtverheirateter, in NJW,
1986, p. 685.
[37] Cfr. Mazzocca, La famiglia di fatto. Realtà attuale e prospettive, Roma, 1989, p. 92; cfr. inoltre Gazzoni, Dal concubinato alla famiglia di fatto, Milano, 1983, p. 165.
[38]
È il suggerimento di Calò, Contratto di mantenimento e proprietà temporanea, Nota a Cass., 11 novembre
1988, n.
[39] Cfr. Oberto,
I rapporti patrimoniali nelle unioni
civili e nelle convivenze di fatto, cit., p. 82 ss.
[40] Per approfondimenti al riguardo cfr. Oberto, I rapporti patrimoniali nelle unioni civili e nelle convivenze di fatto,
cit., p. 86 ss.
[41] Trib. Savona, 29 giugno 2002, in Fam. e dir.,
2003, p. 596, con nota di Ferrando.
Per l’illustrazione del caso e per la relativa critica si fa rinvio a Oberto, I rapporti patrimoniali nelle unioni civili e nelle convivenze di fatto,
cit., p. 87 s.
[42] Cfr. Oberto,
I regimi patrimoniali della famiglia di fatto, cit., p. 139 ss.; Id., Le prestazioni lavorative del
convivente more uxorio, cit., p. 83 ss.
[44] Cfr. per
tutti Oberto, I regimi patrimoniali della famiglia di
fatto, cit., p. 139 ss.; Id., I diritti dei conviventi. Realtà e
prospettive tra Italia ed Europa, cit., p. 119 ss.
[45] Come è accaduto, ad es., nei casi risolti da Cass., 8
giugno 1993, n. 6381, in Nuova giur. civ.
comm., 1994, I, p. 339, con nota di Bernardini;
in Corr. giur., 1993, p.
947, con nota di V. Carbone; in Vita notar., 1994, p. 225; Trib. Savona, 7 marzo 2001, in Fam.
e dir., 2001, p. 529, con nota di Dogliotti;
Trib. Palermo, 3 febbraio 2002, in Gius,
2003, p. 1506. Sul tema cfr. Oberto, I
regimi patrimoniali della famiglia di fatto, cit., p. 285 ss.; Id., Famiglia di fatto e convivenze:
tutela dei soggetti interessati e regolamentazione dei rapporti patrimoniali in
vista della successione, in Fam. e dir. 2006, p. 661 ss.; Asprea, L’assegnazione della casa
familiare nella separazione, nel divorzio e nella convivenza, Torino, 2003,
p. 104 ss. Per la situazione successiva alla riforma qui in commento cfr. Oberto, I rapporti patrimoniali nelle unioni civili e nelle convivenze di fatto,
cit., p. 123 ss.
[46] Sul punto v. per tutti Oberto, I diritti dei
conviventi. Realtà e prospettive tra Italia ed Europa, cit., p. 119 s.
[47] Cfr. ad es. Oberto,
I contratti di convivenza nei progetti di
legge (ovvero sull’imprescindibilità di un raffronto tra contratti di
convivenza e contratti prematrimoniali), in Fam. e dir., 2015, p. 173 s.
[48] Sull’art. 108 c.c. cfr. Ferrando, Il matrimonio, in Trattato di diritto civile e commerciale, già diretto da Cicu,
Messineo e Mengoni, continuato da Schlesinger, Milano, 2015, p. 365.
[49] Sul tema della possibilità per i coniugi di sottoporre a termini o condizioni l’efficacia delle convenzioni matrimoniali cfr. Oberto, L’autonomia negoziale nei rapporti patrimoniali tra coniugi (non in crisi), in Familia, 2003, p. 671 s.; Id., La comunione legale tra coniugi, nel Trattato di diritto civile e commerciale, già diretto da Cicu, Messineo e Mengoni, continuato da Schlesinger, II, Milano, 2010, p. 1669 ss.
[50] In tal caso, se, per avventura, i conviventi
dovessero procedere ad acquisti comuni, le norme che entrerebbero in gioco
sarebbero quelle della comunione ordinaria e non certo quelle della comunione
legale tra coniugi (e tra partners
dell’unione civile). La considerazione, pur di carattere lapalissiano, ha, se
non altro, il pregio di confermare la tesi prevalente secondo la quale il
regime patrimoniale legale inter coniuges
non può essere analogicamente esteso per via interpretativa ai conviventi
(neppure se legati da un contratto di convivenza, che di tale regime non faccia
menzione). Sul punto v. per tutti Oberto,
I diritti dei conviventi. Realtà e
prospettive tra Italia ed Europa, cit., p. 59 ss.
[51] Sul tema cfr. per tutti Oberto, La comunione
legale tra coniugi, II, cit., p. 1381 ss.
[52] Oberto, La comunione legale di fonte negoziale:
riflessioni circa i rapporti tra legge e contratto nel momento genetico del
regime patrimoniale tra coniugi, in Dir.
fam. pers., 2011, p. 835 ss.
[54] Sul punto e sull’impossibilità
di qualificare la separazione dei beni tra coniugi come «non regime» cfr. Oberto, Il regime di separazione dei beni tra coniugi. Artt. 215-219, in Il codice
civile. Commentario fondato e già diretto da
Schlesinger, continuato da Busnelli, Milano, 2005, p. 25 ss.
[55] Principio,
si noti, che, tra l’altro, sicuramente governa anche la materia delle
convenzioni matrimoniali e dunque i rapporti patrimoniali inter coniuges:
cfr. Oberto, Contratto e
famiglia, in Aa.Vv., Trattato del contratto, a cura
di Roppo, VI, Intrerferenze, a cura di Roppo, Milano, 2006, p. 147 ss.
[56] Cfr. Oberto, I regimi patrimoniali della famiglia di fatto, cit., p. 260 ss.
[57] Su cui v. per tutti Oberto,
Atto di destinazione e rapporti di
famiglia, in Giur. it., 2016, p.
254 ss.
[58] Per chi crede a tale ultima possibilità,
naturalmente, su cui non ci si può in questa sede intrattenere; per i richiami
v. per tutti Oberto, Le destinazioni patrimoniali nell’intreccio
dei rapporti familiari, in Aa.
Vv., Trattato dei contratti, diretto Rescigno ed E. Gabrielli, 19, I contratti di destinazione patrimoniale,
a cura di Calvo e Ciatti, Torino, 2014, p. 147 ss.
[60] Non senza problemi: cfr. per tutti Oberto, La comunione legale tra coniugi, II, cit., p. 1681 ss.
[61] Per questi temi v., in relazione alla situazione
anteriore alla novella di cui alla l. 6 maggio 2015, n. 55, Oberto, La comunione legale tra coniugi, II, cit., p. 1818 ss.; e, per la
situazione successiva, Id., «Divorzio breve», separazione legale e comunione
legale tra coniugi, in Fam. e dir.,
2015, p. 615 ss.
[62] Cfr. sul tema Oberto,
La comunione legale tra coniugi, II,
cit., p. 1709 ss., 1718 ss., 1745 ss., 1777 ss., 1868 ss.
[63] Cfr. ad es. Oberto,
Prestazioni «una tantum» e trasferimenti tra coniugi in occasione di
separazione e divorzio, Collana «Biblioteca del Diritto di Famiglia
», Milano, 2000, p. 259 ss.
[64] Sul punto v. da ultimo, ad es., Cass., Sez. Un., 1°
febbraio 2016, n. 2951, secondo cui «Il diritto al risarcimento dei danni
subiti da un bene spetta al titolare del diritto di proprietà al momento
dell’evento dannoso, quale risulta anche da scrittura privata, salva cessione
del credito».
[65] T. Auletta,
Modelli familiari, disciplina applicabile
e prospettive di riforma, in Nuove
leggi civ. comm., 2015, p. 627.
[66] Sul punto, anche per le relative critiche, cfr. T. Auletta, Modelli familiari, disciplina applicabile e prospettive di riforma,
cit., p. 627.
[67] Cfr. Oberto,
I diritti dei conviventi. Realtà e
prospettive tra Italia ed Europa, cit., p. 171 ss.