Il divorzio in
Europa
«Ce que tint les mariages si longtemps en honneur et
sureté, fut la liberté de les rompre».
Montaigne, Essais, Liv. 2. Chap. 15.
Dopo un breve excursus storico lo studio presenta i principali modelli di divorzio oggi
esistenti nel nostro continente, tentando di evidenziarne le evoluzioni, le
similitudini e le differenze. Viene quindi affrontato il dilemma posto dalla
c.d. armonizzazione del diritto europeo di famiglia, con particolare
attenzione al tema dello scioglimento del matrimonio. In tale quadro lo
studio affronta la distinzione tra uniformazione e armonizzazione, per
dimostrare come forme assai avanzate di armonizzazione tra i vari ordinamenti
siano già concretamente in atto. Il lavoro passa quindi a trattare dei
principali punti di convergenza dei differenti sistemi europei in tema di
divorzio, illustrando altresì il ruolo svolto in quest’ottica dal diritto
eurounitario e sottolineando in particolare la crescente importanza
attribuita in tutti gli ordinamenti all’autonomia privata. Lo scritto tenta
poi di dimostrare la necessità di una revisione delle norme europee uniformi
di conflitto in materia di divorzio, specie al fine di superare gli effetti deleteri
del dépeçage.
Lo studio si conclude infine con una proposta di uniformazione «mite», di
tipo meramente opzionale, di un ipotetico e futuribile diritto europeo
materiale divorzile. |
Sommario: 1. Il perimetro dell’indagine e i precedenti storici. – 2. I principali modelli di divorzio oggi presenti nel
nostro continente: evoluzioni, similitudini e differenze. – 3.
Unificare o armonizzare? La spontanea armonizzazione e i suoi detrattori. – 4. Delle convergenze il catalogo è questo. Le convergenze
già in atto. [(a) La nozione di divorzio. (b) Esistenza del
divorzio in tutti i sistemi odierni europei.
(c) Il divorzio è una questione «gender-free». (d) L’affermazione del «no-fault divorce». (e) Irrilevanza della separazione legale. (f)
La condizione della prole: responsabilità genitoriale condivisa vs. ottica meramente divorzile.] – 5. Continua. Le
convergenze in fieri. [(g)
Divorzio come oggetto di un diritto potestativo. (h)
Divorzio degiurisdizionalizzato. (i)
Effetti patrimoniali inter coniuges.]
– 6. Continua. La
convergenza delle convergenze. l’Europa si unisce nel segno dell’autonomia
privata. [(l) Contrattualizzazione degli effetti patrimoniali del
divorzio e ammissibilità di prenuptial
agreements in contemplation of divorce.] – 7. È
davvero necessario unificare o armonizzare la legislazione (materiale)
divorzile? Il ruolo del diritto internazionale privato uniforme. – 8. Per finire, una proposta. |
1. Il perimetro dell’indagine e i precedenti storici.
Uno
studio dal titolo «il divorzio in Europa» potrebbe essere svolto, in teoria, in
due modi molto diversi. Da un lato, infatti, ci si dovrebbe concentrare
sull’ottica del comparatista, indagando i diversi modi con i quali si pone fine
all’unione coniugale nei vari sistemi nazionali, magari tentando di estrarne
insegnamenti validi per noi, linee di tendenza comuni e convergenti, nonché
proposte per il futuro. Dall’altro, si potrebbe scegliere di svolgere
un’indagine di tipo internazionalprivatistico, focalizzando l’attenzione sugli
strumenti normativi e le soluzioni giurisprudenziali tendenti a risolvere le
sempre più frequenti situazioni di cross border litigation divorzile all’interno del nostro continente.
La
soluzione qui scelta sarà quella – per così dire «intermedia» – diretta, certo,
a esporre «les grands principes»
che si profilano nel variegato panorama dei singoli ordinamenti, ma puntando
anche a sottolineare in modo particolare quei molteplici aspetti su cui diritto
comparato e diritto internazionale s’incrociano, vicendevolmente fornendosi
argomenti e spunti.
Preliminarmente
– come sempre – la retrospettiva storica può rivelarsi illuminante. Il primo
insegnamento che la stessa ci impartisce è che il trapianto di istituti
stranieri può rivelarsi problematico, allorquando il «terreno» socio-culturale
su cui lo stesso deve operarsi non è omogeneo rispetto a quello d’origine.
Estremamente significativo al riguardo appare il primo tentativo di trasposizione
nella nostra Penisola, in epoca moderna, del divorzio francese, che pure tanto
successo aveva riscosso oltralpe per effetto della legislazione rivoluzionaria.
Così, mentre nel 1793 a Parigi si erano pronunziati tanti divorzi quanti erano
stati i matrimoni celebrati in quell’anno (e addirittura nel 1797 il numero dei
primi aveva superato quello dei secondi) [1], per l’intera
durata della codificazione napoleonica in Italia [2] «furono annoverati
venti divorzi, fra i quali tre soli nel Mezzogiorno continentale» [3].
L’impermeabilità
della società italiana al divorzio durò, come noto, assai a lungo [4] e continuò a
manifestarsi pure nei primissimi anni successivi alla (re)introduzione dello
stesso per effetto della legge 1° dicembre 1970, n. 898, al punto che un
celebre saggio pubblicato oltre oceano nel 1972 manifestava stupore per lo
«special case» dell’Italia, ove divorziare «was not possible […] until December 1, 1970, and, even after that date, the divorce
rate is still practically zero» [5].
La
situazione è, naturalmente mutata in modo radicale anche nel nostro Paese nel
corso degli ultimi decenni, sebbene alcune residue «riluttanze» e reliquati
storici del principio di indissolubilità possano ancora rinvenirsi nella
legislazione e nella giurisprudenza. Si pensi, per la parte normativa, alla
persistente necessità della separazione legale, quale condicio sine qua non per l’ottenimento (nella quasi totalità dei
casi) del divorzio. Quanto alle decisioni dei giudici, sarà il caso di citare
alcune perduranti tendenze «paternalistiche», così come taluni profili di
resistente «indissolubilità patrimoniale», su temi quali l’assegno postmatrimoniale, o gli accordi in vista del divorzio [6]. Ciò detto, può
avere senso interrogarsi oggi sull’eventuale presenza di linee di tendenza
comune e di convergenze a livello europeo in materia divorzile, anche al fine
di accertare se il nostro ordinamento si muova in coerenza con esse, ovvero ne
diverga.
Anche
in questo campo, come si diceva poc’anzi, la prospettiva storica viene in
aiuto.
Lo
studio dell’evoluzione plurisecolare del divorzio nel nostro continente non
può, naturalmente, prescindere dalla considerazione delle profonde
trasformazioni che si sono operate nel campo religioso, filosofico, economico e
sociale, da epoca ben anteriore alla Rivoluzione Francese. Così si suole
ricondurre alla Riforma Protestante la «rinascita» post-romanistica del
divorzio, nel contesto di quella secolarizzazione dell’istituto matrimoniale
che, una volta privato della natura di sacramento, veniva inevitabilmente a
ricadere, in modo esclusivo, nella categoria (civilistica)
negoziale/contrattuale, con l’ovvia conseguenza dell’ammissibilità di una
risoluzione del vincolo coniugale, ancorché sul presupposto della ricorrenza di
determinate condizioni [7]. Non vi è dubbio che,
come rimarcava un accurato
studio transalpino già più
di un secolo addietro, «Le
protestantisme a (…) rendu l’œuvre du législateur bien pus
facile à l’égard du mariage et du divorce, ses croyances se rapprochant
beaucoup plus du droit naturel que celles des catholiques» [8].
La
conclusione richiede però alcune puntualizzazioni.
Tanto
per cominciare, le Chiese cristiane d’oriente consentirono in ogni tempo il
divorzio, senza alcuna difficoltà d’ordine teologico o giuridico, semplicemente
facendo propria la legislazione giustinianea [9], mentre gli
stessi canonisti medioevali ammettevano che, in caso di matrimonio tra
infedeli, la conversione al cristianesimo di un coniuge che non fosse Christi fidelis
avrebbe sciolto il vincolo e consentito al convertito di passare a nuove nozze [10]. D’altro canto,
pure in Paesi di sicura fede cattolica e comunque già da epoca precedente
all’affermazione delle tesi di Lutero, Calvino, Melantone e Zwingli, si erano
levate autorevoli voci in favore della possibilità della risoluzione inter vivos del vincolo matrimoniale, pur se suggellato da
celebrazione in facie
Ecclesiae, quale conseguenza di talune gravi
violazioni dei doveri coniugali e, in particolare, dell’adulterio.
È,
infatti, nel contesto dell’umanesimo giuridico rinascimentale [11] che è dato
cogliere l’espressione di veri e propri aneliti verso tale soluzione. Aneliti,
del resto, non completamente contrastati all’epoca dalla stessa Chiesa romana,
che, come noto, prese un chiaro, granitico e definitivo partito sul tema solo
con il Concilio di Trento [12]. Per non dire,
poi, dell’influenza che comunque continuavano a esercitare sugli studiosi gli
infiniti passi delle fonti romane che al divorzio si richiamavano: fonti che,
non dimentichiamolo, sin dal Medioevo erano quotidianamente studiate nelle
università europee, glossate, commentate come se si trattasse (anche nelle
parti relative al divorzio) di vero e proprio «diritto vivente» da tutti i
giureconsulti [13] e adattate dai
tribunali del nostro continente alla realtà dell’epoca [14]. A ciò s’aggiunga
ancora – cosa, questa, meno nota – la presenza di alcune tracce del divorzio
per adulterio rinvenibili all’interno di disposizioni normative «laiche», quali
gli statuti di talune città italiane [15].
Non
stupisce, quindi, che, nella celebre Sylva
Nuptialis (1518), Giovanni Nevizzano
difenda con vigore la tesi dell’ammissibilità del divorzio (inteso, ovviamente,
non già quale semplice separatio a mensa et thoro,
ma proprio come causa di dissoluzione definitiva del vincolo, con possibilità
di passaggio a nuove nozze) per adulterio della moglie, facendo perno sul noto
passo del vangelo di San Matteo, che, a differenza degli altri sinottici,
consente al marito di «dimittere uxorem
suam» e di «aliam ducere
(…) ob fornicationem» [16]. A sostegno della
propria tesi l’umanista astigiano soggiunge che la soluzione negativa
costringerebbe il marito a peccare, «quia uxorem adulteram cognoscere prohibitum est». Il
tutto condito da pesanti critiche ai canonisti dell’epoca, i quali avrebbero
sostenuto l’indissolubilità del matrimonio sol perché (testualmente!) «ipsi non habent uxores» [17].
L’idea
rispondeva del resto alla concezione già espressa da Erasmo da Rotterdam, il
quale, partendo dal presupposto che la Chiesa non avrebbe potuto astenersi dal
soccorrere i fedeli coniugati in difficoltà, aveva ammesso la possibilità di
una separazione che non impedisse la celebrazione di nuove nozze in caso di
adulterio, così come di altre gravi violazioni dei doveri coniugali [18]. Anche Montaigne,
come si è visto, difendeva l’idea della dissolubilità del matrimonio [19], mentre un altro
grande esponente dell’umanesimo giuridico europeo, l’italiano Andrea Alciato,
sottolineava che era solo la legge ecclesiastica a vietare il divorzio, non
quella divina, richiamando l’autorità di Erasmo e approvando la scelta del
diritto giustinianeo di continuare a permettere il divorzio ex legitima causa,
già consentito nell’antico diritto romano, secondo una regola seguita fino a
Giustiniano «et aliquanto etiam
postea» [20].
Non
dissimilmente si esprimevano in Francia Cujacio [21] e Bodin [22], laddove lo
stesso Molineo (il quale, come noto, pagò duramente
di persona con l’esilio e la prigione le proprie idee «liberali» e la sua
adesione al calvinismo) affrontò «di petto» l’esegesi del controverso passo
evangelico, vigorosamente propugnando la tesi secondo cui quest’ultimo non
avrebbe trattato «de thori separatione,
tunc ignota, verumetiam de
toto divortio». L’idea secondo cui la parte offesa,
in caso di adulterio, non avrebbe potuto essere dichiarata libera di risposarsi
veniva espressamente bollata come «superstitiosa» e
fonte di gravissimi scandali, che i padri del Concilio tridentino ben avrebbero
potuto evitare «nisi eos superstitionis cultus a veritatis et aequitatis amore deterruisset» [23]. Sorprendente,
poi, anche perché non molto conosciuta dagli stessi storici del diritto, la
posizione di un altro autorevolissimo esponente dell’umanesimo giuridico
francese, il Duareno, il quale non esitò ad attaccare
frontalmente la posizione del diritto canonico sull’indissolubilità del
matrimonio, alla luce di una serie di argomenti storici e logici [24].
Si
noti che, tra l’altro, proprio all’umanesimo giuridico cinquecentesco va ascritto
il merito di aver cominciato a fare chiarezza su di un punto fondamentale, vale
a dire il significato stesso del termine divortium, che nei secoli a
cavallo tra Medioevo ed Età Moderna era passato ad indicare anche (e, talora,
soprattutto) la separazione personale (divortium o separatio quoad mensam et torum) del diritto canonico [25] e/o
l’annullamento del matrimonio per presenza di un impedimento dirimente. La
confusione, destinata a durare ancora a lungo e praticamente fino alla
Rivoluzione Francese, era favorita dall’etimologia stessa della parola, che,
come noto, derivando dal verbo latino divertere, cioè – in buona sostanza – «prendere strade
diverse» (da cui termini quali «divergenza», ma anche «divertimento»), non
denota tanto e di per sé una particolare procedura giudiziale e ancor meno i
relativi effetti sul piano giuridico, bensì il mero «dato di fatto» di non
stare più insieme [26]. Del resto, già
il giurista romano Paolo affermava che «divortium ex eo dictum est, quod in diversas partes eunt qui discedunt» [27].
Nell’Europa
della Controriforma le autorevoli voci di cui sopra rimasero però isolate e,
anzi, vennero sovente poste all’indice [28], dando luogo in
tal modo ad un netto clivage,
destinato a durare sino a tutto il XVIII secolo, tra Paesi cattolici e
protestanti. Così, se i grandi civilisti francesi del Seicento e del Settecento
non sembrano voler mettere in discussione, per alcun motivo, l’indissolubilità
del matrimonio – contrat civil, sì, ma nel contempo pur sempre sacramento [29] – e i tribunali
condannano inflessibilmente coloro che, per la propria appartenenza religiosa,
osino sfidare il divieto [30], è nel contesto
dell’Illuminismo che tornano a riecheggiare appassionati plaidoyers per il divorzio.
Sferzanti e canzonatorie suonano le espressioni usate da Voltaire alla voce Divorce del Dictionnaire philosophique [31], mentre per
Diderot l’indissolubilità matrimoniale «c’est la tyrannie
de l’homme qui a converti en propriété
la possession de la femme» [32]. Un notevole
influsso in quel periodo fu esercitato anche in Francia da Bentham, che del
divorzio aveva fatto l’oggetto di una delle sue «battaglie civili» più
importanti [33]. Nella seconda
metà del Settecento compaiono inoltre in Francia alcuni pamphlets anonimi, provenienti da personaggi colti e ben
documentati, che tentano di mostrare l’inconsistenza della teoria
dell’indissolubilità matrimoniale, nonché l’assurda e penosa condizione dei
coniugi costretti a rimanere uniti ad ogni costo [34].
Ma
l’Illuminismo dispiegò i suoi effetti anche fuori dalla Francia.
Così,
il progetto del «Codice Federico», commissionato da Federico II di Prussia a
Samuel von Cocceji e pubblicato tra il 1749 e il 1751
(Project des Codicis
Friedericiani Marchici
o Corpus Juris
Fridericiani) prevedeva una sorta di divorzio-rimedio fondato sulla domanda
congiunta e sulla separazione personale legale di un anno [35], oltre ai motivi
già ampiamente conosciuti dalla tradizione protestante (adulterio, abbandono,
minacce, sevizie, etc.), che consentivano un divorzio ad iniziativa di una sola
delle parti. Cocceo morì nel 1755 e Federico fu ben
presto distratto dalla sua occupazione preferita, vale a dire la guerra (nella
specie, quella detta «dei sette anni»). Il progetto restò quindi incompiuto, ma
il principio del divorzio per mutuo consenso (gegenseitige Einwilligung, peraltro solo in assenza
di figli) passò nell’Allgemeines Landrecht für die Preussischen Staaten (ALR)
del 1794 [36], assieme a quello
del divorzio (su istanza di una sola parte) fondato su di una «avversione
insuperabile» (unüberwindliche Abneigung) di
un coniuge nei riguardi dell’altro, qualora essa apparisse di gravità tale da
convincere il giudice dell’assenza di ogni speranza di riconciliazione o del
raggiungimento degli scopi del matrimonio [37]. La traduzione
francese del Projet
del 1751 (nella versione pubblicata quello stesso anno ad Halle, quasi
introvabile oggi, se non a prezzi astronomici) circolò ampiamente nel milieu culturel
della Parigi di Luigi XV, influenzando il pensiero di letterati e giuristi [38].
Il
seguito della storia è noto.
La
richiesta dell’introduzione del divorzio compare già in taluni dei cahiers de doléances presentati agli
Stati Generali convocati da Luigi XVI, così come in una proposta legislativa
elaborata proprio nel 1789 dal celebre avvocato e polemista Linguet
[39], mentre le prime
mozioni all’Assemblée
Nationale
datano della primavera del 1790 [40]. La prima legge
francese, estremamente liberale (concedeva, infatti, il divorzio non solo per
mutuo consenso, ma anche per incompatibilité d’humeur) reca la data del 20 settembre 1792 [41]: essa fu resa
possibile dal fatto che, un anno prima, la Costituzione del 3 settembre 1791
aveva dichiarato il matrimonio «contrat civil» [42]. Alcune
restrizioni procedurali verranno peraltro introdotte all’epoca del Direttorio
(26 ottobre 1795 – 9 novembre 1799), soprattutto al fine di rendere meno
agevole lo scioglimento su iniziativa unilaterale di un coniuge per incompatibilità
di carattere [43], peraltro senza
stravolgere l’istituto novellamente introdotto.
Il
Code civil des français, promulgato il 21 marzo 1804 (preceduto in parte qua dal décret del 20 marzo 1803,
destinato a diventare il titolo VI del libro primo del Codice), ribattezzato Code Napoléon
nel 1807, conserva il divorzio, ma elimina l’ipotesi dell’incompatibilità di
carattere; esso continua ad ammettere l’ipotesi di scioglimento par consentement
mutuel, pur rendendola più difficile [44]. Mutuo consenso, adultère, excès, sévices ou injures graves e condamnation à une peine
infamante costituiscono dunque le uniche cause possibili dello scioglimento
del matrimonio nel sistema napoleonico [45].
Nel
clima della Restaurazione, per effetto della fervente opera di uno dei più
rilevanti esponenti del pensiero reazionario, Louis de Bonald,
viene approvata la legge 8 maggio 1816 (detta, per l’appunto, «loi Bonald»), che abroga,
puramente e semplicemente, il divorzio [46]. La Francia dovrà
così attendere la novella del 27 luglio 1884 [47], approvata non
senza accesi contrasti [48] sotto la Troisième République, a sua volta fondata
esclusivamente sull’idea del divorzio-sanzione. Concezione, quest’ultima, che
verrà superata solo nel 1975, sotto la presidenza di Giscard d’Estaing, con il
ristabilimento del divorzio per mutuo consenso [49], peraltro
affiancato ancora alla «vecchia» ipotesi del divorzio per colpa, così come per
altre situazioni sintomatiche della irreversibile rottura dell’unione [50]. Dopo alcune
proposte nei primi anni 2000 volte all’eliminazione della colpa, la riforma
transalpina entrata in vigore il 1° gennaio 2005, pur conservando il «pluralisme des cas» (ivi
compresa, quindi, la faute),
ha modernizzato e semplificato le fattispecie previste, ridotte a quattro (par consentement mutuel, par acceptation du principe de la rupture du mariage, pour faute, pour altération du lien conjugal), favorendo
il divorce par consentement mutuel
rispetto alle altre ipotesi [51].
Malgrado
la radicale evoluzione che la famiglia (da «isola» ad «arcipelago», secondo le
ben conosciute opinioni dei più autorevoli studiosi italiani) ha subito negli
ultimi decenni un po’ in tutto il nostro continente, così come in altre parti
del mondo [52], tale
aggregazione è certamente ancora considerata come la più importante delle
formazioni sociali. Per questa ragione ogni Stato continua a conservare
gelosamente l’esclusiva della normativa al riguardo, per lo meno sul piano del
diritto materiale [53]. Ma è chiaro che
i profondi mutamenti sociali degli ultimi decenni non potevano non influenzare
pesantemente tale regolamentazione e, all’interno di questa, ovviamente, la
disciplina del divorzio. Ciò non solo nel passaggio «epocale» del matrimonio
dalla stagione dell’indissolubilità a quella della dissolubilità, bensì anche
(e soprattutto) nella predisposizione dei variegati modelli attraverso i quali
tale ultimo risultato poteva essere raggiunto.
I
diversi modelli di divorzio si differenziano essenzialmente in base ai motivi
che possono determinarlo. Ciò avviene praticamente da sempre: così già i romani
distinguevano tra divortium communi consensu (o
bona gratia)
e divortium ex justa causa
[54], mentre il
dibattito su questo profilo si riaccese proprio quando l’istituto venne
reintrodotto dalla Rivoluzione francese e, come si è visto, dopo un’iniziale
«generosità» nell’individuazione delle situazioni che avrebbero consentito lo
scioglimento del vincolo, lo spegnersi degli ardori rivoluzionari andò di pari
passo con la restrizione del numero dei motivi ammessi e con l’incremento degli
ostacoli frapposti ad una assoluta libertà di divorziare [55]. Altre stagioni
seguirono, ritmate dai vari corsi e ricorsi storici del nostro continente,
gravidi di conseguenze anche nel campo del diritto di famiglia, questa volta
nel segno, a partire dagli ultimi decenni, di crescenti aperture e di una
liberalizzazione delle procedure divorzili [56]. Inevitabile,
quindi, nel panorama continentale, la presenza di una situazione quanto mai
articolata e «a macchia di leopardo», caratterizzata da una panoplia di cause
di divorzio, che appare quasi impossibile ricondurre a categorie generali e,
soprattutto, ben definite e separate tra di loro.
L’analisi
storica e comparata evidenzia, negli ordinamenti europei, almeno cinque [57] distinti modelli
di divorzio, che si sono venuti sviluppando da
(a)
una situazione iniziale (intendendo come tale, per semplificare, quella in atto
a partire da circa un secolo e mezzo fa), in cui il divorzio era storicamente
fondato sull’idea dello scioglimento del matrimonio per colpa di uno dei due
coniugi (divorzio-sanzione) [58], al
(b)
divorzio fondato sulla compromissione irrimediabile dei rapporti tra le parti
(divorzio-rimedio), da cui trae anche origine l’idea che
(c)
un certo periodo di tempo di separazione (vuoi di fatto, vuoi legale) consenta
di desumere proprio la presenza di tale irrimediabile compromissione
(divorzio-rimedio fondato sulla separazione), al
(d)
divorzio per mutuo consenso (sovente inteso pure esso come forma di
manifestazione della citata compromissione irrimediabile), mentre oggidì vari
ordinamenti stanno ulteriormente evolvendo verso un
(e)
divorzio su semplice richiesta di una delle parti (divorzio-diritto o divorzio
a richiesta); un istituto inteso come oggetto di un vero e proprio diritto
potestativo nascente sic et simpliciter
dal matrimonio, come potrebbe accadere per un diritto di recesso ad nutum
derivante da un contratto che lo preveda [59].
Se
è vero che si possono individuare gli estremi di una evoluzione dalla prima
delle categorie indicate all’ultima, è altrettanto vero che non appare
possibile categorizzare storicamente tale mutamento, né tanto meno affermare
che i modelli più recenti hanno soppiantato i più antichi. In fin dei conti,
come si è appena detto, il divorzio communi
consensu (sovente qualificato come bona gratia)
era ben noto già nel diritto romano, sin dall’epoca classica e, a ben vedere,
lo stesso divorzio per incompatibilité d’humeur del
1792, o quello per unüberwindliche
Abneigung del 1794 null’altro erano se non un
tipo di «divorzio-rimedio». La verità è che tutti e quanti i sopra individuati
cinque modelli – ciascuno dei quali riflette un’idea diversa dei complessi
rapporti tra Stato, Chiesa, società, morale, etica, libertà, individualismo [60] – sono
simultaneamente presenti nell’Europa di oggi, anche per effetto della «dissimilarity in the timing of the liberalisation
of divorce law in different
countries» [61].
Con
l’ovvio livello di approssimazione (e, a seconda dei punti di vista,
sicuramente anche d’errore) dovuto ai complessi intrecci delle categorizzazioni
che si è tentato di enucleare, ecco, dunque, come potremmo procedere ad una
classificazione dei principali ordinamenti europei in materia, secondo lo
schema che si è appena illustrato sopra.
(a)
Al modello del divorzio-sanzione s’ispirano ancora oggi (sebbene, certo, non
esclusivamente), ad esempio, i sistemi del Regno Unito o quelli della Grecia e
di Cipro (e, almeno in parte, Bulgaria), che «nascondono» varie ipotesi di
colpa, peraltro sempre normativamente indicate (ad es.: adultery, unreasonable behaviour,
desertion nella normativa dell’Inghilterra e del
Galles), dietro al concetto generale di irretrievable
breakdown, ritenuto sussistere solo se si fornisce prova di una di quelle
situazioni (o, in alternativa, della separazione di fatto per un certo
periodo). Probabilmente, da un punto di vista meramente tassonomico, l’elemento
caratterizzante questa categoria è dato dal mero fatto che gli ordinamenti in
esame continuano a far menzione delle varie ipotesi di colpa, anche se a
rilevare ai fini del divorzio è ormai, e a ben vedere, la sola rottura
irrimediabile del rapporto; non andrebbero poi dimenticati quegli ordinamenti
che, come quello italiano, richiedono alcune ipotesi di «colpa» (intesa,
questa, in senso lato, come violazione penalmente rilevante nei confronti del
coniuge, ma anche verso la «società») per consentire il divorzio immediato [62].
(b)
Il modello del divorzio-rimedio ad una situazione di intollerabilità della
convivenza (non necessariamente evidenziata da un periodo di separazione) è quello
seguito da ordinamenti di Paesi quali Germania (Scheitern der Ehe: §
1565 BGB), Bulgaria, Paesi Bassi, Polonia, Repubblica Ceca, Ungheria.
(c)
Il divorzio-rimedio basato sulla separazione (vuoi di fatto, vuoi legale) è
presente in Paesi quali Italia, Francia [63], Spagna, Irlanda,
Austria, Belgio, così pure come in molti degli ordinamenti qui indicati come
appartenenti ad un’altra delle citate categorie. Dovrà aggiungersi che la
distinzione con il punto precedente è praticamente ormai solo nominale, nel senso
che gli ordinamenti ivi elencati (al precedente punto (b, ove esplicitano il
requisito di un certo numero di anni di separazione, lo fanno al dichiarato
fine di desumere quella situazione di «compromissione irrimediabile» che
costituirebbe il presupposto imprescindibile per il divorzio. Nei sistemi di
cui al presente punto, invece, ancorché la logica sia, in buona sostanza,
identica, essa non viene formalmente esplicitata: la «compromissione
irreversibile» non sembra comparire in primo piano, per lasciare spazio al
criterio meramente temporale della separazione per un certo periodo di tempo,
che viene messo così sotto i riflettori, anche se, a ben vedere, esso altro
ruolo non svolge se non quello di prova dell’irrimediabilità della situazione
dei rapporti inter coniuges.
(d)
Il divorzio per mutuo consenso è consentito in moltissimi Paesi, anche se
talora si trova ad essere «nascosto» sotto l’ombrello dell’(incontournable!) «irretrievable
breakdown», di cui costituisce una sorta di prova presuntiva (Austria,
Repubblica Ceca, Danimarca, Germania, Inghilterra e Galles, Paesi Bassi,
Russia, Scozia), mentre in altri sistemi viene presentato come una vera e
propria categoria a parte (Belgio, Bulgaria, Francia, Grecia, Portogallo) [64] e in altri ancora
sembra far capolino sotto un’etichettatura dalla parvenza meramente processuale
(è il caso italiano del divorzio su domanda congiunta, che oggi può veramente
dirsi contenere anche uno scioglimento del matrimonio per mutuo consenso, pur
se «filtrato» da una previa separazione consensuale).
(e)
Il divorzio su semplice richiesta di una delle parti, infine, è consentito in
sistemi quali quelli dei Paesi Scandinavi (in particolare Svezia e Finlandia) e
in Russia [65], sebbene, come
verrà detto oltre in relazione al caso dell’Italia [66], non deve
escludersi che in molti ordinamenti l’irretrievable
breakdown possa essere scorto nel
puro e semplice fatto che una domanda di divorzio (o, come avviene in Italia,
di separazione préalable al divorzio)
sia stata presentata: il risultato è, pertanto, nei fatti, quello di un sistema
nel quale il divorzio viene concesso perché, in buona sostanza, è voluto anche
solo da una delle parti.
Ancora
una volta (e a scanso di equivoci) sarà il caso di precisare che la
schematizzazione di cui sopra è (forzatamente) molto approssimativa e non
esclude che moltissimi ordinamenti, a seconda della sensibilità
dell’osservatore, possano essere considerati come «prevalentemente» ascrivibili
ad un tipo diverso, o anche come contemporaneamente a due o più delle sopra
indicate categorie.
Ora,
se proprio si volesse tentare di ipotizzare ipotetiche aggregazioni dei
prospettati cinque modelli attorno a caratteristiche comuni, potrebbe
ulteriormente proporsi la dicotomia che segue.
(a)
Sistemi monisti.
Trattasi
di sistemi che (almeno nelle rispettive enunciazioni normative) fondano il
divorzio su di un unico principio, condensato nell’espressione inglese «irretrievable breakdown of marriage». In questo senso
potremmo definire allora sistemi monisti quelli di Paesi quali Inghilterra e
Galles, Scozia, o Irlanda, che sembrano basare tutto sul citato requisito. Lo
stesso vale per la Germania («Scheitern der Ehe»), l’Austria («unheilbare Zerrüttung der Ehe»), i Paesi Bassi («duurzame ontwrichting van het huwelijk»), nonché per altri
Paesi che paiono voler fondare il divorzio su tale concetto, facendo ricorso a
terminologie consimili [67].
(b) Sistemi pluralisti.
Trattasi di sistemi (cfr. ad es. Belgio,
Cipro, Francia, Grecia, Italia, Polonia, Portogallo, Spagna) che prevedono una
variegata serie di motivi, i quali possono coincidere, ma anche variare di
molto, da Paese a Paese (mutuo consenso, violazione di doveri coniugali,
precedente periodo di separazione di fatto, precedente periodo di separazione
legale, etc.) [68].
Ancora una volta va però chiarito che la
distinzione sembra porsi più che altro su di un piano
ideologico/sistematico/terminologico, nel senso che anche nei sistemi che
sembrano volersi apertamente dichiarare monisti, mercé il richiamo ad un
apparentemente unico motivo di divorzio, costituito dall’irreversibile
compromissione della vita coniugale, si rinviene poi l’enunciazione di distinti
motivi, la cui presenza serve a dimostrare l’effettiva sussistenza di, volta in
volta, di tale requisito.
Per converso, anche nei sistemi che
potremmo definire pluralisti non mancano espressioni normative che, pur non
figurando formalmente come motivo di divorzio, fanno intendere l’esistenza,
dietro alle distinte cause singolarmente enunciate, di una toile de fond che le sottende: si pensi al
riferimento della legislazione italiana all’impossibilità di mantenere o
ricostituire «la comunione spirituale e materiale tra i coniugi», contenuto
nello stesso art. 1, l.div.
Malgrado il carattere eminentemente
formale della prospettata distinzione, va detto che la presenza di questo
clivage tra
sistemi monisti e sistemi pluralisti può essere vista come una persistente
linea di tendenza nel contesto attuale europeo. La consapevolezza di questa
situazione, se da un lato non consentirebbe ad un’ipotetica e futuribile
legislazione europea di sciogliere il nodo in un senso o nell’altro (senza
scontentare, come ovvio, una parte), può fornire la base per una soluzione che
tenga conto proprio di tali articolate diversità, come si avrà modo di proporre
a suo tempo [69].
3. Unificare o armonizzare? La spontanea
armonizzazione e i suoi detrattori.
La
questione che, di questi tempi, gli studiosi discutono con ardore è se sia
possibile o meno ricondurre il descritto variopinto vestito d’Arlecchino ad
unità. Ma, prima ancora, occorre porsi l’interrogativo se sia necessario, o
anche solo opportuno, tentare questa vera e propria novella fatica d’Ercole.
Per
sciogliere il nodo è necessario, forse, rispondere ancora a una domanda
preliminare. E cioè: stiamo qui parlando di un’unificazione o non piuttosto di
un’armonizzazione del diritto europeo del divorzio e, più in generale, del
diritto europeo di famiglia? La dottrina ha infatti messo bene in luce che «unlike
unification which contemplates the substitution of two or more legal systems
with one single system, (…) harmonisation seeks the effect of approximation or
co-ordination of different legal provisions or systems by eliminating major
differences and creating minimum requirements or standards» [70]. Così, mentre l’unificazione comporta l’applicazione di
regole identiche, l’armonizzazione si limita a ridurre le differenze,
nell’ottica di conciliare i vari sistemi, al fine di evitare conflitti [71]. Usando un
linguaggio che va di moda oggidì, si potrebbe distinguere tra una top-down harmonization
(l’unificazione) e una bottom-up harmonization (l’armonizzazione propriamente detta) [72]. Così, la prima
«is always a result of deliberate efforts by a central authority», laddove la seconda «can be both
deliberate, stemming from purposeful human efforts, and spontaneous, resulting
from a spontaneous evolutional approximation of legal systems» [73]. Si può dunque dire che, mentre l’unificazione implica
l’adozione di regole assolutamente identiche, l’armonizzazione comporta
l’adozione degli stessi principi generali, che poi possono essere declinati nei
vari ordinamenti in modi anche non esattamente coincidenti.
Premesso
quanto sopra, va considerato che, di questi tempi, gli sforzi della dottrina
sembrano concentrarsi soprattutto sul tema dell’armonizzazione. L’idea di una
vera e propria unificazione del diritto di famiglia appare, infatti, quanto mai
utopica. Esclusa la via dei regolamenti della Commissione Europea, per evidente
difetto di legittimazione al riguardo, la soluzione non potrebbe certo passare
se non attraverso una assai improbabile convenzione europea, volta, per l’appunto,
all’emanazione di un diritto materiale uniforme in tema di rapporti familiari
(e, segnatamente, di divorzio). Le parole di un autorevole civilista
contemporaneo riassumono meglio di qualunque digressione quello che sembra
essere il sentire dei più: «le tematiche dei rapporti familiari (sono quasi)
una cartina di tornasole per verificare (…) il processo evolutivo di un diritto
privato europeo che muove sempre più decisamente verso una integrazione delle
forme, ma che non può pretendere di imporre modelli culturali» [74]. Meglio, dunque,
secondo molti, puntare ad iniziative sovranazionali tendenti alla
predeterminazione normativa (non già delle regole di dettaglio, bensì solo) di
grandi principi comuni.
Ma,
a ben vedere, anche restando sul piano della «semplice» armonizzazione, si
annoverano prese di posizione assai discordi. Armonizzare presuppone, infatti,
la possibilità di tracciare linee di tendenza comuni. E proprio sulla
sussistenza di tale possibilità si registrano marcati dissensi. Come rilevato da una studiosa italiana, «there are
currently two main, opposing approaches to family law harmonisation in Europe.
From one point of view, family law is supposed to be influenced by political
factors and cultural constraints that make harmonisation an unattainable goal» [75]. Lo stesso Consiglio Europeo, del resto, riconosce che
il diritto di famiglia è pesantemente influenzato dalla cultura e dalla
tradizione dei sistemi nazionali o religiosi, «which could create a number of difficulties in the context of harmonisation» [76]. E nel nostro
Paese non manca chi, richiamando l’insegnamento di Jemolo, pone in evidenza come,
nel campo della famiglia, «dominata da forze incoercibili (…) da istinti
primordiali (…) da elementi religiosi», il legislatore «appare molto spesso
come quello che non domina la materia, ma ne è dominato; non imbriglia il
fiume, ma pone dei cartelli là dove si spingono le acque» [77].
Sull’altro
versante, i sostenitori dell’opposta tesi affermano (in modo certamente
condiviso da chi scrive) che – piaccia o meno – è già presente, nei fatti, una
sorta di spontanea convergenza dei sistemi europei attorno ad alcuni importanti
temi del diritto di famiglia, quali, ad esempio, la parità tra coniugi, il
divorzio non basato sulla colpa, i diritti dei figli nati fuori dal matrimonio,
etc. (e tanti altri verranno qui di seguito enucleati in dettaglio). Secondo tale
punto di vista, forme di «spontaneous parallelism» hanno già preso forma negli ultimi anni [78] e, anche a
dispetto dell’inerzia degli organismi sovranazionali, pure in questo settore
risulta rinvenibile uno «steady trend towards globalisation» [79]. In altre parole,
«differences between European laws seem to be just a question of time, since
developments in the different national systems are analogous in the long term» [80].
Il
dibattito su presente e futuro del diritto di famiglia europeo prende le mosse
dalla constatazione che ciò che conta non è solo il retaggio storico, ma anche
la velocità con la quale le evoluzioni hanno luogo: una velocità (o, a seconda
dei casi, una lentezza) che costituisce il risultato del confronto politico (o,
se si preferisce, del compromesso) tra i difensori dello status quo e quanti si fanno propugnatori del rinnovamento [81]. Dibattito,
questo, che non può non essere influenzato dalle componenti ideologiche [82], espressione di
un determinato orizzonte di valori che caratterizzano la società di un certo
Stato e che proprio nel campo giusfamiliare assumono talora toni e «colori»
quanto mai marcati, in un senso come nell’altro. Legata a questa premessa è la
constatazione, assai diffusa, secondo cui nel diritto di famiglia apparirebbe assai
più difficile che non in altri settori del diritto civile registrare linee
evolutive e convergenze tra i vari ordinamenti, proprio in considerazione della
maggiore influenza che esercitano sui profili giusfamiliari le evoluzioni (o le
involuzioni) nei rapporti sociali e di costume.
Ma è anche vero,
per converso, che proprio le differenti velocità con cui le trasformazioni
hanno luogo (specie se si considerano gli anni più vicini a noi) possono
evidenziare sorprese. Così, non poche sono le materie in cui lo stereotipo che
voleva un’Europa meridionale conservatrice opposto a un Nord progressista
sembra oramai essere sconfessato. Ad esempio, l’Italia è stata il terzo Paese
in Europa ad aver approvato una legge sul transessualismo dopo Germania e
Svezia [83], attribuendo ai
transessuali il diritto al matrimonio e all’adozione [84]; il Portogallo
nel 1975 ha dato vita a una disciplina uniforme in materia di filiazione; in tutta
la Spagna sin dal 1998 è stata prevista la convivenza registrata per le coppie
eterosessuali e non; infine, sempre in Spagna, con la legge 13 del 2005, si è
dato il via libera ai matrimoni tra persone dello stesso sesso, così come era
già previsto solo da Belgio e Olanda [85]. Come pure si è rilevato in dottrina, «the
national culture by itself is not a constraint for harmonisation of family law,
but matters as a condition in regulation of family matters in each European
country, which may influence the national family laws only under particular
circumstances and only to a certain extent» [86].
Quanto
sopra dovrebbe indicare, pur tra tante difficoltà, una serie di linee di
tendenza comuni (anche se non sempre esattamente coincidenti) che i nostri vari
ordinamenti stanno percorrendo, ancorché con tempi, modalità e ritmi
differenti.
A
questa conclusione s’oppone chi, invece, come s’è visto, contesta radicalmente
l’idea che i sistemi europei in materia divorzile si stiano muovendo verso una
spontanea armonizzazione. Secondo i detrattori dell’idea della spontanea
armonizzazione, pur dovendosi ammettere che l’evoluzione storica nell’ultimo
mezzo millennio mostra «a general development of
divorce law in Europe in the same
direction: from more restrictive
to more permissive» e che esiste una incontestabile tendenza di tutti gli
ordinamenti verso una «modernizzazione», ciò non dimostrerebbe ancora la
presenza di convergenze. Le modernizzazioni si attuano infatti in modo
differente da Paese a Paese. Ne consegue che, «While the
countries lagging behind in the liberalisation of divorce are approaching one
stage, the vanguard has already moved to the next, and in this way the distance
persists and the common core on the level of positive law remains limited» [87].
La
constatazione è, dunque, che il numero delle divergenze non è diminuito nel
corso del tempo. Da un certo punto di vista, anzi, secondo la citata (e qui
criticata) impostazione, potrebbe dirsi che vi era maggior convergenza tra gli
ordinamenti di un secolo e mezzo fa, quando più o meno tutte le legislazioni
divorziste erano permeate dal principio della colpa, quale esclusiva (o
assolutamente prevalente) causa di scioglimento del vincolo, laddove oggi la
colpa permane in alcuni sistemi a fianco di svariate serie di motivi che
incontriamo, di volta in volta, in certi sistemi e non in altri [88]. Per i partigiani
della tesi (verrebbe da dire) «euroscettica», sarebbe difficile, quindi, per
non dire impossibile, rinvenire un «common core», un nucleo comune di
convergenti principi [89].
A
fronte di conclusioni tanto negative vale la pena chiedersi se, ferma restando
la constatazione dell’esistenza di distanze, talora anche notevoli, tra i vari
sistemi, il «common core on the level of positive law» debba ritenersi davvero così limitato, o se, invece,
le possibilità offerte dallo studio comparato dei sistemi e dall’apporto di
quel vero e proprio moderno jus commune Europae, costituito
dal diritto eurounitario, non consentano di giungere a conclusioni diverse e,
almeno su questo punto, assai meno pessimistiche.
4. Delle convergenze il catalogo è questo. Le
convergenze già in atto.
Provando,
dunque, a redigere un sommario catalogo dei momenti di convergenza, o, quanto
meno, delle linee di tendenza convergenti, tra i vari ordinamenti giuridici
europei, dobbiamo constatare che un primo punto fermo è costituito dalla
nozione stessa di divorzio.
Si
è avuto modo di vedere in precedenza [90] che la confusione
sul concetto di divorzio e sulla sua distinzione dalla semplice separazione
personale (ancorché solennizzata nelle forme prescritte dapprima dalla Chiesa e
poi dallo Stato), nonché dall’annullamento del matrimonio, caratterizzò per
secoli il pensiero giuridico (e non). Oggi, invece, è assolutamente assodato,
ovunque, nel nostro continente, che per «divorzio» si intende unicamente lo
scioglimento del vincolo matrimoniale (comportante, quindi, la cessazione e non
già il mero allentamento dei diritti e doveri derivanti dal matrimonio, con
conseguente riacquisto dello stato libero da parte degli ex coniugi) per
situazioni verificatesi esclusivamente in epoca successiva alla celebrazione [91]. Non solo una
tale confusione non è più esistente in alcun sistema giuridico europeo, ma la
distinzione appare chiara e netta anche nel campo del diritto eurounitario:
basterà qui considerare i regolamenti «Bruxelles II», «Bruxelles II bis» e «Bruxelles II ter», che chiaramente danno per scontata
ed acquisita tale differenziazione [92], laddove lo
stesso è a dirsi anche per il regolamento sui regimi matrimoniali [93]. Si noti che
persino quello strumento comunitario che regola (nella specie: sotto il profilo
del diritto applicabile) solo alcuni di tali rimedi, vale a dire il regolamento
«Roma III», relativo ai soli istituti della separazione e del divorzio, si
premura di chiarire espressamente, a scanso d’equivoci, la sua inapplicabilità
al diverso caso dell’annullamento del negozio matrimoniale [94].
(b) Esistenza del divorzio in tutti i
sistemi odierni europei.
Il
secondo, innegabile, punto di convergenza tra tutti i sistemi europei è costituito
dal fatto che il divorzio (come sopra inteso) è ormai un istituto che, al di là
delle differenze nei requisiti, modalità, forme ed effetti «collaterali»
personali e patrimoniali, è riconosciuto e disciplinato da ogni ordinamento del
nostro continente [95]. I dati
sociologici, d’altro canto, dimostrano che il ricorso a tale istituto (pur tra
«alti» e «bassi») può dirsi oggi statisticamente assai consistente in tutti i
Paesi europei, a prescindere dalle rispettive «latitudini», geografiche, così
come culturali [96], al punto da
influenzare, in modo talora anche curioso, i costumi dei cittadini [97].
(c) Il divorzio è una questione
«gender-free».
Un
terzo punto di convergenza, ancora una volta, tra tutti gli ordinamenti
europei, è costituito dall’assoluta irrilevanza di fronte al divorzio, dal
punto di vista normativo, del genere (maschile o femminile) delle parti
coinvolte. Per essere più precisi, si vuole dire qui che (a parte, ovviamente,
i casi in cui il divorzio concerne due soggetti dello stesso sesso, in quei
sistemi in cui il matrimonio omosessuale è consentito, e dunque ove la
questione appena segnalata neppure si pone in thesi)
oggi è del tutto indifferente essere marito o moglie in una procedura di
divorzio. Le condizioni richieste dalla legge per accedere a tale istituto non
distinguono in modo alcuno a seconda del genere di ciascuna delle parti. Ciò
vale tanto in relazione alla legittimazione a divorziare, quanto alle
condizioni per ottenere lo scioglimento del matrimonio, quanto alle conseguenze.
Conclusione, questa, ovvia, attualmente, ma che tale sempre non fu [98]. Oggi, tra
l’altro, il «droit à l’égalité des sexes lors de la dissolution du mariage» è riconosciuto come facente parte dei diritti
dell’uomo [99] e comunque viene
espressamente tutelato anche dalla legislazione eurounitaria [100].
(d) L’affermazione del «no-fault divorce».
Al
di là della molteplicità dei modelli di divorzio che si è sopra cercato di
enucleare – e con le riserve che si sono presentate in ordine ai corsi e
ricorsi storici sugli stessi – una comune linea di tendenza si profila
nell’abbandono del modello di divorzio-sanzione, quale esclusivo modello disponibile all’interno di un dato ordinamento.
L’enfasi su quest’ultima precisazione è dovuta al fatto che ciò che si vuol dire
qui non è che il divorzio basato sulla colpa sia scomparso dagli ordinamenti
europei. Non solo, infatti, esso continua a figurare come causa «principale» ai
fini dell’accertamento dell’«irretrievable breakdown» dell’unione in
ordinamenti come quello di Inghilterra e Galles [101] ma, a ben vedere,
forme di divorzio-sanzione sono presenti, con ogni probabilità, un po’ in tutti
i sistemi. Basti pensare anche al caso dell’Italia, che pur ispirandosi
chiaramente al modello del divorzio-rimedio (basato sulla pregressa
separazione), ammette poi lo scioglimento del vincolo anche, ad esempio, per
una serie di condanne penali (cfr. art. 3, n. 1 e 2, lett. c), d) ed e), l.
1.div.) e, dunque, di «colpe», ancorché non necessariamente «dirette» in modo
precipuo contro il partner.
Quello
che si vuole sottolineare qui, comunque, è che non esistono più ordinamenti
europei in cui il positivo accertamento della violazione di uno dei doveri
matrimoniali costituisca esclusiva condicio
sine qua non per l’ottenimento
del divorzio. Ed anche questo rappresenta un non trascurabile, sicuro punto di
convergenza.
(e) Irrilevanza della separazione legale.
Ulteriore
punto di amplissima convergenza è costituito dal fatto che, nei Paesi in cui è
disciplinata la separazione personale legale (contrapposta alla semplice
separazione di fatto), tale situazione non è mai elevata a condizione
imprescindibile per il divorzio. Unica, cospicua, eccezione è rappresentata
dall’Italia (se non nei rari casi di divorzio immediato «per colpa»), in cui, peraltro,
la Wartezeit
tra separazione e divorzio è andata notevolmente riducendosi nel corso del
tempo [102], al punto che non
pochi si chiedono oggidì se abbia ancora senso continuare a fondare il divorzio
su di una separazione (necessariamente) legale, quale condicio sine qua non per lo scioglimento del vincolo [103]. In questo
contesto appare quasi superfluo ricordare che anche i Principi di diritto
europeo elaborati dalla Commission on European Family Law si
astengono dal raccomandare l’introduzione della separazione legale (sconosciuta
ad un numero consistente di ordinamenti) quale condizione imprescindibile per
il divorzio [104]. Non solo: circostanziati
studi comparati, già diversi decenni addietro, dando atto di una régression di
questo istituto in tutta Europa, ne consigliavano de lege ferenda
la pura e semòplice abrogazione [105].
(f) La condizione della prole:
responsabilità genitoriale condivisa vs.
ottica meramente divorzile.
Uno
dei più rilevanti effetti delle riforme del diritto di famiglia che hanno avuto
luogo in questi ultimi decenni in Europa è costituito dalla consapevolezza
della necessità di riservare alla materia della gestione di quella che un tempo
fu la (patria, dapprima, e poi genitoriale) potestà una regolamentazione che il
più possibile prescindesse dalla relazione maritale, o di convivenza, o anche
solo affettiva dei genitori. In questa prospettiva era inevitabile che l’istituto
che ora un po’ ovunque in Europa chiamiamo «responsabilità genitoriale»,
costruito attorno al concetto di esclusivo o prevalente interesse del minore,
mettesse in ombra le peculiarità del fatto che il suo concreto esercizio possa
svolgersi in un contesto caratterizzato dal divorzio dei genitori. Anche qui
l’evoluzione storica mostra il radicale rovesciamento di prospettiva, ove si
pensi che, ad esempio, in molte delle legislazioni ottocentesche le sorti del
divorzio dei genitori determinavano anche l’affidamento della prole [106]. Oggi, invece,
regna pressoché incontrastata la regola dell’affidamento condiviso, che non
«guarda in faccia» lo status dei
genitori in crisi: separati, divorziati, «annullati», ex conviventi o,
addirittura, perfetti estranei [107], avvicinando, ove
possibile, la situazione dei genitori in crisi a quella di una famiglia
normalmente convivente [108].
Ne
deriva che, un po’ in tutta Europa, il diritto della prole minorenne nel
contesto della crisi della coppia genitoriale (coniugata o meno che sia) si è
completamente autonomizzato rispetto al diritto matrimoniale e divorzile,
venendo a costituire un vero e proprio «micro-ordinamento» a sé stante. Prova
ne è, a livello di legislazione sovranazionale, il passaggio (di una
repentinità, tra l’altro, più che sorprendente, considerati i tempi dei
meccanismi delle istituzioni europee: dal 2000 al 2003) dal regolamento
«Bruxelles II» al «Bruxelles II bis»,
evidente effetto della acquisita consapevolezza della necessità di una
protezione della prole a prescindere dal contesto nel quale i relativi pericoli
potessero maturare (fase fisiologica/fase patologica del rapporto tra i
genitori; presenza/assenza di matrimonio etc.). Assai esplicito sul punto il
considerando n. 5 del secondo dei regolamenti qui appena citati [109], secondo cui «Per
garantire parità di condizioni a tutti i minori, il presente regolamento
disciplina tutte le decisioni in materia di responsabilità genitoriale, incluse
le misure di protezione del minore, indipendentemente da qualsiasi nesso con un
procedimento matrimoniale».
5. Continua. Le
convergenze in fieri.
Accanto
alla serie di punti appena illustrati, che possono costituire espressione di
altrettante convergenze normative già presenti nel diritto divorzile dei
sistemi europei, si pone ancora un nutrito elenco di situazioni su cui sembra
si possano registrare convergenze in
fieri (o, in certi casi, già in gran parte attuate) tra un crescente numero
di ordinamenti.
(g) Divorzio come oggetto di un diritto
potestativo.
Una
linea di tendenza che sembra disegnarsi in vari sistemi (anche se, forse, è
ancora troppo presto per riconoscere gli estremi di una sicura linea
direttrice) è quella che si basa sull’idea del divorzio (sopra indicato come «a
domanda», o «a richiesta di una delle parti») inteso come oggetto di un vero e
proprio diritto soggettivo potestativo, competente a ciascuno dei coniugi. Va qui
subito chiarita la differenza con il ripudio, pur conosciuto da svariati
ordinamenti stranieri extraeuropei: in questo, infatti, il diritto soggettivo
potestativo (concesso, ad esempio, nei sistemi di matrice islamica al solo
marito) è quello di determinare, mercé un negozio giuridico unilaterale, sic et simpliciter, lo scioglimento del
vincolo, quale effetto, per l’appunto di tale dichiarazione unilaterale di
«recesso» dal vincolo coniugale. Orbene, tale situazione non esiste in Europa
ed anzi in tale assenza può ravvisarsi un ulteriore punto di convergenza dei
sistemi del nostro continente.
Ciò
che si vuole sottolineare invece qui, come linea di tendenza in fieri, è che svariati ordinamenti
paiono convergere sull’idea dell’esistenza, nei fatti, di un vero e proprio
diritto ad ottenere il divorzio, inteso nel senso di diritto di un coniuge, per
il fatto stesso di essere tale, di pervenire comunque allo scioglimento del
vincolo, pur in presenza di opposizione dell’altro e sulla base, in buona
sostanza, del solo desiderio di colui che ha assunto l’iniziativa di terminare
un’unione considerata male assortita. Naturalmente (e a differenza, come detto,
dell’ipotesi del ripudio) tale eventuale opposizione allo scioglimento del
matrimonio potrà essere superata, non già tramite una sola e semplice
esternazione di volontà, bensì per effetto del ricorso a percorsi
procedurali/giurisdizionali ben definiti. Ciò che, però, preme qui sottolineare
è che il risultato finale perseguito da chi desidera porre fine all’unione sarà
comunque conseguito, a dispetto di ogni opposizione del partner.
Come
si è avuto modo di dire in precedenza [110], il divorzio su
semplice richiesta di una delle parti è già consentito in sistemi quali quelli
dei Paesi Scandinavi (in particolare Svezia e Finlandia) e in Russia, ma, tanto
per portare un altro esempio, svariati autori francesi non esitano ad affermare
che la riforma entrata in vigore il 1° gennaio 2005 in quel Paese sarebbe
venuta a consacrare un vero e proprio droit au divorce [111]. Un diritto, del
resto, che sembrerebbe affermarsi a livello sovranazionale per effetto delle
chiarissime indicazioni per il favor divortii che rinveniamo già a partire dal regolamento
«Bruxelles II», che, secondo molti, consacra un vero e proprio «droit à un démariage effectif» [112]. Per non dire poi
del regolamento «Roma III», secondo cui (cfr. art. 10) «Qualora la legge
applicabile ai sensi dell’articolo 5 o dell’articolo 8 non preveda il divorzio
(...) si applica la legge del foro». Norma, questa, che ha fatto esclamare ai
commentatori che il regolamento, lungi dal limitarsi ad armonizzare le regole
di conflitto, «impose une certaine vision substantielle du divorce, donc du mariage, aux États membres participants
: le “droit au divorce” doit être consacré»
[113].
Un caso che potrebbe sollevare dubbi in
proposito appare essere proprio quello dell’Italia, ove, come noto, per
l’esperimento della procedura di divorzio è ancora necessario nella maggior
parte delle ipotesi aver ottenuto la separazione personale legale. Ma anche
qui, a ben vedere, il presupposto indefettibile della separazione, vale a dire
la presenza dell’intollerabilità della prosecuzione della convivenza (o il
grave pregiudizio alla educazione della prole, ex art. 151 c.c.) appare sicuramente accertabile sulla base del
semplice fatto che una delle due parti ha ritenuto di dover esperire una
procedura di separazione legale [114]. Quanto sopra è
confermato dalla dottrina più autorevole, la quale non esita ad affermare che
la separazione e il divorzio costituiscono l’oggetto di un «diritto
potestativo», ancorché «a necessario esercizio processuale», che de iure condendo ben potrebbe
trasformarsi in un vero e proprio «diritto potestativo sostanziale» [115].
(h) Divorzio degiurisdizionalizzato.
Un’altra
sicura convergenza tra un numero assai ampio e costantemente crescente di
ordinamenti si attua sul terreno delle procedure attraverso cui giungere al
divorzio. Qui, se costituisce certamente patrimonio comune di (questa volta)
tutti i sistemi europei che lo scioglimento del vincolo matrimoniale si debba
necessariamente attuare con il rispetto di formalità necessariamente
coinvolgenti il ministero di un pubblico ufficiale svolgente funzioni
giurisdizionali, o (a seconda dei casi) anche solo amministrative, non vi è dubbio
che in questi ultimi anni, anche al fine di far fronte alla necessità di
rendere più efficiente l’amministrazione della giustizia e dunque di sgravare
gli uffici giudiziari da una serie di compiti ed attività di volontaria
giurisdizione, si sono attuate forme sempre più «estreme» di quel fenomeno che
si è variamente definito nelle varie lingue del nostro continente con un
neologismo orribile, ovunque quasi impronunziabile: degiurisdizionalizzazione,
déjudiciarisation
o déjuridictionnalisation,
dejurisdictionalisation,
des-jurisdiccionalización,
desjudicialização
o desjurisdicionalização,
etc. [116].
Così,
mentre l’Italia ha introdotto nel 2014 la negoziazione assistita, con relativa
possibilità di definire senza ricorso al giudice la crisi coniugale in una
ricca serie di ipotesi [117], la Francia
consente dal 1° gennaio 2017 che il divorce
par consentement mutuel si realizzi sulla base di un semplice accordo tra le
parti controfirmato dagli avvocati e recepito da un atto notarile (Cfr. art.
229-1 Code civil).
Non
dissimilmente, si può divorziare senza giudice (pur sempre con il rispetto di
formalità, non esattamente coincidenti tra Paese e Paese, da espletarsi con
l’intervento di un pubblico ufficiale) in Danimarca, Islanda, Norvegia, Svezia,
Estonia, Lituania, Russia, Ucraina, Moldavia, Portogallo (dal 1995), Spagna
(dal 2015) e Romania (dal 2010) [118]. Sul punto la
dottrina tende a raggruppare tali categorie di sistemi in «notarial
divorce» (Paesi Baltici, Francia e Spagna), da un lato, e in «administrative divorce» (Paesi Scandinavi, Paesi dell’Est
Europa), dall’altro. Singolare, poi, il caso dei Paesi già facenti parte
dell’U.R.S.S., alcuni dei quali hanno mantenuto il divorzio amministrativo pur
dopo la caduta dell’Unione Sovietica (è il caso di Estonia, Lituania, Moldavia,
Russia e Ucraina) [119].
E
se taluni sistemi continuano a rimanere vigorosamente ancorati al principio
secondo cui il matrimonio può essere sciolto solo dal provvedimento di un
giudice [120], non sembra
esservi dubbio sul fatto che il fenomeno qui indicato sia destinato ad
espandersi, nel contesto delle iniziative nazionali e sovranazionali miranti ad
ottenere un maggior «efficientamento» della giustizia nel nostro continente [121]. Della tendenza
ha preso atto, del resto, il diritto eurounitario, che, nella refonte del
regolamento «Bruxelles II bis» nel
contesto del nuovo «Bruxelles II ter»
ha espressamente previsto (cfr. art. 65) che l’oggetto del riconoscimento ed
esecuzione siano (non già solo le sentenze, ma anche, più in generale) gli
«atti pubblici e gli accordi in materia di separazione personale e divorzio» [122].
(i) Effetti patrimoniali inter coniuges.
La
materia degli effetti patrimoniali del divorzio è certamente quella su cui in
Europa si manifestano ancora le più evidenti divergenze. In particolare, un
solco incolmabile sembra profilarsi tra diversi «macro» e «micro-sistemi»,
ispirati a logiche e meccanismi diversi tra di loro.
(i.1)
Il primo è costituito dai sistemi di common
law che – ignorando, sostanzialmente, il concetto
stesso di regime matrimoniale – consentono al giudice del divorzio di procedere
ad una risistemazione globale dei rapporti patrimoniali, riallocando beni (o
quote di essi), anche a prescindere dalla titolarità (formale o sostanziale)
dei medesimi, sulla base di criteri di ragionevolezza ed equità, tenuto conto
dell’apporto da ciascuno fornito al ménage
coniugale, magari tramite il ricorso – sovente praticato al di là della Manica,
tanto per le coppie coniugate, quanto per quelle conviventi – all’istituto del trust [123].
(i.2)
Di contro a quanto sopra si pongono quei sistemi «continentali» che assegnano
ai regimi matrimoniali il ruolo di regolare i rapporti patrimoniali relativamente
agli incrementi di ricchezza verificatisi in costanza di rapporto, così
svolgendo una funzione eminentemente perequativa tra le parti, al momento dello
scioglimento del vincolo. Da tale premessa deriva (almeno in linea di
principio) che, poiché la funzione perequativa è svolta dal regime, all’assegno
di divorzio vengono invece attribuite funzioni più spiccatamente assistenziali.
Un «assistenzialismo» che viene però declinato in modo assai diverso, a seconda
dei vari ordinamenti.
(i.2.1)
Così, il sistema tedesco appare fondato sulla regola della Eigenverantwortung [124], cioè di un
principio di autoresponsabilità, per cui «dopo il divorzio ciascuno dei coniugi
deve farsi carico del proprio mantenimento» (cfr. il § 1569 BGB, come
modificato a seguito della riforma del 2007); qui la legge, pur senza eliminare
del tutto la c.d. solidarietà postconiugale, non pone
quest’ultima a fondamento dell’intera disciplina, ma delle eccezioni (al
principio di autoresponsabilità), che giustificano l’attribuzione dell’assegno [125], sostanzialmente
in situazioni di bisogno da parte di uno dei due ex coniugi.
(i.2.2)
Da quello appena ricordato si distingue poi, per le sue peculiarità, il sistema
italiano, che, pur affidando, teoricamente, ai regimi matrimoniali una funzione
perequativa assegnata in primis alla
comunione legale, assiste nella prassi ad uno svuotamento della stessa, mercé
una massiccia opzione dei coniugi per la separazione dei beni, conformemente,
del resto, alla tradizione storica del regime patrimoniale della nostra
penisola, incentrato su di una rigida separazione di beni e patrimoni,
derivante dalla tradizione romanistica, in qualche modo parzialmente «attutita»
dalla dote. Da quanto sopra deriva che la giurisprudenza di vede in qualche
modo «costretta» ad assegnare (oltre a quelle tradizionali) una (impropria)
funzione perequativa e «redistributiva» all’assegno di divorzio. Quanto, poi,
alla «tradizionale» funzione assistenziale dell’assegno ex art. 5 l.div. sono fin troppe note le
oscillazioni di una giurisprudenza che, tra mantenimento del tenore di vita
matrimoniale, autosufficienza economica, «indissolubilità patrimoniale» del
matrimonio, etc., da mezzo secolo a questa parte variamente «s’avanza e ristà» [126].
(i.3)
In ulteriore alternativa rispetto ai sistemi dei due principali gruppi
precedenti si pongono quelli che optano per una sorta di via mediana. In
proposito è necessario menzionare il sistema francese. In esso, pur svolgendo i
régimes matrimoniaux
un ruolo determinante nel riequilibrio delle posizioni delle parti [127], è però assente
(a differenza del sistema germanico) un principio di autoresponsabilità, qui sostituito
da una regola di tipo compensativo, per effetto della quale, in mancanza di un
accordo dei coniugi, è previsto l’eventuale pagamento di una «prestation
compensatoire» (una tantum) avente un
«caractère forfaitaire»
sotto forma di una somma di denaro, il cui ammontare viene determinato dal
giudice (art. 270 Code civil) e che può avere anche ad oggetto l’attribuzione
di beni in proprietà (art. 274 Code civil). La prestazione è dovuta a prescindere dalle
condizioni di bisogno del richiedente, al dichiarato fine di «compenser (...) la disparité que la rupture du mariage crée dans le conditions de vie respectives» [128].
Occorre
però prestare attenzione, perché, sebbene il giudice del divorzio sia tenuto
(cfr. art. 271 Code civil),
nella determinazione della prestation
compensatoire, a tenere conto del «patrimoine estimé ou prévisible
des époux, tant en capital qu’en
revenu, après la liquidation du régime matrimonial», ciò non
significa che, in caso ad esempio, di separazione dei beni (ove, evidentemente,
non vi è alcunché da liquidare a titolo di regime), i tribunali d’oltralpe
possano svolgere una funzione analoga a quella delle corti di common law. Come chiarito, invero,
dalla stessa Cour
de cassation in una decisione
del 2009 [129], la prestation compensatoire non
ha «pour objet de compenser les inconvénients du régime de séparation de biens
librement choisi par les époux» [130]. È
evidente, del resto, che, in caso contrario, l’attribuzione di rilievo al puro
e semplice fatto dell’assenza inter
partes di un regime comunistico sconvolgerebbe il sistema dei regimi
matrimoniali e trasformerebbe la séparation de biens in una sorta di una comunione differita. Ciò che
unicamente viene a contare, allora, è la disparità di reddito che la rottura
del matrimonio, in quanto tale, viene a creare. La chiave di volta per la
comprensione di questo sistema sembra essere dunque costituita dalla necessità
di considerare solo il reddito dell’uno e dell’altro, a seguito del divorzio,
laddove i rispettivi patrimoni (influenzati dalla pregressa opzione per un
regime piuttosto che per un altro) potrebbero contare solo, eventualmente, come
fonte di più o meno rilevanti redditi.
Terminando
sul punto e concentrando l’attenzione sul tema dell’assegno, si può ancora
aggiungere che si potrebbe prospettare anche una distinzione tra sistemi che,
da un lato, disegnano un unico tipo d’assegno, valevole a prescindere dal tipo
di divorzio in cui lo stesso si colloca, e ordinamenti che, dall’altro,
predispongono un modello d’assegno diverso a seconda del tipo di divorzio da
cui lo stesso dipende. Appartengono alla prima categoria sistemi quali quelli
di Danimarca, Germania, Inghilterra e Galles, Italia, Norvegia, Paesi Bassi,
Repubblica Ceca, Russa, Scozia, Svezia e Svizzera; al secondo si possono ascrivere
ad es. Austria, Belgio, Francia e Lussemburgo [131].
Ancora,
profonde divergenze esistono nel modo di calcolare l’assegno. In particolare,
in un gruppo di sistemi viene lasciata wide
discretion al giudice (d’obbligo qui il
riferimento, ancora una volta, ai Paesi di common
law), laddove in altri la legge (e/o la
giurisprudenza) tenta di indicare criteri piuttosto rigidi: è il caso della
Germania o dell’Austria [132], ma anche (se si
considera la portata dei fiumi d’inchiostro generosamente riversati sul tema
dai nostri giudici di legittimità) dell’Italia [133]. Infine, un
ulteriore clivage
in materia di assegno può essere individuato nella presenza o meno di una
limitazione temporale nell’erogazione dello stesso. Anche in questo caso non
valgono criteri rigidi, bensì piuttosto linee di tendenza, che comunque
sembrano evidenziare una spiccata preferenza per la prima soluzione. Così,
mentre nel Paesi Bassi esiste una limitazione a dodici anni per legge, in Norvegia
e Grecia opera una limitazione (nella maggior parte dei casi) a tre anni e in
Svezia a quattro anni; per quanto attiene al passaggio a nuove nozze del
beneficiario, esso rileva come causa estintiva automatica praticamente in tutti
i sistemi, laddove le soluzioni appaiono assai più sfumate in relazione
all’inizio di una stabile convivenza [134].
6. Continua. La
convergenza delle convergenze. L’Europa si unisce nel segno dell’autonomia
privata.
(l) Contrattualizzazione degli effetti
patrimoniali del divorzio e ammissibilità di prenuptial agreements in
contemplation of divorce.
Se
l’ultimo punto esaminato nel contesto del § precedente marca, come visto, la
presenza di profonde e persistenti differenze tra i sistemi europei di
liquidazione delle questioni patrimoniali insorgenti dal divorzio, un ampio
orizzonte convergente – che viene in qualche modo a «compensare», assai
generosamente, i divari di cui sopra – appare costituito dalla crescente
valorizzazione dell’autonomia privata nel diritto di famiglia e dalla vera e
propria privatizzazione e contrattualizzazione dei profili patrimoniali
correlati allo scioglimento del vincolo matrimoniale [135].
Qui
può veramente dirsi che i differenti sistemi europei stiano cominciando,
finalmente, a parlare la stessa lingua.
Valga,
per tutti gli infiniti esempi che si potrebbero portare, l’argomento
«comparato» addotto da Lord Justice Thorpe quale fondamentale rationale di Radmacher v. Granatino. Una decisione, questa,
con la quale, nel 2009, la Court of
Appeals del Regno Unito (con verdetto confermato l’anno successivo dalla
Corte Suprema) ha letteralmente demolito il precedente indirizzo contrario al
riconoscimento anche oltre Manica degli ante-nuptial contracts. Qui,
partendo dalla considerazione per cui «the civil law jurisdictions of Europe generally employ notarised marital property regimes to regulate both the property consequences of marriage
and divorce, the common law jurisdictions
attach no property consequences to marriage and rely
on a very wide judicial discretion to fix the property consequences of divorce», Lord Thorpe punta tutto sul
«doppio argomento» (à la fois
comparatistico e internazionalistico) per cui la coppia in oggetto era formata
da un cittadino francese e da una cittadina tedesca e che, ove la questione
della validità dell’accordo prematrimoniale (stipulato in Germania ed in forza
del quale il marito non avrebbe potuto vantare alcuna pretesa d’ordine
patrimoniale in caso di divorzio) fosse stata affrontata da un giudice tedesco
o da uno francese, essa sarebbe stata sicuramente risolta in modo positivo. In
motivazione è dato leggere, tra l’altro, che non tenere conto del fatto che la
moglie era tedesca e che il pre-nuptial agreement era stato stipulato in Germania, con
l’assistenza di un notaio tedesco e che colà – così come in Francia – l’intesa
sarebbe stata ritenuta valida, «would be both unfair and unjust», atteso che tali «foreign
elements» andavano considerati «relevant»,
in quanto costituenti «essential features». E più oltre
si legge che «The parties entered into their agreement with the help
and advice of a German lawyer, under German law, making an agreement which was
familiar to the civil law under which both parties and their families had grown
up in Germany and France» [136].
L’argomento,
per la sua vastità, non può certo essere affrontato nella presente sede.
Basterà dire che, a parte i richiami ai numerosi studi in materia, l’Europa
contemporanea sembra aver riscoperto recentemente nozioni e principi che erano
propri già del diritto romano, che attribuiva ampi spazi alla contrattazione
privata sul divorzio, sovente anche in via preventiva rispetto ad uno
scioglimento meramente ipotizzato come astrattamente possibile [137]. Sul punto può
veramente dirsi che tutta la dottrina e la giurisprudenza del continente
riconoscono oggi la contrattualizzazione dei rapporti familiari, con
particolare riferimento al divorzio, come un fenomeno assolutamente universale
e fondamentale, al punto da affermare, ad esempio, che «l’étude
des relations entre divorce et contrat est l’un des
points clés de la réflexion
sur le droit de la famille
en général, et sur la nature du
mariage en particulier» [138]. La stessa
dottrina francese riconosce del resto, da tempo, proprio nel divorzio il
«luogo» in cui si esercita una négociation globale,
di cui i coniugi stessi sono sempre più protagonisti [139].
Anche
su questo punto, poi, viene generosamente in soccorso il diritto eurounitario.
Sia
detto subito che ben poco rileva che tale settore sia per lo più volto a
disciplinare questioni processuali e temi di diritto internazionale privato. Come condivisibilmente rimarcato
oltralpe, invero, «il faut
aujourd’hui démentir l’idée de neutralité du droit international privé. Au
moins en matière familiale, les dernières évolutions de la discipline révèlent
clairement qu’il s’agit d’un droit engagé en faveur de la défense des droits
fondamentaux et que cet engagement ne passe plus seulement par le correctif de
l’ordre public» [140].
Del
resto, come chi scrive ha cercato di dimostrare in altra sede [141], la «lezione» che
il diritto europeo di famiglia [142] ci impartisce è proprio quella secondo cui i problemi
giuridici transnazionali della crisi di coppia vanno affrontati alla luce del
principio di autoresponsabilità e di autonomia contrattuale. Un’autonomia, si
badi, che può essere esercitata non solo al momento della crisi, ma anche prima
di essa, sin dal momento della costituzione del vincolo personale. Tale
principio, in verità, fa capolino in tutti gli strumenti di fonte eurounitaria
volti a trattare speciali profili dei rapporti endofamiliari. Strumenti,
questi, che lasciano tutti vistosamente trapelare il fatto di presupporre, addirittura, e di dare
assolutamente per scontata la validità, sul piano del diritto materiale interno
dei Paesi membri, di patti prenuziali in vista del divorzio. Si veda ad
esempio quanto stabilito dall’art. 3 del regolamento sui regimi matrimoniali
(n. 1103 del 2016), laddove, dal combinato disposto delle lett. b) ed a),
emerge con chiarezza che (non solo la scelta della legge applicabile, ma anche)
la «convenzione matrimoniale» (intesa come «qualsiasi accordo» con cui le parti
«organizzano il loro regime patrimoniale») ben può essere stipulata non solo
tra coniugi, ma anche tra «nubendi» (e, dunque, prima delle nozze), al precipuo
fine di regolare i rapporti patrimoniali tra le parti e rispetto ai terzi, in
conseguenza non solo del matrimonio, ma anche «del suo scioglimento». Lo stesso
principio appare desumibile dall’art. 27, laddove si afferma espressamente che
l’accordo sulla legge applicabile determina, tra l’altro (cfr. la relativa
lett. e), lo scioglimento del regime patrimoniale tra coniugi e la divisione,
distribuzione o liquidazione dei beni [143].
In
breve: non solo la comparazione con i sistemi stranieri, ma anche il diritto
eurounitario (che, a differenza degli ordinamenti stranieri, è, come noto, parte
integrante e fondamentale delle normative interne dei Paesi membri dell’UE) ci
dice ormai che gli accordi patrimoniali sul divorzio, compresi i contratti
prematrimoniali in vista di quest’ultimo (sono presupposti come, e pertanto)
devono ritenersi validi e ammissibili ovunque. Di tale realtà appare quindi
opportuno che anche le giurisprudenze più «conservatrici», come la nostra,
comincino ad acquisire consapevolezza [144], utilizzando le
considerazioni di cui sopra quale elemento determinante nel far pendere il
piatto della bilancia nel senso della validità, anche nel diritto interno,
delle intese qui in discorso. Questo, a maggior ragione, in un periodo che,
come il presente, appare caratterizzato da evidenti «sbandamenti», mentre la
visione tradizionale dei patti in vista del divorzio, che vedeva questi ultimi
come irrimediabilmente contrari all’ordine pubblico (interno) ed all’art. 160
c.c., inizia a mostrare (a parte l’evidente antistoricità) talune vistose crepe
[145].
Dopo
aver passato in rassegna i diversi argomenti che sembrano evidenziare la
presenza, nei vari ordinamenti europei, di linee di tendenza comuni o, quanto
meno, ampiamente convergenti in materia di divorzio e aver tentato di esporre
una critica della tesi che nega l’esistenza di (o, più esattamente, tenta di
sminuire notevolmente) siffatte convergenze, va ripreso l’interrogativo
lasciato in sospeso circa la necessità o l’utilità (o meno) dello sforzo di
ricondurre ad unità, o, almeno, ad un maggior livello di armonizzazione, il
diritto divorzile.
I
paladini della soluzione positiva pongono in evidenza l’opportunità, quanto
meno, di un’armonizzazione, alla luce della necessità di ridurre al minimo le
situazioni di conflitto tra ordinamenti, posto che «In a Europe that is growing
together, family ties increasingly cross one or more national boundaries»
[146]. Non può
trascurarsi poi il fatto che l’Unione Europea garantisce (pandemie permettendo,
verrebbe oggi da dire) la libertà di movimento ai soggetti, promovendo, oltre
tutto, da anni, quegli intensi programmi di studio e formazione dei giovani
all’estero, che certamente hanno contribuito a forgiare una generazione di
cittadini europei decisamente insofferente rispetto all’applicazione di
barriere ed ostacoli all’interscambio personale tra gli Stati membri. In tale contesto una parte della dottrina
pone in evidenza come «substantive differences
between the national legislations within Europe may have serious negative
consequences on cross-border families resulting in the breach of fundamental
human rights, or in the case of EU may even form the obstacle for free movement
of persons» [147]. L’accresciuta mobilità delle persone richiede, dunque, «special attention to ensure clarity and coherence
about the nature of family law regulations such as divorce agreements, child
custody dealings, inheritance, etc.» [148].
Ancora,
si pone giustamente in evidenza che il riconoscimento dell’esistenza o meno di
un matrimonio può determinare gravi conseguenze, in relazione ad elementi quali
il permesso di soggiorno, l’acquisto o la perdita della cittadinanza, il
diritto a forme di assistenza sociale e la sottoposizione o meno a prelievi
fiscali. Ne consegue che la concessione o il diniego di riconoscimento di un
certo status personale in un Paese
diverso da quello in cui tale status
si è formato o modificato possono anche avere effetti sui diritti patrimoniali
dei soggetti interessati. Così pure, la diversa regolamentazione dei regimi
patrimoniali coniugali può, in caso di divorzio, influenzare negativamente i
diritti degli ex coniugi [149]. Ne consegue che «diverging national legal systems in family matters may
negatively affect cross border movement of families», determinando,
in relazione al diritto comunitario, «the restriction on the free movement of
persons». Tutto ciò produrrebbe, quindi, l’imprescindibile necessità di
ricercare «the ways to harmonise substantive family law in Europe» [150], ciò tanto più ove si
tenga conto del fatto che «The circumstances
which shaped the notion of a European Union drive national systems towards
convergence in family law as well. The construction of the European Union gives
national systems the opportunity, the means and the motives to attempt the
unification of family law more than ever before» [151]
Va
subito detto che queste preoccupazioni appaiono, certamente, più che
condivisibili. Meno condivisibile sembra invece la risposta secondo cui l’unico
rimedio immaginabile sarebbe quello di un’armonizzazione dei diritti materiali (e si sottolinea materiali) dei vari Stati.
In
primo luogo, va tenuto ben presente che, se per armonizzazione si intende
quanto già illustrato in precedenza [152], vale a dire
l’elaborazione e l’accettazione di principi generali comuni, implementati nei
vari sistemi mercé l’adozione in concreto di ordinamenti differenziati da Paese
a Paese, si rischia di non andare poi tanto più lontano rispetto a dove già si è.
In gran parte, infatti, come si è visto, svariati principi generali già sono,
nei fatti, riconosciuti. Aggiungerne ad essi degli altri, rendendoli vincolanti
per gli Stati – si pensi, ad esempio, ad un’operazione consistente nella
trasformazione in una teoretica direttiva vincolante per i Paesi europei di un
documento quale i «Principles of European
Family Law Regarding
Divorce and Maintenance Between
Former Spouses» [153] – non servirebbe,
probabilmente, a risolvere i problemi concreti testé segnalati.
Ed
invero, la pratica giudiziaria dei contenziosi giusfamiliari nella dimensione cross border
dimostra in modo irrefutabile come conflitti e problemi nascano non già in
relazione ai grands principes,
bensì proprio per la diversa lettura ed applicazione delle norme di dettaglio. Der Teufel steckt im Detail:
in fondo, se proprio vogliamo ammettere un’altra singolare convergenza, tutti
noi europei ci riconosciamo in questo detto! Basti pensare, tanto per portare
un esempio, a come l’idea stessa di compartecipazione differita agli acquisti
operati in costanza di regime matrimoniale (sulla «promozione» della quale al
rango di futuribile regime legale europeo si registra un’ampia corrispondenza
d’amorosi sensi un po’ in tutto il continente) possa essere declinata, in
concreto, in modi tanto diversi: dalla germanica Zugewinngemeinschaft, all’italica
comunione de residuo, per non parlare
degli scandinavi giftorättsgods,
o della francese participation aux acquêts [154].
I
famosi principi europei di diritto di famiglia, elaborati con grande saviezza
dalla CEFL [155] costituiscono
certamente un nucleo di regole idonee a costituire quel common core vagheggiato da molti. Essi sarebbero sicuramente in
grado di formare l’oggetto di un’ipotetica direttiva, se solo l’Unione Europea
avesse il potere d’intervenire sul diritto materiale di famiglia [156]. Ma vi è da
giurare che, tanto per portare uno dei tanti, possibili esempi, una regola come
quella che consente all’autorità definita «competente» (giudiziaria?) di «at least scrutinise
the validity» di un accordo sull’assegno di divorzio [157] sarebbe intesa ed
attuata in modo ben diverso da Paese a Paese: dagli aneliti scandinavi e
nordici ad una piena libertà negoziale, all’abitudine delle corti di common law di
esercitare poteri sconfinati nella materia dei rapporti tra coniugi, alle
tentazioni germaniche di attribuire a Treu
und Glaube anche in tale campo un ruolo che, a
ben vedere, loro non compete [158], alle vere e proprie
pulsioni paternalistiche della nostra giurisprudenza che s’ostina – peraltro a
fasi alterne – ad applicare l’art. 160 c.c., del tutto impropriamente, alla
materia della crisi coniugale, e così via.
Quanto
sopra, poi, a prescindere ancora dal fatto che l’ottica della «semplice»
armonizzazione rischierebbe comunque (e a dispetto della bontà delle
intenzioni) di produrre risultati «minimalisti», se non veri e propri passi
indietro. Vi è, invero, il serio rischio che questo approccio fornisca, all’atto
pratico (cioè al momento del concreto «travaso» dei principi in un articolato
normativo vincolante) l’occasione «for backward, mystifying ideas of legal development to strike
back», come già avvenuto del resto in passato nella materia contrattuale o in
quella dell’illecito civile [159].
La
verità è che, dovendo venire a patti con la dura realtà, occorre ammettere che
ogni problema sarebbe risolto solo ed esclusivamente dall’adozione di un unico jus europaeum familiae. Solo un vero e proprio, unico, codice di
diritto materiale uniforme europeo della famiglia sarebbe idoneo a recidere,
con un colpo netto, il nodo gordiano che qui si è pazientemente tentato di
illustrare, esattamente come accadde oltre duecento anni fa, quando il Code Napoléon
pose fine una buona volta per tutte alle infinite, secolari dispute legate alla
«territorialità» o meno dei regimi matrimoniali dell’Ancien Régime,
disciplinati in modo molto diverso, a seconda che ci si trovasse in territori
retti dal droit écrit, ovvero
da una certa coutume,
piuttosto che da un’altra [160].
Poiché,
peraltro, quest’ultimo scenario non è (deprecabilmente, almeno a sommesso
avviso chi scrive) alle viste, l’unica, reale, attuabile e potenzialmente
efficace soluzione non può essere rinvenuta se non sul piano del diritto
internazionale privato e processuale. Per dirla in breve, se una mera
armonizzazione del diritto materiale non è auspicabile, l’unificazione
certamente lo è, ma nel contesto di una prospettiva per il momento purtroppo
solo utopica. E dunque non rimane, per il momento, che cercare la soluzione
degli innumerevoli problemi di conflitto tramite un corretto approccio
internazionalprivatistico, in attesa della creazione (che, per lo meno, chi
scrive, certamente il piacer di vedere non avrà) di un futuribile «vero»
diritto europeo di famiglia. La via d’uscita per i problemi e le impasses sopra
segnalate va pertanto individuata, oggi, in un sistema il più possibile
uniforme (questo sì!), coerente e organico di conflict law, posto che, a ben vedere, nessuna,
veramente nessuna delle criticità poste in evidenza poco sopra (e che lo
scrivente non si stancherà mai di dire che condivide appieno) appare
insuperabile, alla luce di un Kollisionsrecht che sia, però, assolutamente uniforme e ben
congegnato [161].
Questa
non è certo la sede per illustrare quali siano le sfide che tale ultima
peculiare ottica ha dovuto affrontare e in buona parte superare, così come le
prove che la stessa deve ancora sostenere. In altra occasione chi scrive ha
avuto modo di puntare il dito contro l’ostacolo più insidioso dell’attuale
sistema internazionalprivatistico di matrice eurounitaria, costituito
dall’eccessivo livello di frammentazione, frutto di quel dépeçage che, proprio in materia
divorzile impedisce di avere un unico strumento cui gli interpreti possano far
riferimento [162].
È
peraltro vero che, come pure in quella sede indicato, gli stessi regolamenti
che a vario titolo intervengono in proposito – dal «Bruxelles II bis» (e ora «II ter»), al «Roma III», al regolamento sulle obbligazioni alimentari,
a quello sui regimi matrimoniali – posseggono al loro interno regole di
coordinamento, che consentono di porre un qualche argine alla deprecata
frammentarietà del quadro d’insieme [163]. Probabilmente,
più elevati livelli di omogeneizzazione sarebbero auspicabili, attribuendo, ad
esempio, alle regole europee di diritto internazionale privato sul divorzio
contenute nel regolamento «Roma III» (ovviamente, dopo opportuna modifica e
adattamento) il compito di disciplinare ogni aspetto concernente lo
scioglimento del matrimonio: non solo, dunque, il provvedimento o l’atto che
determina la dissoluzione del vincolo, ma anche tutti i profili annessi e
connessi, quali gli accordi prematrimoniali e le conseguenze patrimoniali in genere
del divorzio, nessuna esclusa (dallo scioglimento del regime, all’assegno
divorzile, al cognome, alle pretese risarcitorie e d’arricchimento, alle
rivendiche inter coniuges, etc.).
Per
tornare al tema, caro a chi scrive, del diritto materiale uniforme europeo, sia
consentito, in conclusione, avanzare una proposta concreta, per quanto utopica
possa sembrare.
Come
si è evidenziato sopra, trattando delle comuni linee di tendenza dei vari
ordinamenti giusfamiliari europei [164], un punto di
sicura convergenza è dato oggi dal crescente rilievo fornito alla autonomia
delle parti. Se ciò è vero, sembra possibile puntare su tale profilo per
propugnare un’uniformazione «mite» del diritto europeo del divorzio. In altre
parole, se i tempi non sono (come certamente non sono) ancora maturi per
l’emanazione a livello sovranazionale di una normativa materiale uniforme in
materia di scioglimento del matrimonio, in sostituzione della variopinta babele
di leggi nazionali oggi vigenti, ben si potrebbe immaginare sin d’ora un
«divorzio europeo», disciplinato (in modo, ovviamente, del tutto uniforme) da
norme di fonte sovranazionale (si pensi ad una convenzione europea ad hoc) applicabili a coppie cross-border,
così come ad ogni coppia coniugata (o anche, per l’Italia, civilmente unita), pure in assenza di elementi di
internazionalità, sulla base di un’opzione in tal senso concordemente
espressa dagli interessati, eventualmente già in sede di creazione del vincolo.
Questo
tipo d’approccio non è del tutto nuovo, anche se fino ad oggi era stato per lo
più pensato per le sole situazioni cross border.
Così,
già diversi anni or sono, un autore olandese proponeva il ricorso ad un
«diritto di famiglia opzionale europeo», che le parti potrebbero liberamente
scegliere di applicare alle proprie relazioni, in luogo di quello loro
riferibile in base alle rispettive leggi nazionali [165], mentre in tempi
più recenti un’autrice tedesca ha avanzato l’idea di un modello opzionale di
matrimonio civile europeo. Siffatto «einheitlicher Rechtsrahmen für transnationale Paare» dovrebbe
contenere una disciplina completa del vincolo coniugale, dalla sua formazione
al suo scioglimento [166]. Una concreta
realizzazione di quest’idea, ancorché in un limitato settore dei rapporti patrimoniali,
è costituita, già de iure condito,
dall’accordo sul regime matrimoniale convenzionale franco/tedesco del 2010 [167].
In
altre parole, chi scrive vagheggia qui una convenzione europea che dovrebbe
consentire alle coppie in crisi (a tutte: a
prescindere, quindi, dalla presenza o meno di elementi di internazionalità del
rapporto) di optare, anziché per il divorzio conosciuto dalle legislazioni
nazionali di volta in volta applicabili, per un set di norme specialmente destinate a regolamentare lo scioglimento
del matrimonio (dans tous ses états…: dalle condizioni
per accedervi, alle procedure da seguire, alle conseguenze personali e
patrimoniali, inter coniuges e nei
rapporti con la prole) in modo assolutamente uniforme nel nostro continente.
L’opzione, come si diceva, ben potrebbe essere prevista come esplicitabile già
a partire dalla costituzione del vincolo, venendo così a costituire un vero e
proprio prenuptial agreement in contemplation of divorce
di fonte normativa sovranazionale. Essa, peraltro, potrebbe essere consegnata
anche alle coppie già costituite e già in crisi, cui dovrebbe essere consentito
abbandonare le procedure eventualmente già in atto e ancora in corso per
adottare quella nuova, sperabilmente più agevole. Questo nuovo istituto, come si
diceva, dovrebbe portare ad una uniformazione «mite» del diritto europeo della
crisi coniugale, perché, lungi dal soppiantare i divorzi «nazionali» (cui
troppi paiono – non si comprende bene perché – ancora tanto affezionati),
verrebbe ad affiancarsi ad essi, quale mera alternativa opzionale [168]. Un’alternativa
che, se adeguatamente congegnata, potrebbe portare «nei fatti» ad un abbandono
da parte dei cittadini dei vecchi «divorzi nazionali», ove ritenuti meno
convenienti rispetto a quello eurounitario.
Proprio
al fine di rendere il vagheggiato sistema effettivamente rispondente alle
aspettative delle coppie e, come tale più «appetibile» di quelli nazionali, si
potrebbe prendere le mosse dai già ricordati principi europei della Commission on European
Family Law [169], i quali non
dovrebbero, però [170], essere trasfusi sic et simpliciter nella normativa
sovranazionale, dovendo invece costituire una solida base, un autorevole punto di
partenza, per l’elaborazione di un articolato di dettaglio, destinato a
regolamentare ogni profilo del nuovo «divorzio europeo». Qualcosa di simile,
insomma, a ciò che già sta accadendo, come detto, per il regime matrimoniale
convenzionale franco/tedesco, il quale sembra voler indicare una sicura via,
proprio nell’ottica appena tratteggiata [171], al fine di
conseguire vere e proprie «aree di uniformità» nel panorama normativo europeo,
in tal modo aprendo il varco a nuovi, auspicabili e ben più audaci livelli di Europäisierung
del diritto di famiglia nel nostro caro, «vecchio» continente.
[1] Glasson, Le mariage civil et le divorce
dans l’antiquité et dans les principales législations modernes de l’Europe.
Etude de législation comparée, précédée d’un aperçu sur les origines du droit
civil moderne, Paris, 2ème éd., 1880, p. 261 ss. Per
l’esattezza deve anche considerarsi che, con l’approvazione della legge del
1792, le ventisettemila domande di separazione personale presentate in precedenza
nei vari tribunali francesi si trasformarono in altrettante domande di
divorzio, anche perché, a differenza di quanto avrebbe poi stabilito il Code civil, la séparation de corps non era più permessa (cfr. Coulon, Le divorce et la séparation de corps, I, Paris, 1890, p. 171 ss.,
185). Dati statistici al riguardo sono rinvenibili anche in Martin, La crise du mariage dans la législation intermédiaire 1789-1804,
Paris, 1901, p. 155 ss. Le informazioni fornite da tale ultimo Autore (un
divorzio ogni due o tre matrimoni) in parte divergono da quelle del Glasson, ma
va considerato il fatto che esse si basavano su ricerche effettuate
successivamente alla distruzione di gran parte dei registri dello stato civile
a seguito dei noti avvenimenti della Commune,
nel 1871. Quel che è certo è che la riferita esplosione del contenzioso
divorzile a Parigi non mancò di suscitare, sin da subito, accorati allarmismi.
Destò in particolare scalpore il fatto che, nei primi mesi di applicazione
della riforma, i due terzi delle domande fossero state presentate dalle mogli,
ciò che fece esclamare che «Avec le divorce, meurt le pouvoir du mari» e che la
«royauté domestique» era messa in discussione (cfr. Bloquet, Le mariage,
un « contrat perpétuel par sa destination » (Portalis), in Napoleonica. La
Revue, n. 14, 2012,
p. 74 ss.). Sul tema v. inoltre Prevost,
Le divorce pendant la Révolution,
Paris, 1908, p. 12 ss.
[2] Il
«Codice civile di Napoleone il Grande» entrò in vigore nel Regno italico –
nella triplice versione italiana, latina e francese – in seguito al decreto
firmato da Napoleone a Monaco il 1° aprile 1806. A quel tempo, esso era già
vigente nel Piemonte annesso alla Francia (1804), nella ex Repubblica ligure, a
Parma e Piacenza (1805). Seguirono Lucca (maggio 1806), la Toscana e il Regno
di Napoli (1809), l’Umbria e il Lazio (1812).
[3] Cfr. Ungari, Donne e famiglia nella legislazione italiana: gli ultimi due secoli,
Nota introduttiva, in Aa. Vv., Commissione Nazionale per la realizzazione
della parità tra uomo e donna, Donne e diritto. Due secoli di legislazione –
1796/1986, a cura di Cappiello, Marinucci, Rech e Remiddi, Roma, 1988, p.
XV. Benedetto Croce riferisce di tre divorzi in tutto il Regno di Napoli, di
cui solo uno seguito dal nuovo matrimonio di uno degli ex coniugi (cfr. Croce, Il divorzio nelle provincie napoletane, in Aneddoti e profili settecenteschi, Milano, Palermo, Napoli, 1914,
p. 315 ss.). Si nota
giustamente al riguardo (Antokolskaia,
Convergence of Divorce Law in Europe,
in Child and Family Law Quarterly,
2006, https://research.vu.nl/en/publications/convergence-of-divorce-law-in-europe,
p. 8) che «The
export of the Code Civil as
result of the Napoleonic conquest nearly harmonised divorce law within the
whole Napoleonic Empire», anche se con risultati contrastanti. All’insuccesso italiano si contrappose, ad esempio, il fatto che il
divorzio rimase in vigore in alcuni Paesi cattolici, pur dopo la Restaurazione,
come ad es. in Belgio (Dumon e Kooy, Echtscheiding in België en
Nederland, Deventer, 1983, p. 13 s.) e in Lussemburgo (Neyens, Entwicklungen in der luxemburger Familienrechtspolitik, in Aa. Vv.,
Familienwissenschaftliche und familienpolitische Signale, a cura di
Jans, Habisch e Stutzer, Grafschaft, 2000, p. 616 s.). Analogo influsso
positivo sviluppò la legislazione napoleonica sul divorzio in Svezia (Wendt, The Nordic Council and
Co-operation in Scandinavia, Copenhagen, 1959, p. 17).
[4] Per un
resoconto sui tentantivi abortiti di introduzione del divorzio nell’Italia
unita del XIX secolo cfr. Galoppini,
Profilo storico del divorzio in Italia,
in Aa. Vv., Commentario sul
divorzio, a cura di Rescigno, Milano, 1980, p. 27 ss.; v. inoltre Brunelli, Divorzio e nullità di matrimonio negli stati d’Europa, Milano,
1950, p. 22 ss.
[5] Rheinstein, Marriage Stability, Divorce, and the Law, Chicago and London, 1972,
p. 158 s. Va subito aggiunto, per completezza, che lo studio sottolineava
correttamente il ruolo – per così dire «succedaneo» – che da noi aveva (e in
parte ha, certamente, ancora) la separazione personale, la cui rilevanza
percentuale (0,7 per mille abitanti) portava ad un «rate of marriage breakdown
equal to that in France or in Great Britain!». Sulle difficoltà incontrate
dalla novella del 1970 nella sua applicazione giurisprudenziale prima del referendum del 1974 cfr. per tutti Lariccia, Legge 1° dicembre 1970, n. 898 e referendum per la sua abrogazione,
in Dir. eccl., 1974, I, p. 218 ss.;
v. inoltre Barbera e Morrone, L’istituto del referendum, in Aa.
Vv., L’Italia repubblicana nella crisi degli anni settanta. Sistema politico
e istituzioni, a cura di De Rosa e Monina, Soveria Mannelli, 2003, p. 332
ss.
[6] Sul tema,
che non può essere affrontato in questa sede, cfr. Oberto, Per un
intervento normativo in tema di accordi preventivi sulla crisi della famiglia,
in Aa. Vv., Accordi in vista della
crisi dei rapporti familiari, a cura di Landini e Palazzo, Milano,
2018, p. 33 ss.
[7] Cfr. per tutti Marongiu, Voce «Divorzio (Storia)», in Enc.
dir., XIII, Milano, 1964, p. 493 ss. V. anche Antokolskaia, Harmonisation in
Family Law in Europe: A Historical Perspective. A Tale of Two Millennia,
Antwerp, 2006, p. 169 ss
[8] Coulon, op. cit., p. 145 s.
[9] Cfr. Esmein, Le mariage en droit canonique, II,
Paris, 1891, p. 83 s.
[10]
Cfr. per tutti Marchetto, Il divorzio imperfetto: i giuristi medievali
e la separazione dei coniugi, Bologna, 2008, p. 343 ss.
[11] Su tale
movimento culturale in generale cfr. Maffei,
Gli inizi dell’umanesimo giuridico,
Milano, 1972, passim; Cattaneo, Riflessioni sull’umanesimo giuridico, Napoli, 2004, passim.
[12]
Sull’evoluzione della posizione della Chiesa e del diritto canonico in materia
di divorzio, prima e dopo il Concilio di Trento, il richiamo d’obbligo è a Esmein, op. cit., p. 45 ss. Secondo l’insigne
autore «l’Eglise a éliminé le divorce da sa législation. Or ce travail
d’élimination a été très lent ; pendant des siècles l’Eglise a dû
transiger avec le divorce». Anche per Glasson,
op. cit., p. 203, «l’Eglise avait
compris qu’elle ne pouvait pas tout de suite exiger la suppression du divorce»;
v. inoltre Coulon, op. cit., p. 125 ss. La
posizione del Concilio di Trento in materia di indissolubilità del matrimonio,
anche per adulterio (cfr. il Canon VII De
Sacramento Matrimonij, Sessio XXIV,
11 novembre 1563, in Sacrosanti et
Oecumenici Concilii Tridentini, Canones et decreta, Lugduni, 1661, p. 195),
è dettagliatamente illustrata da Bressan, Il canone tridentino sul divorzio per
adulterio e l’interpretazione degli autori, Roma, 1973, passim, in partic. p. 83 ss. Sui
rapporti tra disciplina canonica e disciplina civilistica del matrimonio e
della crisi coniugale nel Medioevo cfr. Marchetto,
op. cit., passim (di particolare interesse l’esposizione del pensiero dei
glossatori civilisti sul divortium
del diritto romano, p. 134 ss., nonché l’illustrazione della «nascita», nel
diritto canonico dell’epoca, delle differenti fattispecie normative che
avrebbero potuto dare luogo a separazione a
mensa et thoro, p. 327 ss.).
[13]
Già a partire dalla glossa accursiana si tende a chiarire che la soppressione
del divortium quoad vinculum è un «mero» portato del diritto canonico, che non sembra
aver cancellato (se non «di fatto», per via dell’esclusiva competenza dei
tribunali della Chiesa in materia: sebbene neppure ciò venga esplicitamente
detto…) la disciplina delle fonti romane. Cfr. ad es. Accursio, Glossa a
margine di C. 5, 17, 8, in Codex cum
glossa, Nuremberga, 1488, f. 204, il quale, dopo aver lungamente esposto le
causae che danno luogo a divorzio
secondo il codex, conclude che, iure canonum, tutte tali cause reiectae sunt (in termini analoghi v.
anche Id., Glossa a D. 3, 5, 37 , in Digestum
Vetus seu Pandectarum iuris civilis Tomus primus, cum lectionum florentinarum
varietatibus, Venetiis, 1592, c. 481, nonché nella Glossa alla rubrica De
divortiis et repudiis, op. ult. cit.,
c. 2624). Non dissimilmente Azzone,
Azonis iurisconsultissimi in ius civile
summa, Lugduni, 1564, f. 138, dopo aver trattato dettagliatamente del
divorzio secondo il Codex di
Giustiniano, illustrando ampiamente i diritti del marito rispetto alla moglie
adultera e le relative conseguenze previste dal diritto romano in punto
divorzio, chiude il tema con le seguenti otto parole: «Hodie tamen per canones
fere nihil obtinet praedictorum». Significativa in questo contesto anche la
posizione dell’Ostiense, che liquida in due righe il concetto per cui
l’adulterio dà al marito la possibilità di «uxorem dimittere», ma non di «aliam
ducere»; questo, paradossalmente, dopo che lo stesso ha lungamente e
dettagliatamente disquisito sulle fonti romane in materia di libellus divortii, presentando veri e
propri modelli di domande di divorzio (inteso proprio come scioglimento del
vincolo: de foedere matrimonii, scilicet
utrum [matrimonium] tenuerit), secondo le fonti romane, sempre commentate
come si trattasse di norme ancora in vigore (cfr. Ostiense, Henrici de
Segusio Cardinalis Hostiensis, Summa aurea, Augustae Taurinorum, 1579, f.
269 ss.).
[14] Basti
citare, tanto per fare un esempio, l’applicazione dei passi delle fonti romane
relativi alla restituzione della dote soluto
matrimonio al diverso caso della separatio
a mensa et thoro, di cui si riferisce in Oberto,
I contratti della crisi coniugale, I,
Milano, 1999, p. 99 ss.; Id., Gli
accordi sulle conseguenze patrimoniali della crisi coniugale e dello
scioglimento del matrimonio nella prospettiva storica, nota a Cass., 20
marzo 1998, n. 2955, in Foro it., 1999, I, c. 1306 ss.; Id., La
comunione legale tra coniugi, in Trattato
di diritto civile e commerciale, già diretto da Cicu, Messineo e Mengoni,
continuato da Schlesinger, II, Milano, 2010, p. 1618 ss.
[15]
Cfr. ad es. lo Statuto Pisano, che, parafrasando il passo del vangelo di Matteo
(su cui v. infra, tra breve, nel
testo), o, più probabilmente, simili disposizioni di leggi barbariche,
disponeva: «Nulli liceat, excepta causa fornicationis, uxorem suam relinquere,
neque, ea vivente, aliam sibi copulare» (cfr. Pertile,
Storia del diritto italiano, dalla caduta
dell’Impero Romano alla codificazione, III, Padova, 1871, p. 318, nota 17).
[16]
Sulla disputa, che impegnò per secoli i più eminenti canonisti e dottori della
Chiesa, cfr. Esmein, op. cit., p. 45 ss.; Martin, op. cit., p. 23 ss.; Lessona,
La sylva nuptialis di Giovanni Nevizzano,
Torino, 1886, p. 84 ss.
[17]
Cfr. Nevizzano, Sylva nuptialis, Lugduni, 1540, f. 26 s.
Sull’importante opera di Nevizzano cfr. Lessona,
op. cit., passim, in particolare, in relazione al tema del divorzio, p. 80
ss.
[18] Cfr. Bedouelle,
Erasme et sa doctrine du mariage chrétien,
in Marriage, Families & Spirituality,
INTAMS Review 7 (2001), p. 217 ss.
[19] Montaigne, Essays de Michel seigneur de
Montaigne, III, Paris, 1816, p. 6 (Libro II, cap. Xv): «nous avons
pensé attacher plus ferme le nœud de nos mariages, pour avoir osté tout moyen
de les dissouldre ; mais d’autant s’est desprins et relasché le nœud de la
volonté et de l’affection, que celuy de la contraincte s’est estrecy : est
à rebours, ce qui teint les mariages, à Rome, si long temps en honneur et en
seureté, feut la liberté de les rompre qui vouldroit ».
[20]
Alciato, Parergon Iuris, seu obiter dictorum, liber sextus, caput xx, in D. Andreae Alciati mediolanensis
iureconsulti celeberrimi Operum, Tomus IIII, Basileae, 1582, c. 452.
[21] Cuiacio, Opera ad parisiensem
fabrotianam editionem diligentissime exacta, IX, Mutinae, 1781, c. 1341, E:
«aliquandiu etiam inter Christianos sunt tolerata divortia ex certis et
legitimis causis».
[22] Bodin, Les six livres de la République, Paris,
1583, p. 26 ss.
[23]
Molineo, Super facto Concilii Tridentini consilium, cap. XLV, in Caroli Molinaei omnia quae extant opera,
II, Parisiis, 1681, p. 1011.
[24] Cfr. Duareno, In lib. XXIIII Digestorum Commentarius, in D. Francisci Duareni I.C. celeberrimi, Omnia quae quidem hactenus edita
fuerunt opera, Francofurti, 1598, p. 255: «Haec sunt, quae in iure
pontificio hac de re scripta comperimus a iure civili multum discrepantia: quae
an divino iure consentiant, non immerito dubitari potest. Non enim videtur homo, sed Deus ipse potius coniuges
separare: cum ob iustas legitimasque causas auctoritate publica divertunt (…).
Nec verisimile est tempore Iustiniani, qui haec nobis scripta reliquit, locum
Evangelij quo uno pontifices nituntur, aliter a Theologis intellectum fuisse:
cum is se Christianum ubique profiteatur. Ac memini me aliquando constitutiones
quaedam Caroli Magni, Ludovici, et Clotarij Christianissimorum principum
evoluisse, in quibus eadem fere divortiorum causae continebantur, quae legibus
Iustiniani expressae sunt». Questi argomenti vengono ripresi
testualmente dal grande giurista italiano (peraltro emigrato a Oxford) Alberico
Gentili: cfr. Gentilis, Disputationum de nuptiis libri VII,
Hanoviae, 1601, p. 619 s.
[25] Cfr. ad
es. Ostiense, op. cit., p. 386.
[26] Cfr. Esmein,
op. cit., p. 85 ss. Sull’evoluzione
del significato del termine divorce
in Francia cfr. inoltre Dessertine,
Divorcer à Lyon sous la Révolution et
l’Empire, Lyon, 1981, p. 7 ss., ove si mostrano numerosi esempi di
confusione nella letteratura (giuridica e non) tra i concetti di separazione,
divorzio e annullamento del matrimonio.
[27] Cfr. D.
50.16.191 (Paul. 35 ad ed.).
Sull’origine della parola divortium
v. ad es. Conanno, Francisci Connani Parisiensis Commentariorum iuris civilis
liber posterior, Lutetiae Parisiorum, 1553, p. 648.
[28] Tanto per
citare un celebre esempio, la Sylva
nuptialis del Nevizzano venne inserita nell’indice dei libri proibiti nel
1584, con la clausola «donec emendetur», posto che si ritenne che l’opera «in
nonnullis locis erravit in doctrina contra Romanam Ecclesiam (...) et interim
non potest legi, donec fuerit emendata secundum suam censuram» (cfr. Gregorio da Napoli, Enchiridion ecclesiasticum, Neapoli, 1585, c. 186). Lo scrivente
possiede un esemplare di una delle ultime edizioni della Sylva (Venetiis, apud
Bertanum, 1573), implacabilmente expurgata
a penna, ma (incredibilmente) non nelle parti essenziali sul divorzio.
[29] Domat, Les lois civiles dans leur ordre naturel,
I, Paris, 1756, p. iv, ricava l’indissolubilità del vincolo dalla sainteté du mariage, ma anche dal fatto
che «le mariage est le fondement de la société civile». Pothier, dal canto suo,
disquisisce a lungo sul divorzio nel diritto romano e sulle norme canoniche che
lo vietano, ma sembra voler prendere le distanze dalle polemiche, chiudendo le
discussioni con una frase piuttosto lapidaria: «Le divorce n’est pas admis dans
notre Droit, pour quelque cause que ce soit ; nous n’admettons que la séaration
d’habitation, dont nous traiterons au Chapitre troisième» (cfr. Pothier, Traité du contrat de Mariage, in Traités sur différentes matières de droit civil, III,
Paris-Orléans, 1781, p. 349 ; v. inoltre p. 358 ss. sull’adulterio della
moglie).
[30] Coulon, op. cit., p. 164 ricorda il caso di tali Gautier et Jacquette
Pousceau, ugonotti, che, per aver divorziato come consentito dalla loro
religione, vennero esposti alla pubblica gogna per ordine del governatore di La
Rochelle e costretti a tornare a vivere assieme.
[31] Cfr. Voltaire,
Dictionnaire philosophique, Paris,
1838, p. 376: «Le divorce est probablement de la même date à peu près que le
mariage. Je crois pourtant que le mariage est de quelques semaines plus ancien;
c’est-à-dire qu’on se querella avec sa femme au bout de quinze jours, qu’on la
battit au bout d’un mois, et qu’on s’en sépara après six semaines de
cohabitation. Justinien, qui rassembla toutes les lois faites avant lui,
auxquelles il ajouta les siennes, non seulement confirme celle du divorce, mais
il lui donne encore plus d’étendue: au point que toute femme dont le mari était
non pas esclave, mais simplement prisonnier de guerre pendant cinq ans,
pouvait, après les cinq ans révolus, contracter un autre mariage. Justinien
était chrétien, et même théologien: comment donc arriva-t-il que l’Église
dérogeât à ses lois? Ce fut quand l’Église devint souveraine et législatrice.
Les papes n’eurent pas de peine à substituer leurs décrétales au code dans
l’Occident, plongé dans l’ignorance et dans la barbarie. Ils profitèrent
tellement de la stupidité des hommes qu’Honorius III, Grégoire IX, Innocent
III, défendirent par leurs bulles qu’on enseignât le droit civil. On peut dire
de cette hardiesse: Cela n’est pas croyable, mais cela est vrai. Comme l’Église
jugea seule du mariage, elle jugea seule du divorce. Point de prince qui ait
fait un divorce et qui ait épousé une seconde femme sans l’ordre du pape avant
Henri VIII, roi d’Angleterre, qui ne se passa du pape qu’après avoir longtemps
sollicité son procès en cour de Rome. Cette coutume, établie dans des temps
d’ignorance, se perpétua dans les temps éclairés, par la seule raison qu’elle
existait. Tout abus s’éternise de lui-même: c’est l’écurie d’Augias, il faut un
Hercule pour la nettoyer».
[32] Diderot,
Supplément au voyage de Bougainville,
in Diderot. Selected
philosophical writings, Cambridge,
1953, p. 201.
[33] Sul tema
cfr. Oriani, Matrimonio civile e divorzio dalla Riforma a Napoleone, in Aa. Vv.,
Matrimonio e famiglia oggi in Italia,
Torino, 1969, pp. 153 s.: «Bentham, portavoce dell’utilitarismo, molto
conosciuto e apprezzato in Francia, scrive sull’argomento [del divorzio] nel
suo “Traité de Législation Civile ed Pénale”, pubblicato in francese nel 1802».
[34]
Cfr. ad es. [Philibert], Cri d’un honnête homme, qui se croit fondé à
répudier sa femme, Londres, 1769 (la pubblicazione di questo scritto venne
patrocinata dallo stesso Voltaire); [De
Cerfvol], Législation du divorce,
Londres, 1769.
[35] Cfr. [Cocceo],
Projet du Corps de droit-Frédéric; ou
Corps de droit, pour les Etats de Sa Majesté le Roi de Prusse: Fondé sur la
Raison, & sur les Constitutions du Pays, [I], Halle, 1751, p. 149. Da
notare la similitudine con la situazione normativa italiana (a quasi tre secoli
di distanza!), ove nemmeno la domanda congiunta esime dal rispetto di un
periodo di separazione personale legale. Inutile dire che la regola envisagée da Cocceo costituiva per
l’epoca un considerevole progresso rispetto non solo ai sistemi in cui il
divorzio non era conosciuto, ma anche nei confronti degli stessi ordinamenti
ispirati dalla dottrina protestante, ove comunque una colpa del coniuge
convenuto andava dimostrata. Tra le
infinite opere al riguardo sarà il caso di citare quella di uno dei padri del
diritto matrimoniale protestante, che procede ad un’accurata ricostruzione
storico-teologica dell’istituto del divorzio, alla luce dei principi della
Riforma: cfr. Boehmer, Jus ecclesiasticum protestantium, usum
hodiernum juris canonici, IV, Halae Magdeburgicae, 1754, p. 316 ss. (da
notare poi, alle p. 347 ss., la raccolta di giurisprudenza su svariate cause di
divorzio allora riconosciute: dall’adulterio alle sevizie, dalle minacce alla malitiosa desertio, dalla procurata sterilitas alla… perversa debiti coniugalis praestatio).
[36] Cfr. ALR II, I.T., 8, § 716.
[37] Cfr. ALR II, I.T., 8, § 718 a.
[38] D’altro
canto, un ulteriore effetto positivo dell’Illuminismo a livello legislativo è
riscontrabile nell’introduzione, nel 1781, nei territori dell’Impero Austriaco
di Giuseppe II, del matrimonio civile e della possibilità del divorzio per i
non cattolici, con particolare riferimento agli ebrei (ma anche, ovviamente, ai
protestanti): disposizioni speciali, queste, che rimasero in vigore nella
Penisola in tutti i territori facenti parte dell’Impero, sottoposti all’Allgemeines Bürgerliches Gesetzbuch (ABGB), pur dopo la Restaurazione e che
nelle province «redente» nel 1918 continuarono a persistere, finché non vennero
abolite dal regime fascista a partire dal 1° maggio 1924 (cfr. Galoppini, op. cit., p. 11 ss.; Capuzzo,
Gli ebrei nella società italiana. Comunità e
istituzioni tra Ottocento e Novecento, Roma, 1999,
p. 146).
[39] Linguet,
Légitimité du divorce, justifiée par les
Saintes Ecritures, par les pères, par les conciles, etc. aux Etats-Généraux,
Bruxelles, 1789. Lo stesso anno viene pubblicato, in forma
anonima, anche [Hennet], Du divorce, Paris, 1789, il quale
riporta, a sua volta (cfr. p. xi s.), l’indicazione di almeno altre quattro
opere sullo stesso tema date alle stampe, sempre in forma anonima, quello
stesso anno e tutte favorevoli all’introduzione del divorzio. Cfr. inoltre, dopo la presentazione del primo progetto
all’Assemblea Nazionale, [De Flassan],
La question du divorce, discutée sous les
rapports du droit naturel, de la religion, de la morale et de l’ordre social,
Paris, 1790.
[40] Martin, op. cit., p. 50 ss.; 68
ss.
[41] Per un paio
di studi storici sulla legge cfr. ad es. Deronde, Causes du divorce, Paris, 1895, p. 5 ss.; De Bussac, Le divorce
par consentement mutuel, Paris, 1909, p. 34 ss.
[42] «Article 7. - La loi ne considère le mariage que comme contrat civil. - Le
Pouvoir législatif établira pour tous les habitants, sans distinction, le mode
par lequel les naissances, mariages et décès seront constatés ; et il désignera
les officiers publics qui en recevront et conserveront les actes».
[43]
A far data dall’8 febbraio 1795 viene soppressa la possibilità di ottenere il
divorzio dopo una separazione di fatto di sei mesi; il 28 febbraio 1796 vengono
quindi soppressi i tribunali di famiglia (ritenuti troppo «generosi» nella
valutazione delle ragioni dello scioglimento del vincolo), mentre il 17
settembre 1797 si dispone l’allungamento del délai de divorce pour incompatibilité d’humeur da sei mesi a un
anno, il che comporta una riduzione del numero delle procedure divorzili.
[44] Nel
sistema codicistico, infatti, il mutuo consenso veniva preso in considerazione
solo in quanto prova dell’intollerabilità della prosecuzione della convivenza.
Un osservatore americano, molto tempo dopo, noterà che, in questo modo, «Napoleon’s Code hid breakdown behind consent»: cfr. Rheinstein, op. cit., p. 212.
[45] Rimarca De Bussac, op. cit., p. 52 che la semplice eliminazione dell’ipotesi
dell’incompatibilità di carattere (pur nel contesto del mantenimento di un
divorzio a domanda congiunta), fu sufficiente ad evitare gli «eccessi» della
legge del 1792.
[46] Le tesi di questo pensatore si ritrovano in de Bonald, Du divorce,
considéré au XIXe siècle relativement à l’état public de société,
Paris, 1805, ove si legge, tra l’altro (e piuttosto curiosamente), che
«interdire le divorce (…) ce serait remplir un devoir envers la plus grande
partie de la nation, sans faire aucun tort à l’autre ; ce serait surtout
préparer les voies à l’unité religieuse, premier but de tout gouvernement sage»
(cfr. p. 300); su tale legge cfr. Nougarede,
Jurisprudence du mariage et du divorce,
Paris, 1817, p. 485 ss.; Carpentier,
Traité théorique et pratique du divorce,
Paris, 1885, p. 15 ss.
[47] Si tratta
della famosa «Loi Naquet», preceduta da ben tre infruttuosi tentativi dello
stesso proponente negli anni 1876, 1878 e 1881. Sul tema cfr. Naquet, Le divorce, Paris, 1877 e Id.,
Le divorce, Paris, 1881; v. inoltre Carpentier, op. cit., passim.
[48] Decisiva
la presa di posizione di intellettuali del calibro di Alexandre Dumas figlio:
cfr. Dumas, La question du divorce, Paris, 1879.
[49] Da notare,
per la cronaca, che il regime di Vichy (1940 – 1944) non cancellò la legge sul
divorzio, limitandosi a vietarlo (cfr. la legge del 2 aprile 1941) alle coppie
sposate da meno di tre anni (disposizione, quest’ultima, che venne soppressa
subito dopo la Liberazione).
[50] Ricorda Rubellin-Devichi,
Separazione, divorzio, affidamento dei
minori: l’esperienza francese, in Aa.
Vv., Separazione, divorzio, affidamento dei minori: quale diritto per
l’Europa?, a cura di Sesta, Milano, 2000, p. 112, che, a dispetto del fatto
che, nelle aspettative dei riformatori del 1884, questa legge avrebbe dovuto
rendere il divorzio assolutamente eccezionale, si passò dai tremila divorzi del
1887 ai sessantamila del 1975.
[51] Sulla riforma cfr. Aa. Vv., La
réforme du divorce par la loi du 26 mai 2004. : Pacification et simplification
?, a cura di Leborgne, Aix-Marseille, 2005, passim.
[52] La celebre sociologa americana Rose Laub Coser
definiva ancora nel 1964 la famiglia come segue: «unit, which consists of
husband, wife, and children born in their wedlock (though other relatives may
find their place close to this nuclear group), united by moral, legal,
economic, religious, and social rights and obligations (including sexual rights
and prohibitions as well as such socially patterned feelings as love,
attraction, piety, and awe)»: cfr. Laub
Coser, The family: its structure
and functions, in Aa. Vv., Families
and Society: Classic and contemporary readings, a cura di Coltrane,
Belmont, 2004, p. 15. Oggi i dati statistici in tutto
l’Occidente confermano un costante calo dei matrimoni, un incremento delle
crisi delle coppie ed uno sviluppo del fenomeno delle unioni libere (cfr. ad
es. Sobotka e Toulemon, Changing family and partnership behaviour: Common trends and persistent
diversity across Europe, in Demographic
Research, volume 19 (6), 2008, p. 92). Secondo l’osservatorio EUROSTAT
«Legal alternatives to marriage, like registered partnership, have become more
widespread and national legislations have changed to confer more rights on
unmarried couples. Recent demographic data show that the number of marriages
per 1 000 persons decreased within the EU-27 in recent decades, while the
number of divorces increased. An increase in the proportion of children who are
born to unmarried couples was also observed» (https://ec.europa.eu/eurostat/statistics-explained/index.php/Marriage_and_divorce_statistics).
[53] Osserva Boele-Woelki, The Road towards a European Family Law, in Electronic journal of comparative law, vol 1.1, (November 1997), http://www.ejcl.org/11/art11-1.html,
p. 2, che «In Europe there are indeed a few treaties in force which have
brought together a number of family law branches, both as regards substantive
law and conflicts, but as regards content there is no similar legislation in
the family law systems in Europe. The major part of persons and family law has
thus far been considered – and in this respect little will change in the near
future – to be a matter of national concern».
[54] Le due
figure del divorzio communi consensu
e bona gratia erano, in realtà,
distinte, ma spesso vennero confuse, anche perché entrambe si contrapponevano a
quello ex justa causa; così, anche a
seconda dei periodi storici, l’espressione bona
gratia venne ad indicare, nel diritto giustinianeo, lo scioglimento tanto
per accordo che per ripudio, purché senza colpa di uno dei coniugi. Sul tema
cfr. in particolare Volterra, Diritto di famiglia, Bologna, 1946, p.
212 ss. Sull’evoluzione secolare del divorzio nell’antica Roma, dalle forme più
arcaiche alla legislazione giustinianea cfr. Id.,
op. cit., p. 186 ss.; v. inoltre Anselmi, Il matrimonio. Sua storia nelle legislazioni orientale, greca, romana,
canonica e civile e sua comparazione fra le leggi italiane e il diritto romano,
Ferrara, 1874, p. 70 ss.; Beauregard,
Organisation de la famille sous la
législation romaine, Paris, 1879, p. 65 ss.; Pacchioni, Corso di
diritto romano, Torino, 1909, p. 654 ss.; Bonfante,
Istituzioni di diritto romano,
Torino, 1946, p. 190 ss.; Guarino,
Diritto privato romano, Napoli, 1957,
p. 137 s.; Astolfi, Il matrimonio nel diritto romano preclassico,
Padova, 2002, p. 113 ss.; Brini, Matrimonio e divorzio nel diritto romano,
II; Bologna, 1888, passim.
[56] Per una
carrellata storica sulle varie stagioni del divorzio in Europa e nel mondo
nell’ultimo secolo cfr. Rheinstein,
op. cit., passim; v. inoltre Antokolskaia,
Convergence of Divorce Law in Europe,
cit., p. 3 ss.
[57] Antokolskaia, Convergence of Divorce Law in Europe, cit., p. 2, ne evidenzia
quattro, ma poi dà atto della circostanza che dalla situazione nel testo
evidenziata sub (b), vale a dire la
compromissione irrimediabile del rapporto, alcuni ordinamenti (vedi, ad es.,
proprio quello italiano) hanno tratto una sorta di ulteriore e distinta ipotesi
autonoma, che qui si colloca sub (c):
cioè la pregressa separazione (vuoi di fatto, vuoi legale), quale «sintomo»
dell’irrecuperabilità della relazione.
[58] Per
un’indagine comparata della legislazione europea di fine Ottocento, ispirata
per l’appunto all’idea della colpa, cfr. Lehr,
Le mariage le divorce et la séparation de
corps dans les principaux pays civilisés, Paris, 1899, passim; v. inoltre Roguin,
Traité de drolit civil comparé. Le
mariage, Paris, 1904, p. 237 ss.
[60] Antokolskaia, Convergence of Divorce Law
in Europe, cit., p. 2, rileva giustamente che «The first concept - divorce
as sanction - is rooted in the idea of the state and/or the church as the
guardians of universal morality, which have to punish the spouse who has
committed a matrimonial offence and release the innocent spouse from the bond
with the offender. The second concept - divorce as remedy or failure - is based
on two assumptions: the communitarian idea that the state has to protect the
stability of marriage for the sake of society at large, and a paternalistic
belief that the spouses have to be protected from their ill-considered
decisions to their own benefit. Therefore a divorce could only be granted when
the competent authority was convinced that the marriage could not be saved. The
third concept - divorce by mutual consent - is founded in the acceptance of the
fact that nobody is in a better position to decide on the dissolution of the
marriage than the spouses themselves. The fourth concept –divorce on demand -
is inspired by the belief that a marriage cannot be kept intact if even one of
the spouses wishes to terminate it. Consequently, divorce has to be granted
upon the unilateral request of one of the spouses». Dal
punto di vista dell’evoluzione storica, Phillips.
Putting Asunder: A History of Divorce in
Western Society, New York, 1988, p. 571 ss., ha individuato tre grandi
periodi, corrispondenti, rispettivamente, alle legislazioni protestanti del XVI
secolo, alla ampia diffusione e liberalizzazione del divorzio nel XIX secolo e,
infine al passaggio al tema del no fault
divorce, negli anni Sessanta e Settanta del Novecento (sui rivoluzionari
effetti dell’introduzione del principio del divorzio senza colpa negli U.S.A.
in relazione all’ammissibilità dei prenuptial
agreements in contemplation of divorce cfr. Oberto,
«Prenuptial Agreements in Contemplation of
Divorce» e disponibilità in via preventiva dei diritti connessi alla crisi
coniugale, in Riv. dir. civ.,
1999, II, p. 180 ss.).
[61] Antokolskaia, Convergence of Divorce Law
in Europe, cit., p. 2.
[63]
Sul modello francese di divorzio v. per tutti Patti,
La nuova legge francese sul divorzio: il
ruolo del notaio, http://www.notardilizia.it/notardilizia.it/officina/Voci/2008/1/29_divorzio_alla_francese.html;
Id., La nuova legge francese sul divorzio, in Aa. Vv., Introduzione al diritto della famiglia in
Europa, a cura di Patti e Cubeddu, Milano, 2008, p. 283 ss.
[64] Cfr. Antokolskaia, Convergence of Divorce Law in Europe,
cit., p. 23, la quale mette però in guardia sul fatto che «most of the states still consider divorce by
consent as dangerously diminishing the state control of divorce. The multiple
restrictions of the right of divorce by consent often make it a less attractive
and speedy form of divorce. Only Dutch and Russian law allows divorce on the
ground of simple consent without any further restrictions. In some countries
the marriage has to be of a certain duration: three years in Bulgaria, two
years in Belgium, one year in Czech Republic and Greece. Other countries allow
consensual divorce only after a certain period of separation, two years in
England and Wales and in Scotland, one year in Germany and six months in
Denmark, Czech Republic and Iceland. In most countries (Austria, Belgium,
Bulgaria, Greece, Germany, Hungary, Denmark, Portugal) an agreement to divorce
alone is not sufficient and the spouses are required to reach an agreement on
ancillary matters as well. This list of restrictions reveals that most of the
countries are still reluctant to recognise the autonomous decisions of the
spouses alone as a sufficient ground for divorce. The state in one way or
another has to protect the spouses from their own ‘inconsiderate’decisions»
(cfr. nello stesso senso anche Martiny, Divorce and Maintenance Between Former
Spouses - Initial Results of the Commission on European Family Law, in Aa. Vv., Perspectives
for the unification and harmonization of family law in Europe, a cura di Boele-Woelki,
Antwerp, Oxford, New York, 2003, p. 536).
[65] Antokolskaia, Convergence of Divorce Law
in Europe, cit., p. 18 s.
[67] Dutoit, Arn,
Sfondylia e Taminelli, Le droit du divorce entre laxisme conjugal et inquiétude parentale,
in Le divorce en droit comparé, I, Genève, 2000, p. 14, parlano al riguardo di systèmes
unicistes, che non si preoccupano «ni de la diversité des types de divorce
ni de la pluralité de ses causes ni non plus de procédures distinctes. La
liberté individuelle l’emporte sur l’institution ; il s’agit seulement d’assortir la faillite du mariage
d’un minimum d’exigences légales afin que l’époux demandeur puisse refaire sa
vie dans les meilleurs délais. Logiquement on ne retiendra plus qu’une cause de
divorce exprimée dans la formule magique (ci tragique) d’échec irrémédiable du
mariage (irretrievable breakdown,
Scheitern der Ehe)». Secondo Meulders-Klein, La problématique du divorce dans les législations occidentales, in Rev. int. dr. comp., 1989, p. 14 ss., i
sistemi in allora (1989) ascrivibili alla categoria di quelli monisti erano
quelli di Germania, Scozia, Gran Bretagna, Paesi Bassi, Svezia. Dieci anni dopo
Dutoit, Arn, Sfondylia e Taminelli,
op. loc. ultt. citt., vi aggiungevano Austria,
Bielorussia, Bosnia-Herzegovina, Bulgaria, Croazia, Estonia, Finlandia,
Ungheria, Liechtenstein, Lituania, Macedonia, Moldavia, Montenegro, Romania,
Russia, Serbia, Slovacchia, Slovenia, Svizzera, Repubblica Ceca, Ucraina.
[68] Antokolskaia, The “Better Law” Approach
and the Harmonization of Family Law, in Aa.
Vv., Perspectives for the unification and harmonization of family law in
Europe, a cura di Boele-Woelki, cit., p. 166 ss.
[70] Zaphiriou, Harmonization of Private
Rules between Civil and Common Law Jurisdiction, in The American Journal of Comparative Law, Vol. 38, Supplement. U.S. Law in an Era of
Democratization, 1990, p. 71; v. inoltre De
Cruz, Comparative Law in a
Changing World, 2nd
ed., London, 1999, p. 53.
[71] Meulders-Klein, Towards a European Civil code on family law?
Ends and Means, in Aa. Vv., Perspectives
for the unification and harmonization of family law in Europe, a cura di Boele-Woelki,
cit., p. 105 ss.
[72] Smits, The Making of European
Private Law. Towards a Ius Commune Europaeum as a Mixed Legal System, Antwerp, Oxford, New York, 2002, p. 6.
[73] Antokolskaia, Harmonisation of Substantive
Family Law in Europe: Myths and Reality, in Child and Family Law Quarterly, Vol 22, No 4, 2010, p. 400.
[74] Cfr. Lipari, Riflessioni su famiglia e sistema comunitario, in Familia, 2006, p. 13. Nella stessa
ottica, Andrini, La famiglia nella costituzione europea,
in Familia, 2004, p. 566, afferma che
«nella moderna società, c.d. società dei “saperi” che è subentrata a quella
post-industriale, l’ostacolo ad un diritto di famiglia uniforme è dato proprio
dal pluralismo dei modelli familiari, che comporta l’affermazione del modello
degli statuti personali».
[75] Marella, The Non-Subversive Function
of European Private Law: The Case of Harmonisation of Family Law, in European Law Journal, Vol. 12, No. 1,
2006, p. 84. Analoghi dubbi circa i rapporti tra armonizzazione del
diritto di famiglia e peculiarità dei mores
di ogni singolo Paese sono espressi da Hondius,
Naar een Europees personen- en
familierecht, in Aa. Vv., Drie
treden: Over politiek, beleid en recht, a cura di Franken e de Ruiter,
Zwolle, 1995, p. 173 ss.
[76] Cfr. il Draft Council report on
the need to approximate Member States’ legislation in civil matters, https://www.eumonitor.eu/9353000/1/j9vvik7m1c3gyxp/vj6ip9s7nih0.
[77] Cfr. Jemolo, Il matrimonio, in Trattato di
diritto civile, diretto da Vassalli, 3a ed., Torino, 1961, p.
36. Il pensiero di Jemolo è ricordato da Andrini,
op. cit., p. 567.
[78] Di «parallelismo spontaneo» parla in particolare Martiny, Is Unification of Family Law Feasible or Even Desirable?, in Aa. Vv.,
Towards a European Civil Code, a cura
di Hartkamp, Hesselink, Hondius, Mak e Du Perron, 2nd ed., The
Hague, London, Boston, 1998, p. 163. Cfr. inoltre De Oliveira, A
European Family Law? (Play it again and again…Europe!), in Familia, 2002, p. 1094. Sulla stessa lunghezza d’onda si collocava in precedenza
già Rieg, L’harmonisation européenne du droit de la famille : mythe ou réalité ?,
in Aa. Vv., Conflits et
harmonisation, Mélanges en l’honneur d’A. E. von Overbeck, Fribourg, 1990,
p. 485 s., secondo cui «Il subsiste certes d’innombrables différences entre
[les diverses législations] ; elles sont toutefois souvent secondaires, dans la
mesure où les principes du droit de la famille sont à présent largement communs
aux pays européens»; da ciò deriverebbe che l’armonizzazione del diritto di
famiglia europeo è «une réalité en marche».
[79] De Oliveira, op. loc. ultt. citt.
[80] Marella, op. cit., p. 84;
analogamente De Oliveira, op. loc. ultt. citt.
[81] Cfr. Antokolskaia, Harmonisation in Family Law in Europe: A
Historical Perspective. A Tale of
Two Millennia,
cit., p. 501 ss.
[82] Cfr. Pintens, Introduzione al diritto di famiglia in Europa, Milano, 2008, p. 92.
[83] Pintens, Europeanisation of Family
Law, in Aa. Vv., Perspectives
for the unification and harmonization of family law in Europe, a cura di Boele-Woelki,
cit., p. 9.
[84]
Marella, op. cit., p. 88.
[85]
Per approfondimenti cfr. Patti e Will, Mutamento di sesso e tutela della persona. Saggi di diritto civile e
comparato, Padova, 1986, passim.
[86]
Gephart, Family Law as
Culture, in Aa. Vv., Family
Law and Culture in Europe. Developments, Challenges and
Opportunities, a cura di
Boele-Woelki, Dethloff e Gephart, Antwerp, Oxford, New York, 2014, p. 348.
[87] Antokolskaia, Convergence of Divorce Law in Europe, cit., p. 27; sulla teoria del
«common core» v. anche Marella, op. cit., p. 86 ss.
[88] Antokolskaia, Convergence of Divorce Law in Europe, cit., p. 26, che adduce, a
titolo d’esempio, la rilevante differenza che esiste tra, da un lato, la legge
irlandese, dove i coniugi debbono attendere quattro anni di separazione (di
fatto) per chiedere il divorzio e, ancora, il tribunale può rifiutare di
concedere lo scioglimento del matrimonio, se non è convinto che la stabilità
dell’unione sia irrimediabilmente compromessa o le previsioni economiche per il
coniuge e figli siano sufficienti e, dall’altro, il divorzio «immediato e a
richiesta» del diritto svedese.
[89] Per dare
un’idea della complessità della materia, si indica che il famoso «irretrievable breakdown of marriage» è l’elemento che
fonda il divorzio in innumerevoli Paesi, ma tale concetto è inteso e «funziona»
in modo molto diverso da sistema a sistema. E così, «In Sweden and
Netherlands, the irretrievable breakdown of marriage in some instances no
longer needs to be proved: if the spouses state that their marriage has broken
down, the competent state officials are obliged to take this for granted,
therefore in these countries divorce on the ground of irretrievable breakdown
has basically de facto became divorce
‘on demand’»: Antokolskaia, The “Better Law” Approach and the
Harmonization of Family Law, cit., p. 166 s. In Svezia «a
couple without children can obtain a divorce immediately, without going to
court in person, with no enquiry into the grounds for divorce and no need to
settle ancillary matters» (Ead., Harmonisation of Substantive Family Law in Europe: Myths and Reality,
cit., p. 403), laddove
in Irlanda, Inghilterra e Galles l’irrimediabile compromissione della vita
coniugale deve essere dimostrata e in difetto di tale prova il tribunale può
rigettare la domanda (Ead., The “Better Law” Approach and the Harmonization of Family Law,
cit., p. 167).
In questo contesto si sottolinea pure che gli stessi principi CEFL (su cui v. infra, § 7)
segnalano come common core, a ben
vedere, assai pochi elementi (Ead., Harmonisation of Substantive Family Law in
Europe: Myths and Reality, cit., p. 418).
[91] L’unica eccezione
parrebbe essere costituita dalla Svezia, ove, sin dal 1973, l’eventuale
presenza di un impedimento matrimoniale dirimente non dà luogo all’annullamento
del vincolo, bensì costituisce un motivo di divorzio, che può essere ottenuto,
in quel caso, su domanda di ciascuno dei coniugi e del pubblico ministero (sul
tema cfr. Jänterä, Grounds for Divorce and Maintenance between
Former Spouses. Sweden, 2002, http://ceflonline.net/wp-content/uploads/Sweden-Divorce.pdf). La soluzione non sembra isolata nel
panorama comparato e, a ben vedere, non è dissimile da quanto accaduto anche da
noi con riguardo all’ipotesi dell’inconsumazione (per approfondimenti cfr. Ferrando, Il matrimonio, in Trattato di diritto civile, già
diretto da Cicu, Messineo e Mengoni, continuato da Schlesinger, Milano, 2015,
p. 547 s.). Sarà però il caso di osservare che quanto sopra non deriva certo da
una confusione tassonomica, ma da un intento semplificatorio: la normativa non
ignora invero la distinzione concettuale e giuridica tra annullamento e
divorzio, ma si limita ad applicare al primo le regole del secondo.
[92] Cfr. ora
in particolare l’art. 3 del Regolamento (UE) 2019/1111 del Consiglio del 25
giugno 2019, «relativo alla competenza, al riconoscimento e all’esecuzione
delle decisioni in materia matrimoniale e in materia di responsabilità
genitoriale, e alla sottrazione internazionale di minori (rifusione)». Il nuovo
regolamento è stato adottato dal Consiglio UE il 25 giugno 2019 con la speciale
procedura stabilita per il settore del diritto di famiglia, che prevede
l’unanimità dei membri del Consiglio, previa consultazione del Parlamento
europeo. Esso è destinato a sostituire a partire dal 1° agosto 2022 il Regolamento
2201/2003, c.d. «Bruxelles II bis»
(che aveva a sua volta, com’è noto, sostituito il precedente Regolamento
1347/2000), in tutti i paesi membri dell’Unione, con l’eccezione della
Danimarca.
[93]
Cfr. art. 5, Regolamento (UE) 2016/1103 del Consiglio del 24 giugno 2016, «che
attua la cooperazione rafforzata nel settore della competenza, della legge
applicabile, del riconoscimento e dell’esecuzione delle decisioni in materia di
regimi patrimoniali tra coniugi».
[94]
Arg. ex art. 1, par. 2 c),
Regolamento (UE) N. 1259/2010 del Consiglio del 20 dicembre 2010, «relativo
all’attuazione di una cooperazione rafforzata nel settore della legge
applicabile al divorzio e alla separazione personale».
[95]
Cronologicamente, gli ultimi Paesi a introdurre il divorzio sono stati l’Italia
(1970), il Portogallo (1975), la Spagna (1981), l’Irlanda (1996) e Malta (nel
2011, vale a dire sette anni dopo il suo ingresso nell’Unione europea, avvenuto
nel 2004).
[96]
Come si può infatti osservare dai dati messi a disposizione da EUROSTAT, il
divorzio è divenuto un fenomeno socialmente rilevante solo a partire dalla
seconda metà del XX secolo. Se nel decennio tra il 1960 e il 1970 la media
europea aveva raggiunto il numero di 2,5 divorzi ogni mille persone sposate, a
partire dagli anni Sessanta in poi il numero dei divorzi ha cominciato a
lievitare esponenzialmente: cfr. Gonzalez
e Viitanen, The Effect of Divorce Laws on Divorce Rates
in Europe, 2006, http://ftp.iza.org/dp2023.pdf
(particolarmente interessanti i grafici alle p. 24 ss.). Cfr. inoltre i dati Insee
(Institut National de la
statistique et des études économiques), Nuptialité
et divortialité dans l’Union européenne. Données annuelles de 1960 à 2017,
juillet 2020, https://www.insee.fr/fr/statistiques/2381492.
Per
un paio d’altri siti dedicati al tema cfr. https://www.gecertificeerdemediators.nl/scheiden/european-divorce-monitor/
e https://marriagefoundation.org.uk/research/divorce-rates-are-falling-across-europe-and-the-uk-is-leading-the-way/.
[97] Si pensi
al caso di cui riferisce La Repubblica,
16 settembre 2020, in cui un avvocato partenopeo, quale dono di nozze per la
propria praticante, ha regalato a quest’ultima un buono per l’assistenza legale
in caso di eventuale divorzio.
[98] Sul tema v. per tutti Carmit
Yefet, Divorce as a Substantive
Gender-Equality Right, in Journal of
Constitutional Law, Vol. 22:2, 2020, p. 457, ove si rimarca tra l’altro che
«The laws of divorce—especially the fault regime that has dominated marital
dissolution laws for much of American history—have likewise functioned to
maintain gender hierarchy and reify sex-role stereotypes». Per
la storia del diritto italiano basti considerare il diverso rilievo
dell’adulterio («maschile» o «femminile») ai fini della separazione personale:
è noto che, fino alla riforma del 1975, l’art. 151 c.c. stabiliva che «Non è
ammessa l’azione di separazione per adulterio del marito se non quando
concorrono gravi circostanze tali che il fatto costituisca un’ingiuria grave
alla moglie». La regola rifletteva in buona sostanza il principio «maschilista»
già consacrato proprio per il divorzio dal Code
Napoléon (art. 229: «Le mari pourra demander le divorce pour cause
d’adultère de sa femme»; art. 230: «La femme pourra demander le divorce pour
cause d’adultère de son mari, lorsqu’il aura tenu sa concubine dans la maison
commune»). Regola, questa, peraltro abbandonata oltralpe con la Loi Naquet,
che, reintroducendo il divorzio, aveva collocato moglie e marito (per lo meno
per ciò che riguardava l’adulterio) su un piede di perfetta parità. Il genere
giocò un ruolo determinante per secoli anche in relazione all’affidamento della
prole. Così, ad es., la Glossa medioevale, sulla base delle fonti romanistiche,
prevedeva che «regulariter minores triennio apud matrem educandos, maiores apud
patrem», sebbene «interdum iudex, apud quem commodius morentur, aestimat, ut
tamen post trimatum etiam apud matrem expensis patris alantur» (Azzone, op. cit., f. 139).
[99] Cfr. Sudre, Droit européen et international des droits
de l’homme, 10e éd.,
Paris, 2008, n° 311, p. 720 ss.
[100] Si
consideri al riguardo l’art. 10 del regolamento «Roma III», a mente del quale
«Qualora la legge applicabile ai sensi dell’articolo 5 o dell’articolo 8 non
preveda il divorzio o non conceda a uno dei coniugi, perché appartenente
all’uno o all’altro sesso, pari condizioni di accesso al divorzio o alla
separazione personale, si applica la legge del foro». Sulla disposizione v. ex multis, Zanobetti, Divorzio
all’europea. Il regolamento UE n. 1259/2010 sulla legge applicabile allo
scioglimento del matrimonio e alla separazione personale, in Nuova giur. civ. comm., 2012, p. 258, la
quale rileva che «la norma fa riferimento all’istituto del ripudio; se il coniuge
del sesso discriminato non ha accesso al divorzio o alla separazione personale,
l’autorità giurisdizionale adita applica la propria legge interna». L’Autrice
prosegue osservando che «L’art. 10 funzionerà raramente anche perché i criteri
di collegamento previsti rendono abbastanza probabile l’applicazione della
legge di uno degli Stati membri dell’Unione europea; si applicherà la legge di
uno Stato terzo solo qualora sia stata scelta dalle parti, in presenza di uno
dei requisiti oggettivi che ne consentono la scelta, oppure quando i coniugi
siano entrambi cittadini del medesimo paese terzo, e non abbiano residenza
abituale comune in uno degli Stati membri, o l’abbiano persa da oltre un anno:
in questa ipotesi, se la legge richiamata non ammette affatto il divorzio o
l’ammette a condizioni discriminatorie per uno dei due sessi, si farà invece
ricorso alla legge del foro».
[102]
Praticamente, dai sette anni di cui alla versione originale della l. 1°
dicembre 1970, n. 898 (art. 3, n. 2, lett. b, in caso di opposizione del
coniuge incolpevole, ai sei mesi in caso di anteatta separazione consensuale,
secondo quanto stabilito dall’art. 1, comma 1, l. 6 maggio 2015, n. 55.
[103] Sul punto
v. ad es. le opinioni espresse con vigore già molto tempo addietro da Cipriani, Abrogazione della separazione coniugale?, in Dir. fam. pers., 1997, p. 1103 ss. Cfr. inoltre Oberto, I contratti della crisi coniugale, I, cit., p. 390 ss.; Id., La
comunione legale tra coniugi, II cit., p. 1768 e nota 1; per una
comparazione al riguardo con altri sistemi europei cfr. Fortino, La
separazione personale tra coniugi, in Trattato
di diritto di famiglia, diretto da Zatti, I, Famiglia e matrimonio, a cura di Ferrando, Fortino e Ruscello, II,
Milano, 2002, p. 920; Ead., I modelli di separazione e divorzio in
Europa: uno sguardo alle recenti riforme di alcuni Paesi europei, in Il nuovo diritto di famiglia, Trattato
diretto da Ferrando, I, Matrimonio,
separazione e divorzio, Bologna, 2007, p. 515 ss. Da ultimo cfr. inoltre
l’interessante studio di Morace Pinelli,
È tempo di abrogare la separazione
giudiziale, in Nuova giur. civ. comm.,
2020, p. 891 ss.
[104] Nella
specie il Principle 1:8 stabilisce
che il divorzio dovrebbe essere permesso senza il consenso di uno dei coniugi
«if they have been factually separated for one year». Sottolinea la peculiarità
della posizione italiana anche Fortino,
I modelli di separazione e divorzio in
Europa: uno sguardo alle recenti riforme di alcuni Paesi europei, cit., p.
529.
[105] Cfr. Pousson-Petit, Le démariage en droit comparé, Bruxelles, 1981, p. 192.
[106] Così, ad
esempio, nel divorzio del Code Napoléon
(art. 302, con regola peraltro riprodotta in modo identico dalla Loi Naquet del
1884) la garde dei figli veniva
affidata (almeno di regola) all’ «époux qui aura obtenu le divorce», vale a
dire al genitore che, privo di responsabilità nel naufragio dell’unione, era
riuscito ad ottenere lo scioglimento del matrimonio per colpa dell’altro. Allo
stesso modo in Germania il BGB stabiliva che l’affidamento della prole
minorenne dovesse andare «grundsätzlich dem nichtschuldigen Ehegatten als dem
vertrauenswürdigeren». Nel caso entrambi
fossero stati dichiarati colpevoli, «so steht di Sorge für die Tochter ohne
Einschränkung und für einen Sohn, so lange er unter sechs Jahren ist, der
Mutter zu; von da ab ist der Sohn dem Vater zu überweisen» (cfr. Endemann, Lehrbuch des Bürgerlichen Rechts, II, Berlin, 1900, p. 689). Del resto
già il diritto romano attribuiva rilievo alla colpa, con soluzioni ancora
seguite all’epoca dei Glossatori: «Hodie autem, facto divortio distinguitur,
utrum pater praestiterit divortii causam, an mater. Si pater praestabit, ipse
pater expensas matri filiorum, quae non venit ad secundas nuptias, apud quam
nutriri debent filii. Si autem pater non sit idoneus, pauperes filii a
locuplete matre sunt alendi, et apud eam debent morari (…). Si vero mater
praestiterit causam divortii, tunc apud patrem alendi sunt filii, subaudio,
expensis matris: etiam si maiores sint triennio» (Azzone, op. cit.,
p. 139).
[107]
Come rilevato in dottrina, particolare attenzione merita da noi il disposto
dell’art. 316, comma 4, c.c., laddove sancisce che «il genitore che ha
riconosciuto il figlio esercita la responsabilità genitoriale su di lui» e che
«se il riconoscimento del figlio, nato fuori dal matrimonio, è fatto dai
genitori, l’esercizio della responsabilità genitoriale spetta ad entrambi». Con
questa norma, infatti, la regola dell’esercizio condiviso della responsabilità
genitoriale assume una portata generale e si estende anche all’ipotesi in cui i
genitori biologici non siano mai stati uniti né dal matrimonio, né da una
convivenza more uxorio (così Al Mureden, La responsabilità genitoriale tra condizione unica del figlio e
pluralità di modelli familiari, in Fam.
e dir., 2014, p. 466).
[108]
Per un panorama della legislazione europea, corredato di statistiche
sull’effettiva implementazione del principio dell’affido condiviso, cfr. Vezzetti, European Children and the Divorce of their Parents, https://www.figlipersempre.com/res/site39917/res666721_europeanchildren2.pdf.
Per alcuni studi comparati in materia di affido dei figli in sede di crisi
coniugale cfr. Patti, L’affidamento condiviso dei figli, in Fam. pers. succ., 2006, p. 300 ss.; Id., Separazione
dei genitori e affidamento condiviso, in Aa.
Vv., Introduzione al diritto della famiglia in Europa, a cura di Patti e
Cubeddu, cit., p. 335 ss.; Marcucci,
L’affidamento dei figli in Europa:
disciplina vigente e prospettive di riforma, in Fam. e dir., 2001, p. 220 ss. Cfr. inoltre Sesta e Arceri,
La responsabilità genitoriale e
l’affidamento dei figli, Milano, 2016, passim.
[109] Regolamento (CE) n. 2201/2003 del
Consiglio, del 27 novembre 2003, «relativo alla competenza, al riconoscimento e
all’esecuzione delle decisioni in materia matrimoniale e in materia di
responsabilità genitoriale, che abroga il Regolamento (CE) n. 1347/2000».
[111] Cfr. ad
es. Farge, La gestation d’un droit fondamental
au divorce en Europe ? L’apport du droit privé, in Revue des droits et libertés fondamentaux, 2012, chron. n° 19, p. 1
ss. L’Autore
affronta anche il tema del riconoscimento (o meno) di tale diritto da parte
della Corte Europea dei diritti dell’uomo.
[112] Cfr. Ancel e Muir-Watt,
La désunion européenne : le Règlement dit
« Bruxelles II », in Rev. crit. dr.
int. privé, 2001, p. 403. Si consideri poi anche l’art. 25 del
regolamento «Bruxelles II bis», a
mente del quale «Il riconoscimento di una decisione non può essere negato
perché la legge dello Stato membro richiesto non prevede per i medesimi fatti
il divorzio, la separazione personale o l’annullamento del matrimonio» (e v.
ora l’art. 70 del regolamento «Bruxelles II ter»).
[113] Così Hammje, Le nouveau règlement (UE° n°1259/2010) du
Conseil du 20 décembre 2010 mettant en œuvre une coopération renforcée dans le
domaine de la loi applicable au divorce et à la séparation de corps, in Rev. crit. dr. int. privé, 2011, p. 291
ss., spec. 333.
Sul regolamento in questione v. anche Nascimbene,
Divorzio, diritto internazionale privato
e dell’Unione Europea, Milano, 2011, p. 34 ss.; Velletti e Calò,
La disciplina europea del divorzio,
in Corr. giur., 2011, p. 719 ss.; Zanobetti, op. cit., p. 250 ss. In relazione all’art. 10, tale ultima Autrice
(op. cit., p. 258) osserva che
«Questo limite, che come è noto è contenuto anche nell’art. 31 della l. n.
218/1995, è ora di applicazione molto limitata, perché l’unico paese al mondo
che non prevede il divorzio sono le Filippine; potrebbe però ricevere
applicazione con riferimento a sistemi giuridici che applichino in questa
materia le norme religiose, con la conseguenza che in caso di coniugi di
religione cattolica, il divorzio non sarebbe possibile». Da notare, infine, che
per la Corte di giustizia la norma in esame va interpretata nel senso che essa
riguarda unicamente le situazioni in cui la legge applicabile non preveda il
divorzio in alcuna forma, non includendo le ipotesi – qual è il caso della legge
italiana – in cui il divorzio venga sottoposto a condizioni considerate, dal
giudice adito, più restrittive di quelle previste dalla legge del foro (nella
specie la presenza di una separazione personale legale della durata di tre
anni). In tale ultimo caso, se la legge
del foro non prevede norme procedurali in materia di separazione personale, il
giudice competente, pur non potendo pronunciare egli stesso la separazione,
deve verificare che le condizioni sostanziali previste dalla legge straniera
siano soddisfatte, accertandole nell’ambito del procedimento di divorzio di cui
è investito (cfr. CGUE, Prima Sezione,
16 luglio 2020, C-249-19).
[114] Come rilevato da Morace Pinelli, La crisi coniugale tra separazione e divorzio, Milano, 2001, p. 137
ss., «La mera proposizione della domanda di separazione integra di per sé il
presupposto richiesto dalla legge e ne impone l’accoglimento». Per la
giurisprudenza v. Cass., 21 gennaio 2014, n. 1164, in Foro it., 2014, I, c.
463, secondo la quale «la separazione giudiziale dei coniugi va pronunciata
allorché la prosecuzione della convivenza è divenuta intollerabile anche alla
stregua della percezione soggettiva di disaffezione verso l’altro di uno solo
di essi, evidenziata dalla stessa proposizione della domanda e dal fallimento
del tentativo di conciliazione».
[115]
Così Proto Pisani, Il diritto alla separazione e al divorzio da
diritto potestativo da esercitare necessariamente in giudizio a diritto
potestativo sostanziale, in Foro it.,
2008, V, c. 162. Al riguardo non sembra potersi replicare (cfr. ad es. Pignataro, La separazione personale dei coniugi. Profili introduttivi, in Aa. Vv.,
Il diritto di famiglia nella dottrina e
nella giurisprudenza: La separazione, il divorzio, l’affido condiviso, a
cura di Autorino Stanzione,
Torino, 2011, p. 5) che la qualificazione del diritto di separarsi (e di
divorziare) come diritto potestativo sarebbe contraddetta dalla natura
costituiva della sentenza di separazione (e di divorzio). L’argomento, invero,
non tiene conto del fatto che la sentenza non potrà, di fatto, comunque mai
negare la separazione (o il divorzio). Se è, quindi, vero che è pur sempre la
sentenza a produrre lo status di
separato (e di divorziato), in caso di opposizione di una parte, è altrettanto
vero che la sentenza costitutiva sarà comunque di accoglimento di una domanda
di parte: un po’ come succede (se ci si passa l’ardito paragone) con la
sentenza costitutiva ex art. 2932
c.c. In altre parole, la necessità del ricorso ad una procedura giudiziale non
elimina il carattere potestativo del diritto in discussione, posto che il
creditore esercita un diritto che la legge impone al giudice di riconoscere ad
attuare.
[116] È interessante
notare che non sembra invece sussistere un corrispondente termine tedesco,
anche perché in Germania vige con estremo rigore il principio scolpito nel §
1564 BGB, secondo cui «Eine Ehe kann nur durch richterliche Entscheidung auf
Antrag eines oder beider Ehegatten geschieden werden». La dottrina ricorre così
ad espressioni piuttosto circonvolute, quali, ad es., «Justizentlastung durch
Aufgabenverlagerung von den Richtern auf andere Organe»: cfr. Kampmann e Zwickel, Zivil- und
zivilprozessrechtliche Aspekte der großen Justizreform in Frankreich (Justice
du 21ème siècle), in Civil
Procedure Review, www.civilprocedurereview.com,
p. 14.
[117] Cfr. il
d.l. 12 settembre 2014, n. 132, convertito in legge con modifiche in l. 10
novembre 2014, n. 162.
[118] Cfr. Aa. Vv., La
rupture du mariage en droit comparé, a cura di Ferrand e Fulchiron, Paris,
2015, p. 49. Vengono qui in considerazione
l’art. 374 del codice civile rumeno e l’art. 83 del Codigo civil spagnolo, come modificato dalla Ley 15/2015, de 2
de Julio, de la Jurisdiccion Voluntaria. Il sistema prescelto nel 2010
dalla Romania viene definito dalla dottrina francese come di «compétences
plurielles», coinvolgendo potenzialmente diversi pubblici ufficiali (notaio,
ufficiale di stato civile, etc.). Sul tema v. anche Aras Kramar, The
transformation of divorce procedure in Europe, in Familia, 2018, p. 277 ss.
[119] Per
un’analisi dettagliata cfr. Aras Kramar, op. loc. ultt. citt.
[120] E’ il
caso, già ricordato, della Germania.
[121]
Così, i lavori attualmente in corso presso il Consiglio d’Europa per un
aggiornamento della Recommendation CM /
REC (86) 12 of the Committee of Ministers to member states on measures to
prevent and reduce the overwork of the courts (adottata il 16 settembre
1986 dal Comitato dei Ministri) sicuramente porranno in evidenza l’opportunità
di trasferire ad autorità non giurisdizionali la materia dei divorzi non
contenziosi.
[122] Sulle
questioni che hanno dato alla previsione di tale disposizione nel nuovo
regolamento v. per tutti Bernasconi,
La circolazione degli accordi di
negoziazione assistita e di altre forme di divorzio stragiudiziale in Europa,
in Fam. e dir., 2019, p. 335 ss.
[123]
Sul tema cfr. per tutti Lowe, The English Approach to the Division of
Assets upon Family Breakdown, in Aa.
Vv., Eheliche Gemeinschaft, Partnershaft und Vermögen im europäischen
Vergleich, a cura di Enrich e Schwab, Bielefeld, 1999, p. 47 ss.; Slaughter, Separazione, divorzio, affidamento dei minori: l’esperienza inglese,
in Aa. Vv., Separazione,
divorzio, affidamento dei minori: quale diritto per l’Europa?, a cura di Sesta,
cit., p. 61 ss.; Ronchese, Regno Unito: una nuova regola sulla
divisione dei beni dopo il divorzio, in Familia,
2002, p. 843 ss.; Oberto, Il regime di separazione dei beni tra
coniugi. Artt. 215-219, in Il codice civile.
Commentario fondato e già diretto da Schlesinger, continuato da Busnelli,
Milano, 2005, p. 183 ss.
[124]
Cfr. per tutti Patti, La giurisprudenza in tema di assegno di
divorzio e il diritto comparato, in Nuova
giur. civ. comm., 2020, p. 454 ss.; Id.,
Solidarietà e autosufficienza nella crisi
del matrimonio, in Familia, 2017,
p. 275 ss., spec. 279 ss. V. inoltre Sesta,
L’assegno di divorzio nella prospettiva
italiana e in quella tedesca, in Familia,
2019, p. 3 ss. Cfr. poi anche Patti e
Cubeddu, Introduzione al diritto della famiglia in Europa, Milano, 2008, p.
291 ss.; Cubeddu, Lo scioglimento del matrimonio e la riforma
del mantenimento tra ex coniugi in Germania, in Familia, 2008, p. 23 ss.
[125]
Sottolinea Patti, Assegno di divorzio: un passo verso
l’Europa?, in Foro it., 2017, I,
c. 2707 ss. che per molti anni in Germania si è attribuito un rilievo
prevalente alla solidarietà postconiugale, ma, nel 2007, una legge di riforma,
entrata in vigore il 1° gennaio 2008, ha introdotto nel § 1569 BGB il «principio
dell’autoresponsabilità» (Grundsatz der
Eigenverantwortung), al quale viene affiancato quello della Handlungsfreiheit, cioè della libertà di
agire, che ciascuno dei coniugi deve avere dopo il divorzio e che risulta
limitata da eventuali obblighi di mantenimento. La solidarietà postconiugale
non è comunque scomparsa, trovando giustificazione (in genere comunque per un
periodo di tempo determinato) anzitutto nel fatto che in molti casi il
matrimonio causa una dipendenza economica di un coniuge, il quale ad esempio
non può iniziare o continuare la propria formazione professionale oppure deve
ridurre o abbandonare la propria attività lavorativa. Dal principio
dell’autoresponsabilità discende che la mancanza di autosufficienza non rileva
se non ricorrono i presupposti che giustificano la solidarietà postconiugale,
in particolare se non è conseguenza della ripartizione di ruoli concordata
durante il matrimonio. Osserva Sesta,
L’assegno di divorzio nella prospettiva
italiana e in quella tedesca, in Familia,
2019, p. 13 che «Nel sistema
tedesco l’assegno di mantenimento assolve una spiccata funzione assistenziale
ed è suscettibile di limitazione temporale, mentre in quello italiano l’accento
è ora sulla funzione perequativo compensatoria a vantaggio del coniuge che
dedicandosi maggiormente alla famiglia ha rinunciato alle proprie chances professionali».
[126]
Come giustamente rimarcato da Sesta,
L’assegno di divorzio nella prospettiva
italiana e in quella tedesca, cit., p. 5, benché il testo della legge
italiana sia rimasto sostanzialmente immutato da mezzo secolo, esso è stato
diversamente interpretato e applicato nel corso dei decenni dai tribunali ed in
modo particolare dalla Corte di cassazione, che ha ripetutamente enunciato
differenti approcci ermeneutici delle richiamate disposizioni. Per alcune
notazioni critiche sulla recente giurisprudenza italiana in tema di assegno
divorzile ed i suoi risvolti su temi quali quelli degli accordi prematrimoniali
cfr. Fusaro, La sentenza delle
Sezioni Unite sull’assegno di divorzio favorirà i patti prematrimoniali?,
in Fam. e dir., 2018, p. 1031 ss.
[127] Cfr. Oberto, La comunione legale tra coniugi, in Trattato di diritto civile e commerciale, già diretto da Cicu, Messineo
e Mengoni, continuato da Schlesinger, I, Milano, 2010, p. 384 ss.
[128]
In Francia, a seguito di una riforma del Code
civil del 2004 (cfr. la Loi du 26 mai
2004, n. 2004/409, entrata in vigore il 1° gennaio 2005), è stata
introdotta una normativa che tende in
primo luogo ad un riequilibrio patrimoniale. In particolare, in caso di
mancanza di un accordo dei coniugi, è previsto l’eventuale pagamento di una
«prestation compensatoire» (una tantum)
avente un «caractère forfaitaire» sotto forma di una somma di denaro il cui
ammontare viene determinato dal giudice (art. 270 Code civil), ma che può avere anche ad oggetto l’attribuzione di
beni in proprietà (art. 274 Code civil).
Peraltro, se il debitore non è in grado di pagare la somma in un’unica
soluzione, il giudice può fissare le «modalités» del pagamento, in un periodo
massimo di otto anni, sotto forma di versamenti periodici. La riflessione sul
modello francese è utile anche sotto un profilo diverso, perché, come detto, la
suddetta somma di denaro una tantum
deve essere corrisposta a prescindere dalle condizioni di bisogno del
richiedente, al fine di «compenser (...) la disparité que la rupture du mariage
crée dans le conditions de vie respectives» (cfr. Murat-Sempietro e
Trambouze, Le divorce après la loi du 24 mai 2004, Paris, 2006, p. 133 ss.; v.
inoltre Benanti, Prestation compensatoire e assegno di
divorzio tra logica redistributiva e logica riparatrice, in Riv. dir. civ., 2020, p. 1088 ss.).
[129] Cfr. Cass. civ. 1ère, 1er juillet 2009, https://www.legifrance.gouv.fr/juri/id/JURITEXT000020824267/.
[130] Da tale constatazione si è fatto derivare, nella specie, il rigetto della
domanda di riconoscimento di una prestation
compensatoire avanzata dalla moglie, poiché si era accertato che «les
revenus de l’épouse étaient supérieurs à ceux du mari, qu’il n’était pas établi
que sa retraite serait inférieure à celle de ce dernier, que celui-ci disposait
de biens dont il avait financé l’acquisition en tout ou partie au moyen de
loyers et enfin que qu’aucune décision condamnant [il marito] à contribuer aux charges du mariage n’avait été rendue à
l’initiative de l’épouse» (cfr. Cass. civ. 1ère, 1er juillet
2009, cit.; sull’argomento, nello stesso senso, cfr. anche Benanti, op. cit., p. 1093 ss.).
[131] In questo senso v. anche Martiny, Divorce and Maintenance Between
Former Spouses - Initial Results of the Commission on European Family Law, cit., p. 545, il quale peraltro correttamente
ammonisce che «the multiplicity of the grounds for divorce is reflected by a
multitude of different consequences. From the point of view of a possible
unification these often very complex regimes at first glance do not look very
promising. One has to concede, however, that also systems starting with only
one type of maintenance eventually have to make many subtle distinctions, which
can produce complex results».
[132] Cfr. Martiny, Divorce and Maintenance Between
Former Spouses - Initial Results of the Commission on European Family Law, cit., p. 547.
[133] Per un interessante lavoro sui
metodi di calcolo dell’assegno di divorzio e di separazione in Italia cfr. Aa. Vv.,
Gli assegni di mantenimento tra
disciplina legale e intelligenza artificiale, a cura di Al Mureden e
Rovatti, Torino, 2020.
[134] Cfr. Martiny, Divorce and Maintenance Between
Former Spouses - Initial Results of the Commission on European Family Law, cit., p. 548.
[135] Sul tema
della «privatizzazione» della famiglia in Italia v. per tutti Sesta, Privato e pubblico nei progetti di legge in materia familiare, in Aa. Vv.,
Separazione, divorzio, affidamento dei
minori: quale diritto per l’Europa?, a cura di Sesta, cit., p. 4 ss.
[136] Sulla
decisione v. per tutti Oberto, Prenuptial Agreements in Contemplation of
Divorce: European and Italian Perspectives, in Aa. Vv., Party
Autonomy in European Private (and) International Law, Tome I, a cura
di Queirolo, e Heiderhoff, Ariccia, 2015, p. 228 ss.
[137] Cfr. Oberto, I contratti della crisi coniugale, I, cit., p. 66 ss.
[138] Così Dekeuwer-Defossez, Divorce et contrat, in Aa.
Vv., La contractualisation de la famille, a cura di Fenouillet e de
Vareilles-Sommières, Paris, 2001, p. 67. Per una serie di ricerche comparate
al riguardo cfr. Aa. Vv., From
Status to Contract? – Die Bedeutung des Vertrages im europäischen
Familienrecht, a cura di Hofer, Schwab e Henrich, Bielefeld, 2005, passim. V. inoltre Aa. Vv., Party Autonomy in European
Private (and) International Law, Tome I, cit., passim; Queirolo, EU Law and Family Relationships. Principles, Rules and Cases, Ariccia,
2015, p. 205 ss. Sul rilievo dell’autonomia privata nel diritto divorzile
tedesco v. per tutti Hohloch, The Privatization of Family Law in Germany,
in Familia, 2017, p. 582. Per la Spagna cfr. Mazzilli,
The Privatization of Separation and
Divorce in Spain and Italy: a Comparative Study, in Familia, 2017, p. 563 ss. Anche González del Pozo, Acuerdos
y contratos prematrimoniales (I),
in Boletín de Derecho de familia, 81,
2008, p. 10 ss. ha rimarcato che il riconoscimento dell’ammissibilità di un convenio regulador sulle conseguenze del
divorzio ha dato inizio al processo di privatizzazione del matrimonio, mentre
secondo Vargas Aravena, Daños civiles en el matrimonio, Madrid,
2009, p. 119, la famiglia è divenuto il luogo in cui gli interessi individuali
dei membri prevalgono sopra quelli del gruppo. Sul tema della
contrattualizzazione dei rapporti privati nel diritto europeo v. anche Fantetti, Codificazione europea per l’unificazione dei procedimenti di
separazione e di divorzio, in Fam.
pers. succ., 2008, p. 346 ss.; Cubeddu,
Verso principi generali uniformi degli
atti della persona (e della famiglia), in Riv. dir. civ., 2012, p. 45 ss.; Cordiano,
Il principio di autoresponsabilità nei
rapporti familiari, Torino, 2018, p. 195 ss.
[139] Cfr. Théry, Le démariage, Paris, 1993, p. 177 ss.
[140] Così Farge, op. loc. ultt. citt..
[141] Cfr. Oberto, I patti prematrimoniali nel quadro del diritto europeo, in Corr. giur., 2020, p. 794 ss.
[142] Sul se ed
in che misura si possa oggi parlare di un «diritto europeo della famiglia»,
cfr. Oberto, La comunione coniugale nei suoi profili di diritto comparato,
internazionale ed europeo, in Dir.
fam. pers., 2008, p. 367 ss.
[143] Per una
nutrita serie di altri esempi e per una dimostrazione completa dell’assunto di
cui al testo, impossibile per ragioni di spazio in questa sede, si fa rinvio a Oberto, I patti prematrimoniali nel quadro del diritto europeo, cit., p.
796 ss.
[144] Una
consapevolezza, si badi, che neppure sembra caratterizzare la posizione
«ufficiale» dello stesso governo italiano. Ed invero, quest’ultimo si è fatto
latore, nel 2019, di una proposta di legge in materia (cfr. il d.d.l. di
iniziativa governativa S/1151/XVIII, presentato al Senato il 19 marzo 2019),
dal contenuto quanto mai vago e generico, posto che trattasi di una sorta di
«scatola vuota», che si limita a proporre una legge delega, la quale, tra varie
possibili riforme del codice civile, dovrebbe essere volta all’emanazione, da
parte del governo medesimo, di un decreto legislativo al fine di «b) consentire
la stipulazione tra i nubendi, tra i coniugi, tra le parti di una programmata o
costituita unione civile, di accordi intesi a regolare tra loro, nel rispetto
delle norme imperative, dei diritti fondamentali della persona umana,
dell’ordine pubblico e del buon costume, i rapporti personali e quelli
patrimoniali, anche in previsione dell’eventuale crisi del rapporto, nonché a
stabilire i criteri per l’indirizzo della vita familiare e l’educazione dei
figli». Ora, nella relativa relazione d’accompagnamento si legge che, al
riguardo, esisterebbe una lacuna nel nostro ordinamento, «nel quale tuttora
tali tipologie di accordi, sia patrimoniali che personali, sono reputati nulli
rispetto invece ad altri ordinamenti, nei quali sono ammessi e regolamentati».
[145] Sul tema
si rimanda per tutti a Oberto, Gli accordi prematrimoniali in Cassazione,
ovvero quando il distinguishing finisce
nella Haarspaltemaschine, nota a Cass. 21 dicembre 2012, n. 23713, in Fam. e dir., 2013, p. 323 ss.
[146] Dethloff, Arguments for
the Unification and Harmonization of Family Law in Europe, in Aa. Vv.,
Perspectives for the unification and
harmonization of family law in Europe, a cura di Boele-Woelki,
cit., p. 37. Si calcola che oggi nell’Unione Europea vi
siano circa sedici milioni di international
couples: https://europeansting.com/2019/01/31/property-regimes-for-international-couples-in-europe-new-rules-apply-in-18-member-states-as-of-today/.
[147] Dethloff, op. loc. ultt. citt.
[148] Cfr. Eurobarometer,
Family law Analitical report 2006, http://ec.europa.eu/public_opinion/flash/fl188b_en.pdf,
p. 3.
[149] Rileva Marella, op. cit., p. 87, che «the persons who
established the family relationships in one country, moved to another country
and later decided to divorce, may lose their rights to claim a certain
property, if the receiving State has different regulation concerning the
matrimonial property regime, therefore the examples show how the lack of a
harmonised certain aspects of family matters can be the source of severe
discrimination among European citizens».
[150] Così Marella, op. loc. ultt. citt. Anche De Oliveira, op. cit., p. 1095 s. pone l’accento sulla necessità di uniformare o
almeno armonizzare il diritto di famiglia in Europa, rilevando che «Long gone
are the days when citizens were born and married and died in the same place,
getting married in their villages, and working on the land where the sparrows
of their childhood kept on chirping. Social mobility and the abolition of
borders have increased bi-national marriages. People live in different
countries throughout their lives; they get married here and “unmarried”
elsewhere. And ever more frequently, they get together again and again as the
increase in “reassembled” families clearly shows. Within this framework, the
old and dear notion of the certainty of law—the aim of knowing all the legal
effects of our actions—is dying out with obvious individual losses under the
resigned eyes of the national legal community».
[151] De Oliveira, op. cit., p. 1101 s.
[153]
Il sito ufficiale della Commission on
European Family Law (CEFL) è il seguente: http://ceflonline.net/.
Sulla storia della creazione di tale commissione cfr. Boele-Woelki, The Principles of European Family Law: its
Aims and Prospects, in Utrecht Law
Review, 2005, p. 160 ss.; Cubeddu,
I contributi al diritto europeo della
famiglia, in Aa. Vv., Introduzione
al diritto della famiglia in Europa, a cura di Patti e Cubeddu, cit., p. 14
ss. Sul tema del lavoro svolto dalla CEFL nell’elaborazione di principi in tema
di divorzio cfr. Boele-Woelki, Ferrand,
González Beilfuss, Jänterä-Jareborg, Lowe, Martiny, Pintens, Principles of European Family Law Regarding
Divorce and Maintenance Between former Spouses, Antwerp-Oxford, 2004, passim. Da notare, ancora, che il sito
della CEFL contiene una ricchissima banca dati di rapporti nazionali sul
divorzio nei vari Paesi UE: http://ceflonline.net/divorce-maintenance-reports-by-jurisdiction/.
Un’altra interessante e completa raccolta di rapporti nazionali sul tema è
rinvenibile in http://idcel.univ-lyon3.fr/fileadmin/medias/Documents_IDCEL/IDCEL-La_rupture_du_mariage_en_droit_compare__-2015.pdf.
[154] Per un’illustrazione
comparativa si fa rinvio per tutti a Oberto,
La comunione legale tra coniugi, I,
cit., p. 849 ss.
[155] V. supra, in questo stesso §.
[156]
Naturalmente stiamo qui parlando di «fantadiritto eurounitario», posto che
tratterebbesi comunque di materia non attribuita, almeno per i prossimi…
cinquecento anni, agli organismi eurounitari.
[157] Cfr. il Principle 2:10 (3).
[158] Per una
critica al riguardo cfr. Oberto, Contratti prematrimoniali e accordi
preventivi sulla crisi coniugale, in Fam.
e dir., 2012, p. 89 s.
[159] La
preoccupazione viene condivisibilmente espressa da Marella, op. cit.,
p. 105.
[160] Cfr. Oberto, La comunione legale tra coniugi, I, cit., p. 59 ss.
[161]
Questo, a dire il vero, non è il parere di tutti gli Autori. Così, ad es., Dethloff, Arguments for the Unification and Harmonization of Family Law in Europe,
p. 51 ss., ritiene che la mera unificazione delle regole di conflitto
lascerebbe spazi liberi a «manovre» di una parte contro l’altra, quali ad
esempio un uso spregiudicato delle possibilità di forum shopping o, ancora, a effetti pregiudizievoli derivanti dal
mutamento della residenza abituale, posto che il diritto applicabile è a questa
connesso. Nulla peraltro, ad avviso di chi scrive, cui non possa porsi rimedio
tramite un’accorta conformazione delle norme di d.i.p., al fine di evitare che
la parte più «veloce» possa scegliersi il tribunale (e/o la legge sostanziale)
più «favorevole», magari anche predisponendo ex lege meccanismi di invariabilità degli effetti del mutamento di
residenza abituale sulla legge applicabile.
[162] Cfr. per
tutti Oberto, I patti prematrimoniali nel quadro del diritto europeo, cit., p.
800 ss.
[163] Oberto, I patti prematrimoniali nel quadro del diritto europeo, cit., p.
807 ss.
[165] Cfr. de Groot, Op weg naar een Europees personen- en
familierecht?, in Ars Aequi,
1995, vol. 44, no. 1, p. 32 ss.
[166] Cfr. Dethloff, Europäische Vereinheitlichung des
Familienrechts, in AcP, 2004, p.
544 ss.; Ead., Die Europäische Ehe. Ein optionales Modell
für transnationale Partnerschaften, in Beiträge
zur Rechtsgeschichte Österreichs, 2012, p. 138 ss.
[167] Cfr. l’ «Abkommen vom 4. Februar 2010 zwischen der
Bundesrepublik Deutschland und der Französischen Republik über den Güterstand
der Wahl-Zugewinngemeinschaft» (WZGA). L’accordo,
firmato il 4 febbraio 2010, è entrato in vigore il 1° maggio 2013, dopo essere
stato ratificato in Germania il 15 marzo 2012 e dalla Francia il 28 gennaio
2013 con leggi promulgate in quelle rispettive date. Sul tema cfr. per tutti Naudin,
Les instruments optionnels destinés à
régler les difficultés de la famille européenne, in Les petites affiches, 29 juin 2012, n. 130, p. 47 ss.; Meier-Bourdeau,
Le nouveau régime matrimonial
franco-allemand, in La semaine
juridique, 2013, p. 163 ss.
[168]
«Opzionale» sta qui ad indicare – lo si precisa a scanso di equivoci – la
necessità che la scelta derivi da un accordo chiaramente e formalmente espresso
da entrambi i coniugi, o dai nubendi (o, nel caso di unione civile, dai
civilmente uniti o unendi).
[171]
L’accordo franco-tedesco sul regime patrimoniale ha già ottenuto un primo,
innegabile, successo, nell’indicata ottica di «uniformazione mite» del diritto
di famiglia europeo. Esso, invero, ha visibilmente influenzato la riforma belga
dei regimi patrimoniali realizzata con legge del 22 luglio 2018, che ha
introdotto la possibilità di stemperare le «asprezze» del regime opzionale di
separazione dei beni mercé l’inserimento di una clausola di «participation aux
acquêts». Inserimento, questo, della cui possibilità i novelli coniugi belgi
dovranno essere edotti all’atto della stipula del contrat de mariage (così pure come della possibilità di prevedere
un’eventuale «correction judiciaire en équité» della convenzione matrimoniale,
nel caso dovessero manifestarsi, all’atto dello scioglimento del vincolo,
circostanze imprevedibili in grado di determinare conseguenze manifestamente
inique a carico di un coniuge). Sul tema v. per tutti Hesbois,
Epoux séparatistes et collaborations
économiques : quels sont les apports de la réforme des régimes matrimoniaux du
22 juillet 2018 quant au préjudice de carrière de l’un des époux ?, https://matheo.uliege.be/bitstream/2268.2/6924/4/TFE-M%C3%A9gane%20HESBOIS.pdf.