LA RISOLUZIONE PER MUTUO DISSENSO
DELLA CONVENZIONE DI SEPARAZIONE DEI BENI TRA CONIUGI
ED I RELATIVI EFFETTI.
DOPO LA «FUGA» È POSSIBILE UN RITORNO ALLA COMUNIONE LEGALE ? *
Sommario: 1. Introduzione. Natura
contrattuale delle convenzioni matrimoniali e risolubilità per mutuo
dissenso: impostazione del problema. – 2. Il mutuo
dissenso in generale e nei contratti ad efficacia reale. – 3.
Il mutuo dissenso con efficacia ex tunc
nelle convenzioni matrimoniali. – 4. La conferma sul
piano storico e comparato dei risultati circa l’ammissibilità del mutuo
dissenso nelle convenzioni matrimoniali. – 5. La forma
del mutuo dissenso che venga a risolvere con effetti retroattivi la scelta
del regime di separazione dei beni. I rapporti con i terzi. – 6.
Se la costituzione con effetti ex tunc
del regime legale costituisca liberalità indiretta o dia di per sé luogo a
liberalità indirette. Impostazione del problema. – 7. Segue. Il carattere «gratuito» del
coacquisto in comunione legale e i suoi rapporti con la liberalità indiretta.
– 8. Segue.
Esclusione della natura di liberalità indiretta (e della revocabilità)
dell’acquisto di un bene con denaro o utilità personali, senza l’impiego
degli accorgimenti previsti dall’art. 179, lett. f), e cpv. c.c. – 9. Segue. Sul
carattere di liberalità indiretta (e sulla revocabilità) di taluni acquisti
personali dei coniugi in comunione. – 10. La sorte
delle liberalità dirette e indirette poste in essere inter coniuges durante la vigenza del regime di separazione dei
beni cessato ex tunc per effetto
del mutuo dissenso. – 11. Segue. Lo spazio concesso all’autonomia privata in sede di
negozio di mutuo dissenso in ordine alla concreta determinazione della sorte delle liberalità dirette e indirette
poste in essere inter coniuges
durante la vigenza del regime di separazione dei beni cessato ex tunc per effetto del mutuo
dissenso. – 12. Conclusioni circa il carattere non
liberale degli arricchimenti determinati dalla risoluzione per mutuo dissenso
della convenzione di separazione dei beni. La funzione perequativa
dell’operazione negoziale in discorso. |
L’affermazione del
carattere contrattuale delle convenzioni matrimoniali costituisce argomento che
registra un amplissimo consenso tra gli interpreti [1]. Da tale punto di partenza discendono, come noto,
svariate conseguenze in tema di applicabilità – pur con gli adattamenti
richiesti dalla peculiarità delle situazioni che nascono nel contesto familiare
ed appaiono intimamente legate ad un negozio essenzialmente personale, quale il
matrimonio (e, oggi, pure l’unione civile) – di istituti quali la
rappresentanza (volontaria, così come legale), l’impugnabilità per vizi del
sinallagma contrattuale (vuoi genetico, vuoi funzionale), l’apponibilità di
elementi accidentali, quali la condizione o il termine [2].
Tali premesse
introducono alla questione circa la possibilità di applicare alla convenzione
matrimoniale, qualunque essa concretamente sia, anche un qualche rimedio
negoziale che consenta alle parti di tornare, per così dire, sui propri passi,
mettendo nel nulla l’opzione per un regime, piuttosto che per un altro, a suo
tempo effettuata. Siffatta possibilità è, come noto, espressamente concessa ai
coniugi (e oggi anche ai civilmente uniti) dagli artt. 162, terzo comma, c.c. e
163 c.c. – cui fa ora eco pure il comma 54, l. 20 maggio 2016, n. 76, in merito
ai contratti di convivenza [3] – i quali permettono di stipulare e di modificare «in
ogni tempo» la convenzione matrimoniale eventualmente sottoscritta e, comunque,
il regime inizialmente prescelto (o subentrato ex lege): il tutto, peraltro, con efficacia ex nunc e, dunque, a decorrere dal momento della stipula della
nuova convenzione, laddove, per il pregresso, va considerato come valido ed efficace
l’assetto patrimoniale originariamente impresso dalla convenzione o dalla
legge.
Il tema che si intende
qui esplorare è, invece, quello della possibilità per i coniugi e civilmente
uniti di operare, anziché il passaggio ad un regime diverso, salvi gli effetti
fino a quel momento prodotti dal regime previgente, una risoluzione retroattiva
per mutuo dissenso dell’intesa contenuta nella convenzione a suo tempo
sottoscritta. In altri termini, si vuole qui concretamente alludere alla
possibilità di cancellare con efficacia ex
tunc – mercé la stipula di un accordo intervenuto in un momento qualsiasi
della vita di coppia – ogni effetto prodotto dalla convenzione originariamente
stipulata, la quale andrà pertanto considerata tamquam non esset.
E’ evidente che il
riconoscimento dell’ammissibilità di un siffatto negozio permetterebbe ai
coniugi o civilmente uniti che avessero (conformemente a quanto ormai accade
per la stragrande maggioranza delle nuove coppie) optato per il regime di
separazione dei beni, di «riscrivere» sin ab
initio la storia patrimoniale del loro rapporto, semplicemente decidendo di
far venire retroattivamente meno gli effetti di quella originaria decisione.
Ulteriore quesito,
intimamente legato alla risposta affermativa a questo interrogativo, è quello
della valutazione in termini di liberalità indiretta degli effetti positivi che
siffatto accordo dispiega nel patrimonio del coniuge che viene, in virtù di
questa intesa, a ricevere una serie di incrementi patrimoniali conseguenti
all’applicazione retroattiva del principio del coacquisto automatico ai sensi
dell’art. 177 c.c. Tale dubbio appare poi connesso ad una serie di questioni
legate alla sorte di varie categorie di acquisti che i coniugi possono aver
effettuato durante il periodo precedente a quello dell’espressione del mutuo
dissenso, con le relative conseguenze in punto rapporti con i terzi aventi
causa e creditori.
Procedendo con ordine,
sarà pertanto opportuno iniziare a verificare l’ammissibilità del mutuo
dissenso in discorso, per trattare poi della forma attraverso cui lo stesso può
essere attuato e delle relative conseguenze, in relazione ai vari rapporti
intessuti tra le parti del rapporto coniugale (o di unione civile) e con i
terzi.
2. Il mutuo
dissenso in generale e nei contratti ad efficacia reale.
Per «mutuo dissenso» si intende l’accordo con il quale
le parti di un contratto precedentemente stipulato decidono di risolverlo
consensualmente. La figura è richiamata espressamente dal codice civile: in
particolare dall’art. 1321, considerato nella parte in cui riferisce l’accordo
contrattuale all’estinzione di un rapporto giuridico avente carattere
patrimoniale, e dall’art. 1372, che menziona il «mutuo consenso», quale causa,
per l’appunto, di scioglimento del contratto, con espressione da molti ritenuta
impropria, in quanto riferita al contratto, anziché agli effetti dallo stesso
prodotti ed ai rapporti giuridici dal medesimo inter partes instaurati [4]. Quel codicistico «mutuo consenso», dal canto suo, è
oggi più generalmente conosciuto – per effetto di un suggestivo «gioco degli
opposti» [5] – quale «mutuo dissenso» [6]: espressione, questa, utilizzata proprio per definire
quel particolare tipo di negozio posto in essere ai sensi dei citati artt. 1372
e 1321 c.c., che trova nell’estinzione di un pregresso rapporto contrattuale la
sua funzione e dunque la sua causa, che in tal senso può dirsi tipica [7].
Secondo l’opinione oggi prevalente, con il mutuo
dissenso si può risolvere un precedente rapporto contrattuale con efficacia ex nunc (ovvero a partire da quando è
concluso il mutuo dissenso), oppure ex
tunc (vale a dire sin da quando il precedente contratto era stato posto in
essere), sulla base della volontà delle parti, purché l’effetto ex nunc non sia imposto dalla natura
stessa del contratto che si va a sciogliere (ad esempio, un contratto di lavoro
subordinato in corso di esecuzione: sul punto v. anche l’art. 1373 c.c.) [8]. Poiché, come si dirà, nella specie si reputa
ammissibile, anche con riguardo alle convenzioni matrimoniali, la seconda
soluzione – posto che la risoluzione ex
nunc forma comunque oggetto di apposite e distinte norme (i già citati
artt. 162 cpv. e 163 c.c.) – il richiamo al mutuo dissenso nel presente studio
andrà inteso come riferito proprio e solo alla possibilità di determinare uno
scioglimento con decorrenza ex tunc.
Ciò premesso, il principale problema che ha affaticato
a lungo gli interpreti attiene alla possibilità di configurare un mutuo
dissenso (con effetto retroattivo) anche in relazione ad un contratto ad
effetti reali che si siano già interamente prodotti. Al riguardo si è fatto
notare [9] che, in dottrina, dopo aver affermato la descritta
natura di contratto autonomo del mutuo dissenso [10], si è largamente sostenuta la tesi per cui questo
contratto funzionale allo scioglimento di un precedente rapporto convenzionale
sarebbe in realtà un accordo negoziale risolutorio [11]. Ora, questa nozione di mutuo dissenso come negozio
risolutorio è servita soprattutto per sostenere la sua naturale efficacia
retroattiva in virtù dell’applicazione, anche ad esso, dell’art. 1458 c.c. che
– come noto – prevede proprio l’ontologica efficacia retroattiva della
risoluzione [12]; tale idea dell’efficacia naturalmente ex tunc del
mutuo dissenso appare determinante ai fini di ammettere l’applicabilità
dell’istituto anche ai contratti che abbiano già prodotto i propri effetti
reali.
A questo riguardo, infatti, si è autorevolmente
sostenuto che se le parti di una donazione o di una compravendita che abbiano
già posto in essere il trasferimento del diritto reale al quale sono
finalizzate stipulano in seguito un correlato contratto di mutuo dissenso,
necessariamente lo fanno per ripristinare lo status quo ante alla donazione od alla compravendita
medesime: pertanto, se questo è lo scopo pratico perseguito, una rimozione non
retroattiva del rapporto contrattuale è definita come «inconcepibile» [13], in quanto di questo intento non realizzativa e –
anzi – addirittura ostativa. In senso almeno parzialmente contrario si è
osservato che le parti del mutuo dissenso possono prevedere una sua efficacia
retroattiva solo se il tipo e la natura del rapporto da sciogliere lo
consentano, data la presenza di rapporti contrattuali che difficilmente si prestano
ad essere estinti ex tunc, come
quelli di durata [14].
Inutile dire, peraltro, che quest’ultimo rilievo non
serve a scalfire l’idea della retroattività della risoluzione dell’effetto reale,
posto che proprio tale effetto, per definizione, non si sostanzia in un
rapporto di durata, ma si opera in un istante, la cui «durata» non appare
neppure «cronologicamente» valutabile.
Ora, è vero che una parte della più risalente dottrina
[15], partendo dall’assunto per cui gli effetti negoziali
in tali casi si sono già totalmente prodotti, ritiene che detti effetti
sarebbero non rimuovibili con il mutuo dissenso, ma – al più – potrebbero
costituire oggetto di un apposito «contronegozio», che si sostanzia nelle
specie della «controdonazione» e della «retrovendita», grazie al quale si
andrebbe a realizzare una vicenda contrattuale antitetica ed opposta rispetto a
quella precedentemente posta in essere. Secondo quest’idea, cioè, occorrerebbe,
per rimuovere gli effetti reali già prodottisi, un contrarius actus, in cui colui che era avente
causa nel pregresso rapporto contrattuale (dunque il compratore o il donatario)
assume nella presente e nuova relazione negoziale la veste opposta di dante
causa, ritrasferendo così quanto ricevuto a colui che nel vecchio contesto
convenzionale ricopriva il ruolo di venditore o donante. In questa concezione,
dunque, al mutuo dissenso sarebbe inibito di incidere su effetti reali ormai
prodottisi e, qualora i soggetti della convenzione che li ha determinati per
loro motivi li ritengano non più conformi ai propri interessi economici,
avrebbero l’unica possibilità di dar vita ad una «controvicenda», cioè ad un
nuovo contratto che abbia l’effetto di ricondurre nella sfera giuridica del
dante causa i diritti che in virtù del pregresso negozio erano stati trasferiti
all’avente causa.
Assai più convincente appare, invece, la più moderna
tesi che ritiene del tutto riferibile l’impiego del mutuo dissenso ad ogni
convenzione con efficacia traslativa, col solo limite della tutela dei terzi.
Questa dottrina – accolta, tra l’altro, dalla giurisprudenza di legittimità [16] – predica, dunque, che anche siffatti contratti
possano essere «cancellati» con efficacia retroattiva per il tramite di un mutuo
dissenso inteso come contratto con autonoma causa estintiva, risolutorio ed
eliminativo della pregressa relazione negoziale, con l’ulteriore precisazione
secondo cui, in forza di esso, sorgono per le sue parti obbligazioni
restitutorie, funzionali ad un integrale ripristino della situazione
antecedente all’effetto traslativo verificatosi e che si vuole, appunto,
cancellare. Condivisibilmente, coloro che sostengono questa tesi si basano
sull’assunto a tenore del quale le parti del mutuo dissenso riferito a
contratti con effetti reali prodottisi non vogliono disporre nuovamente – come
avviene invece nell’ipotesi del «contronegozio» – ma vogliono al contrario
rimuovere l’originario atto di disposizione ed i suoi effetti [17].
Si argomenta persuasivamente, inoltre, che la
possibilità di utilizzare il mutuo dissenso anche rispetto alle convenzioni con
effetti reali già determinatisi si ricava anche dal dettato normativo, il
quale, agli artt. 1321 e 1372 c.c., menziona il mutuo dissenso senza alcuna
distinzione, in merito alla sua praticabilità, tra contratti ad effetti reali e
contratti ad effetti obbligatori, con la conseguenza logica che anche rispetto
ai primi non potrebbe ravvisarsi un’espressa preclusione normativa che limita
l’applicabilità dell’istituto [18]. Alcuni indici positivi favorevoli alla concezione
propugnata si rinvengono poi ulteriormente, secondo questa condivisibile
dottrina, nell’art. 1458 c.c. (letto come riferibile pure al mutuo dissenso
inteso come accordo risolutorio) e nell’art. 2655 c.c., il quale al primo comma
stabilisce che l’inefficacia di un contratto trascritto che derivi da
invalidità, risoluzione, rescissione, vittorioso esperimento dell’azione
revocatoria o da avverarsi della condizione risolutiva vada pubblicizzata
mediante annotazione a margine della trascrizione od iscrizione dell’atto della
cui inefficacia si discute [19].
Non convincenti appaiono le obiezioni che si sono
mosse al riguardo [20], circa una presunta impossibilità di un mutuo
dissenso per contratti i cui effetti reali si siano già integralmente prodotti,
«perché in tali casi il rapporto si è fisiologicamente esaurito e dunque è già
sciolto ex se: ammettere infatti
l’utilizzabilità del mutuo dissenso rispetto a contratti che abbiano già
determinato la modifica reale cui sono funzionalmente rivolti significa farlo
incidere non sul rapporto ma sulla fonte da cui esso scaturisce ovvero (…)
sull’atto e sui suoi effetti» [21]. A ben vedere, infatti, è alle parti ed alle parti
sole che compete stabilire, in base ai principi di libertà contrattuale che
governano il nostro ordinamento, cosa si è esaurito e cosa no. Le parti sono
«signore» degli effetti reali di un negozio, come appare desumibile dall’art.
1376 c.c. Come i contraenti ben possono rinunziare agli effetti reali naturaliter prodotti dal contratto,
dando vita ad un mero impegno obbligatorio a trasferire, così possono far
venire questi meno, una volta che gli stessi si siano prodotti.
E che dire, poi, della possibilità di «annullare»
(retroattivamente!) gli effetti stessi, mercé la (pacificamente ammissibile)
apponibilità di una condizione risolutiva? Proprio tale esempio dimostra come,
ai fini in discorso, non abbia senso distinguere tra effetti «integralmente
prodotti» ed effetti «non integralmente prodotti», così come tra risoluzione
che colpisce il titolo negoziale e risoluzione che ne colpisce i soli effetti.
Gli effetti del contratto oggetto di mutuo dissenso sono travolti dal mutuo
dissenso esattamente come accade allorquando si realizza una condizione
risolutiva (cfr. art. 1360 c.c.): in entrambe le situazioni, infatti, il
relativo titolo negoziale non risulta colpito, come accadrebbe, invece, nelle
ipotesi di annullamento o di nullità, che per definizione colpiscono il titolo
negoziale quando è viziato e non il rapporto (e che, peraltro, non sono
disponibili convenzionalmente).
Nel caso del mutuo dissenso ad efficacia retroattiva,
il titolo negoziale, sebbene non direttamente colpito, non appare più idoneo a
produrre gli effetti che pur aveva medio
tempore generato: e ciò, per l’appunto, per effetto del concretizzarsi di
una previsione legata alla volontà sovrana delle parti, esattamente come accade
allorquando si avvera una condizione risolutiva. Questo elemento accidentale è,
come noto, rimesso nella piena disponibilità delle parti (anche per ciò che
attiene alla retroattività degli effetti: cfr. art. 1360 cit.), per cui non si
vede per quale motivo, se i contraenti possono ab initio prevedere la cessazione retroattiva degli effetti di un
negozio, essi non possono concordemente decidere, a posteriori, che siffatti effetti debbano ritenersi non prodotti,
esattamente come se avessero predeterminato tale conseguenza.
3. Il mutuo
dissenso con efficacia ex tunc nelle convenzioni matrimoniali.
Le
considerazioni di cui sopra conducono alla soluzione del quesito posto
all’inizio del presente studio. Quesito, a dire il vero, assai poco studiato
dalla dottrina, che si è sino ad oggi prevalentemente occupata del mutuo
dissenso rispetto alla convenzione costitutiva del fondo patrimoniale,
nell’ottica, però, esclusivamente rivolta ad analizzare la possibilità di uno
scioglimento convenzionale con effetti ex
nunc. Al riguardo, in assenza di un’apposita norma di contenuto analogo a
quanto stabilito dall’art. 191 c.c. per la comunione legale, molti dubitano
della possibilità di eliminare il fondo mediante la stipula di una nuova
convenzione; il fondo potrebbe, a loro avviso, essere solo «esaurito», per
effetto dell’alienazione dei beni che lo costituiscono [22]. Si è però obiettato che l’art. 171 c.c. non sembra
derogare alla generale previsione di cui all’art. 163 c.c., con conseguente
possibilità, nel caso di costituzione del fondo a mezzo di convenzione
matrimoniale, di una modifica della medesima, o addirittura di una sua
risoluzione consensuale, nel rispetto delle prescrizioni formali dell’art. ult.
cit. [23].
Proprio
questa soluzione, senz’altro preferibile, alla luce della normativa citata,
esalta l’autonomia contrattuale dei coniugi anche in tale settore [24] e, in qualche modo, viene a fornire un’ulteriore
pezza d’appoggio alla tesi che si intende qui dimostrare, anche se – appare
opportuno ribadirlo ancora una volta – l’argomento affrontato in questa sede
attiene al mutuo dissenso cui le parti intendano attribuire effetti retroattivi.
Se è dunque vero, come dimostrato nel § precedente,
che il carattere reale degli effetti di un negozio e il suo totale esaurimento
non sono d’ostacolo alla configurabilità della risoluzione per mutuo dissenso
con effetti ex tunc, deve innanzi
tutto concludersi che nulla osta a che questo tipo di risoluzione operi anche
con riguardo al caso delle convenzioni matrimoniali, le quali, come noto,
consistono (anche se non necessariamente sempre) in atti definibili e definiti
come «programmatici» [25].
La considerazione dell’eventuale presenza di
convenzioni matrimoniali dispositive (o con effetti almeno in parte
dispositivi), ovvero comunque attinenti a diritti già sorti su beni già
esistenti nel patrimonio dell’uno e/o dell’altro – quali, ad esempio, la
comunione convenzionale su beni di cui i coniugi già sono titolari
individualmente, così come la costituzione del fondo patrimoniale [26] – non sposta di un millimetro la soluzione sopra
indicata, per i motivi esposti nel § precedente. E dunque l’eventuale
costituzione o traslazione di diritti su qualsiasi tipo di bene, quale effetto
diretto della convenzione matrimoniale, dovrà considerarsi posta nel nulla nel
caso di mutuo dissenso che venga a colpire ex
tunc la convenzione matrimoniale predetta.
Neppure sembra possibile trarre argomenti negativi
dalla presunta inapplicabilità del mutuo dissenso ai contratti di durata.
E’ noto che, al riguardo, una parte della dottrina
desume dall’art. 1373 c.c. l’irriferibilità dell’istituto qui in discorso ai
rapporti contrattuali che siano per loro natura destinati a durare nel tempo,
citandosi in proposito l’impossibilità, ad esempio, di restituire, in ipotesi
di mutuo dissenso riferite ad un contratto di locazione, il godimento in forza
di esso conseguito dal conduttore o la prestazione del lavoratore dipendente al
datore di lavoro, nel caso del rapporto di lavoro subordinato [27]. Ma la disposizione appena citata fa comunque
espressamente salva ogni possibile pattuizione contraria, così rendendo
evidente, ancora una volta, che la voluntas
contrahentium è sovrana anche nel determinare un effetto retroattivo in
relazione alle prestazioni «già eseguite o in corso di esecuzione» nel contesto
di un rapporto «a esecuzione continuata o periodica».
A ben vedere, per giunta, nei casi citati della
prestazione del locatore o del lavoratore subordinato, non è tanto il profilo
della durata a rendere normalmente impossibile una risoluzione con effetto ex tunc, bensì la natura intrinseca
della prestazione che di tali contratti forma oggetto: prestazione costituita
da un comportamento o comunque da un fatto che, secondo il noto brocardo, infectum fieri nequit. Così, tanto per
ipotizzare altre situazioni, il matrimonio o l’unione civile – a prescindere
dall’impossibilità di rivestire di idonea forma un mutuo dissenso per tali atti
e di coinvolgere, quindi, l’intervento dell’ufficiale dello stato civile – in
quanto negozi ad effetti eminentemente personali, non si presterebbero certo ad
alcuna forma di «riduzione in pristino», posto che lo status che ne è medio tempore
scaturito non appare certo suscettibile di restituzione. Così pure deve
ritenersi per il negozio di separazione consensuale o per quello che si pone
alla base del divorzio su domanda congiunta (o, il che è lo stesso, della
separazione o del divorzio che siano pronunziati nelle forme della negoziazione
assistita).
Ove, invece, il rapporto negoziale non generi alcun
nuovo status, né astringa i
contraenti ad un facere infungibile, ma
si limiti a disciplinare la sorte degli eventuali acquisti e a dettare le
regole di gestione del patrimonio da un certo regime governato (proprio come
accade nelle situazioni oggetto del presente studio), non può certo dirsi che
tale rapporto, pur se di durata, non si presti ad essere estinto con effetti
retroattivi.
Ciò vale in
primis per l’effetto reale del coacquisto ex lege proprio del regime legale, posto che l’eventuale cessazione
ex tunc della comunione altro non fa
se escludere sin dall’inizio l’operatività della regola del coacquisto
automatico, così consentendo di ritenere i beni in questione come, da sempre,
personali; discorso, questo, che merita peraltro una puntualizzazione con
riguardo, ovviamente, ai beni coacquistati in base ad una fattispecie
acquisitiva eventualmente comune ad entrambi (si pensi ad una compravendita
stipulata, ex latere emptoris, da
entrambi i coniugi, o ad all’usucapione di un fondo che sia il frutto di un
compossesso dei due membri della coppia), per cui la cessazione del regime
legale non influirà qui sulla titolarità comune, limitandosi ad instaurare
retroattivamente una situazione di comunione ordinaria.
Ma il principio di retroattività è applicabile anche
alle regole di gestione del patrimonio ad un certo regime soggetto. E’ evidente
che se, ad esempio, viene meno la comunione legale ex tunc, il coniuge eventualmente pretermesso in relazione ad un
atto di straordinaria amministrazione su di un cespite medio tempore acquistato dal partner
e «gestito» (o addirittura alienato) da quest’ultimo, non potrà esercitare i
rimedi previsti dall’art. 184 c.c. e, qualora questi fossero stati esercitati,
le relative domande non potrebbero più essere accolte, per il sopravvenuto
difetto di legittimazione ad agire, fermo restando, in base ai principi
generali, l’intoccabilità di un eventuale giudicato [28].
Se quanto sopra è vero, a maggior ragione i principi
enunciati si applicheranno al caso specifico qui in esame, vale a dire al mutuo
dissenso che viene a risolvere con effetti retroattivi la convenzione di
separazione dei beni. Ed invero, l’opzione per il regime separatista è rapporto
«di durata», nel senso che genera una situazione destinata a permanere nel
tempo, finché vive il matrimonio (o l’unione civile), ovvero sino al momento di
un mutamento di regime. Il suo effetto è però puramente, per quanto qui ci
riguarda, «negativo», nel senso che viene ad escludere un coinvolgimento del
coniuge negli acquisti operati e nella gestione del patrimonio creato in
costanza di unione. La risoluzione della convenzione instauratrice del regime
separatista, con effetto retroattivo, non comporta dunque la necessità di
restituire alcunché, determinando esclusivamente l’insorgere automatico di
situazioni di comunione in relazione a quegli acquisti (operati vuoi
congiuntamente, vuoi separatamente) che sarebbero ricaduti sotto il disposto
dell’art. 177, lett. a), c.c., qualora la coppia fosse stata assoggettata sin ab initio al regime legale.
La risoluzione riguarda, dunque, direttamente la
convenzione «programmatica» e solo indirettamente gli acquisti effettuati medio tempore, che divengono comuni (con
effetto ex tunc) in forza
dell’espandersi del meccanismo legale di coacquisto. In altre parole, il
trasferimento della proprietà della quota in comunione [29] a beneficio del coniuge non è operato dal negozio di
mutuo dissenso, ma è effetto del principio previsto dall’art. 177, lett. a),
c.c., che viene ad operare a far data dall’effettuazione di ogni singolo
acquisto operato in costanza di regime (regime, si ripete, considerato come
vigente dal momento della celebrazione delle nozze, secondo la regola di cui
all’art. 159 c.c.).
Se poi medio
tempore (e dunque ancora sotto la vigenza del regime di separazione) il
coniuge unico acquirente in regime di separazione (successivamente risolto ex tunc) avesse compiuto atti di
straordinaria amministrazione su cespiti destinati a divenire comuni, senza
(come appare scontato) munirsi del consenso dell’altro coniuge, va esclusa la
possibilità di esperire il rimedio dell’annullamento ai sensi dell’art. 184,
primo e secondo comma, c.c., per via dell’operare delle regole di opponibilità
ai terzi, che verranno in prosieguo illustrate [30]: è chiaro, infatti, che il mutuo dissenso non
potrebbe ricevere pubblicità prima dell’atto di straordinaria amministrazione,
proprio perché quest’ultimo risulta posto in essere, nel caso qui ipotizzato,
prima del negozio risolutorio.
Peraltro il ripristino retroattivo del regime legale
viene ad attribuire al coniuge pretermesso, verso l’altro coniuge, i rimedi
risarcitori che ordinariamente trovano applicazione ai sensi del terzo comma
dell’art. 184 c.c., o, comunque, in base alle ordinarie regole in tema di
illecito, cui può farsi riferimento allorquando, per una qualche ragione (ad
esempio, per prescrizione dell’azione di annullamento, o comunque per
inopponibilità del carattere comune al terzo subacquirente), il rimedio
dell’annullamento descritto dall’art. 184, primo e secondo comma, c.c. non può
entrare in funzione [31].
La
conferma della validità delle conclusioni sopra illustrate e dunque della piena
ammissibilità di un mutuo dissenso retroattivo che investa una convenzione
matrimoniale, viene, ancora una volta, dall’analisi storica e comparata della
disciplina dei rapporti patrimoniali della famiglia. Non è questa la sede per
trattare funditus del ruolo che il
principio di libertà contrattuale ha sempre svolto nelle convenzioni
matrimoniali [32]. Basterà ricordare qui come la tradizione
precodicistica francese abbia sempre enfatizzato l’appartenenza delle
convenzioni matrimoniali al genus contrattuale, con il conseguente
assoluto rilievo dei principi di autonomia privata [33].
I trattatisti dell’epoca, invero, sottolineavano
coralmente e a più riprese che tali negozi erano susceptibles de toute
sortes de stipulations en faveur des mariez, et des leurs descendans, con
la conseguenza che le parti avrebbero potuto faire entrer dans leurs
contrats toutes sortes de clauses, con l’unico limite qu’elles n’ayent
rien de contraire aux bonnes mœurs [34]. Quanto sopra era del resto codificato a chiare lettere
anche da alcune consuetudini locali [35], sovente citate dagli autori che, sul punto,
preferivano non ricorrere all’autorità delle fonti romane, sebbene in queste
ultime non facessero difetto passi favorevoli al riconoscimento di una vasta
autonomia alle parti dei pacta nuptialia. Una delle poche, cospicue,
eccezioni rispetto a questa lettura in chiave esclusivamente «gallicana» del
principio di libertà contrattuale nelle convenzioni matrimoniali era costituita
dal Domat, il quale, dopo aver rimarcato che i contratti di matrimonio non
avrebbero presentato alcuna differenza rispetto ai contratti tout court,
se non per via del fatto di essere sottoposti, quanto agli effetti, alla
condizione implicita di celebrazione delle nozze [36], rinveniva il fondamento dell’autonomia negoziale dei
contrats de mariage [37] in quella disposizione del codice giustinianeo [38] che alcuni secoli prima aveva indotto Bartolo ad
esclamare: «Omnia pacta dotalia, quae non sunt contra legem, serventur intacta»
[39].
Corale, poi, il commento dei
primi interpreti del Code Napoléon, i quali notavano che nelle
convenzioni matrimoniali «La liberté (…) peut tout ce qui n’est pas contre les
bonnes mœurs et les lois de la nature et de l’ordre public [40]», dal momento che la
legge «ne se contente même pas de laisser ici aux intéresses la liberté dont
ils jouiraient pour tout autre contrat pécuniaire; elle leur donne (…) une
latitude plus grande que partout ailleurs [41]: liberté entière dans
les conventions matrimoniales. Rien n’y est commandé par la loi, rien n’y est
défendu, que ce qui blesse l’ordre public ou les bonnes mœurs [42]». Una chiarissima eco di tali insegnamenti si coglie
ancora oggi nella dottrina d’Oltralpe, che continua a rimarcare come nelle
convenzioni matrimoniali la libertà negoziale sia più estesa rispetto a quella di
diritto comune, posto che «Par faveur pour le mariage, le législateur accepte
l’insertion dans un contrat de mariage de clauses qui, dans d’autres contrats,
seraient entachées de nullité» [43].
Orbene, proprio in quel clima culturale
maturò l’idea che elementi accidentali del negozio, quali la condizione e il
termine, con i connessi effetti retroattivi, ben possano accedere al contrat de mariage, così contribuendo a
realizzare per il meglio gli interessi dei coniugi nel caso concreto.
Già i primi commentatori del Code Napoléon si
erano posti l’interrogativo della possibilità di legare la vigenza di un dato
regime matrimoniale ad un termine – tanto finale che iniziale – o ad una
condizione – tanto sospensiva che risolutiva – concludendo per lo più, almeno per
quanto attiene alla condizione, in senso positivo [44], proprio sulla scorta del principio della libertà
contrattuale, già espresso da Pothier e dall’opinione pressoché unanime degli
studiosi del droit coutumier [45]. Del resto, le uniche perplessità prospettate in
Francia avevano riguardo al principio, allora imperante, dell’immutabilità
delle convenzioni matrimoniali [46], oltre che al disposto dell’art. 1399 del Code
Napoléon, che – sempre in vista del rafforzamento del principio
dell’immutabilità delle convenzioni matrimoniali – stabiliva nella sua versione
originale il divieto per le parti di prevedere una decorrenza dei regimi di
comunione legale e convenzionale da una data diversa da quella di celebrazione
delle nozze [47].
La più autorevole dottrina d’Oltralpe affermava,
peraltro, la perfetta compatibilità con il citato principio di immutabilità,
della possibile presenza di termini e/o condizioni, «dont l’arrivée aurait pour
résultat de substituer un nouveau régime» a quello scelto inizialmente dai
coniugi. Pertanto, nel caso di condizione risolutiva apposta al regime di
separazione dei beni si sarebbe considerata la coppia in comunione sin dalla
data di celebrazione delle nozze e si portava al riguardo l’esempio di due
futuri coniugi che, «déjà arrivés à un certain âge, se marient sous le régime
de séparation de biens, et stipulent qu’il y aura communauté entre eux, s’ils
ont des enfants (…). On ne voit guère ce que l’on peut opposer à la validité d’une telle
stipulation. Car, si la condition se réalise, elle effacera le premier régime
et le remplacera rétroactivement par la communauté. En fait, il n’y aura donc
jamais eu qu’un seul régime matrimonial qui sera, dans l’exemple choisi, soit
la séparation de biens, soit la communauté» [48].
Il meccanismo era ed è del resto perfettamente
analogo, nella sua specularità, a quello della nota e collaudata «clausola
alsaziana».
Tramite tale clause
alsacienne, invero, in base ad antica tradizione, le coppie che optano in
Francia per il regime di comunione universale possono stabilire che,
nell’ipotesi di scioglimento per divorzio, ognuno dei coniugi riprenderà gli
apporti alla comunione [49], con risultato pratico sicuramente commendevole [50]. La clausola, già ritenuta conforme al sistema del Code civil [51], ha ricevuto un ulteriore avallo dalla riforma
francese del 23 giugno 2006 (sulle successioni e liberalità), in vigore dal 1°
gennaio 2007, che ha introdotto un terzo comma all’art. 265 del Code, a
mente del quale «si le contrat de mariage le prévoit, les époux pourront
toujours reprendre les biens qu’ils auront apportés à la communauté» [52].
Nulla di nuovo sotto il sole, paradossalmente, neppure
per noi.
Ed invero, a titolo d’esempio, si potrà anche in
questa sede evocare la decisione resa nel 1612 dal Concistorium del Regno di Sicilia in applicazione delle
consuetudini di Messina, ove per determinati tipi di matrimonio (detti «alla
latina») vigeva un regime di comunione universale legale. La sentenza confermò
la validità della clausola del contratto matrimoniale che escludeva la
comunione «casu (quod absit) di separatione di matrimonio, tanto senza figli come
nati figli, & quelli morti in minori età, vel maiori ab intestato», stabilendo altresì che, in tale ultima
ipotesi, «detta sposa non possa disponere, nisi
tantum di unzi trenta». Si ammetteva, dunque, che quella che noi chiamiamo
oggi crisi coniugale potesse agire (in forza di apposita clausola eventualmente
inserita nei pacta nuptialia) quale
condizione risolutiva (con efficacia retroattiva) del regime di comunione
universale prescelto al momento della celebrazione delle nozze; nel caso in cui
invece i coniugi fossero vissuti «felici e contenti», sarebbero rimasti in
comunione e tale regime sarebbe venuto ad assumere una valenza sostanzialmente
parasuccessoria di garanzia del coniuge debole, in caso di predecesso
dell’altro [53].
All’attento osservatore non sarà sfuggito che
l’ipotesi della clausola alsaziana (o, se preferiamo… messinese) è
perfettamente speculare rispetto a quella del presente studio: là il regime
comunistico si considererà come mai instaurato in relazione ad una coppia che
pure l’aveva originariamente prescelto, laddove qui, con il mutuo dissenso in
questa sede proposto, si riterrà mai insorto il regime di separazione oggetto
dell’intesa che aveva accompagnato la celebrazione delle nozze. Il meccanismo è
peraltro, in entrambi i casi, esattamente identico: come nel primo dovrà
considerarsi la coppia soggetta sin ab
initio al regime di separazione dei beni, così nel secondo dovrà reputarsi
la coppia come entrata in regime di comunione dal momento della celebrazione
delle nozze, per via dell’operatività ex
tunc dell’effetto descritto dall’art. 159 c.c.
Inutile dire che il definitivo tramonto del secolare
principio dell’immutabilità dei patti nuziali (di origine non romanistica, ma
medioevale e sancito per l’ultima volta dagli artt. 1394 e 1395 Code Napoléon; 1384 c.c. 1865; 162 cpv.
c.c. 1942) – principio, quest’ultimo, che, come si è già rilevato in altre sedi
[54], era a sua volta storicamente collegato al divieto di
donazioni tra coniugi e, con questo, funzionalmente ordinato a quella
trasmissione «patrilineare indivisibile» dei patrimoni cui facevano anticamente
da contorno anche gli istituti del fedecommesso e del maggiorascato, nonché
l’esclusione del coniuge dal novero degli eredi [55] – non può che ulteriormente confermare l’assenza di
ostacoli normativi a quanto sopra esposto.
Cade, così, ogni possibile obiezione relativa alla
possibilità che i coniugi, con la previsione o comunque con la realizzazione di
nuove cause di cessazione di un regime patrimoniale (tra cui, appunto, il mutuo
dissenso), si attribuiscano la possibilità di un più agevole mutamento di
regime, eventualmente anche con effetto retroattivo.
Passando ora all’esame di alcune
questioni pratiche legate alla forma ed agli effetti del mutuo dissenso oggetto
del presente studio, va considerato che una possibile obiezione circa
l’ammissibilità di siffatto tipo di negozio potrebbe sorgere in relazione al
caso in cui i coniugi o i civilmente uniti si trovassero in regime di
separazione dei beni non già per effetto di una convenzione notarile, bensì
(come accade di fatto nella quasi totalità dei casi di questo genere) per via
della scelta operata dinanzi all’ufficiale dello stato civile (o al celebrante,
in caso di matrimonio concordatario) ai sensi dell’art. 162 cpv. c.c.
E’ noto, infatti, che per il mutuo dissenso è
generalmente richiesta la stessa forma necessaria per il perfezionamento
dell’originario negozio i cui effetti, per l’appunto, il mutuo dissenso vuole
porre nel nulla, in base ad un principio di simmetria riconosciuto in dottrina
e in giurisprudenza [56]. Se così stanno le cose, va però qui constatato che
non appare possibile, per ovvi motivi, una «ripetizione» del negozio giuridico
matrimoniale, in cui possa venirsi a collocare il citato contrario consenso
sugli effetti patrimoniali.
La soluzione del problema è agevole e va rinvenuta in
una duplice constatazione: di sostanza e di forma.
La prima consiste nel fatto che la «scelta» di cui
discorre l’art. 162 cpv. c.c. altro non è se non una convenzione matrimoniale [57], vale a dire null’altro se non un contratto per il
quale valgono, pari pari, tutte le considerazioni in tema di mutuo dissenso che
si sono venute sin qui sviluppando.
La constatazione sulla forma attinge invece alimento
dalla considerazione dei principi generali in tema di forma delle convenzioni
matrimoniali. Ed invero, il negozio contenente il mutuo dissenso sulla scelta
per il regime di separazione altro non è se non, a sua volta, una convenzione
matrimoniale, perché ha l’effetto di instaurare un regime divergente rispetto a
quello originariamente prescelto [58]. A nulla rileva che l’effetto di siffatto negozio sia
quello di instaurare il regime legale e non un regime convenzionale, perché il
regime legale nasce, sì, normalmente dalla legge, ma ben può sorgere, in
determinati casi, anche in base a convenzione, come comunemente ritenuto e
dimostrato in altra sede [59].
Non solo. Il negozio contenente il mutuo dissenso
sulla scelta per il regime di separazione costituisce, poi, una convenzione matrimoniale
atipica, poiché esso non rientra, come tale, in alcuno dei «modelli»
predisposti dagli artt. 167 ss. c.c., vale a dire dalla «parte speciale» delle
regole codicistiche a tale materia dedicate. Peraltro è noto che
l’ammissibilità di siffatto tipo d’intese è pacificamente affermata [60], per cui neppure tale constatazione sembra proporre
problemi di sorta.
Il mutuo dissenso di cui qui si discute – quale
convenzione matrimoniale atipica – dovrà quindi rispettare le condizioni di
forma prescritte dall’art. 162 c.c. [61].
E proprio questo articolo contiene in sé, almeno in
parte, la chiave per la soluzione dell’ulteriore e connesso problema dei
rapporti con i terzi.
Esattamente come nel caso della comunione «legale»
sorta dopo un periodo di separazione dei beni per effetto di apposita
convenzione, la comunione nata, qui, sì, ex
lege, e con effetti retroattivi, ma comunque quale portato di una
convenzione delle parti, sarà opponibile all’esterno sulla base della effettuazione
della pubblicità della convenzione sull’atto di matrimonio.
Ciò vuol dire che, ovviamente, il coniuge coacquirente
ex lege di un cespite immobiliare per
effetto della retroattività del regime legale instauratosi a seguito del mutuo
dissenso non potrà certo impugnare per annullamento ai sensi dell’art. 184,
primo e secondo comma, c.c. l’eventuale alienazione del cespite stesso operata medio tempore dal coniuge unico
acquirente ex contractu, in difetto
di compimento di idonea pubblicità della citata convenzione contenente
estrinsecazione del mutuo dissenso in merito all’originaria scelta del regime
separatizio.
Al riguardo, tentando di approfondire il discorso, va
aggiunto che le conclusioni sin qui svolte (e cioè: opponibilità legata alla
pubblicità mediante annotazione delle convenzioni matrimoniali sull’atto di
matrimonio o su quello di unione civile) risultano peraltro riferibili al solo
caso degli acquisti di beni immobili e mobili registrati operati dopo il
negozio di mutuo dissenso, atteso che il meccanismo pubblicitario disegnato
dall’art. 162 c.c. non sembra idoneo a rendere noto ai terzi l’effetto
retroattivo dell’accordo. Pensando al caso dell’acquisto effettuato da un
singolo coniuge, in regime di separazione, con trascrizione operata (come
ovvio) a suo solo favore, si deve quindi escludere che la successiva
annotazione della convenzione contenente il mutuo dissenso circa il negozio
genetico del regime separatizio possa valere a rendere opponibile il carattere
(retroattivamente) comune del bene al terzo acquirente, anche se costui avesse
acquistato dopo l’annotazione della convenzione di mutuo dissenso. Considerato
il modo in cui il sistema pubblicitario descritto dall’art. 162 c.c. è
strutturato, appare, invero, difficilmente immaginabile, in concreto,
un’annotazione sull’atto di matrimonio (o di unione civile) che dia
espressamente conto dell’effetto retroattivo operato dalla convenzione di mutuo
dissenso, non rientrando tale indicazione tra quelle richieste ai fini
dell’opponibilità ai terzi dall’art. cit. [62]. La consultazione incrociata dell’atto di matrimonio
e dei registri immobiliari, in altri termini, continuerebbe ad indicare che un
acquisto immobiliare è stato operato in costanza di regime di separazione, che
il terzo potrebbe essere autorizzato a ritenere non travolto retroattivamente
(ma solo con effetti ex nunc) dalla
successiva convenzione ricostitutiva del regime legale.
Al fine di ovviare all’inconveniente sarebbe forse
prospettabile il ricorso alla – in altra sede prospettata – teoria
dell’equipollenza (o meglio: alternatività, o carattere reciprocamente
«integrativo») tra annotazione e trascrizione [63], immaginando, pertanto, una pubblicità del mutuo
dissenso ex art. 2655 c.c. [64], in relazione ad una convenzione di separazione a suo
tempo trascritta ai sensi dell’art. 2647 c.c. [65]. Operando in tal modo (annotazione del mutuo dissenso
in margine alla trascrizione della convenzione matrimoniale), ai terzi
diverrebbe opponibile il carattere comune non solo dei beni acquistati dopo il
detto negozio, bensì anche di quelli acquisiti in precedenza sotto il vigore
del regime separatizio, retroattivamente travolto dal mutuo dissenso.
Naturalmente, in base ai principi generali in tema di pubblicità,
l’opponibilità anche di questo effetto retroattivo potrebbe aversi solo in
relazione a quei terzi che vantassero diritti in base ad atti soggetti a
trascrizione e trascritti dopo l’effettuazione della annotazione operata in
base al citato art. 2655 c.c. della risoluzione retroattiva della convenzione,
a suo tempo trascritta ai sensi dell’art. 2647 c.c. [66].
In ogni caso, una soluzione «tuzioristica» per il
coniuge coacquirente ex lege
consisterebbe nella trascrizione di un negozio di accertamento del carattere
comune dei singoli beni o, in alternativa, in caso di disaccordo, nella
pubblicità della domanda giudiziale diretta all’accertamento del carattere
comune dei vari beni che si trovino nella citata situazione.
Andrà però ancora aggiunto che, come già esplicitato,
l’eventuale impossibilità di recuperare il bene presso il terzo acquirente apre
la via ai rimedi risarcitori descritti dall’art. 184, terzo comma, c.c., oltre
che dai generali principi in materia di illecito [67] e lo stesso vale, naturalmente, nell’ipotesi in cui
il contratto con il terzo trasferisca o costituisca diritti reali su beni
mobili (non iscritti in pubblici registri), laddove il patto risolutorio non
sarà mai opponibile all’avente causa, come appare del resto desumibile dal
citato terzo comma dell’art. 184 c.c., essendo solo applicabile una tutela
risarcitoria nelle relazioni interne tra i coniugi.
Per ciò che attiene, poi, ai rapporti con i terzi
creditori, si potrebbe anche ipotizzare la possibilità – accogliendo il
suggerimento proposto in merito alla soluzione dei complessi problemi posti
dagli aspetti pubblicitari dei regimi matrimoniali [68] – che terzi eventualmente interessati a dimostrare il
carattere comune dei beni acquistati dopo l’intervento di una causa di
scioglimento con effetti retroattivi del regime separatizio (si pensi ai
creditori c.d. «della comunione», ai sensi dell’art. 186 c.c.), siano
legittimati a far valere quest’ultima, ancorché eventualmente non
pubblicizzata. In realtà, come verrà spiegato in seguito [69], appare qui più congrua la soluzione che predica l’automatica
salvezza dei relativi diritti di tali creditori, in forza di un’estensione
analogica delle norme sui creditori dei coniugi in comunione convenzionale
(art. 211 c.c.) e in comunione legale «allargata» secondo i principi del
diritto transitorio della novella del 1975 (art. 228 cpv., l. 19 maggio 1975,
n. 151).
6. Se la
costituzione con effetti ex tunc del regime legale costituisca liberalità
indiretta o dia di per sé luogo a liberalità indirette. Impostazione del
problema.
Un problema che si pone quale possibile ricaduta della
tesi che ammette la risolubilità ex tunc
per mutuo dissenso della convenzione di separazione dei beni qui in esame
attiene alla eventualità che gli acquisti operati separatamente dai coniugi,
nel periodo di vigenza del regime di separazione dei beni, ma destinati a
formare oggetto del coacquisto automatico ex
art. 177, lett. a), c.c., per via del carattere retroattivo del negozio
risolutorio, determinino arricchimenti valutabili alla stregua di liberalità
indirette, con conseguente applicazione in sede successoria dei rimedi della
riunione fittizia, della collazione e della riduzione. Il quesito potrebbe
estendersi fino a coinvolgere l’operazione nel suo complesso, posto che ci si
potrebbe persino chiedere se la stessa decisione di risolvere retroattivamente
la convenzione di separazione (o la relativa scelta, operata in sede di
celebrazione delle nozze o di costituzione dell’unione civile) non sia
configurabile alla stregua di una liberalità indiretta in favore del coniuge che
ne risulti (in fin dei conti) «arricchito».
La questione sembrerebbe, almeno a tutta prima,
analoga a quella che si pone con riferimento al caso della stipula di una
convenzione costitutiva del regime di comunione convenzionale, nel quale le
parti pattuiscano il «conferimento» in comunione di uno o più beni di cui il
coniuge sia già titolare esclusivo. Qui, fermo restando che nella specie non è
certamente riscontrabile la presenza di una donazione diretta, posto che la translatio dominii trova la sua causa in
un ben preciso negozio tipico (art. 210 c.c.), va detto che, effettivamente, se
l’operazione viene effettuata animo
donandi, essa può, relativamente alla quota che viene a cadere nella
titolarità del coniuge, qualificarsi alla stregua di una liberalità indiretta [70].
Ma nella specie si verte in tema di comunione legale,
non già convenzionale: in effetti, una volta esercitato il mutuo dissenso in
relazione alla convenzione di separazione dei beni (o, il che è la stessa cosa,
con riguardo alla scelta espressa in sede di celebrazione delle nozze), i
coniugi (o civilmente uniti) vengono a trovarsi nella stessa posizione in cui
si troverebbero qualora non avessero mai optato per il regime convenzionale,
con conseguente applicazione diretta, ai sensi dell’art. 159 c.c., del disposto
degli artt. 177 ss. c.c.
Occorre dunque interrogarsi sui rapporti tra il
coacquisto automatico ex art. 177,
lett. a), c.c. e il meccanismo della liberalità indiretta.
Come noto, il coacquisto
automatico a beneficio del coniuge
non agente in regime di comunione dei beni si verifica a prescindere non solo
dal contributo fornito al ménage
familiare [71], ma anche da quello relativo all’acquisto in sé
considerato. In altri termini, è del tutto indifferente che il coniuge
coacquirente ex lege abbia o meno
versato parte del prezzo. Il dato può essere considerato (quasi) pacifico,
tanto in dottrina [72], che in giurisprudenza [73], pure escludendosi che l’art. 192 c.c. possa essere
invocato per riequilibrare, in sede di scioglimento della comunione legale,
attraverso il meccanismo dei rimborsi e delle restituzioni, il maggiore impegno
finanziario sostenuto da un coniuge rispetto all’altro ai fini dell’acquisto di
un bene in comunione legale [74]. Siffatta irrilevanza del contributo prestato (o non
prestato) dal coniuge coacquirente ex
lege non è però tale da consentire di ritenere tecnicamente il coacquisto
come effettuato a titolo gratuito. Non va infatti dimenticato che trattasi di
effetto legale e che, pertanto, l’aggettivo «gratuito» può qui avere una
valenza esclusivamente impropria [75].
Anche l’analisi comparata dimostra, del resto, che
«les avantages matrimoniaux que peuvent recueillir les époux, lors du partage
des biens dépendant du régime matrimonial, ne sont pas des libéralités entre
époux», nonostante il carattere «gratuito» (nel senso di «avvenuto in assenza
di corrispettivo») che tali attribuzioni patrimoniali mostrano per una delle
parti [76].
La questione appare, ovviamente, rilevante, in
relazione sia al quesito circa la revocabilità da parte dei creditori, sia al
tema degli effetti successori. Sul primo punto va innanzi tutto osservato, con
la migliore dottrina, che l’acquisto di un bene da parte di un coniuge, con
conseguente coacquisto automatico, può comunque risultare pregiudizievole per i
creditori comuni o per i creditori personali del coniuge. Per i primi ciò può
verificarsi se vengono utilizzate nell’acquisto risorse della comunione; per i
creditori personali, se dette risorse sono personali o comuni de residuo [77]. Si è posto dunque il problema dell’esperibilità
dell’azione revocatoria (ordinaria o fallimentare) da parte dei creditori che
risultino pregiudicati da tali atti di disposizione.
La soluzione è senz’altro positiva, per i creditori
pregiudicati dall’acquisto verso il terzo, in conformità alle regole generali,
se l’atto risulta lesivo in quanto depaupera il patrimonio del disponente, a
prescindere dalla caduta in comunione del bene (si pensi, ad esempio,
all’acquisto per un prezzo più elevato del valore del bene).
Ben diverso è il caso del pregiudizio subito dai
creditori (personali) per effetto proprio di detta caduta in comunione (cioè
del fenomeno del coacquisto ex art.
177, lett. a), c.c.), posto che tale pregiudizio non scaturisce da un atto di
autonomia del disponente, ma da un effetto voluto dalla legge. La questione
appare intimamente legata a quella qui in discussione, concernente la
possibilità di ravvisare nell’atto in questione, per l’appunto, una liberalità
indiretta.
Ora, la dottrina prevalente in materia di comunione
legale nega che l’acquisto ex art.
177, lett. a), c.c. di un bene con denaro comune, con l’assunzione di un debito
personale o con beni in comunione de
residuo possa considerarsi alla stregua di una donazione o, comunque, di
una liberalità (e come tale sia soggetto a collazione e revocabile come atto a
titolo gratuito). Come autorevolmente rilevato, il meccanismo predisposto
dall’art. 177, lett. a), c.c. esclude che si possa parlare in termini di
arricchimento o depauperamento di ciascuno dei coniugi, per effetto degli
acquisti che, sebbene «compiuti» da uno solo di essi, giovano ad entrambi.
Giustamente si è detto, in proposito, che ciascun acquisto a favore della
comunione non può essere valutato isolatamente, ma «si inserisce nel sistema di
attribuzioni potenzialmente reciproche proprio della comunione legale e trova
comunque giustificazione nel valore anche patrimoniale della reciproca collaborazione coniugale» [78]. In effetti, il beneficio ricavato dal coniuge
coacquirente ex lege, ma estraneo
all’atto di acquisto (e/o comunque al sacrificio economico che con tale
acquisto si scambia) è conseguenza non già di una qualche «liberalità» da parte
del coniuge agente, bensì di una volontà legislativa indirizzata a valutare i
redditi individuali conseguiti post
nuptias – sebbene lasciati nella esclusiva disponibilità del coniuge percettore
– come potenzialmente destinati a
favore della coppia, cosicché ogni acquisto realizzato utilizzandoli attualizza
quella forma di «destinazione» e non consente una qualifica in termini di
«arricchimento» dell’uno o dell’altro coniuge [79].
La questione è stata studiata soprattutto con riguardo
ai profili successori, ove si è osservato che, sulla base dei rilievi appena
svolti, non potendosi parlare né di donazione diretta, né di donazione
indiretta, il coniuge «beneficiario» del coacquisto non sarà tenuto ad
effettuare la collazione dell’ «arricchimento» così ricevuto [80].
Contro siffatta conclusione non vale obiettare che
l’incremento patrimoniale soggetto al conferimento ex art. 737 c.c. potrebbe essere anche il frutto di un’attribuzione
che si realizza «attraverso effetti legali», portandosi al riguardo l’esempio
del soggetto il quale consapevolmente lasci decorrere il termine di
prescrizione di un credito nei confronti di un suo eventuale legittimario [81]. Se è vero, infatti, che l’utilizzo di particolari
effetti legali ben può determinare, se posto in essere animo donandi, una liberalità indiretta, è altrettanto vero che la ratio delle norme che tali effetti
prevedono non è mai quella di determinare una ripartizione della ricchezza tra
soggetti legati tra di loro da una particolarissima situazione personale: si
pensi, ad esempio, proprio alla ragione per cui esiste un istituto quale quello
della prescrizione dei diritti di credito, volto ad assicurare una maggiore
certezza nei traffici giuridici e a sanzionare l’inerzia del creditore e non
certo ad attuare forme di redistribuzione di cespiti patrimoniali. In quei
casi, invero, l’eventuale (oltre che, sia consentito aggiungere, del tutto
eccezionale) effetto di donazione indiretta si produce proprio perché un
soggetto si avvale di tale effetto per perseguire una finalità (quella di
arricchimento del «donatario» indiretto) estranea alla ratio della disposizione di cui il disponente s’avvale per il
conseguimento di uno scopo diverso (nella specie, come detto, l’attribuzione di
un vantaggio patrimoniale al beneficiario).
Nella situazione qui in esame, relativa alla comunione
legale, tutto al contrario, è la volontà del legislatore a «fare premio», per
così dire, sugli intenti delle parti, tant’è vero che l’arricchimento del
coniuge si verificherebbe anche contro un eventuale diverso intento
dell’acquirente (nel caso di non sussistenza dei requisiti per l’acquisto
personale, ex art. 179 c.c.).
Per questa stessa ragione non può nemmeno ritenersi
oggetto di revoca l’effetto del coacquisto automatico, neppure intendendolo
come l’atto con il quale il coniuge destina i propri redditi all’acquisto [82]. La destinazione, come appena osservato, costituisce
un effetto della legge e non un atto del coniuge. La volontà che rileva è
quella dell’acquisto, non già quella di destinazione dello stesso alla
comunione, giacché quest’ultimo effetto si produce di diritto, anche contro la
volontà del coniuge acquirente. La volontà di attribuzione del bene alla
comunione è, quindi, a questi fini, irrilevante [83].
La conclusione cui sembra corretto pervenire è dunque
quella per cui né il mutuo dissenso in sé considerato, né le conseguenti
attribuzioni patrimoniali derivanti dall’operatività (retroattiva) del
meccanismo del coacquisto automatico, consentono di intravedere gli estremi
della liberalità indiretta in favore del coniuge (o civilmente unito) che
risulti, per effetto dell’operazione, «arricchito» rispetto alla situazione
patrimoniale precedente.
8. Segue. Esclusione della natura di liberalità
indiretta (e della revocabilità) dell’acquisto di un bene con denaro o utilità
personali, senza l’impiego degli accorgimenti previsti dall’art. 179, lett. f),
e cpv. c.c.
A diverse conclusioni, rispetto a quelle sopra
indicate, non sembra potersi pervenire neppure ove si ponga mente alla facoltà
che la legge attribuisce al coniuge di conservare il carattere personale dei
beni, mercé l’impiego degli accorgimenti previsti dall’art. 179, lett. f), e
(in relazione ai beni immobili o mobili registrati) cpv. c.c. [84]. E’ vero che, a tutta prima, si potrebbe essere
tentati di dire che, in questo caso, l’acquisto a favore della comunione
dipende meno dalla legge che dal comportamento omissivo dell’interessato. Anche
qui, peraltro, al fine di valutare se si possa parlare di una «liberalità»,
sotto forma di donazione indiretta, realizzata dal coniuge autore dell’atto, in
favore del partner, occorre
considerare che l’omissione della dichiarazione necessaria per escludere
l’acquisto dalla comunione potrebbe benissimo non dipendere da un intento
liberale, e neppure da una consapevole scelta, ma essere soltanto frutto di
semplice ignoranza, errore o negligenza.
Di conseguenza, anche a volersi porre nell’ottica (da
chi scrive non condivisa) della configurabilità, nella specie, di una donazione
indiretta [85], la disciplina in tema di liberalità andrebbe
comunque applicata solo nel caso di concreto accertamento dell’esistenza di un animus donandi [86]; elemento il cui positivo accertamento è richiesto
anche ai fini dell’assoggettabilità dell’atto a collazione, nonostante un
autorevole parere in senso contrario [87]. Infatti, il chiaro richiamo dell’art. 737 c.c. a ciò
che i figli e i loro discendenti ed il coniuge «hanno ricevuto dal defunto per
donazione direttamente o indirettamente» sembra porre in evidenza la necessaria
sussistenza, anche in questa ipotesi, dello spirito di liberalità, in assenza
del quale di «donazione» (anche solo indiretta) appare impossibile parlare.
Sicuramente, in tutte le altre fattispecie in cui l’applicazione di una data
norma presuppone l’accertamento di una liberalità indiretta (si pensi
all’ipotesi della revocabilità delle liberalità o della riducibilità di
disposizioni lesive della legittima), l’esistenza di un intento liberale
andrebbe comunque in concreto verificata [88].
Come si vedrà e ribadirà tra breve, però, la presenza
di una donazione indiretta non appare comunque mai ravvisabile nel caso in
esame.
La questione sin qui trattata dell’ascrivibilità di
acquisti in comunione alla categoria delle donazioni indirette assume rilievo
non solo con riferimento alla collazione, bensì anche in relazione alla
gratuità o meno degli atti di fronte ai creditori. Sulla base dei rilievi
appena addotti, infatti, svariati Autori, pur se con diverse sfumature [89], così come la giurisprudenza [90], ammettono l’esperibilità dell’azione revocatoria, da
parte dei creditori particolari del coniuge, contro (non già l’atto d’acquisto
dal terzo, ma) l’effetto della caduta in comunione dell’acquisto operato dal
coniuge [91], il quale non si avvalga, pur potendolo fare, del
diritto concessogli dall’art. 179, lett. f), c.c., qualora ricorrano le
condizioni di cui agli artt. 2901 c.c. ovvero, nel caso di fallimento, 64 l.
fall. Osserva sul punto la dottrina che, l’atto in questione produce l’effetto
di diminuire il patrimonio personale ed accrescere quello comune, senza che il
corrispettivo impiegato sia frutto di sacrifici comuni [92]. Nel caso in cui, secondo i parametri sopra
specificati, si dovessero rinvenire nel negozio gli estremi della liberalità
(indiretta), la revocatoria (ordinaria o fallimentare) dovrebbe dunque seguire
le regole relative agli atti a titolo gratuito, a prescindere dalla conoscenza
che l’altro coniuge abbia avuto del pregiudizio subito dai creditori particolari
del coniuge [93].
Contro le considerazioni sin qui esposte sia però
consentito svolgere una serie di rilievi critici.
In primo luogo andrà tenuto ben presente che il
problema di cui qui stiamo discutendo attiene al solo caso della mancata
conservazione del carattere personale di beni personali ex art. 179 c.c., mentre non tocca in alcun modo i beni destinati
alla comunione de residuo, che, come
si è visto in altra sede [94], non sono mai suscettibili di surrogazione, per cui
si rientra nelle considerazioni svolte poco sopra nel testo, con riguardo al
carattere ex lege dell’acquisto [95].
Per quanto riguarda invece gli acquisti il cui
carattere personale potrebbe essere fatto salvo, occorrerà tenere presente, in primis, che, se si dovesse seguire
l’opinione ormai prevalente in dottrina e giurisprudenza [96], secondo cui il carattere personale degli acquisti ex art. 179 cpv. c.c. sarebbe
inscindibilmente legato al consenso del coniuge «escluso» dall’acquisto,
risulterebbe allora assai difficile configurare la «rinunzia» del coniuge
acquirente a rendere personale un acquisto immobiliare alla stregua di un
arricchimento patrimoniale concesso animo
donandi all’altro coniuge, posto che quest’ultimo potrebbe in ogni momento
comunque bloccare l’operazione che il titolare delle risorse personali
intendesse eventualmente realizzare a proprio esclusivo vantaggio,
semplicemente astenendosi dal partecipare all’atto d’acquisto. In questo caso
il compimento dell’atto determinerebbe comunque la caduta del bene in comunione
e pertanto questo effetto potrebbe costituire, semplicemente, la prova del
fatto che il coniuge agente ha optato per il «male minore» (la caduta in
comunione del bene), rispetto al rischio di vedersi sfumare un buon affare. Da
quanto sopra sembra dunque potersi desumere che l’adesione alla tesi [97] che impone la presenza del coniuge non acquirente
all’atto di acquisto posto in essere dall’altro ex art. 179 cpv. c.c. appare comunque logicamente incompatibile con
la possibilità di configurare alla stregua di una donazione indiretta la caduta
in comunione di un immobile, pur ricorrendo gli estremi delle fattispecie ex art. 179, lett. c), d) o f) c.c. [98].
Ma, al di là della (e a prescindere dalla)
configurabilità alla stregua di liberalità indiretta della situazione qui in esame
[99] – cioè, lo si ripete, del caso in cui l’acquisto in
comunione sia effettuato con mezzi personali, senza l’applicazione del disposto
dell’art. 179, lett. f), e cpv. c.c. – va negata, contrariamente alla tesi
dominante, l’assoggettabilità a revocatoria dell’effetto del coacquisto
automatico.
Come sopra spiegato, infatti [100], è la volontà del legislatore a «fare premio» sugli
intenti delle parti. E’ il legislatore a volere la tendenziale «trasformazione»
del patrimonio personale in comune, non prevedendo un fenomeno di surrogazione
oggettiva ed automatica della natura personale del bene, ma vincolando
l’effetto conservativo della personalità del cespite ad una dichiarazione del
coniuge acquirente, sì che sembrerebbe, quanto meno, contraddittorio ritenere
revocabile quello che è null’altro se non uno dei profili più qualificanti del
sistema della comunione legale [101].
9. Segue. Sul carattere di liberalità indiretta (e
sulla revocabilità) di taluni acquisti personali dei coniugi in comunione.
L’esistenza di una liberalità indiretta (e la
revocabilità, da parte, questa volta, dei creditori della comunione, in
presenza, ovviamente, dei requisiti di legge per l’esperimento del rimedio a
tutela della garanzia patrimoniale), diversamente rispetto ai casi sopra
esaminati, potrebbe essere affermata in relazione ad un atto di rifiuto
preventivo di coacquisto, nel caso in cui i coniugi, di comune intesa,
volessero utilizzare denaro comune per un acquisto a vantaggio di uno solo di
essi. Non vi è dubbio che un atto di tale genere [102] potrebbe porre in essere una donazione indiretta da
parte del coniuge autore del rifiuto [103] e lo stesso dovrebbe dirsi per la fattispecie di
estromissione di beni dalla comunione, ad esclusivo vantaggio di uno solo dei
due coniugi.
Nessun dubbio dovrebbe sussistere, poi, sul carattere
di liberalità indiretta (così come sulla revocabilità da parte, dei creditori
dell’altro coniuge, in presenza, ovviamente, dei requisiti di legge per
l’esperimento del rimedio a tutela della garanzia patrimoniale) dell’acquisto
operato come personale da parte di un coniuge, con denaro o mezzi provenienti
dal patrimonio personale dell’altro, ovvero con denaro comune de residuo di quest’ultimo [104], in presenza, beninteso, dell’assenso da questi
prestato animo donandi al compimento
dell’operazione.
Lo stesso dovrebbe valere, quanto meno pro quota, per l’acquisto personale con
denaro in comunione immediata. Qui, però, la donazione indiretta deriverebbe
non tanto dall’impiego del denaro, quanto dall’eventuale rinunzia del coniuge
escluso dall’acquisto al diritto di avvalersi dei rimedi concessi dagli artt.
184, ult. cpv. e 192, primo comma, c.c. [105].
Tutte le operazioni in questo § descritte, di rilievo
statistico peraltro piuttosto marginale, non formerebbero comunque (per lo meno
ordinariamente) oggetto del negozio di mutuo dissenso qui in esame. Esse
presupporrebbero, in ogni caso, un’ulteriore e distinta manifestazione di
volontà negoziale, che potrebbe avvenire contestualmente al mutuo dissenso
ovvero, a seconda dell’intento delle parti, in un momento distinto. Il tema del
contenuto concreto del negozio di mutuo dissenso in ordine alla determinazione
della sorte di specifici acquisti verrà ulteriormente approfondito in seguito [106].
10. La sorte delle liberalità dirette e indirette
poste in essere inter
coniuges durante la vigenza del regime di
separazione dei beni cessato ex tunc
per effetto del mutuo dissenso.
Sin qui si è discusso del carattere donativo e liberale
(o meno) degli incrementi patrimoniali verificatisi a seguito dell’esercizio
del mutuo dissenso con effetti ex tunc
su una convenzione di separazione dei beni (o su di una scelta per tale regime)
in relazione agli acquisti medio tempore
compiuti di cespiti provenienti, per così dire, «dall’esterno» della coppia. In
altri termini, il quesito discusso dai §§ precedenti atteneva alla possibilità
(esclusa per la maggior parte delle ipotesi) di ascrivere alla categoria della
liberalità indiretta l’operazione in sé consistente nel determinare, mercé il
mutuo dissenso, una risoluzione con effetti retroattivi della convenzione di
separazione dei beni (o della scelta per tale regime).
Vale la pena ora interrogarsi sulla sorte delle
attribuzioni di carattere donativo e liberale eventualmente operate tra i
coniugi (o civilmente uniti) nel periodo anteriore al mutuo dissenso. V’è da
chiedersi, al riguardo, se la risoluzione per mutuo dissenso della originaria
convenzione di separazione con effetti ex
tunc, operi, in relazione a questi beni, una ricaduta in comunione, con
l’ulteriore effetto per cui questi atti dovrebbero rimanere del tutto estranei
a futuri obblighi di imputazione e collazione (oltre che giovarsi della
«disattivazione» dell’azione di riduzione, conseguente all’eventuale
disconoscimento del loro carattere liberale).
La soluzione appare relativamente piana per ciò che
attiene alle liberalità indirette (si pensi alla classica ipotesi del bene
acquistato da uno dei coniugi e pagato in tutto o in parte con denaro
dell’altro). Qui l’acquisto del singolo coniuge, in presenza delle condizioni
descritte dall’art. 177, lett. a), c.c., la cui operatività viene
retroattivamente determinata dal mutuo dissenso, va considerato come idoneo a
provocare la caduta dei diritti così acquisiti in comunione legale, secondo
quanto in precedenza detto [107].
Non sembra possibile obiettare a questa conclusione,
che, secondo l’avviso prevalente, anche le donazioni indirette, oltre a quelle
dirette, sono destinate ad essere escluse dal regime legale, ai sensi dell’art.
179, lett. b), c.c. [108]. In realtà, per le liberalità indirette, la regola
vale esclusivamente per i negozi attraverso cui si operi una liberalità
proveniente non già dall’altro coniuge, ma da un terzo (il padre che paga il
prezzo dell’alloggio comprato dalla figlia, coniugata in regime di comunione
legale). Nell’ambito dei trasferimenti di ricchezze tra coniugi (che formano,
per l’appunto, oggetto del presente §), invece, deve avere assoluta prevalenza
il già più volte citato principio secondo cui il regime legale opera a
prescindere dal contributo versato per l’acquisto, così come indipendentemente
dalla presenza di un qualsiasi concreto intento liberale dell’un membro della
coppia nei confronti dell’altro: il tutto in omaggio al principio ispiratore
della comunione legale, tendente alla parificazione della condizione delle
parti mediante la compartecipazione agli acquisti in costanza di regime a
qualunque titolo compiuti dall’uno e/o dall’altro [109].
Dunque, sembra potersi tranquillamente concludere, per
ciò che attiene alle liberalità indirette inter
coniuges, che i relativi beni, una volta instauratosi con effetti ex tunc il regime legale, ricadono sotto
quest’ultimo, purché sussistano, ovviamente, le condizioni descritte dall’art.
177, lett. a), c.c. (o dal capoverso di tale articolo).
Più complessa è la risposta per ciò che attiene ad
eventuali donazioni (artt. 782 ss. c.c.).
Qui occorre pensare al fatto che, pur in regime di
comunione sorto con efficacia ex tunc,
la regola di cui all’art. 177 c.c. trova eccezione nel disposto dell’art. 179,
lett. b), c.c. Principio, quest’ultimo, cui le donazioni al coniuge non portano
deroga [110]. Sembra quindi logico dedurre da quanto sopra che le
donazioni dirette effettuate inter coniuges
rimangano pienamente efficaci e l’acquisto così operato, pur manente communione (rectius: in una situazione di separazione dei beni successivamente
venuta meno con efficacia retroattiva), non comporti un coacquisto ex lege in capo all’altro coniuge (il
donante, nella specie).
Il problema è però quello di vedere come siffatta
regola (personalità dell’acquisto operato in costanza di regime legale a titolo
di donazione, ai sensi dell’art. 179, lett. b), c.c., anche se il donante è
l’altro coniuge) si coniughi con la titolarità del cespite (personale o pro quota in comunione legale) da parte
del donante.
Al fine di comprendere l’operatività del meccanismo
appena enunciato occorre collocarsi idealmente nel momento in cui (vigente il
regime di separazione) la donazione da un coniuge all’altro venne effettuata e
chiedersi se il cespite così donato sarebbe stato da considerarsi come
personale del donante, oppure comune, qualora il regime patrimoniale della
coppia fosse stato quello legale. In altre parole, l’attenzione va ora spostata
dal donatario al donante, al fine di comprendere quale avrebbe potuto essere la
natura del bene donato (personale o comune), al momento della donazione, se tra
i coniugi fosse stato vigente il regime legale.
Iniziamo con i beni personali (del donante).
Qui non vi è dubbio che, pur dando per presente ex tunc un regime di comunione,
l’eventuale riscontro della sussistenza di una qualunque delle situazioni
previste dall’art. 179, primo comma, c.c., induce a ritenere il bene (anche con
il … senno del poi) personale del donante: la donazione, investe, quindi il
bene (già personale del donante) nella sua totalità e tale (personale, questa
volta, però, del donatario) esso dovrà considerarsi, pur dopo il mutuo dissenso
(ed anzi, proprio in forza di questo). Il coniuge donatario ha acquistato, ex art. 179, lett. b), c.c., la
titolarità (personale) di un bene di cui optimo
iure l’altro era prima esclusivamente proprietario (personale), ai sensi di
una qualsiasi delle ipotesi descritte dal primo comma del citato art. 179 c.c.
Questo vuol dire, concretamente, che, ai fini
successori, in caso di predecesso del donante, il bene sarà interamente
coinvolto nelle operazioni di riunione fittizia, di collazione e di eventuale
riduzione [111].
Considerazioni parzialmente diverse vanno invece
svolte in merito alle ipotesi contemplate dal capoverso dell’art. 179 c.c. Si
pensi all’acquisto immobiliare effettuato da un solo coniuge durante il regime
di separazione dei beni ed alla successiva donazione di tale cespite all’altro.
Qui occorre tenere presente che, se è vero come è
vero, che la situazione in esame è pur sempre quella di una coppia che,
all’epoca dell’acquisto di quel bene (si sta parlando, naturalmente, del bene
che, acquistato da un solo coniuge in regime di separazione, è stato da questi
donato all’altro, laddove, successivamente a tali atti, le parti decidono di
risolvere ex tunc la convenzione di
separazione dei beni), era in regime di separazione, appare più che logico
ritenere che il coniuge acquirente (e futuro donante), pur trovandosi in una
situazione che lo avrebbe legittimato a porre in essere, al momento
dell’acquisto, gli accorgimenti previsti dal citato capoverso (si pensi al caso
«classico» dell’acquisto immobiliare con denaro personale dell’acquirente), ciò
non abbia fatto, non potendosi porre in questione in allora, neppure
astrattamente, il carattere personale del suo acquisto (proprio perché operato
in costanza di regime separatizio).
In questa fattispecie, dunque, il successivo mutuo
dissenso con efficacia retroattiva viene ad attrarre al regime legale anche
tale bene, proprio perché acquistato sotto il vigore dell’art. 177, lett. a),
c.c., senza il rispetto delle formalità prescritte dal capoverso dell’art. 179
c.c. La successiva donazione, da parte dell’acquirente in via esclusiva,
all’altro coniuge va, quindi, ritenuta configurare a posteriori donazione della sola quota in comunione legale nella
titolarità del donante, conformemente a quanto verrà tra brevissimo detto per i
beni in comunione legale oggetto di donazioni inter coniuges.
In definitiva, relativamente ai beni (a posteriori) personali, sembra
possibile concludere che – a parte l’ipotesi di cui alla lett. f) del primo
comma dell’art. 179 c.c., di cui si discute in nota – occorre procedere alla
distinzione seguente:
(a)
tutte le
fattispecie prese in esame dal primo comma della norma citata danno luogo, nel
caso di donazione dei relativi acquisti in periodo di separazione dei beni
retroattivamente travolto dal mutuo dissenso, a donazioni soggette, come tali,
a riunione fittizia, collazione e riduzione per l’intero.
(b)
Con riguardo
invece ai beni rientranti nel capoverso dell’art. cit., la donazione dovrà
intendersi relativa alla sola quota di pertinenza del donante; riunione fittizia,
collazione e riduzione concerneranno pertanto solo tale quota.
Conclusioni identiche a queste ultime vanno indicate
anche in relazione tutti i beni che, acquistati durante la vigenza del regime
convenzionale di separazione dei beni da parte di un solo coniuge, siano stati
successivamente donati all’altro, ma che sarebbero caduti in comunione legale
per effetto del meccanismo di coacquisto automatico descritto dall’art. 177,
lett. a), c.c. (oltre che dal capoverso del relativo articolo), se la convenzione
di separazione dei beni non fosse stata stipulata (o la scelta per tale regime
non fosse stata effettuata). Ed invero, pur a voler considerare tali beni
comuni, per effetto della retroattività del mutuo dissenso, potrà ben ritenersi
che l’atto di donazione dell’intero cespite in precedenza (ma già durante il
matrimonio) dal donante acquistato, valga comunque a trasferire all’altro
coniuge la quota in comunione legale allo stesso pertoccante, così realizzando
un’estromissione del bene dalla comunione, secondo quanto ammesso in dottrina.
Si ritiene infatti comunemente possibile la donazione
della quota di un coniuge all’altro [112], sia con riguardo alla quota sull’intera massa in
comunione, che con riferimento alla quota di contitolarità su singoli cespiti [113]. Il coacquisto, da parte del donante, della metà
della quota donata (per effetto dell’alienazione della quota dall’alienante
trasferita all’altro coniuge acquirente) è, infatti, comunque inibito
dall’applicazione della regola di cui all’art. 179, lett. b), c.c. Ne deriva
che il negozio produce l’effetto di estromettere dalla comunione i cespiti cui
esso si riferisce, sino al punto (nel caso di donazione dell’intera quota
sull’intero patrimonio comune) di «svuotare» del tutto la comunione stessa.
Ciononostante, questo negozio non potrà mai considerarsi alla stregua di un
atto (vietato, in quanto non compreso nell’elenco tassativo di cui all’art. 191
c.c.) di scioglimento del regime legale, che, come tale, continua a sussistere
e a determinare la sottoposizione al regime legale dei beni che verranno
successivamente acquisiti ex art.
177, lett. a), c.c.
Del resto, basti pensare al fatto che i coniugi ben
potrebbero, in ogni caso, procedere allo scioglimento convenzionale della
comunione, per poi donarsi – un attimo dopo – la quota in comunione ordinaria,
successivamente procedendo alla stipula di una convenzione ricostitutiva ex nunc del regime legale.
La questione, più in generale, è legata a quelle
dell’ammissibilità delle rinunzie preventive al coacquisto e degli atti di
estromissione di singoli beni dalla comunione [114]. L’indisponibilità della quota verso terzi (non
espressamente sancita da alcuna norma del vigente ordinamento) può desumersi
dalla constatazione secondo cui un negozio dispositivo di tal fatta verrebbe a
determinare l’ingresso in comunione di un terzo estraneo, con conseguente
cessazione del regime speciale (che non può sussistere se non tra i coniugi)
per un’ipotesi non prevista dall’art. 191 c.c. [115]. Se ciò è vero, è altrettanto vero che l’obiezione
non vale più nei rapporti tra coniugi, i quali in ogni momento possono –
ovviamente, se d’accordo – optare per il regime di separazione dei beni [116].
Ammissibile e valido sarà, dunque, ogni tipo di atto
dispositivo tra i coniugi della quota, tanto a titolo gratuito, che oneroso,
sia sulla quota nel suo complesso, che su singoli beni, con il risultato che il
compimento di questi atti porterà ad un’estromissione – vuoi dell’intero
patrimonio sino a quel momento già acquisito e vincolato alla comunione, vuoi
di singoli cespiti – dalla soggezione al regime di comunione legale [117].
Procedendo, pertanto, alla prospettazione delle
conclusioni del presente § dovrà osservarsi quanto segue, in relazione agli
atti liberali compiuti da un coniuge nei riguardi dell’altro durante la vigenza
del regime di separazione dei beni, venuto successivamente meno con effetti ex tunc.
(a)
Le liberalità
indirette inter coniuges determinano acquisti
da considerarsi in regime di comunione legale, con esclusione di ogni possibile
effetto concernente riunione fittizia, collazione e riduzione.
(b)
Le donazioni inter coniuges di beni personali (rectius: che tali sarebbero stati se tra
le parti fosse stato vigente il regime legale) ai sensi del primo comma
dell’art. 179 c.c. [118] tali restano, pur dopo la cessazione retroattiva del
regime di separazione; il bene sarà personale del donatario e in relazione ad
esso saranno applicabili, in sede successoria, gli istituti della riunione
fittizia, della collazione e della riduzione e ciò per l’intero valore dei beni
interessati;
(c)
Le donazioni inter coniuges di beni personali (rectius: che tali sarebbero stati se tra
le parti fosse stato vigente il regime legale) ai sensi del secondo comma
dell’art. 179 c.c. determinano gli stessi effetti di cui al precedente punto
(b) quanto all’estromissione del bene dalla comunione; il bene sarà personale
del donatario, in quanto estromesso dalla comunione, ma, a differenza di quanto
detto al punto (b), gli istituti della riunione fittizia, della collazione e
della riduzione saranno qui applicabili solo relativamente alla quota del
coniuge donante (50%), essendo l’altra quota già di pertinenza del donatario;
(d)
Le donazioni inter coniuges di beni della comunione
legale (rectius: che tali sarebbero
stati se tra le parti fosse stato vigente il regime legale) determinano gli
stessi effetti di cui al precedente punto (c); il bene sarà personale del
donatario, in quanto estromesso dalla comunione, ma gli istituti della riunione
fittizia, della collazione e della riduzione saranno applicabili solo
relativamente alla quota del coniuge donante (50%), essendo l’altra quota già
di pertinenza del donatario.
11. Segue. Lo spazio concesso all’autonomia privata
in sede di negozio di mutuo dissenso in ordine alla concreta determinazione
della sorte delle liberalità dirette e
indirette poste in essere inter coniuges
durante la vigenza del regime di separazione dei beni cessato ex tunc per effetto del mutuo dissenso.
Per concludere sul tema che forma precipuo oggetto del
precedente § dovrà considerarsi che la volontà dei coniugi, in sede di stipula
del mutuo dissenso, potrebbe prendere espressamente in considerazione l’una o
l’altra attribuzione patrimoniale concreta, determinandone, in un modo o
nell’altro, la sorte.
Se, infatti, è vero, come già detto, che, anche in
materia di retroattività degli effetti del mutuo dissenso, opera il principio
di autonomia negoziale [119], verrà comunque fatta salva la volontà contraria
delle parti, come pure stabilito dall’art. 1360 c.c. in materia di
retroattività degli effetti della condizione. In forza, dunque, di questo
principio di disponibilità dell’effetto di retroattività, appare opportuno
riconoscere la possibilità per i contraenti di modellare tale profilo in
relazione ai singoli cespiti in riferimento ai quali potrebbe porsi un problema
di accertamento della relativa sorte, con conseguenti difficoltà o dispute.
Così, tanto per portare un esempio, le parti potranno
espressamente dichiarare, nel negozio di mutuo dissenso, di continuare a
ritenere esclusi dalla comunione determinati beni, in relazione ai quali,
quindi, continuerà ad operare l’eventuale attribuzione donativa interamente a
vantaggio di uno di essi, con tutte le relative conseguenze in materia di
collazione, imputazione e riduzione.
Per converso, le stesse potrebbero invece sottoporre
al regime legale quei cespiti che neppure la retroattività dell’effetto
risolutorio proprio del mutuo dissenso varrebbe a rendere comuni. Quest’ultima
eventualità, peraltro, sarebbe simile alla situazione, a suo tempo descritta,
che si realizza mercé il conferimento in comunione convenzionale di beni
destinati a non cadere sotto il regime legale [120]. E in questo caso (ma solo in questo), ove
l’operazione fosse eseguita animo donandi,
potrebbero riscontrarsi gli estremi della liberalità indiretta, diversamente da
quanto si è visto normalmente accadere per effetto del mutuo dissenso oggetto
del presente studio.
Utile sarebbe, in siffatto contesto, anche la
redazione di una check-list di tutti
i beni, mobili e immobili, dei coniugi, da inserire nel negozio di mutuo
dissenso, in modo del tutto analogo a ciò che si raccomanda a coniugi e
conviventi, anche a prescindere da un mutamento di regime [121].
Alla luce dell’excursus
di cui sopra in merito alle (rare) situazioni nelle quali i meccanismi legati
al regime di comunione legale possono determinare arricchimenti qualificabili
alla stregua di liberalità indirette [122], con le relative conseguenze in merito ai rapporti
con i creditori ed i legittimari, appare chiaro come gli incrementi
patrimoniali prodotti dalla risoluzione per mutuo dissenso della convenzione di
separazione dei beni non possano (se non nelle eccezionali ipotesi sopra
delineate) ricondursi alla categoria citata. Esattamente come nel caso dei
coacquisti determinati da negozi in cui il prezzo viene corrisposto
esclusivamente (o prevalentemente) da uno solo dei coniugi, è la volontà della
legge a «far premio»: quella volontà che si pone quale ratio del regime di comunione, la quale consiste, per l’appunto, in
una compartecipazione «forfettaria» e «gratuita» (nel senso sopra precisato)
agli incrementi patrimoniali conseguiti dal coniuge nel periodo di operatività
del regime [123].
Naturalmente la questione è diversa se si pone sotto
esame, nell’ottica della tutela dei creditori personali dei coniugi, non già
l’arricchimento conseguente al dispiegarsi dell’effetto automatico, bensì
l’impoverimento determinato dal mutuo dissenso, in sé considerato, nei rapporti
con i creditori particolari del coniuge il cui patrimonio risulti (in tutto o
in parte) «dimidiato» per effetto dell’operatività retroattiva del regime
legale. In altre parole ci si può chiedere quali rimedi competano ai creditori
del coniuge (si pensi al coniuge imprenditore che, in costanza di regime di
separazione, ha realizzato una serie di incrementi patrimoniali cui il partner non ha partecipato) che, sino al
momento del mutuo dissenso, hanno fatto affidamento su di un patrimonio
personale che, proprio per effetto del citato negozio, può trovarsi ad essere
improvvisamente ridotto a metà.
La situazione appare qui analoga, per molti versi, a
quella che si poteva verificare a seguito della convenzione con la quale, per
effetto delle norme transitorie di cui alla novella del 1975, una coppia di
«vecchi» coniugi avesse convenuto che i beni acquistati anteriormente alla data
di entrata in vigore della riforma fossero assoggettati al regime della
comunione: situazione, questa, con riguardo alla quale l’art. 228 cpv., l. 19
maggio 1975, n. 151, stabiliva espressamente la salvezza dei «diritti dei
terzi», in modo del resto assai simile a quanto ordinariamente previsto
dall’art. 211 c.c. per il caso della comunione convenzionale [124].
Appare dunque ragionevole concludere sul punto nel
senso che, per applicazione di un principio generale espresso dalle citate
norme, esattamente come avveniva in quei casi sopra citati, i creditori
particolari del coniuge «impoverito» pro
quota dalla produzione degli effetti del muto dissenso, potranno continuare
a considerare come personali quei beni già personali, così evitando la
dimidiazione della garanzia patrimoniale generica loro offerta dal patrimonio
del coniuge debitore. Il tutto, dunque, a prescindere dall’accertamento della
presenza, o meno, di una liberalità.
Tornando al tema della liberalità
indiretta (irrilevante, come si è appena detto, per i creditori, ma che
potrebbe tornare in gioco, invece, ai fini successori) e alle conseguenze
derivanti dal fatto che nel presente studio se ne è, come detto, esclusa la
presenza in pressoché tutti gli aspetti legati al mutuo dissenso che investa la
convenzione di separazione dei beni (o la scelta per tale regime), vi è poi un
ulteriore punto su cui vale la pena riflettere, circa l’assenza di intento
liberale nel negozio di cui qui si discute.
Ed invero, la convenzione costitutiva di
un regime di comunione convenzionale tra due fidanzati o novelli sposi (o
civilmente uniti) ben potrebbe realizzare un intento liberale di arricchimento
del partner «povero», mercé
l’inserimento in comunione di beni destinati (ai sensi dell’art. 179 c.c.) a
rimanervi estranei [125]. Nel caso del mutuo dissenso ci troviamo, invece, di
fronte ad un’unione già (se ci si passa l’espressione) «collaudata», in cui l’operatività
ex tunc della regola del coacquisto –
che, novella araba fenice, risorge dalle ceneri della convenzione (o della
scelta) di separazione dei beni, «azzerata», magari a distanza di molti anni,
dal mutuo dissenso – assume una valenza
perequativa delle sorti patrimoniali dei membri della coppia, così venendo in
qualche modo a soddisfare, in tutto o in parte, quelle istanze di cui si sono
fatte portatrici le Sezioni Unite nella nota decisione del 2018 in materia di
determinazione dell’assegno divorzile [126].
Potrà ancora aggiungersi che la presenza di siffatto animus… (se ci si perdona il solecismo) peraequandi, dimostrazione evidente
dell’insussistenza – per la contradizion che nol consente – di un animus donandi, ben potrebbe essere
desunta, ad esempio, da un patto in vista di un futuro ed eventuale divorzio [127] nel quale i coniugi (o civilmente uniti) potrebbero
chiarire che l’espressione del mutuo dissenso in merito alla convenzione (a suo
tempo) costitutiva del regime di separazione viene a porsi in corrispondenza
biunivoca con la rinunzia, ora per allora, del partner «debole» ad un eventuale assegno postmatrimoniale [128].
La conclusione di questo studio porta quindi a fornire
un responso positivo circa l’interrogativo posto nel titolo, circa la piena
reversibilità di quella «fuga dalla comunione», che costituisce un vero e
proprio fenomeno di massa a partire, quanto meno, dagli anni Novanta dello
scorso secolo [129]. Essa viene anche a dare, come appena visto, una
risposta al problema della pianificazione di una soluzione consensuale in
relazione ad un’eventuale crisi del rapporto di coppia, collocando la
considerazione delle istanze perequative del coniuge debole nella sede loro
propria, vale a dire quella del regime legale, anziché in quella in cui una recente
(cronologicamente, sebbene assai antiquata nell’impostazione) giurisprudenza in
tema di assegno divorzile vorrebbe impropriamente confinarla [130].
(*) Lo scrivente esprime i più vivi ringraziamenti al
Prof. Michele Sesta, per il suggerimento dell’idea che sta alla base del
presente lavoro e per le preziose indicazioni fornite in merito all’elaborazione
dello scritto.
[1] Sulla natura contrattuale delle convenzioni matrimoniali cfr. Busnelli, voce Convenzione matrimoniale, in Enc. dir., X, Milano, 1962, p. 514; Oberto, I contratti della crisi coniugale, I, Milano, 1999, p. 136 ss.; Id., Contratto e famiglia, nel Trattato del contratto, a cura di Roppo, VI, Interferenze, a cura di Roppo, Milano, 2006, p. 147 ss. (ove si discute anche della riferibilità delle convenzioni matrimoniali alla categoria dei « contratti del diritto di famiglia »); Id., La comunione legale tra coniugi, nel Trattato di diritto civile e commerciale, già diretto da Cicu, Messineo e Mengoni, continuato da Schlesinger, Milano, 2010, II, p. 1669 ss., 1708 ss., 2110; Id., Del regime patrimoniale della famiglia. Disposizioni generali, Commento agli artt. 159, 160 e 161, nel Commentario del codice civile, diretto da E. Gabrielli, Della Famiglia, II Edizione, a cura di Di Rosa, artt. 74-230 ter, Torino, 2018, p. 1118 ss.; Ieva, Le convenzioni matrimoniali, nel Trattato di diritto di famiglia, diretto da Zatti, III, Regime patrimoniale della famiglia, Milano, 2002, p. 27 ss.; Autorino Stanzione, Autonomia negoziale e rapporti coniugali, in Rass. dir. civ., 2004, p. 8 ss.; Andrini, L’autonomia privata dei coniugi tra status e contratto. Le convenzioni coniugali, Torino, 2006, p. 7 s., 20 ss.
[2] Per un approfondimento di tali problemi specifici si fa rinvio a Oberto, Del regime patrimoniale della famiglia. Disposizioni generali, Commento agli artt. 159, 160 e 161, cit., p. 1121 ss.
[3] Per un commento a questa disposizione cfr. Oberto, La modifica del regime patrimoniale scelto nel contratto di convivenza,
in corso di stampa su Contratto e impresa,
2019; Id., I contratti di convivenza, Commento all’art. 1, commi 50-63, Legge
20 maggio 2016, n. 76, nel Codice
dell’unione civile e delle convivenze, a cura di Sesta, Milano, 2017, p.
1381 ss.
[4] in argomento Carpino,
Il mandato, la commissione e la spedizione, nel Trattato di
diritto privato, diretto da Bessone, XIV, I contratti speciali, Torino, 2008, p. 133 s.
[5] La felice espressione è di Galati, Mutuo dissenso e contratti ad effetti reali, http://www.treccani.it/magazine/diritto/approfondimenti/diritto_civile/1_Galati_mutuo_dissenso.html.
[6] Luminoso,
Il mutuo dissenso, Milano,
1980, p. 18 ss.
[7] Bianca, Diritto
civile, III, Il contratto,
Milano, 1998, p. 700; Capozzi, Il
mutuo dissenso nella pratica notarile,
in Vita notar., 1993,
p. 638 ss.; Luminoso, op. cit., p. 256 ss.; Magnani, La risoluzione della donazione per mutuo dissenso (un rimedio alla
potenziale in commerciabilità degli immobili provenienti da donazione), in Riv. notar., 2004, p. 121 ss.
[8] Galati, op. loc. ultt. citt.
[9] Galati, op. loc. ultt. citt.
[10] Contra R.
Scognamiglio, voce Collegamento
negoziale, in Enc. dir., VII, Milano, 1960, p. 378 ss., che
considera collegati il negozio estintivo e quello da estinguere.
[11] Sirena, Effetti
e vincolo, nel Trattato del contratto, diretto da
Roppo, III, Gli effetti, a cura di Costanza, Milano, 2006, p. 85 ss.; Roppo, Il contratto, nel Trattato di diritto privato, a cura di Iudica e Zatti, Milano,
2001, p. 540; Santoro-Passarelli, Dottrine
generali del diritto civile, IX
Ed., Napoli, 1974, p. 217.
[12] Cappelletti,
Il mutuo dissenso nei contratti ad effetti reali, in Rass. dir. civ., 1999, p. 241 ss.
[13] Luminoso,
op.
cit., p. 235
ss.
[14] L’esemplificazione a tal riguardo proposta da Franzoni, Il mutuo consenso allo scioglimento
del contratto, nel Trattato di diritto privato, diretto da
Bessone, XIII, Il contratto in generale, V, Torino, 2002, p. 31, è
tratta dal contratto di locazione, posto che si considera non restituibile, in
ipotesi di mutuo dissenso, il godimento in forza di questo negozio conseguito
dal conduttore; analoga riflessione è stata proposta anche per quanto concerne
il mutuo dissenso riferito ad un rapporto di lavoro subordinato, dove sarebbe
non restituibile la prestazione fino ad allora fornita al datore dal
dipendente: cfr. Galati, op. loc. ultt. citt.
[15] Deiana, Contrarius consensus, in Riv. dir. priv., 1939, I, p. 104; Allara, Le fattispecie estintive del rapporto obbligatorio, Milano, 1952, p. 23 ss.; Biondi, Le donazioni, nel Trattato di diritto civile, diretto da Vassalli, Torino, 1961, p. 519 ss.; Rubino, La compravendita, Milano, 1962, p. 1024; R. Scognamiglio, Contratti in generale, nel Trattato di diritto civile, diretto da Grosso e Santoro-Passarelli, Milano, 1972, p. 205 ss.; Mirabelli, Il contratto in generale, Torino, 1980, p. 290 ss.; più di recente v. anche Ieva, Retroattività reale dell’azione di riduzione e tutela dell’avente causa dal donatario tra presente e futuro, in Riv. notar., 1998, p. 1137 s. In giurisprudenza Cass., 7 marzo, 1997, n. 2040, in Contratti 1997, p. 54 ss. afferma che «Costituisce (…) principio di diritto pacifico che lo scioglimento per mutuo consenso di un contratto di trasferimento della proprietà immobiliare, per la conclusione del quale è richiesta la forma scritta, ai sensi dell’art. 1350 n. 1 cod. civ., deve anch’esso risultare da atto scritto, perché, per effetto dello scioglimento, si opera un nuovo trasferimento della proprietà al precedente proprietario (sent. n. 6959 del 1988)». Peraltro dalla lettura della motivazione non emerge che l’intento delle parti fosse quello, nella specie, di attribuire efficacia retroattiva al mutuo dissenso ed anzi tale soluzione sembra contrastata dal fatto che la tesi della parte ricorrente, respinta dalla Cassazione, era quella che il contratto di compravendita si sarebbe risolto «per mutuo consenso, essendo risultato che il prezzo della compravendita era stato restituito dall’alienante agli acquirenti e che costoro lo avevano accettato».
[16] Cfr. Cass., 6 ottobre 2011, n. 20445, in Riv. notar., 2012, II, p. 1180, con nota di Fabio; in Contratti, 2012, p. 478, con nota di Orlando; in Giur. it., 2012, p. 1790, con nota di Sgobbo; in Rass. dir. civ., 2013, p. 546, con nota di Alamanni; in Notariato, 2013, p. 141, con nota di Magliulo: «Il mutuo dissenso costituisce un atto di risoluzione convenzionale (o un accordo risolutorio), espressione dell’autonomia negoziale dei privati, i quali sono liberi di regolare gli effetti prodotti da un precedente negozio, anche indipendentemente dall’esistenza di eventuali fatti o circostanze sopravvenute, impeditivi o modificativi dell’attuazione dell’originario regolamento di interessi, dando luogo ad un effetto ripristinatorio con carattere retroattivo, anche per i contratti aventi ad oggetto il trasferimento di diritti reali; tale effetto, infatti, essendo espressamente previsto ex lege dall’art. 1458 cod. civ. con riguardo alla risoluzione per inadempimento, anche di contratti ad effetto reale, non può dirsi precluso agli accordi risolutori, risultando soltanto obbligatorio il rispetto dell’onere della forma scritta ad substantiam». In precedenza Cass. 29 aprile 1993, n. 5065, in Giur. it., 1994, I, c. 433, aveva affermato l’ammissibilità del mutuo dissenso in relazione ad una compravendita immobiliare, precisando che l’effetto retroattivo di tale negozio ne costituirebbe una caratteristica essenziale, ma che dovrebbe, di volta in volta essere pattuito dalle parti, con la conseguenza che, in difetto di contraria pattuizione, gli interessi sulle somme dovute in restituzione dalla parte venditrice devono ritenersi compensati dal godimento della cosa che la parte compratrice abbia medio tempore avuto (ex art. 1282, ult. cpv., c.c.).
[17] Franzoni,
Il mutuo consenso allo scioglimento del contratto, cit., p. 24. Particolarmente efficace appare il
seguente esempio: «Tizio dona a Caia, sua amante, alcuni gioielli. Troncata la
relazione per il comportamento offensivo di Tizio, Caia non vuole più possedere
quei doni ed entrambi, d’accordo, ne decidono la restituzione. È assurdo
ravvisare nel loro accordo una nuova donazione e ritrovare, perciò, un
anacronistico animus donandi in Caia
che ormai odia Tizio, come, d’altra parte, è assurdo pensare che l’ordinamento
giuridico non consenta loro altro mezzo per raggiungere l’intento che
perseguono» (cfr. Capozzi, op. cit., p. 639).
[18] Capozzi,
op. cit., p. 638.
[19] Proprio in base a tale ultima disposizione si è
allora condivisibilmente scorto un (implicito) riconoscimento da parte del legislatore
della riferibilità del mutuo dissenso anche a contratti che abbiano già
determinato un effetto traslativo. La trascrizione riguarda proprio atti
costitutivi, modificativi ed estintivi di diritti reali; se a ciò si aggiunge
che il secondo comma dell’art. 2655 c.c. prevede che l’annotazione di cui al
primo comma vada fatta in base alla sentenza o alle «convenzioni» da cui risulta uno dei fatti indicati nel
precedente alinea (soprattutto, per quanto ci riguarda, la risoluzione) se ne
desume un sicuro indice circa l’ammissibilità del mutuo dissenso anche rispetto
a contratti con vicenda reale esaurita, in quanto essa costituisce l’unica
ipotesi di «risoluzione convenzionale» richiamata dalla esposta disposizione:
cfr. Franzoni, voce Mutuo
dissenso, in Enc.
giur. Treccani, Roma, 2004, p. 4 s.; Id.,
Il mutuo consenso allo scioglimento del contratto, cit., p. 39; Galgano,
Degli effetti del contratto,
nel Commentario del Codice
Civile, diretto da Scialoja e Branca, a cura di Galgano, Bologna-Roma,
1993, p. 19 ss.
[20] Cfr. ad es. Galati,
op. loc. ultt. citt.
[21] Cfr. Galati,
op. loc. ultt. citt.
[22] Corsi, Il regime patrimoniale della famiglia,
II, Le convenzioni matrimoniali -
Famiglia e impresa, nel Trattato di
diritto civile e commerciale, già diretto da Cicu e Messineo, continuato da
Mengoni, Milano, 1984, p. 105.
[23] G. Gabrielli,
voce Patrimonio familiare e fondo
patrimoniale, in Enc dir., XXXII, Milano, 1982, p. 316 s.; Id., voce
Regime patrimoniale della famiglia , in Digesto disc. priv., Sez. civile, XVI, Torino, 1997, p. 391; Carresi, Del fondo patrimoniale, nel Commentario
al diritto italiano della famiglia, a cura di Cian, Oppo e Trabucchi, III,
Padova, 1992, p. 66; G. Gabrielli
e Cubeddu, Il regime patrimoniale dei coniugi, Milano, 1997, p. 288; Di Sapio, Lo scioglimento
(volontario) del fondo patrimoniale in presenza di figli minori e l’immortalità
di Socrate, nota a Trib. Roma, 14 giugno 1999, in Dir. fam. pers.,
1999, p. 1247 ss. (che ritiene ammissibile uno scioglimento consensuale del
fondo solo in caso di assenza di figli minori); Zaccaria,
Lo scioglimento del fondo patrimoniale per contrario consenso, in Studium
iuris, 1999, p. 763 ss.; Morozzo
Della Rocca, Lo scioglimento consensuale del fondo patrimoniale in
presenza di figli minori d’età, nota a Trib. Min. L’Aquila, 3 maggio 2001,
in Fam. e dir., 2001, p. 545 ss. (che ritiene ammissibile senza limiti
lo scioglimento consensuale, ma richiede l’autorizzazione giudiziale in caso di
presenza di figli minori); Cenni, Il
fondo patrimoniale, nel Trattato di diritto di famiglia, diretto da
Zatti, III, Milano, p. 622 ss., 632 ss.; De
Falco, Separazione dei beni, comunione convenzionale e fondo
patrimoniale, relazione presentata all’incontro di studio sul tema «I
rapporti patrimoniali della famiglia» organizzato dal Consiglio Superiore della
Magistratura, Nona commissione – tirocinio e formazione professionale, svoltosi
a Roma nei giorni 14 – 16 aprile 2003 (testo dattiloscritto), p. 14 s. Contra
A. e M. Finocchiaro, Diritto di famiglia, I, Milano, 1984, p.
832 s.
In giurisprudenza ammettono la possibilità di una
risoluzione consensuale del negozio costitutivo del fondo Trib. Vicenza, 19
luglio 1985, in Vita notar., 1985, p.
731; Trib. Min. Venezia, 17 novembre 1997, in Riv. notar., 1998, p. 223
(«Pur in mancanza di un’espressa previsione di legge, è ammissibile lo
scioglimento del fondo patrimoniale per espressa volontà manifestata in tal
senso dai costituenti. Nel caso in cui vi siano figli minori è competente
all’autorizzazione il Tribunale dei minorenni»); Trib. Min. Lecce, 25 novembre
1999, in C.E.D. – Corte di cassazione,
Arch. MERITO, pd. 1070A2 («Al fondo patrimoniale è applicabile la normativa
generale (163, 171 c.c.) che prevede la modificabilità delle convenzioni
matrimoniali. Pur in mancanza di un’espressa previsione di legge, pertanto, è
ammissibile lo scioglimento del fondo patrimoniale, per espressa volontà
manifestata in tal senso dai costituenti. Nel caso in cui vi siano figli
minori, è competente, per l’autorizzazione, il Tribunale dei Minorenni»); Trib.
Min. Venezia, 7 febbraio 2001, in Riv. notar., 2001, II, p. 1189 («In
base al combinato disposto degli artt. 171 cod. civ. e 38 disp. att. cod. civ.,
il Tribunale dei Minorenni non è competente ad autorizzare la convenzione di
scioglimento del fondo patrimoniale, per la quale è di conseguenza sufficiente
l’atto pubblico notarile»); Trib. min. L’Aquila, 3 maggio 2001, in Fam. e
dir., 2001, p. 451, con nota di Morozzo
Della Rocca («Può essere autorizzato lo scioglimento consensuale del
fondo patrimoniale costituito dai coniugi quando ciò corrisponda all’interesse
detta famiglia. Tale interesse, in particolare può consistere nell’opportunità
di salvaguardare il patrimonio personale di uno dei coniugi costituenti,
evitandone il fallimento, quando ciò impedirebbe al fallito di contribuire
adeguatamente nel rispondere ai bisogni familiari»). Contra, per
l’inammissibilità dello scioglimento per concorde volontà dei contraenti v.
Trib. Roma, 14 giugno 1999, in Dir. fam. pers., 1999, I, p. 1245, con
nota di Di Sapio («Allorché il
vincolo nuziale non sia stato annullato o posto nel nulla per divorzio, il
regime del fondo patrimoniale costituito per volontà dei coniugi su di una
unità immobiliare da essi acquistata dopo il matrimonio e di proprietà comune,
in parti uguali, non può essere consensualmente risolto dai coniugi, ed il loro
ricorso congiunto a tal uopo diretto va respinto); Trib. Min. Perugia, 20 marzo
2001, in Riv. notar., 2001, II, p. 1189 («Al di fuori dei casi tassativi
previsti dagli artt. 169 cod. civ. e 171 cod. civ. non è possibile porre fine
alla destinazione impressa dalla costituzione di un fondo patrimoniale: non è
quindi ammesso lo scioglimento convenzionale di tale convenzione
matrimoniale»). Sul problema del carattere tassativo o esemplificativo
dell’elenco di cui all’art. 171 c.c. v. infine Auletta,
Il fondo patrimoniale, Milano, 1990,
p. 400 s.; in generale sul tema v. anche De
Paola, Il diritto patrimoniale
della famiglia coniugale, III, Milano, 1996, p. 127 s.
[24] In questo senso v. anche Zoppini, L’autonomia privata nel diritto di famiglia, sessant’anni dopo, in Riv. dir. civ., 2001, p. 218.
[25] Sul contenuto programmatico delle convenzioni
matrimoniali si fa rinvio per tutti a Oberto,
La comunione legale tra coniugi, I,
cit., p. 329 ss.; II, cit., p. 1131 ss.; 1229 ss., 1695 ss.; Id., Del
regime patrimoniale della famiglia. Disposizioni generali, Commento agli
artt. 159, 160 e 161, cit., p. 1118 ss.
[26] Sulle ragioni per le quali anche in siffatte ipotesi
l’accordo inter coniuges assume la
sostanza di convenzione matrimoniale cfr. Oberto,
opp. locc. ultt. citt.
[27] Cfr. Franzoni,
Il mutuo consenso allo scioglimento del contratto, cit., p. 31; Galati,
op. loc. ultt. citt.
[28] Più complessa è la situazione opposta, in cui insorga
retroattivamente un regime di comunione legale sulle ceneri di un regime di
separazione retroattivamente sciolto per effetto di mutuo dissenso. Anche qui,
però, come si dirà tra breve (v. infra,
in questo stesso §), l’effetto retroattivo può trovare una sua esplicazione,
anche con riguardo alle regole di amministrazione, nel pieno rispetto dei
principi dell’ordinamento.
[29] Si omette qui, per evidenti ragioni di spazio, di
prendere posizione sulla nota teoria della comunione «senza quote»: per una
critica cfr. Oberto, La comunione legale tra coniugi, I,
cit., p. 225 ss.
[31] Sul tema, che non può essere approfondito in questa
sede, cfr. Oberto, La comunione legale tra coniugi, II,
cit., p. 1298 ss., 1350 ss.
[32] Per un esame al riguardo e per i necessari rinvii cfr. Oberto, Gli accordi sulle conseguenze patrimoniali della crisi coniugale e dello scioglimento del matrimonio nella prospettiva storica, Nota a Cass., 20 marzo1998, n. 2955, in Foro it., 1999, I, c. 1306 ss.; Id., I precedenti storici del principio di libertà contrattuale nelle convenzioni matrimoniali, in Dir. fam. pers., 2003, p. 535 ss.; Id., La comunione legale tra coniugi, I, cit., p. 3 ss.
[33] Ancorché (sarà bene chiarirlo subito) i protagonisti
di tale autonomia non fossero (quanto meno di regola) i futuri sposi, bensì le
rispettive famiglie. Invero, unendosi con gli istituti del fedecommesso e del
maggiorascato, le regole dei patti nuziali vennero a disegnare, nelle unioni
tra i rampolli delle famiglie della nobiltà o dell’alta borghesia, dei pactes de famille: veri e propri
trattati d’alleanza conclusi direttamente dagli stessi capifamiglia e destinati
a reggere per secoli le fortune dei rispettivi gruppi familiari; sul tema cfr. Salvioli, Manuale di storia del diritto italiano. Dalle invasioni germaniche ai
nostri giorni, Torino 1890, p. 305 s.; Ducros,
La societé française au
dix-huitième siècle, Paris, 1933, p. 66 ss.; Ungari, Il diritto di
famiglia in Italia dalle Costituzioni «giacobine» al Codice civile del 1942,
Bologna, 1970, p. 211 s., 221 s.; Delille,
Famiglia e proprietà nel Regno di
Napoli. XV-XIX secolo, Torino, 1988, p. 111 ss., 213 ss.; Vismara, Scritti di storia giuridica, V, La
famiglia, Milano, 1988, p. 34 ss.; Autorino
Stanzione e Stanzione, Sulla concezione della famiglia nell’Italia
del XVIII secolo, in Dir. fam. pers.,
1992, p. 316 ss. Sullo scarso – o nullo – rilievo della volontà della donna,
durante il periodo anteriore alle moderne codificazioni cfr. per tutti Brandileone, Saggi sulla celebrazione del matrimonio in Italia, Milano, 1906, p.
360; Goody, Famiglia e matrimonio in Europa, Bari, 1995, p. 27 ss.
Significativo al riguardo è il fatto che, ancora all’inizio del XIX secolo, un
noto manuale avvertiva che «gli sponsali e le nozze non sono contratti che
puramente si facciano tra due individui, ma sono in certo qual modo convenzioni
che hanno luogo tra due o più famiglie, che ne vincolano i membri fra di loro
(...) e che il più delle volte influiscono grandemente sopra gli interessi di
più individui, di più famiglie e talvolta su quelli ancora di un’intera
popolazione»: cfr. Aa. Vv., Manuale forense, I, Novara, 1838, p.
520.
[34] Così Laurière,
Traité des institutions et des substitutions contractuelles, I, Paris,
1715, p. prima e seconda della préface non numerata; [du Perray], Traité des contrats de
mariage, Paris, 1741, p. 119; nel medesimo senso cfr. inoltre Cochin, LXXIX. Cause au Req. du
Palais, in Œuvres de feu Mr. Cochin, écuyer, avocat au Parlement,
contenant le recueil de ses mémoires et consultations, III, Paris, 1753, p.
479 ss.; Le Brun, Traité de la
communauté entre mari et femme, Paris, 1709, p. 19 s.; Argou, Institution au droit françois,
II, Paris, 1753, p. 19; Renusson, Traité
de la communauté de biens entre l’homme et la femme conjoints par mariage,
in Œuvres de M. de Renusson, Paris, 1760, p. 16; Denisart, Collection de décisions nouvelles et de notions
relatives à la jurisprudence actuelle, I, Paris, 1763, p. 592 s.; Pocquet de Livonnière, Règles du
droit françois, Paris, 1768, p. 295; de
Ferrière, Dictionnaire de droit et de pratique, I, Paris, 1769,
p. 586; Prevôt de la Jannès, Les
principes de la jurisprudence françoise, II, Paris, 1770, p. 24; Pothier, Coutumes des Duché,
Bailliage et Prévôté d’Orléans et ressort d’iceux, Paris - Orléans, 1780,
p. 287 ss.
[35] Orléans: «En traicté de mariage, et avant
la foy baillée, et benediction nuptiale, homme et femme peuvent faire et
apposer telles conditions, doüaires, donations, et autres conventions, que bon
leur semblera» (art. 202, in Bourdot de
Richebourg, Nouveau coutumier
general, III, Paris, 1724, p. 790); Montargis: «En traicté de mariage et
avant la foy baillée, homme et femme qui se veulent marier par premieres et
autres nopces peuvent mettre et apposer telles conditions, conventions
donations et autres contracts que on leur semblera en leurdit mariage qui
sortiront effect. Toutesfois les renonciations de communité de biens ne
pourront prejudicier aux creanciers» (chap. 8, art. 8, in Bourdot de Richebourg, op. cit.,
III, p. 845); Borbonese: «Toutes donations, conventions, avantages,
institutions d’heritiers, et autres choses faites en contract de mariage et en
faveur d’iceluy au proffit et utilité des mariez, de l’un d’eux, ou des
descendans dudit mariage, le mariage fait par paroles de presens, sont bonnes,
et valables en quelque forme qu’elles soient faites, etiam en donnant et
retenant, et posé qu’elles soient immenses, inoffieciuses, et jusques à
l’exhéredation des propres enfans dudit disposant…» (art. 219, in Bourdot de Richebourg, op. cit.,
III, p. 1248); Alvernia: «Tous pactes, advantages, donation entre vifs, ou à
cause de mort, convenance de succeder, soient mutuelles, égales ou non, et
autres convenances quelsconques faites et passées en traité de mariage, et en
faveur d’icelui par personnes capables à contracter sains ou malades, valent et
tiennent au profit des mariez et leurs descendans : saisissent lesdits mariez
et leursdits descendans, les cas advenus» (chap. XIV, art. 26, in Bourdot de Richebourg, op. cit.,
IV, p. 1171).
[36] Domat, Les lois civiles dans leur ordre naturel, I, Paris, 1756, p. 95. Per gli altri autori francesi che, già in precedenza avevano invocato sul punto l’autorità delle leggi romane cfr. Cuiacio, In librum XXXV. Pauli ad edictum commentarii, seu recitationes solemnes. Anno 1584, in Iacobi Cuiacii I. C. Tolosatis Opera, Ad Parisiensem Fabrotianam Editionem Diligentissime Exacta, V, Mutinae, 1777, c. 542, secondo cui «In hisce pactis totum facit voluntas contrahentium: atque adeo sola voluntas contrahentium spectatur et observatur semper»; v. inoltre Duareno, In tract. soluto matrimonio, quemadmodum dos petatur, lib. Pandect. XIIII. Commentarius, in Franc. Duareni iureconsulti opera omnia tam recentia quam prius edita in iure civili, Lugduni, 1554, f. 97: «… pro quodam veluti fundamento haec Regula traditur, Omne hiusmodi Pactum valere. Quod ita accipi debet, ut non modo ad exceptionem, verum etiam ad actionem prosit (…) Excipiuntur Pacta quae Iuri, aut bonis moribus contraria sunt. Item ea quae mulieri adhuc superstiti dotem adimunt, aut quae conditionem eius deteriorem reddunt. Idem dicendum est de eo pacto, quo convenit, ut vir fructus dotis non lucreteur, et aliis quibusdam similibus».
[37] Domat, op. cit., p. 97: «On peut dans les contrats de mariages, comme en tous
autres, faire toutes sortes de conventions, soit sur la dot ou autrement ;
pourvû que la convention n’ait rien d’illicite et de malhonnête ; ou qui soit
défendu par quelque coutume, ou par quelque loi».
[38] «Illud etiam generaliter praesenti addere sanctioni necessarium esse duximus, ut si qua pacta intercesserint, vel pro restitutione dotis, vel pro tempore, vel pro usuris, vel pro alia quacunque causa, quae nec contra leges, nec contra constitutiones sunt: ea observerentur» (C. 5. 13. 1. § illud etiam; cfr. anche D. 23. 4. 12.; i passi sono citati da Domat, op. cit., p. 95).
[39] Bartolo da
Sassoferrato, In primam codicis partem commentaria, Venetiis,
1602, f. 165; in analogo senso cfr. anche Baldo
degli Ubaldi, In quartum et
quintum codicis libr. praelectiones, Lugduni, 1556, f. 210, secondo cui
«Pacta dotalia quae dotis conditionem deteriorem non reddunt, sunt servanda»; Bartolomeo da Saliceto, (citato da Baudoza, Codicis D.N. Iustiniani Sacratiss. Principis PP. Aug. Repetitae
Praelectionis Libri XII. Diligenter recogniti (…) opera et studio Petri ab Area
Baudoza Cestii I.C., Lugduni, 1593, c. 919), secondo cui «Pacta dotalia,
quae non sunt contra legem, sunt observanda et haec lex corrigit omnes alias
sibi contrarias»; Gotofredo, Codicis
Iustiniani (…) Libri XII. Notis Dionysii Gothofredi I.C. illustrati,
Lugduni, 1652, c. 403, in margine a C. 5. 13. 1. § Illud etiam, per il quale
«Pacta dotalia quae dotis causam non minuunt, sunt servanda»; Fontanella, De pactis nuptialibus,
sive de capitulis matrimonialibus, II, Genevae, 1684, p. 192, secondo cui
«Pacta omnia quae in eis [nuptialibus tabulis] fiunt, firma, validaque sunt,
nisi expressim reperiantur prohibita». Nello stesso senso v. poi anche Odofredo, De dote, in Aa. Vv., De dote, tractatus de variis
iuris civilis intepretibus decerpti, Venetiis, 1571, p. 387; De Luca, De dote, lucris dotalibus et
aliis dotis appenditiis, in De Luca,
Theatrum veritatis et iustitiae, VI, Lugduni, 1697, p. 628 ss.; Mantica, Vaticanae lucubrationes de tacitis et ambiguis conventionibus, in
libros XXVII. dispertitae, I, Genevae, 1723, p. 586 ss.; Gagliardi, De iure dotium
commentarius, s.l., 1780, p. 68.
[40] Troplong, Du contrat de mariage et des
droits respectifs des époux, I, Paris, 1850, p. 16: «Le respect dû à la
volonté libre des parties n’a pas été non plus oublié dans ce pacte solennel
qui emprunte tant de force aux convenances individuelles. La liberté y peut
tout ce qui n’est pas contre les bonnes mœurs et les lois de la nature et de
l’ordre public».
[41] Marcadé, Explication théorique et pratique
du Code Napoléon, V, Paris, 1859, p. 382: «Et la loi ne se contente même
pas de laisser ici aux intéressés la liberté dont ils jouiraient pour tout
autre contrat pécuniaire; elle leur donne (…) une latitude plus grande que
partout ailleurs; et pourvu qu’ils n’insèrent dans leur contrat rien de
contraire aux règles prohibitives dont nous allons nous occuper, ils peuvent y
mettre absolument toutes les stipulations qu’il leur plaira, celles‑là
même qui seraient interdites dans des contrats ordinaires : qui veut la fin
veut les moyens, et pour favoriser le mariage, il fallait favoriser les conventions
pécuniaires dont il dépend souvent».
[42] Toullier, Le droit civil français suivant l’ordre du code, XII, Paris,
1829, p. 22 s.: «Ce chapitre commence par consacrer le sage principe de la plus
grande liberté dans les conventions matrimoniales. Les époux peuvent non
seulement soumettre leur société au régime dotal ou à celui de la communauté,
mais ils peuvent encore faire aux règles tracées par la loi, concernant l’un ou
l’autre des deux régimes, tels changements, telles modifications que bon leur
semble (…). Il ne faut donc pas demander s’il est permis d’insérer telle clause
ou condition dans un contrat de mariage, mais plutôt si elle est defendue.
C’est dans cette matière surtout qu’il faut appliquer dans toute son étendue la
grande et générale maxime, que ce qui n’est pas défendu par la loi est permis.
Ainsi, liberté entière dans les conventions matrimoniales. Rien n’y est
commandé par la loi, rien n’y est défendu, que ce qui blesse l’ordre public ou
les bonnes mœurs». Cfr. inoltre Dard,
Instruction facile sur les contrats de mariage, selon les principes du code
Napoléon, Paris, 1810, p. 10: «Le contrat de mariage est le plus solennel
et le plus favorable de tous les actes de la société civile ; il est autorisé
par le droit naturel, par le droit des gens et par le droit civil. Dans la vue
de déterminer les citoyens au mariage, la jurisprudence française a toujours
admis ce principe, que les contrats de mariage sont susceptibles de toutes les
clauses et conventions que les parties veulent former, pourvu qu’elles ne
contiennent rien de contraire aux lois d’ordre public, ni aux bonnes mœurs.
C’est cette faveur, accordée aux contrats de mariage, qui fait que l’on reçoit
dans ces contrats des stipulations qui ne seraient pas valables, si elles
étaient faites dans tout autre contrat»; Merlin,
Répertoire universel et raissonné de jurisprudence, III, Paris, 1812, p.
82; Biret, Traité du contrat de
mariage, Paris, 1825, p. 60 s.; Laurent,
Principes de droit civil, XXI,
Bruxelles, p. 13: «Le législateur, loin de restreindre la liberté des
contractants en matière de conventions matrimoniales, l’étend : comme il
favorise le mariage, il devait aussi favoriser le contrat de mariage,
l’expérience démontrant que les stipulations relatives aux biens engagent
souvent les parties à s’unir, de même qu’elles pourraient entraver leur union
si la loi enchaînait la liberté de ceux qui veulent se marier, mais qui ne le
veulent que sous les conditions qui leur conviennent. Pothier en a déjà fait la
remarque : la loi permet aux futurs époux de faire dans leur contrat de mariage
des stipulations qu’elle prohibe en dehors de ce contrat. Les pactes
successoires sont sévèrement défendus comme contraires aux bonnes mœurs ; par
contrat de mariage, on peut faire une institution contractuelle ; dans l’ancien
droit, l’institution contractuelle avait encore ceci de particulier, qu’elle
était admise même dans les lieux où les coutumes rejetaient absolument
l’institution d’héritier»; Duranton,
Cours de droit français suivant le code civil, XIV, Paris, 1832, p. 17
ss.; Rodière e Pont, Traité du contrat de mariage et
des droits respectifs des époux, relativement à leurs biens, I, Paris,
1847, p. 33 s.: «Les contrats de mariage ont toujours été traités avec une
grande faveur, parce que ce sont, de tous les contrats, ceux qui intéressent le
plus la conservation de la société. Aussi, les parties peuvent y faire non‑seulement
toutes les stipulations permises dans les contrats ordinaires, mais encore
certaines conventions qui partout ailleurs seraient prohibées. En
thèse générale, par exemple, les donations entre vifs ne peuvent comprendre des
biens à venir (C. civ., art. 943), ni être faites sous une condition
potestative de la part du donateur (art. 944), ni imposer au donataire
l’obligation de payer d’autres dettes ou charges que celles existant au moment
de la donation (art. 945), ni profiter au donataire pour quelque objet compris
dans la donation, dont le donateur se serait réservé la faculté de disposer et
dont il n’aurait pas disposé en effet (art. 946). Toutes ces conventions
pourtant sont autorisées dans les contrats de mariage (art. 947). Les donations
faites en faveur du mariage ne peuvent non plus être annulées sous prétexte du
défaut d’acceptation (art. 1087), quoique, en principe, l’acceptation
expresse du donataire soit indispensable pour la validité de la donation (art.
932)»; Zachariæ, Corso di
diritto civile francese, ed. italiana, III, Napoli, 1852, p. 222; Bellot Des Minières, Le contrat de
mariage considéré en lui-même, Paris, 1855, p. 11: «Le contrat de mariage
n’est qu’un, mais les conditions qu’un peut y insérer sont infinies. Les
parties peuvent, en effet, stipuler tout ce que bon leur semble, pourvu que les
stipulations n’aient rien de contraire aux lois, aux mœurs, à l’ordre public»; Bonnet, Des dispositions par contrat de mariage et des dispositions entre époux,
I, Paris, 1860, p. 1 ss. (con particolare riguardo alla donazione di beni
futuri, p. 276 ss.); Michaux, Traité
pratique des contrats de mariage, Paris, 1869, p. 10 s.; Guillouard, Traité du contrat de
mariage, I, Paris, 1885, p. 85: «Les conventions matrimoniales ont pour
but, avons‑nous dit, et ne peuvent avoir pour but que le règlement des
intérêts pécuniaires des époux, soit pendant le mariage, soit à la dissolution
du mariage. Mais, dans cette limite, les conventions matrimoniales peuvent être
rédigees avec une liberté plus grande que les conventions ordinaires, et on
peut y insérer des clauses qui seraient défendues en général dans les contrats.
C’est ainsi que la donation de biens à venir, l’institution contractuelle, qui
est prohibée en droit commun, est permise dans les contrats de mariage, aux
termes des articles 947 et 1081) ; c’est ainsi encore que l’irrévocabilité des
donations ordinaires fléchit dans les contrats de mariage, où l’article 1086
permet de faire des libéralités sous l’obligation de payer les dettes qui
gréveront la succession du donateur, ou sous d’autres conditions dont
l’exécution dépendrait de la volonté du donateur».
[43] Colomer, Droit civil. Régimes matrimoniaux,
Paris, 1992, p. 160; più in generale, sul ruolo della libertà negoziale nel
settore della famiglia cfr. Ghestin, Droit civil. Les
obligations. Le contrat, Paris, 1980, p. 77; Creff,
Les contrats de la famille, in
Aa. Vv., Le droit contemporain des
contrats. Bilan et perspective, Paris, 1986, p. 247. Si noti che, anche dopo l’introduzione del Code civil, l’institution contractuelle
è stata ammessa in Francia nei contrats de mariage (artt. 1082 e 1093 Code
Civil) in deroga al generale divieto dei patti successori (sul punto
cfr. ex multis Baudry-Lacantinerie
e Colin, Traité
théorique et pratique de droit civil. Des donations entre vifs et des
testaments, II, Paris, 1899, p. 821 ss.), ancor prima che quest’ultimo
venisse profondamente stemperato dalla loi
du 31 juillet 2017 modifiant le Code civil en ce qui concerne les successions
et les libéralités, in vigore dal 1° settembre 2018, la quale, introducendo
un titolo IIbis («Des pactes successoraux»),
pur continuando a tenere formalmente fermo il divieto, lo ha sostanzialmente e
significativamente depotenziato.
[44] Cfr. Duranton, Corso di diritto civile secondo il codice
francese, VIII, ed. italiana, Torino, 1845, p. 55; Toullier, Il diritto
civile francese secondo l’ordine del codice, ed. italiana, VI, Palermo,
1855, p. 219; v. inoltre sempre in senso positivo, sebbene con talune
limitazioni relativamente alle condizioni potestative, Battur, Traité de la
communauté de biens entre époux, I, Paris, 1830, p. 138 ss. (con ampi richiami alla
dottrina anche del droit coutumier). Anche ad avviso di L. e A. Mérignhac, Traité du régime de communauté, I, Paris, 1894, p. 15, «on
peut supposer des époux stipulant la communauté pour le cas où ils n’auraient
pas d’enfants, et le régime dotal plus conservateur pour le cas où ils en
auraient. S’agissant ici d’une condition qui n’a rien de potestatif, car tout
le monde est d’accord pour prohiber la condition potestative, on ne voit pas
pourquoi une pareille stipulation serait prohibée. Grâce à l’effet rétroactif
de la condition accomplie, il n’y aura jamais qu’un seul régime datant de la
célébration du mariage ; et, par là, on voit que l’on ne viole ni l’art. 1399,
ni le principe de l’immutabilité des conventions matrimoniales. Au sujet de ces
conventions, du reste, tout ce qui n’est pas défendu étant permis, cette clause
établissant une communauté conditionnelle doit être licite, car l’art. 1399,
qui prohibe le terme est muet sur la condition». Più scettico, invece, il Laurent,
Principes de droit civil, XXI,
Bruxelles, 1878, p. 245 ss., il quale dava peraltro atto dell’esistenza in
Alsazia di una «convention conditionnelle très usitée», ritenuta valida dalla
Corte di Colmar, secondo cui i coniugi sarebbero stati sottoposti dalla data
delle nozze al regime di comunione limitata ai soli acquisti e a quello della
comunione universale dalla data dell’acquisto delle eredità dei rispettivi
genitori, con effetto retroattivo al momento della celebrazione del matrimonio
(cfr. App. Colmar, 8 marzo 1864, in D.,
1864, 2, p. 85; sulla clause alsacienne
v. del resto infra, tra breve, nel
testo). Decisamente contrario, invece, Marcadé,
Explication théorique et pratique du code
Napoléon, V, Paris, 1866, p. 434 s. Per numerosi esempi di clausole
sottoponenti il regime di comunione legale a condizioni di vario genere cfr. [Commaille], Traité du contrat de mariage, suivant les principes du Code civil,
II, Paris, 1804, p. 426 (communauté
conditionnelle, sottoposta a condizione sospensiva dell’esistenza in vita
di figli all’atto della cessazione del regime, ovvero dell’avvenuta
attribuzione dell’eredità dei genitori della futura sposa), 430 (comunione
risolutivamente condizionata nel caso in cui il matrimonio avesse dovuto sciogliersi
per divorzio ottenuto su domanda della sola futura moglie: ipotesi, questa, di
vero e proprio prenuptial agreement in
contemplation of divorce).
[45] Per i richiami all’antico diritto francese cfr. Oberto, La comunione legale tra coniugi, I, cit., p. 35 ss. Per esempi tratti dall’antico diritto portoghese, olandese e tedesco v. Id., op. cit., rispettivamente, 85 ss., 88 ss., 142 ss.
[46] Cfr. al riguardo Laurent,
Principes de droit civil, XXI, cit.,
p. 245 ss.; Baudry-Lacantinerie, Le Courtois e Surville, Del
contratto di matrimonio, nel Trattato
teorico-pratico di diritto civile, diretto da Baudry-Lacantinerie, ed.
italiana, I, Milano, s.d. ma 1909, p. 73 ss.
[47] Cfr. Baudry-Lacantinerie,
Le Courtois e Surville, Del contratto di matrimonio, cit., p. 73 ss.
[48] Così
Colin, Capitant, Julliot De La Morandière, Cours élémentaire de droit civil français, III, 7e
édition entièrement refondue, Paris, 1932, p. 36 s.: «Envisageons
successivement chacune de ces modalités. Terme. — On rencontre, dans la
pratique, quelques contrats de mariage, assez rares à la vérité, contenant des
stipulations de terme. On cite l’exemple de contrats de mariage adoptant le
régime dotal avec inaliénabilité complète des biens dotaux pendant les
premières années du mariage, ou jusqu’au décès du constituant, et faculté pour
les époux de disposer librement des biens dotaux à l’expiration de ce terme (V.
Congrès international de Droit comparé,
Paris, 1900, note de M. Adam, Sur le régime matrimonial de droit commun en
France). En ce qui concerne la communauté, l’emploi d’un terme suspensif se
trouve prohibé par l’article 1399, lequel décide que la communauté commence du
jour du mariage, et ajoute : ‘on ne peut stipuler qu’elle commencera à une
autre époque’. Par cette prohibition, reproduite de l’article 220 de la Coutume
de Paris, le Code a voulu définitivement abolir l’usage de notre très ancien
Droit, usage conservé par quelques coutumes, en vertu duquel la communauté ne
commençait entre époux mariés sans contrat qu’au bout d’un an et un jour de
mariage (V. Pothier, Communauté, no.s 4 et 5, éd. Bugnet, t.
VII, p. 58). Mais la question reste entière pour les autres régimes
matrimoniaux, et même pour la communauté, s’il s’agit d’un terme extinctif qui
aurait pour effet de remplacer la communauté par un autre régime. Certains
auteurs estiment que ces stipulations sont contraires à l’immutabilité, parce
qu’elles portent atteinte à la stabilité du régime choisi. Mais ce n’est pas un
argument décisif. On peut répondre que les époux sont libres de régler comme
ils l’entendent leurs conventions matrimoniales, et que le principe de
l’immutabilité ne prohibe que les changements qui pourraient intervenir durant
le mariage par la volonté des époux. On peut invoquer également l’opinion de Pothier
qui déclarait que les parties ont le droit d’apposer un terme ou une condition
à l’adoption, de la communauté (op. cit.,
n° 278). Condition. — L’insertion d’une condition dans le contrat de mariage se
conçoit mieux que celle d’un terme. Par exemple, les futurs époux, déjà arrivés
à un certain âge, se marient sous le régime de séparation de biens, et
stipulent qu’il y aura communauté entre eux, s’ils ont des enfants (V. Pothier, loc. cit.). On ne voit guère ce que l’on peut opposer à la validité
d’une telle stipulation. Car, si la condition se réalise, elle effacera le
premier régime et le remplacera rétroactivement par la communauté. En fait, il
n’y aura donc jamais eu qu’un seul régime matrimonial qui sera, dans l’exemple
choisi, soit la séparation de biens, soit la communauté (V. en ce sens, Colmar,
8 mars 1864, D. P. 64.2.85). In termini del tutto analoghi v. anche Aubry e Rau,
Cours de droit civil français, VII,
Paris, 1913, p. 530 s., che, dopo aver riportato ampie citazioni della
civilistica francese, sia anteriore che posteriore al Code, così come della giurisprudenza, nel medesimo senso,
concludevano che «En présence du principe de la liberté des conventions
matrimoniales, principe que l’art. 1387 proclame en termes si énergiques, les
dispositions légales qui restreignent cette liberté constituent autant
d’exceptions, auxquelles il faut appliquer la règle Exceptio est strictissimae interpretationis».
[49] Cfr. Malaurie e Aynès, Les régimes matrimoniaux, Paris,
2007, p. 89, 325 s.: «les époux peuvent adopter un régime alternatif,
c’est-à-dire différent suivant la cause de dissolution: décès ou divorce. C’est
l’objet de la clause de reprise dans une communauté universelle, dite souvent
‘clause alsacienne’, prévoyant qu’en cas de divorce, les époux pourront
reprendre leurs apports. Techniquement, cette clause est un avantage
matrimonial, une clause de partage; si bien qu’elle ne modifie pas le régime de
communauté universelle. En pratique, il s’agit bien d’en revenir à la
communauté d’acquêts, si le mariage est un échec».
[50] Come rileva la dottrina transalpina, «en période de divortialité
galopante, on peut comprendre la préoccupation des époux de faire en sorte que
le bénéfice susceptible d’être tiré du régime matrimonial soit minimal en cas
de divorce et maximal en cas de décès. La clause de liquidation alternative
répond à cette attente (également dénommée clause alsacienne en raison de son
développement par les praticiens alsaciens en réponse à la fréquence de la
communauté universelle dans cette région, pour des raisons historiques). Elle
consiste, dans le cas d’une communauté universelle, à liquider celle-ci
différemment selon la cause de dissolution. En cas de dissolution par décès,
les règles de la communauté universelle s’appliquent. Au contraire, en cas de
dissolution par divorce, la liquidation est réalisée comme s’il s’agissait
d’une communauté réduite aux acquêts, par la possibilité offerte à chacun des
époux de reprendre ses “apports”, c’est-à dire les biens qui auraient été
propres en régime légal ou les biens non constitutifs d’acquêts»: così Brun-Wauthier,
Régimes matrimoniaux et régimes
patrimoniaux des couples non mariés, Orléans, 2009, 267. Sulla clause alsacienne v. anche i riferimenti
in Oberto, La comunione legale tra coniugi, I, cit., p. 386, nota 171; II,
cit., p. 1671, nota 198.
[51] Nel senso che «Ne porte pas atteinte au principe de l’immutabilité des
conventions matrimoniales la clause par laquelle, dans le cadre d’un régime de
communauté universelle, chaque époux reprendrait, en cas de dissolution de la
communauté par divorce, les biens tombés dans la communauté de son chef» v.
App. Colmar
16 maggio 1990, in Rép. Defrénois, 1990, p. 1361, con nota di Champenois; in JCP, 1991, éd. N.,
II, p. 17, con nota di Simler.
Ancora vent’anni dopo la validità della clausola è stata ribadita da Cass. 1ère
civ., 17 novembre 2010, n° 09-68292, la quale ha affermato che la stessa «ne
confère aucun avantage matrimonial», confermando l’avviso della dottrina, secondo
cui «loin de conférer un avantage, son effet est de faire obstacle à ce qu’un
avantage matrimonial se réalise» (Simler,
La validité de la clause de liquidation
alternative de la communauté universelle menacée par le nouvel article 265 du
Code civil, in JCP, N 2005, p.
1265). Anche per Cass. 1ère civ., 17 janvier 2006, la
clausola è valida, costituendo «un aménagement des règles du partage (le bien
repris est commun), qui ne porte pas atteinte à l’immutabilité ou à l’unicité
du régime matrimonial».
[52] La disposizione testé citata apre il varco a nuove audacie applicative,
sempre nel segno di un’ampliata libertà negoziale: «Dans l’hypothèse dans
laquelle les époux auraient prévu une communauté universelle avec attribution
intégrale au survivant, ils pourraient prévoir une double clause: une clause de
reprise des apports en cas de divorce et une clause d’exclusion de reprise des
apports en cas de décès. On pourrait, également, songer à la clause qui
exclurait, dans le contrat de mariage portant adoption du régime de
participation aux acquêts, le calcul de la créance de participation en cas de
dissolution du mariage par divorce. Les époux préféreront organiser par
anticipation une telle modulation, plutôt que d’opérer un changement de régime,
plus onéreux, durant leur mariage» (Brun-Wauthier, op. loc. ultt. citt).
[53] Cfr. la sentenza del 20
giugno 1612 riportata in Giurba, Decisionum novissimarum Consistorii Sacrae
Regiae Conscientiae Regni Siciliae volumen primum, Panormi, 1621, p. 398
ss.
[54] Oberto, I regimi patrimoniali della famiglia di fatto, Milano, 1991, p. 169 ss.; Id., I contratti della crisi coniugale, I, cit., p. 66 ss.; Id., Gli accordi sulle conseguenze patrimoniali della crisi coniugale e dello scioglimento del matrimonio nella prospettiva storica, cit., c. 1306 ss. Per un accenno al riguardo cfr. anche Bargelli e Busnelli, voce Convenzione matrimoniale, in Enc. Dir., Agg., IV, Milano, 2000, p. 438; Bocchini, Autonomia negoziale e regimi patrimoniali familiari, in Riv. dir. civ., 2001, p. 435; S. Patti, Regime patrimoniale della famiglia e autonomia privata, in Familia, 2002, p. 305 s.
[55] Per alcune considerazioni al riguardo e per
un’illustrazione del collegamento tra la regola dell’immodificabilità dei patti
nuziali e il divieto di donazioni tra coniugi cfr. Sacco, Del regime patrimoniale della famiglia, nel Commentario
al diritto italiano della famiglia a cura di Cian, Oppo e Trabucchi, III,
Padova, 1992, p. 24 s. Questo collegamento del resto era molto chiaro già agli
autori dell’epoca anteriore alle moderne codificazioni: cfr. per esempio Prevôt de la Jannès, Les principes de
la jurisprudence françoise, II, Paris, 1770, p. 26, il quale rilevava che
«si ces changemens étoient permis, ils troubleroient la paix des mariages, le
repos des familles qui prennent leur assurance sur les contrats de mariage, et
ouvriroient la porte aux avantages indirects, si contraires à la conservation
des biens dans les familles»; il medesimo collegamento era posto in luce con estrema
chiarezza anche dai primi commentatori del Code Napoléon (cfr. per tutti
le illuminanti pagine di Toullier,
Il diritto civile francese secondo
l’ordine del codice, ed. italiana, VI, Palermo, p. 185 ss.; sui rapporti
tra il divieto delle donazioni tra coniugi, immutabilità dei regimi
matrimoniali e donazioni tra concubini v. Oberto,
I regimi patrimoniali della famiglia di fatto, cit., p. 169 ss.).
[56] Può giungersi a sostenere il formalismo del mutuo
dissenso anche in base al principio di simmetria, affermato in dottrina e in
giurisprudenza, secondo il quale qualsiasi tipo di vicenda effettuale che abbia
ad oggetto diritti reali su beni immobili richiede la stessa forma del
corrispondente negozio che ne costituisce la fonte: su tale principio v. per
tutti Luminoso, Il mutuo dissenso, cit., p. 313 ss.; Breccia, La forma, nel Trattato del
contratto, diretto da Roppo, I, Formazione,
a cura di Granelli, Milano, VI, p. 657 ss.; Pascucci,
Ritrattazione della volontà risolutoria e
reviviscenza del contratto, Torino, 2013, p. 236; Achille, La
risoluzione per mutuo dissenso, http://www.academia.edu/10214743/La_risoluzione_per_mutuo_dissenso,
p. 101 ss. In giurisprudenza v. Cass., 27 novembre 2006, n. 25126, secondo cui
l’accordo risolutorio di un contratto per il quale sia richiesta la forma
scritta ad substantiam è soggetto
alla medesima forma stabilita per la conclusione di esso.
[57] Cfr. per tutti Oberto,
Le convenzioni matrimoniali: lineamenti
della parte generale, in Fam. e dir.,
1995, p. 611; sulla scelta in questione v. anche
Id., Il regime patrimoniale dell’unione civile, Commento all’art.
1, comma 13, Legge 20 maggio 2016, n. 76, nel Codice dell’unione civile e delle convivenze, a cura di Sesta,
cit., p. 379 s.; De Lorenzo, Forma delle convenzioni matrimoniali,
Commento all’art. 162, nel Commentario
del codice civile, diretto da E. Gabrielli, Della Famiglia, II Edizione, a cura di Di Rosa, artt. 74-230 ter, cit., p. 1189 ss. Da notare che,
secondo una decisione di legittimità del 2017 (Cass., 27 settembre 2017, n.
22594, in Fam. e dir., 2017, p. 871,
con nota di Farolfi; in Giur. it., 2018, p. 1357, con nota di Senigaglia), «la scelta del regime di
separazione dei beni dei coniugi, espressa davanti al ministro del culto
cattolico officiante, in occasione della celebrazione delle nozze ed alla
presenza di testimoni, è valida ed efficace, nei rapporti interni tra i
coniugi, dal momento della celebrazione, ancorché non annotata nell’atto di
matrimonio tempestivamente trascritto nei registri dello stato civile. (Nella
specie, l’atto di matrimonio concordatario era stato trascritto tempestivamente
nei registri dello stato civile, privo però dell’annotazione relativa al regime
patrimoniale della famiglia prescelto. L’annotazione era stata quindi
trascritta dall’ufficiale dello stato civile, anni dopo, su richiesta del
marito)»; dalla motivazione traspare chiaramente che la Corte ha inteso
considerare la scelta di cui qui si discute alla stregua di una qualsiasi
convenzione matrimoniale.
[58] Sulla definizione di convenzione matrimoniale come
contratto con il quale i coniugi (e oggi anche i civilmente uniti) incidono sul
regime patrimoniale e sui rapporti tra i due istituti (convenzione e regime)
cfr. per tutti Oberto, Del regime patrimoniale della famiglia.
Disposizioni generali, Commento agli artt. 159, 160 e 161, cit., p. 1125
ss.
[59] Cfr. Oberto,
La comunione legale di fonte negoziale:
riflessioni circa i rapporti tra legge e contratto nel momento genetico del
regime patrimoniale tra coniugi, in Dir.
fam. pers., 2011, p. 835.
[60] Cfr. ex multis,
anche per i richiami, Fusaro, Il regime patrimoniale della famiglia,
Padova, 1990, p. 20 ss.; Zaccaria,
Possono i coniugi optare per un regime
patrimoniale “atipico”?, in Studium
iuris, 2000, p. 947 ss.; S. Patti,
Regime patrimoniale della famiglia e
autonomia privata, cit., p. 291 ss.; G. Gabrielli
e Cubeddu, op. cit., p. 236 ss.; Oberto, Del regime patrimoniale della famiglia. Disposizioni generali,
Commento agli artt. 159, 160 e 161, cit., p. 1132 ss.
[61] Ciò, naturalmente, sia per ciò che attiene al
matrimonio, che per quanto riguarda l’unione civile, ai sensi del richiamo
della relativa disciplina alle norme in materia di convenzioni matrimoniali
(cfr. quanto disposto dal comma 13, l. 20 maggio 2016, n. 76.).
[62] Sui persistenti limiti tecnici dell’annotazione
prescritta dall’art. 162 c.c. si fa rinvio per tutti a Oberto, La comunione
legale tra coniugi, II, cit., p. 2183 ss.
[63] Sul tema cfr. Oberto,
La comunione legale tra coniugi, II,
cit., p. 2169 ss., 2236 ss.
[64] Sul ruolo svolto dalla norma in oggetto in relazione
alla pubblicità del mutuo dissenso v. supra,
§ 2. In argomento v. anche F. Patti, Il mutuo
dissenso (art. 1372 c.c.), http://www.notaioricciardi.it/Ufficio/RR_II/mutuo%20dissenso%20(patti).doc; Sirena, op. cit., p. 101 s.; Triola, Della tutela dei
diritti. La trascrizione, nel Trattato
di diritto privato, diretto da Bessone, IX, Torino, 2012, p. 121 s.; Perrone, Il mutuo dissenso, www.giustiziacivile.com.
In giurisprudenza cfr. Trib. Siena, 19 febbraio 2013, proc. n. 709/2012 r.g., http://www.notit.info/it-IT/mutuo-dissenso/La-risoluzione-per-mutuo-dissenso-non-si-trascrive--ma-si-annota.aspx,
secondo cui l’atto risolutivo di una donazione (con efficacia retroattiva) per
mutuo consenso deve essere annotato (e non trascritto, come preteso
dall’Agenzia del Territorio) nei Registri Immobiliari, ai sensi dell’art. 2655
c.c., atteso che il mutuo dissenso realizza, per concorde volontà, la
ritrattazione bilaterale del contratto, che si concretizza in un nuovo
contratto di natura solutoria e liberatoria, con contenuto eguale e contrario a
quello del contratto originario, di cui neutralizza gli effetti, con decorrenza
ex tunc: la figura del mutuo dissenso
(o mutuo consenso o risoluzione convenzionale o accordo risolutorio: cfr. artt.
1321 e 1372 c.c.) costituisce infatti espressione della autonomia negoziale dei
privati, che sono liberi di regolare gli effetti prodotti da un precedente
negozio a prescindere dalla esistenza di eventuali fatti o circostanze
sopravvenute impeditivi o modificativi della attuazione dell’originario
regolamento di interessi.
[65] Sulla pubblicità per trascrizione della convenzione
matrimoniale di separazione dei beni cfr. per tutti Oberto, La comunione
legale tra coniugi, II, cit., p. 2244 ss.
[66] Come osserva in generale Sirena, op. loc. ultt.
citt., in merito all’art. 2655 c.c., «qualora il patto risolutorio sia
annotato ai sensi dell’art. 2655, c. 4, esso sarà inopponibile soltanto ai
terzi che abbiano anteriormente trascritto il loro titolo: sarà invece
opponibile ai terzi che non lo abbiano trascritto o che lo abbiano trascritto
posteriormente».
[68] Cfr. Oberto,
Comunione legale, regimi convenzionali e pubblicità immobiliare, in Riv. dir. civ., 1988, II, p. 190 ss.; Id., I contratti della crisi
coniugale, II, cit., p. 1047 ss.
[70] Questo è anche il parere della dottrina pressoché
unanime: cfr. ad es. Lo Sardo, La comunione convenzionale nel regime
patrimoniale della famiglia, in Riv.
notar., 1991, p. 1254 s. Sul punto v. anche Pittalis,
Modifiche convenzionali alla comunione
dei beni, nel Trattato di diritto di famiglia, diretto da Zatti,
III, Regime patrimoniale della famiglia, Milano, 2002, p. 442 s. Sembra
evidente, invece, che la semplice stipula di una convenzione programmatica di
comunione convenzionale non rappresenti di per sé una donazione. Ad escluderlo
varrebbe già infatti il carattere reciproco delle previsioni, oltre che la
(normale) presenza dell’intento di costituire le premesse economiche per un
regolare svolgimento della vita coniugale, ciò che dovrebbe impedire in limine la possibilità di ravvisare un
animus donandi (estremamente chiara
sul punto la giurisprudenza tedesca: cfr. per esempio BGH, 27 novembre 1991, in FamRZ,
1992, 304). Peraltro non vi è dubbio che l’inserimento in comunione
convenzionale di diritti di cui ciascuno dei coniugi era già titolare all’atto
della convenzione possa essere inquadrato nello schema della liberalità
indiretta (cfr. per esempio Lo Sardo,
op. cit., p. 1254 s.).
[71] Cfr. Oberto,
La comunione legale tra coniugi, I,
cit., p. 336 ss.
[72] Sul tema v. per tutti Schlesinger, Della comunione legale, nel Commentario al diritto italiano della famiglia, diretto da Cian, Oppo e Trabucchi, III, Padova, 1992, p. 93 s.; Auletta, La comunione legale, nel Trattato di diritto privato, diretto da Bessone, IV, Il diritto di famiglia, II, Torino, 1999, p. 50; Oberto, La comunione legale tra coniugi, I, cit., p. 336 ss. Isolata, o comunque fortemente minoritaria, appare invece l’opinione di Salvestroni, Filologia giuridica, acquisti separati dei coniugi e amministrazione dei beni personali, della comunione legale e dell’impresa familiare, in Rass. dir. civ., 2002, p. 551, ad avviso del quale «ritenere in via generale che gli acquisti, compiuti separatamente da un coniuge dichiaratamente in nome e per conto proprio e con propri mezzi, vengano in ogni caso e automaticamente acquisiti per la metà dall’altro coniuge, significherebbe ammettere il repentino passaggio dall’incostituzionale divieto di donazione tra coniugi, di cui al vecchio art. 781 c.c., ad un altrettanto incostituzionale regime legale di automatica “donazione indiretta” tra coniugi, che sembrerebbe sovvertire principi giuridici fondamentali, come quelli della libertà individuale di iniziativa economica (art. 41 cost.) e della “relatività” dei contratti (artt. 1321 e 1372 c.c.)» (per una critica v. peraltro Oberto, La comunione legale tra coniugi, I, cit., p. 342).
[73] Cfr. ad es. Cass., 16 dicembre 1993, n. 12439,
secondo cui «La comunione legale fra coniugi, ai sensi dell’art. 177 primo
comma lett. a) cod. civ., riguarda gli ‘acquisti’ compiuti durante il
matrimonio, indipendentemente dalla provenienza delle risorse che li abbiano
consentiti»; v. inoltre Cass., 18 giugno 1992, n. 7524, cit., in motivazione; Cass.,
27 febbraio 2003, n. 2954 (su cui v. Oberto,
La comunione legale tra coniugi, I,
cit., 1102 ss.), in motivazione; Trib. Catania, 21 aprile
[74] Così, in motivazione, Cass., 20 gennaio 2006, n.
1197, cit.; cfr. inoltre Cass., 4 febbraio 2005, n. 2354; Cass., 24 maggio
2005, n. 10896. Il tema verrà affrontato nella parte sullo scioglimento (cfr. Oberto, La comunione legale tra coniugi, II, cit., p. 1931 ss.).
[75] E’ di tutta evidenza, poi, che se le risorse
impiegate per l’acquisto appartengono al patrimonio personale (di uno o di
ambedue i coniugi), sarà possibile sottrarre il bene alla comunione legale
osservando le prescrizioni dell’art. 179, lett. f), e cpv. c.c. Il bene sarà
allora personale del coniuge acquirente (acquisto separato) o apparterrà ad
ambedue in comunione ordinaria (acquisto congiunto), anche per quote disuguali.
Il bene cadrà in comunione se non viene esercitata la facoltà di surrogazione.
Se nell’acquisto vengono, invece, utilizzati beni comuni de residuo la legge non prevede tale possibilità di esclusione ed
il bene diviene senz’altro comune. Ugualmente è a dirsi se sono state impiegate
risorse in comunione legale; ma se l’atto è di straordinaria amministrazione e
la decisione non proviene da entrambi i coniugi, chi ha agito si espone alle
sanzioni previste per gli atti abusivi.
[76] In questo senso v., per il diritto belga, ex multis, de Page, Le régime matrimonial, Bruxelles, 2008, p. 64 s., secondo cui «pour couper court à toute discussion, sur une éventuelle ou réelle intention libérale entre époux, la loi impose le caractère onéreux du régime matrimonial». Per gli avantages matrimoniaux nel moderno diritto francese cfr. Savatier, La communauté conjugale nouvelle en droit français, Paris, 1970, p. 143 ss. (relativamente alla riforma del 1965); Malaurie e Aynès, Les régimes matrimoniaux, cit., p. 307 ss. E’ altresì da tenere presente che la riforma del divorzio, entrata in vigore in Francia il 1° gennaio 2005, ha modificato l’art. 265 c.c. fr., secondo cui ora l’attribuzione di responsabilità nel divorzio e nella separazione non produce più effetto rispetto agli avantages matrimoniaux (per l’origine storica della regola cfr. Oberto, La comunione legale tra coniugi, II, cit., p. 1611 ss.). Peraltro il divorzio tout court determina la revoca di pieno diritto di quei (soli) avantages destinati a prodursi dalla data di scioglimento del regime: da questi sono pertanto escluse donazioni tra coniugi e pattuizioni di regimi convenzionali (la previsione di una comunione universale, ad esempio, non subirà conseguenze), mentre vi rientrano tutte quelle clausole apposte al regime legale destinate a creare un vantaggio rispetto alla disciplina ordinaria della communauté per un coniuge al momento della cessazione di quest’ultima, come ad es. il partage inégal. Dall’operatività della disposizione è comunque esclusa la reprise dei beni apportati in comunione, qualora prevista nel contratto di matrimonio. Inoltre gli avantages matrimoniaux potranno essere trattenuti sulla base del consenso espresso dall’altro coniuge all’atto del divorzio e constatato dal giudice, con conseguente irrevocabilità degli stessi.
[77] Cfr. Auletta,
La comunione legale, cit., p. 51, il
quale soggiunge esattamente che, riguardo all’impiego di beni comuni de residuo, quantunque essi siano
destinati a cadere in futuro in comunione, medio
tempore rientrano nel patrimonio del coniuge percettore, onde la loro
utilizzazione in acquisti comuni comporta diminuzione della garanzia
patrimoniale goduta dai creditori personali già per il fatto che la metà viene
acquistata dall’altro coniuge (ma anche perché i creditori in questione sono
posposti ai creditori della comunione sulla quota del patrimonio spettante al
loro debitore).
[78] Schlesinger,
Della comunione legale, cit., p. 95;
nello stesso senso v. anche Corsi,
Il regime patrimoniale della famiglia, I, I rapporti
patrimoniali tra coniugi in generale. La comunione legale, nel Trattato di
diritto civile e commerciale, già diretto da Cicu e Messineo, continuato da
Mengoni, Milano, 1979, p. 69; Bianca,
Diritto civile, II, La famiglia. Le successioni, Milano,
2005, p. 72, nt. 42; Cian e Villani, La comunione dei beni tra coniugi (legale e convenzionale), in Riv. dir. civ., 1980, I, p. 353. Contra, Di
Martino, Comunione legale, tutela
dei creditori e azione revocatoria ordinaria, in Rass. dir. civ., 1982, p. 359, nota 54.
[79] Schlesinger, Della comunione legale, cit., p. 95; cfr. inoltre Galasso, Del regime patrimoniale della famiglia, I, Art. 159-230, nel Commentario del Codice Civile, diretto da Scialoja e Branca, a cura di Galgano, Bologna-Roma, 2003, p. 230 s.; Ferrando, Attribuzioni patrimoniali e liberalità tra coniugi e conviventi, in Corr. giur., 2006, p. 1467 s.
[80] V. gli Autori citati alle note precedenti.
[81] Il dubbio è posto da Bianca,
Comunione legale e collazione, in Vita notar., 1981, p. 805 ss., il quale
lascia così intendere di ritenere che siffatto comportamento del creditore sia
configurabile alla stregua di una donazione indiretta.
[82] Questo è invece l’avviso di Corsi, Il regime
patrimoniale della famiglia, II, cit., p. 189.
[83] Cfr. Oppo,
Regimi patrimoniali della famiglia e
fallimento del coniuge, in Riv. dir.
civ., 1988, p. 29 ss.; Morace Pinelli,
Interesse della famiglia e tutela dei
creditori, Milano, 2003, p. 293 ss.
[84] Su cui cfr. Oberto,
La comunione legale tra coniugi, II,
cit., 1030 ss., 1055 ss.
[85] Afferma Criaco,
Liberalità e rapporti patrimoniali tra
coniugi, Milano, 2008, p. 184 ss., che Cass., 25 febbraio 1987, n. 2003
avrebbe riconosciuto il carattere di donazione indiretta ad un acquisto
immobiliare effettuato dal marito con denaro personale, senza rendere la
dichiarazione di cui all’art. 179, lett. f), c.c. In realtà, la fattispecie
sottoposta all’esame della Corte in quell’occasione aveva ad oggetto acquisti
operati prima dell’entrata in vigore della riforma del 1975 e la donazione
indiretta era stata riconosciuta dalla corte d’appello (con giudizio confermato
in sede di legittimità), quale conseguenza della cointestazione dei cespiti anche
a favore della moglie, per quote uguali, avendo la stessa partecipato all’atto
d’acquisto come coacquirente (e senza aver effettuato esborsi per l’acquisto),
in una situazione, dunque, di comunione ordinaria. La decisione (in Dir. fam., 1987, p. 613; in Arch. civ., 1987, p. 616; in Giur. it., 1989, I, 1, c. 1771, con nota
di Ghiglieri; in Riv. notar., 1990, II, p. 438) si
segnala anche per aver ammesso la revocabilità delle donazioni (nella specie: indirette)
tra coniugi per ingratitudine (sul tema v. per tutti Oberto, Il regime di
separazione dei beni tra coniugi, Artt. 215-219, in Il codice civile. Commentario fondato e già diretto da Schlesinger,
continuato da Busnelli, Milano, 2005, p. 353 ss.).
[86] Questa è l’opinione di Ferrando, Attribuzioni
patrimoniali e liberalità tra coniugi e conviventi, in Corr. giur., 2006, p. 1468, la quale avverte correttamente che
l’operazione descritta nel testo costituisce «un’opzione che può avere in
concreto una varietà di cause giustificative, e solo a non considerare
l’intreccio di rapporti personali e patrimoniali che si dipanano
nell’esperienza di ciascuna famiglia si può pregiudizialmente attribuirlo a
mero spirito di liberalità. Liberalità che può sussistere, ma solo quando in
concreto se ne dia la prova». Nella medesima ottica sembra porsi anche Carrabba, Liberalità
e rapporto coniugale, in Riv. notar.,
2009, II, p. 331 ss., ad avviso del quale, qualora «il coniuge impieghi
per l’acquisto cespiti personali ai sensi del richiamato art. 179 c.c., con un
comportamento consapevole e non frutto di errore o di mancata conoscenza delle
regole che governano il regime della comunione legale, con una precisa volontà
liberale nei confronti del proprio compagno di vita e non, ad esempio, in
adempimento di un dovere morale o per realizzare con maggiore intensità sotto
il profilo patrimoniale il rapporto coniugale, si è propensi a rilevare la
sussistenza di una donazione indiretta rispetto alla metà del valore
dell’acquisto ovvero rispetto ad una quota pari ad un mezzo dell’intero del
bene acquisito omettendo la dichiarazione di esclusione prevista dalla lettera
f) del citato art. 179». Per Riva,
La comunione legale, Padova, 2007, p.
198, l’operazione dà luogo ad una liberalità indiretta, con conseguente
impossibilità, da parte del coniuge, di avanzare pretese restitutorie in sede
di scioglimento del regime. Unica chance
in tal senso potrebbe essere la prova del fatto che l’esborso era stato
compiuto senza intento donativo, ma a titolo di mutuo, con conseguente obbligo
restitutorio. Si noti peraltro che, specie nei rapporti endofamiliari, la
giurisprudenza richiede, correttamente, che la prova del mutuo sia fornita con
particolare rigore: cfr. Cass., 7 aprile 2009, n. 8386; Cass., 28 maggio 2009,
n. 12551. Sulla validità di un impegno diretto a ripartire in modo diverso da
quello paritario il contributo da fornire per l’acquisto di un bene in
comunione cfr. Oberto, La comunione legale tra coniugi, II,
cit., p. 1949 ss. Sul carattere di donazione indiretta proprio dell’operazione
consistente nell’acquisto di un bene con risorse di provenienza personale,
senza applicazione del meccanismo di cui all’art. 179, lett. f), c.c., v. anche
Criaco, op. cit., p. 195 ss. (la quale non prende però posizione sul
punto).
[87] Cfr. Bianca,
Comunione legale e collazione, cit., p.
805 ss., secondo il quale, ai fini dell’applicabilità delle norme in tema di
collazione, sarebbe irrilevante l’accertamento dell’esistenza dell’animus donandi. Nel senso invece che l’ animus donandi è elemento necessario (ancorché non
sufficiente) della donazione indiretta è orientata la
giurisprudenza: cfr. Cass., 11 marzo 1970, n. 630, secondo cui «Per
accertare se rimesse periodiche di danaro dal de cuius al figlio che
rappresentava di versare in stato di bisogno, costituiscano donazioni soggette
a collazione ovvero aiuti economici, non è sufficiente risalire alla intenzione
del de cuius (animus donandi eventualmente soggettivo), ma occorre anche
escludere che le prestazioni costituirono adempimento di un dovere giuridico
(prestazione di alimenti al figlio in stato di bisogno e non in grado di
provvedere al proprio mantenimento)». L’Autore citato conclude (cfr. Bianca, Comunione legale e collazione, cit., p. 808) che il coniuge
ha sempre l’obbligo di conferire in collazione per la sua quota i beni della
comunione legale quando si tratta di beni che l’altro coniuge aveva acquistato
mediante il ricavo dell’alienazione di beni personali o mediante lo scambio di
questi. Conviene con queste conclusioni Schlesinger,
Della comunione legale, cit., p. 95
s.
[88] Cfr. in questo senso Schlesinger,
Della comunione legale, cit., p. 95.
[89] Cfr. Oppo,
Acquisto alla comunione legale e
pregiudizio dei creditori personali, in Riv.
dir. civ., 1981, I, p. 137 ss.; Corsi,
Il regime patrimoniale della famiglia,
II, cit., p. 185 ss.; A. e M. Finocchiaro,
Diritto di famiglia, I, cit., p. 1148
s.; Di Martino, Gli acquisti in regime di comunione legale
fra coniugi, Milano, 1984, p. 208 ss.;
Auletta, La comunione legale,
cit., p. 52 s.; Cavallaro, Il
regime di separazione dei beni fra i coniugi, Milano, 1997, p. 124; Contra
Jannuzzi, Comunione legale e fallimento, in Giur. merito, 1978, p. 204 ss.; Cian
e Villani, La comunione dei beni tra coniugi (legale e
convenzionale), cit., p. 353.
[90] Cfr. Cass., 17 febbraio 1989, n. 954, in Foro it., 1989, I, c. 2218 con nota di Parente. La motivazione è stata ripresa
dalla Suprema Corte anche nelle successive pronunce, conformi, in tema di rapporti
tra presunzione muciana e comunione legale, che – oltre a statuire
l’inapplicabilità dell’art. 70, r.d. 16 marzo 1942, n. 267 al fallimento di
soggetto coniugato in regime di comunione legale (il principio è stato poi
esteso alle famiglie in regime di separazione da Cass., Sez. Un., 12 giugno
1997, n. 5291, in Foro it., 1997, I,
2421) – ha espressamente precisato che il curatore può agire con l’azione
revocatoria, ordinaria ovvero speciale (ex
art. 64, l. fall., trattandosi di atto a titolo gratuito), sia nel caso di
acquisti effettuati (senza esercizio del diritto di surrogazione) mediante
l’impiego di beni personali, sia nel caso di acquisti operati mediante beni
appartenenti alla comunione de residuo.
Come posto in luce da a Beccara, [La comunione legale]. I beni personali,
nel Trattato di diritto di famiglia,
diretto da Zatti, III, Regime
patrimoniale della famiglia, Milano, 2002,
p. 196 s., in tale seconda eventualità è però dato replicare
ulteriormente che i beni in comunione residuale non sono suscettibili di
surrogazione, onde il coniuge non può, anche volendolo, evitare la caduta in
comunione dell’acquisto.
[91] Contra, sul
punto, Auletta, op. loc. ultt. citt., ad avviso del
quale, per far venir meno l’effetto legale del coacquisto dipendente dal negozio
stipulato con il terzo, occorrerebbe «rimuovere l’atto stesso», che all’effetto
automatico ha dato luogo.
[92] Cfr. Auletta,
La comunione legale, cit., p. 51. V.
inoltre Oppo, Acquisto alla comunione
coniugale e pregiudizio dei creditori personali, cit., p. 225 ss.; Schlesinger, Della comunione legale, cit., p. 97. Contra, Jannuzzi, Comunione legale e fallimento, in Giur. merito, 1978, p. 204 ss.
[93] Cfr. Auletta,
La comunione legale, cit., p. 51. Nel
senso della revocabilità (quale atto a titolo oneroso) della permuta di bene
personale effettuata senza applicare l’art. 179, lett. f), c.c., in presenza
dei presupposti ex art. 2901 c.c., con azione da intentarsi contro
entrambi i coniugi, cfr. anche Corsi,
Il regime patrimoniale della famiglia, I, cit., p. 69, il quale soggiunge (nota 60) che, pure nel
diverso caso di azione revocatoria intentata dai creditori del venditore
andrebbero convenuti entrambi i coniugi, posto che l’atto va dichiarato
inefficace anche contro il coniuge non acquirente ex contractu, ma coacquirente ex
lege, laddove peraltro gli stati soggettivi rilevanti sarebbero solo quelli
del coniuge agente. Schlesinger, Della comunione legale, cit., p. 95 s.,
rileva che l’atto di liberalità non sussiste quando non ricorre un intento
siffatto nell’acquirente (ad esempio, nel caso di mancato esercizio del diritto
di surrogazione per ignoranza o dimenticanza: nello stesso senso cfr. anche
quanto illustrato poco sopra nel testo).
[94] Cfr. Oberto,
La comunione legale tra coniugi, I,
cit., p. 859 ss.
[95] Alle medesime conclusioni, sebbene con argomentazioni
almeno in parte divergenti, perviene anche Morace
Pinelli, Interesse della famiglia
e tutela dei creditori, cit., p. 298 ss.
[96] Ma non persuasiva: cfr. Oberto, La comunione
legale tra coniugi, I, cit., p. 1055 ss.
[97] Per una serie di critiche alla quale cfr. Oberto, La comunione legale tra coniugi, I, cit., p. 1055 ss.
[98] Per non dire poi del fatto che chi ammette tale
possibilità si vede poi comunque costretto a limitare gli effetti verso i terzi
di un’eventuale riduzione della disposizione frutto dell’operatività del
coacquisto ex lege. Così, ad es., Carrabba, Liberalità
e rapporto coniugale, in Riv. notar.,
2009, II, p. 331 s. afferma che «in assenza di un animus donandi manifesto e di un titolo formalmente donativo, in
presenza di una acquisizione che almeno apparentemente trova fondamento nelle
ragioni che sono alla base del regime di comunione tra i coniugi, non potrà
esperirsi nei confronti dei terzi acquirenti l’azione di restituzione ex art. 563 c.c., che suppone
l’esistenza di un atto ex art. 769
c.c., che, perché rilevabile dai terzi, rende accettabile il sacrificio delle
loro ragioni, sacrificio altrimenti non giustificabile anche alla luce della
dialettica, presente nell’ordinamento, tra il principio espresso dal noto
brocardo latino resoluto iure dantis
resolvitur et ius accipientis e la tutela dell’affidamento, come lasciano
arguire il secondo comma del citato art. 563, che con riferimento ai beni
mobili fa salvi gli effetti del possesso di buona fede, e le regole sulla
contrattazione immobiliare e sul relativo sistema di pubblicità».
[99] Configurabilità che lo scrivente, come detto,
comunque non ravvisa.
[101] Alle medesime conclusioni, sebbene con argomentazioni
divergenti, perviene anche Morace Pinelli,
Interesse della famiglia e tutela dei
creditori, cit., p. 344 ss. Secondo l’Autore, infatti, la ragione per cui i
creditori non possono revocare l’effetto di coacquisto automatico deriverebbe
dalla circostanza che l’impiego di mezzi personali per l’acquisto costituirebbe
una forma di adempimento del dovere di contribuzione ex art. 143 c.c. Ma la tesi sembra sovrapporre questioni attinenti
al profilo contributivo, che caratterizza il regime primario, a problematiche
relative al – ben distinto – profilo distributivo, che contraddistingue invece
il regime legale. In ogni caso, anche a voler inammissibilmente considerare il
fenomeno in esame come una forma di contribuzione, è chiaro che l’impiego di
beni personali per acquisti destinati a cadere in comunione non è certo atto
«necessitato»: certo non più di quanto non lo sia la destinazione di cespiti a
fondo patrimoniale, per la quale la giurisprudenza coralmente (e correttamente)
ripudia la teoria del negozio a titolo oneroso.
[102] Sull’ammissibilità del quale, nonostante le
perplessità dottrinali ed i veti della più recente giurisprudenza, cfr. Oberto, La comunione legale tra coniugi, I, cit., p. 1102 ss.
[103] In questo senso cfr. anche, ad es., Calice e Acquaviva,
Inammissibilità del rifiuto del
coacquisto, Nota a Cass., 27 febbraio 2003, n. 2954, in Contratti, 2003, p. 669 ss., secondo cui
«qualora il denaro o i beni impiegati per l’acquisto fossero della comunione
tra i coniugi e si procedesse al rifiuto del coacquisto con animus donandi, si paleserebbe una
donazione indiretta con tutte le conseguenze in tema di legge applicabile alla
forma ed alla sostanza, riunione fittizia, collazione ed imputazione ex se». Anche Carrabba, Liberalità e rapporto coniugale,
loc. ult. cit., vede nel rifiuto del coacquisto ex lege uno strumento idoneo ad effettuare una liberalità non
donativa in favore dell’altro coniuge.
[104] Sulla natura di bene proprio di tale denaro fino al
momento dello scioglimento cfr. Oberto,
La comunione legale tra coniugi, I,
cit., p. 859 ss.
[105] Sui rapporti tra queste due fattispecie cfr. Oberto, La comunione legale tra coniugi, II, cit., p. 1938 ss.
[108] Sul tema v. da ultimo Cass., 11 dicembre 2018, n.
31978; per i richiami alla dottrina cfr. Oberto,
La comunione legale tra coniugi, I,
cit., p. 961 ss.
[110] Cfr. Oberto,
La comunione legale tra coniugi, I,
cit., p. 958 ss. Si tenga presente, poi, che, anche da un punto di vista più
generale, la previsione di cui all’art. 177, lett. a), c.c., conformemente alla
ratio che presiede al regime legale,
riguarda esclusivamente gli acquisti provenienti da terzi e non gli atti di
disposizione intercorsi tra i coniugi stessi: in questo senso in giurisprudenza
v. Cass., 6 marzo 2008, n. 6120, in Fam.
e dir., 2008, p. 876, con nota di Paladini.
[111] Un dubbio potrebbe sorgere in relazione ai beni personali
per surrogazione ai sensi della lett. f) del comma citato, a seconda che si
ritenga essenziale (con la prevalente dottrina) la dichiarazione ivi prevista,
ovvero si pensi (con la prevalente giurisprudenza) che è sufficiente la
presenza di una «certezza» fattuale sulla provenienza dei mezzi impiegati per
l’acquisto (sul tema si fa rinvio a Oberto,
La comunione legale tra coniugi, I,
cit., p. 1037 ss.). Nella prima ipotesi la fattispecie sarebbe da trattare come
quella relativa al capoverso dell’art. 179 c.c., di cui si dirà immediatamente
nel testo (caduta in comunione, con conseguente donazione della sola quota del
donante), nel secondo caso la soluzione sarebbe analoga a quella relativa a
tutte le altre ipotesi del primo comma (personalità del bene e donazione
diretta di esso). La donazione al coniuge avrebbe pertanto determinato un
acquisto personale di tutto il bene per il donatario ai sensi dell’art. 179,
lett. b), c.c.
[112] In questo senso cfr. Corsi,
Il regime patrimoniale della famiglia,
I, cit., p. 121 s., 126; contra Schlesinger, Della comunione legale,
cit., p. 176, che argomenta dalla regola della necessaria parità delle quote;
v. anche Auletta, La comunione legale, cit., p. 191; Criaco, op. cit., p. 166. A fortiori
deve poi ammettersi la donazione di un bene personale (o della quota di un bene
personale) da un coniuge all’altro. Tale negozio dà luogo ad un acquisto
personale ex art. 179, lett. b),
c.c., in capo al donatario, a meno che non risulti la volontà di far cadere il
bene (o la quota) in comunione: qui è però evidente che la donazione sarebbe
tale solo per la metà (del bene o della quota donata). In questo modo si può
anche attuare una vera e propria destinazione alla comunione (
[113] Afferma Andrini,
L’autonomia privata dei coniugi tra status e contratto. Le convenzioni coniugali,
cit., p. 162, che «Non sono inusuali oggi, nella pratica notarile, atti di tale
natura aventi il tipo negoziale della cessione di diritti o della donazione (e
comunque la forma dell’atto pubblico con i testimoni) nella cui premessa si
manifesta l’intenzione dei coniugi di estromettere il bene dalla comunione,
assegnandolo in piena proprietà ad uno di essi, e nel cui dispositivo si
dichiara tale volontà».
[114] Sul tema si rinvia a Oberto,
La comunione legale tra coniugi, II,
cit., p. 1688.
[115] Da notare che in dottrina non fanno difetto posizioni
che tendono a ravvisare la ratio del
divieto di alienazione della quota in una situazione attinente ai rapporti inter coniuges, vale a dire nell’
«esigenza propria dell’istituto consistente nel garantire il godimento dei beni
in comune a entrambi i coniugi fino allo scioglimento o comunque fino a diversa
concorde volontà» (così, ad es., Martini, L’esclusione di un bene comune dal regime patrimoniale legale o di
comunione convenzionale dei coniugi, in Vita notar., 2004, p. 1226).
E’ comunque evidente che anche così ragionando non sussistono motivi per
ritenere impedito un atto dispositivo «interno», sulla base dell’accordo delle
parti.
[116] Per analoghe considerazioni cfr. G. Gabrielli, Scioglimento parziale della comunione legale fra coniugi. Esclusione
dalla comunione di singoli beni e rifiuto preventivo del coacquisto, in Riv. dir. civ., 1988, I, p. 341 ss., 356
ss., 358 s. cfr. inoltre Surdi, Sull’estromissione di singoli beni dalla comunione
legale tra coniugi, in Dir. fam.,
1999, p. 1454 ss.
[117] Il tema è sviluppato in Oberto, La comunione
legale tra coniugi, I, cit., p. 327 ss., 958 ss.
[118] Con l’eventuale unica eccezione costituita
dall’ipotesi di cui alla lett. f), che, a seconda della tesi che si intenda
seguire sulla necessità (o meno) della dichiarazione ivi prevista, determina
l’applicazione della regola qui enunciata, o, in alternativa, di quella
relativa ai beni di cui all’art. 179 cpv. c.c., come in precedenza spiegato.
[121] Se è vero che l’utilità di tale espediente potrebbe
risultare dubbia, alla luce del rilievo secondo cui appare piuttosto
controversa l’estensibilità dell’effetto di cui all’art. 1988 c.c. (astrazione
processuale) ai rapporti di carattere reale, si potrebbe allora consigliare di
specificare, accanto ad ognuno dei singoli beni, il rispettivo titolo
d’acquisto: la sottoscrizione apposta dal coniuge assumerebbe così valore confessorio
non solo in ordine alla proprietà (ed è noto che sotto questo profilo la
dichiarazione sarebbe irrilevante, risolvendosi in un giudizio), ma anche sulle
vicende (e dunque su meri fatti) che giustificano l’acquisto singolarmente in
capo a ciascuna delle parti: l’argomento è discusso in Oberto, Il regime di
separazione dei beni tra coniugi, Artt. 215-219, cit., p. 85).
[122] V. in particolare i casi contemplati nel § 9, nonché nel § 10, in fine. A questi potranno aggiungersi
quelli delle donazioni dirette da un coniuge all’altro, alle condizioni però
descritte supra nel § 11.
[123] Su siffatta ratio
del regime legale cfr. Oberto, La comunione legale tra coniugi, I,
cit., p. 349 ss.
[124] Cfr. al riguardo Oberto,
La comunione legale tra coniugi, I,
cit., p. 921 ss., II, cit., p. 1512.
[126] Cfr. Cass., Sez. Un., 11 luglio 2018, n. 18287, su cui
già esiste una letteratura sterminata. Alla decisione ed alle sue conseguenze
la rivista Fam. e dir. ha dedicato un
intero numero monografico (cfr. Fam. e
dir., 2018, n. 11/2018, p. 955 ss.). Collocandosi immediatamente in tale
solco, Cass., 28 febbraio 2019, n. 5975, giunge ad attribuire all’assegno
divorzile una (ad avviso di chi scrive del tutto impropria) «funzione
equilibratrice del reddito degli ex coniugi»: funzione che se, a ben vedere,
nessuna norma del vigente ordinamento impone, ben potrebbe essere svolta da un
apposito contratto della crisi coniugale, stipulato vuoi prima, vuoi dopo
l’insorgere della crisi, sulla base della sovrana volontà delle parti, nel
contesto del quale un ruolo chiave ben potrebbe essere svolto dal mutuo
dissenso di cui qui si discute.
[127] Si tratterebbe in questo caso, evidentemente, non di
un prenuptial, ma di un postnuptial agreement in contemplation of
divorce, per il quale peraltro si pongono gli stessi problemi relativi ai
contratti prematrimoniali, come dimostrato dalla prima sentenza italiana che ad
occuparsi specificamente dell’argomento, in un’ottica
internazionalprivatistica, vale a dire Cass., 3 maggio 1984, n. 2682, in Riv. dir. int. priv., 1985, p. 579; in Dir. fam. pers., 1984, p. 521:
«L’accordo, rivolto a regolamentare, in previsione di futuro divorzio, i
rapporti patrimoniali fra coniugi, che sia stato stipulato fra cittadini
stranieri (nella specie, statunitensi) sposati all’estero e residenti in
Italia, e che risulti valido secondo la legge nazionale dei medesimi
(applicabile ai sensi degli artt. 19 e 20 delle disposizioni sulla legge in
generale), è operante in Italia, senza necessità di omologazione o recepimento
delle sue clausole in un provvedimento giurisdizionale, tenuto conto che
l’ordine pubblico, posto dall’art. 31 delle citate disposizioni come limite
all’efficacia delle convenzioni fra stranieri, riguarda l’ordine pubblico
cosiddetto internazionale, e che in tale nozione non può essere incluso il
principio dell’ordinamento italiano, circa l’invalidità di un accordo di tipo
preventivo fra i coniugi sui rapporti patrimoniali successivi al divorzio, il
quale attiene all’ordine pubblico interno e trova conseguente applicazione solo
per il matrimonio celebrato secondo l’ordinamento italiano e fra cittadini
italiani».
[128] Sul tema, che non può certo essere affrontato nella
presente sede, si fa rinvio a Oberto,
I contratti della crisi coniugale, I,
cit., p. 483 ss.; Id., « Prenuptial agreements in contemplation of
divorce » e disponibilità in via preventiva dei diritti connessi alla crisi
coniugale, in Riv. dir. civ.,
1999, II, p. 171 ss.; Id., Contratto e famiglia, cit., p. 253 ss.; Id., Gli
accordi preventivi sulla crisi coniugale, in Familia, 2008, p. 25 ss.
[129] Sul tema della «fuga dalla comunione» cfr. Sesta, Titolarità e prova della proprietà nel regime di separazione dei beni,
in Familia, 2001, p. 871 ss.; Sesta e Valignani,
Il regime di separazione dei beni,
nel Trattato di diritto di famiglia, diretto da Zatti, III, Regime patrimoniale della
famiglia, Milano, 2002, p. 460; Oberto,
Attualità del regime legale, in Fam. e dir., 2019, p. 85 ss.
[130] Nel senso che la funzione perequativa delle relazioni
patrimoniali tra coniugi dovrebbe essere svolta più dal regime prescelto, che
non dall’assegno di divorzio, vanno anche le riflessioni di molti degli Autori
che si sono occupati dei criteri che presiedono alla determinazione delle
prestazioni postmatrimoniali ai sensi dell’art. 5 l.div.; cfr. ad es. S. Patti, Assegno di divorzio: il “passo indietro” delle Sezioni Unite, in Corr. giur., 2018, p. 1200, il quale
rileva che «per valutare le circostanze su cui si basa la richiesta
dell’assegno, nell’ambito delle decisioni riguardanti l’indirizzo della vita
familiare, non può trascurarsi il regime patrimoniale scelto dai coniugi. In
molti casi, la decisione favorevole alla “comunione legale”, con l’acquisto da
parte del coniuge del 50% dei beni conseguiti durante la vita matrimoniale
dall’altro coniuge, serve proprio a compensare i proventi che sarebbero derivati
dall’interrotta attività lavorativa»; v. inoltre sullo stesso tema Quadri, Il superamento della distinzione tra criteri attributivi e
determinativi dell’assegno di divorzio, in Fam. e dir., 2018, p. 971 ss.; Sesta,
Attribuzione e determinazione dell’assegno
divorzile: la rilevanza delle scelte di indirizzo della vita familiare, ivi, p. 990 ss.