IL RUOLO DELL’ART.
NEL SISTEMA DEI RAPPORTI
PATRIMONIALI
DEL MATRIMONIO E
DELL’UNIONE CIVILE
Sommario: 1. Generalità. La regola
di cui all’art. 159 c.c. e la sua genesi. - 2. L’art.
159 c.c. e il favor communionis. - 3. Art. 159 c.c. e onere della prova sull’esistenza del
regime di comunione legale. - 4. L’effettiva portata
dell’art. 159 c.c. Comunione legale e separazione dei beni: qualche spunto di
tipo sociologico. - 5. Il ruolo dell’art. 159 c.c. nella
determinazione dell’autonomia privata dei coniugi in comunione dei beni. - 6. Il ruolo dell’art. 159 c.c. nella definizione della
nozione di convenzione matrimoniale (e della relativa natura contrattuale). -
7. Ulteriori profili di negozialità delle convenzioni
matrimoniali (in particolare: rappresentanza, impugnabilità, elementi
accidentali). - 8. Convenzioni matrimoniali e contratto
di matrimonio. Il concetto di «regime patrimoniale della famiglia». - 9. Convenzioni matrimoniali, matrimonio e crisi coniugale.
- 10. Convenzioni matrimoniali e autonomia negoziale.
L’ammissibilità di regimi patrimoniali atipici. - 11.
Convenzioni matrimoniali e autonomia negoziale. La progressiva erosione della
sfera di applicabilità delle regole in tema di forma delle convenzioni
matrimoniali. - 12. Il problema del trust familiare. Il dibattito
sull’ammissibilità di un trust «interno».
- 13. Alcune specifiche questioni relative al trust familiare. Trust, vincolo ex art.
2645 ter c.c. e convenzione
matrimoniale. - 14. Le convenzioni matrimoniali nel
quadro generale dei rapporti patrimoniali tra civilmente uniti. La tecnica
normativa adottata dalla novella del 2016. – 15. Le
disposizioni codicistiche in tema di convenzioni matrimoniali escluse dal
rinvio e quelle espressamente richiamate in tema di unione civile. - 16. L’art. 159 c.c. nel sistema dei rapporti patrimoniali
dell’unione civile. |
1.
Generalità. La regola di cui all’art. 159 c.c. e la sua genesi.
L’art. 159 c.c., collocato in apertura
del Capo VI del Titolo VI del Libro I, dedicato al regime patrimoniale della
famiglia, pone la regola fondamentale secondo cui, a seguito della riforma del
1975 (l. dir. fam.), il regime patrimoniale operante ex lege, in mancanza di diverso accordo tra i coniugi, è quello
della comunione dei beni[1]. Il superamento del previgente sistema separatista,
retaggio del diritto romano, di quello comune, nonché dei codici preunitari,
del c.c. 1865 e di quello vigente sino all’entrata in vigore della riforma
predetta, ha senz’altro costituito uno dei punti qualificanti di quest’ultima.
L’origine di tale «rivoluzione
copernicana» va ricercata nei movimenti d’opinione formatisi nel decennio
compreso tra la metà degli anni Sessanta e la metà degli anni Settanta dello
scorso secolo, periodo che appare di fondamentale importanza per comprendere la
genesi dell’odierno diritto di famiglia italiano[2]. Il punto di partenza per quest’opera legislativa fu
il cosiddetto (primo) Progetto Reale del 1967[3]. Nello stesso periodo assunse un rilievo determinante
l’attività della Corte costituzionale[4], che eliminò alcune delle più evidenti storture della
legislazione ordinaria rispetto al principio costituzionale d’uguaglianza
scolpito negli artt. 3 e 29 della Carta fondamentale[5], in tal modo preparando, anche in relazione ai regimi
patrimoniali, in maniera definitiva e irreversibile, quello che in altra sede
chi scrive ha definito il «passaggio dalla concezione istituzionale alla
concezione costituzionale della famiglia»[6].
La scelta della comunione dei
beni come regime patrimoniale legale fu compiuta già dal primo Progetto Reale,
che prevedeva la sostituzione dell’art. 215 c.c. 1942 con il seguente, di
contenuto identico proprio all’articolo qui in esame: «Il regime patrimoniale
legale della famiglia, in mancanza di diversa convenzione stipulata per atto
pubblico, anche dopo il matrimonio, è costituito dalla comunione dei beni». Due
le motivazioni addotte per questo mutamento legislativo: da un lato, si voleva
«eliminare l’autonomia patrimoniale di ciascun coniuge nell’ambito della
famiglia, che determina inevitabilmente il costituirsi di elementi di
contrasto» all’interno del nucleo familiare. Dall’altro si dichiarava di voler
«sopprimere un’evidente ingiustizia nei confronti della donna il cui lavoro
domestico (...) si sostanzia sovente in una dura se pur non appariscente
fatica»[7]. In base al principio di parità morale e giuridica,
richiesto dal dettato costituzionale, sembrò dunque agli estensori del progetto
Reale che la comunione dei beni fosse il regime patrimoniale meglio rispondente
alle esigenze della «nuova» famiglia italiana[8].
Da notare ancora, rispetto a tale
progetto[9], che, in esso, accanto ad una comunione immediata,
che si risolveva nella comproprietà dei beni acquistati, a qualunque titolo,
dall’uno o dall’altro coniuge dopo il matrimonio[10], appariva per la prima volta un modello «alternativo»
di compartecipazione, riconducibile alla figura della contitolarità che oggi
definiremmo come de residuo, per i
proventi dell’attività lavorativa ed i frutti di beni propri di ciascun
coniuge, essendo stabilito al riguardo che tali beni si sarebbero considerati
appartenenti alla comunione se, allo scioglimento di questa, non fossero stati
consumati. Venivano poi esclusi dal regime legale «i beni di ciascun coniuge
destinati all’esercizio di una impresa, anche se questa è costituita dopo il
matrimonio», nonché quelli «derivanti da donazione o da successione, ovvero
fatti col prezzo del trasferimento di beni già appartenenti in proprio ad uno
dei coniugi, purché ciò risulti espressamente dall’atto di acquisto»[11].
Al primo Progetto Reale fece
seguito un secondo Progetto Reale, presentato alla Camera dei Deputati il
giorno 11.10.1968, oltre ad altri progetti di diverse colorazioni politiche,
noti per i nomi dei relativi proponenti: Ruffini e Martini, Jotti, Gatti
Caporaso, Falcucci, Fortuna[12]. Mentre la proposta di legge Reale e quella Jotti
prevedevano, quale oggetto della comunione, gli acquisti eseguiti
congiuntamente o disgiuntamente dai coniugi successivamente al matrimonio e la
quota non consumata di proventi dell’attività separata di ciascun coniuge,
nonché i frutti dei beni personali, la proposta di legge Falcucci e quella
Ruffini e Martini comprendevano nella comunione accanto agli altri acquisti,
anche i redditi individuali ed escludevano unicamente i beni pervenuti per
donazione o per successione a causa di morte, oltre a quelli acquistati con i
proventi di uno di questi beni o di quelli acquistati dal coniuge prima del
matrimonio. Il progetto Gatti Caporaso, infine, comprendeva nella comunione gli
acquisti fatti a qualunque titolo dai coniugi, congiuntamente o separatamente,
dopo il matrimonio, eccezion fatta per i diritti inalienabili, i crediti e le
pensioni non cedibili.
Come rilevato in dottrina[13], l’analisi dei diversi progetti e delle relazioni che
li accompagnano pone in evidenza come, al di sotto dell’apparente adesione ad
una comune idea fondamentale – la quale si sostanziava nel convincimento
dell’intima e necessaria coerenza tra concezione comunitaria della famiglia e
comunione dei beni tra coniugi – si muovessero nell’ambito dei partiti politici
e della cultura giuridica italiana due posizioni fondamentali tra loro
contrapposte[14]. Da un lato, infatti, si poneva chi, sostanzialmente
riprendendo i temi già espressi nella relazione al progetto preliminare del
codice civile del 1942, riteneva che la concezione unitaria e comunitaria della
famiglia dovesse necessariamente esprimersi, nel settore patrimoniale, in una
comunione possibilmente estesa a tutti i redditi e a tutti gli acquisti
comunque realizzati dall’uno o dall’altro coniuge durante il matrimonio[15]. Dall’altro lato si poneva invece chi riteneva
inaccettabile una concezione che riducesse la famiglia ad una struttura
sostanzialmente aziendalistica, affermando che si sarebbero comunque dovuti
riservare degli spazi di libertà a chi avesse ritenuto di vivere la sua vita
familiare con una certa autonomia nel campo economico[16].
Queste contrapposte visioni
confluirono poi nel testo che portò a definitivo compimento l’opera di riforma:
vale a dire il cosiddetto Progetto unificato, elaborato da un Comitato
ristretto della Commissione Giustizia della Camera dei Deputati nell’aprile
1971 sulla base delle varie proposte di legge fino ad allora presentate. In
seguito all’anticipato scioglimento delle Camere il testo unificato, approvato
il 18 dicembre 1971, decadde, ma nella VI legislatura venne
ripresentato[17] e definitivamente approvato[18].
Si è esattamente rilevato in
dottrina[19] che la storia dei progetti di riforma è, per questa
parte, essenzialmente la storia dei tentativi di comporre questi diversi
criteri ispiratori, realizzando la sintesi tra il principio di solidarietà e
quello di libertà. Di grande rilievo fu il ruolo giocato in quel periodo dagli
Studiosi che, anche per mezzo di pregevoli studi fondati sulla comparazione con
sistemi stranieri[20], posero in evidenza come la proposta nuova disciplina
legale dei rapporti patrimoniali tra coniugi fosse volta a realizzare la
finalità di migliorare la posizione familiare della donna e ciò sia in vista di
una più puntuale attuazione del dettato costituzionale della parità tra
coniugi, sia in vista di una maggiore e più equa valutazione dei lavoro
domestico[21]. La soluzione legislativa adottata nel 1975, pur
realizzando il lodevole intento di modernizzare il sistema dei rapporti
patrimoniali della famiglia italiana, sembra però aver troppo fortemente risentito
della frattura tra le contrapposte visuali di cui si è riferito, risolvendosi,
sul piano della tecnica legislativa e redazionale[22], nella predisposizione di un istituto dai caratteri
incerti e contraddittori, che mal si presta a realizzare i risultati voluti e
che anzi mortifica l’ordinamento patrimoniale della famiglia in una serie di
regole spicciole, che è difficile concepire in unità di ratio[23]. Questa ambigua soluzione di politica legislativa,
pur di fronte ad una quantità rilevante di problemi lasciati irrisolti, ed anzi
evidenziati dall’elaborazione dottrinale e giurisprudenziale, ha trovato
peraltro conferma oltre quarant’anni dopo con la l. 20.5.2016, n. 76, che ha
sostanzialmente reso applicabili all’unione civile pressoché tutte le norme
relative al regime patrimoniale tra coniugi[24]. Per tali ragioni continuano a mantenere vigore le
raccomandazioni formulate in altra sede dallo scrivente per salvare ciò che
merita di essere salvato del regime legale[25].
2. L’art. 159 c.c. e il favor communionis.
L’art. 159 c.c. svolge un ruolo
di primo piano nell’individuazione dell’esistenza, nel nostro ordinamento, di
un favor communionis. È noto, al
riguardo, che nonostante la chiarezza del dettato normativo di cui alla
disposizione in esame, non sono mancate voci, nell’ambito dottrinale, le quali
hanno contestato la possibilità di individuare un criterio di favor legis verso l’istituto della
comunione legale.
Prova dell’inesistenza di un
principio legislativo di favore verso la comunione sarebbe data[26] dal 1° co. dell’art. 228 della
novella: una norma che concedeva, in relazione alle coppie costituite prima
dell’entrata in vigore della riforma, la possibilità di escludere
l’applicazione del regime legale sulla base di una manifestazione di volontà
anche solo unilaterale. Ma a quest’impostazione si potrebbe obiettare che la
disciplina transitoria non può certo essere presa in considerazione quale
modello paradigmatico per estrapolare principi valevoli per la disciplina di un
istituto novellamente introdotto. Se si pensa al fatto che la comunione legale,
sostanzialmente estranea alla nostra tradizione giuridica, veniva introdotta
dopo secoli di regime separatista ed applicata (anche se con efficacia ex nunc) anche alle coppie già
costituite alla data di entrata in vigore della riforma, cioè a persone unite
in matrimonio in regime di separazione dieci, venti, trent’anni prima, appare
più che logico[27] pensare che non si sia inteso negare favore verso la
comunione nel momento in cui, pur prevedendosi come legale il nuovo istituto
anche per le vecchie coppie (con riguardo agli acquisti effettuati dopo
l’entrata in vigore del regime), si concedeva la possibilità a ciascuno dei
coniugi di impedire tale effetto e dunque di continuare a vivere sotto il
regime nella vigenza del quale il vincolo matrimoniale era sorto.
Pure l’altro argomento addotto a
sostegno dell’inesistenza di un favor
communionis poggia su di una disposizione nata per risolvere un problema
del tutto peculiare e ormai superato. Ad avviso di una parte della dottrina[28], infatti, il legislatore avrebbe mostrato il suo
sfavore nei riguardi della comunione legale consentendo, con la riforma dell’art. 162, 3° co., c.c., di cui alla l.
10.4.1981, n. 142, una più facile «fuga» da tale
regime. Occorre ricordare in proposito che, prima della modifica in questione,
la disposizione in esame stabiliva che «Le convenzioni possono essere formulate
in ogni tempo, ferme restando le disposizioni dell’art. 194. Dopo la
celebrazione del matrimonio possono essere mutate soltanto previa
autorizzazione del giudice». Ora, secondo la tesi qui criticata, l’eliminazione
del requisito dell’autorizzazione giudiziale[29] avrebbe determinato l’effetto di rendere più agevole l’abbandono del regime legale, così manifestando l’inesistenza di un favore legislativo verso la
comunione. Sul punto andrà però ricordato che – a parte l’evanescenza dei criteri in base ai quali il
giudice avrebbe dovuto concedere o negare l’autorizzazione[30] – dopo alcune iniziali incertezze, l’opinione dominante circa l’interpretazione
della prima versione del nuovo art. 162, 3° co., c.c., introdotto dalla riforma del 1975,
quanto meno in giurisprudenza, si era (correttamente) assestata sulla tesi che
riteneva necessaria l’autorizzazione soltanto nel caso di passaggio da un regime convenzionale a quello
legale, non essendovi, nella situazione opposta, alcuna convenzione da
modificare[31].
È chiaro quindi che, nei fatti,
la soppressione di ogni forma di intervento giurisdizionale per qualsiasi
mutamento di regime venne a togliere di mezzo un ostacolo (assai più formale,
peraltro, che non reale) che poteva esistere proprio per le coppie desiderose
di passare da un regime convenzionale, quale quello separatista, a quello
comunitario. La ‘miniriforma’ del 1981[32] venne dunque ad incoraggiare, di fatto, il passaggio
dalla separazione alla comunione e non viceversa: essa non può pertanto, in
alcun modo, essere presa in considerazione per contrastare l’esistenza di un favor legislatoris nei riguardi del
regime legale.
Un più serio elemento di
contrasto rispetto alla possibilità di individuare l’esistenza di un principio
di favor communionis potrebbe anche
essere visto nella disposizione (cfr. art. 162, 2° co., c.c.) che consente ai coniugi di derogare al regime legale, all’atto
della celebrazione delle nozze, senza ricorrere alle formalità (oltre che alle
spese) dell’atto notarile: la regola, che non sembra avere corrispondenti nei
principali sistemi di riferimento europei, contribuisce a spiegare, almeno in
parte, il successo di siffatta dichiarazione e la conseguente fuga delle nuove
coppie dal regime di comunione di questi ultimi anni[33]. Non vi è dubbio che l’eliminazione del formalismo
costituito dal rogito notarile può costituire un elemento tale da indurre ad
una scelta non sufficientemente ponderata. Peraltro, da questo dato normativo
sembra potersi ricavare non tanto una smentita del principio del favor communionis, quanto piuttosto una
conferma della «dignità» propria del negozio giuridico matrimoniale, consacrato
in un atto sicuramente pubblico, oltre tutto particolarmente «qualificato»,
poiché redatto da un particolare pubblico ufficiale, quale l’ufficiale dello
stato civile, unico legittimato al riguardo[34].
Ma il vero attacco alla
possibilità di individuare un favore legislativo verso la comunione viene da
quella tesi che afferma, addirittura, il carattere eccezionale dell’istituto:
carattere che deriverebbe dal fatto che la regola del coacquisto automatico ex lege, ai sensi dell’art. 177 c.c., si
porrebbe quale norma in deroga rispetto al principio generale di cui all’art.
1372 c.c., che limita alle sole parti del contratto gli effetti di quest’ultimo[35].
Diciamo subito che, da un punto
di vista generale, l’argomento in oggetto appare sminuire in maniera eccessiva
il concetto stesso di acquisto automatico, riducendolo ai soli acquisti a
titolo derivativo; ma, a parte tale rilievo, non vi è dubbio che l’idea di
«generalità» o «specialità» di una data disposizione vada determinata con
riguardo al sistema – o, come si preferisce dire oggi, al «microsistema» – in
cui la norma stessa si colloca. Ora, se è vero che gli acquisti in comunione
costituiscono un tipo speciale di acquisto rispetto alla categoria generale
degli acquisti tout court, è
altrettanto vero che gli acquisti ex
contractu rappresentano a loro volta una categoria speciale rispetto a
quelli in comunione, che, come si è dimostrato in altra sede, possono
comprendere anche altri titoli acquisitivi, dal testamento all’usucapione[36], onde ben potrebbe dirsi che, in questo caso, si
versa in una situazione di «specialità reciproca», con conseguente
improponibilità dell’argomento basato sull’asserita eccezionalità del fenomeno
del coacquisto automatico. A ciò s’aggiunga che appare dogmaticamente scorretto
configurare la prospettabilità di un rapporto regola-eccezione tra l’art. 1372
c.c. e l’art. 177 c.c., posto che la prima norma costituisce, semmai il
presupposto (rectius: uno degli
alternativamente possibili presupposti) perché possa darsi un acquisto (nella
specie, ex contractu) per cui trovi
quindi applicazione il fenomeno dell’acquisto automatico. Ne segue che nessuna
contrapposizione può ipotizzarsi tra le due norme.
Neppure può ipotizzarsi una
supposta eccezionalità della comunione, in quanto situazione «essenzialmente
provvisoria e destinata a risolversi mediante lo strumento della divisione»[37], atteso che, nella dinamica dei rapporti
patrimoniali, essa ha vocazione a permanere per tutta la durata del rapporto
coniugale, tranne che abbia luogo una delle cause (queste, sì, eccezionali!) che
ex art. 191 c.c. appaiono idonee a
determinarne lo scioglimento[38]. Non vi è dubbio quindi che, nel sistema
giusfamiliare (che è l’unico rilevante ai fini dell’indagine su di un istituto
che proprio in tale ambito si colloca) la comunione costituisca la norma e la
separazione dei beni l’eccezione, come del resto confermato dal fatto che la
disciplina dei rapporti patrimoniali tra coniugi si apre con una proclamazione
di principio, contenuta nell’art. 159 c.c., che non lascia adito a dubbi sul
carattere «di regola» proprio del regime legale[39].
3. Art. 159 c.c. e onere della
prova sull’esistenza del regime di comunione legale.
Ci si potrà limitare in questa
sede ad evidenziare, sempre in relazione all’argomento qui trattato,
un’importante ricaduta sul piano processuale dell’affermazione di principio
consacrata nell’art. 159 c.c. Ci si intende qui riferire alla regola relativa
all’onere probatorio, secondo cui, in ogni controversia nella quale sia
rilevante accertare se una data coppia si trovi o meno in regime di comunione,
l’esistenza di un regime difforme da quello legale va dimostrata da chi lo
invoca[40].
Sul punto non possono non venire
in rilievo anche le disposizioni contenute negli artt. 195 e 219 c.c., in relazione
alle quali potrà ricordarsi come un’autorevole dottrina abbia fondato la
sussistenza di un favor communionis proprio
sugli articoli citati, peraltro ritenendo «più convincente» il richiamo alla
seconda norma[41], la quale ha il vantaggio, rispetto alla prima, di
riferirsi indistintamente ad ogni tipo di bene e non (come disposto dall’art.
195 c.c.) ai soli mobili[42], sebbene l’opinione prevalente imponga lo stesso
genere di limitazione anche alla disposizione dettata in materia di separazione
dei beni, cioè appunto all’art. 219 c.c.[43]. La ragione di questa limitazione risiede però nel
fatto che, avuto riguardo alle peculiari regole di trasferimento degli
immobili, occorrerà pur sempre partire dall’indagine sui titoli d’acquisto, per
raffrontare la data d’acquisto comparente sugli stessi con quella di
celebrazione delle nozze e con l’eventuale presenza di annotazioni a margine
dell’atto di matrimonio, da cui risulti l’esistenza di regimi convenzionali.
Meno condivisibile appare invece
il rilievo[44] secondo cui l’art. 195 c.c. sarebbe norma «non
particolarmente perspicua», non chiarendo la stessa la sua riferibilità al solo
caso di beni in compossesso, ovvero oggetto di possesso da parte di uno solo
dei coniugi, o addirittura dei terzi. Ma il mancato inserimento nell’articolo
in esame di limitazioni sembra proprio voler manifestare l’intento legislativo
di porre una regola valevole, in ogni caso possibile ed immaginabile, a
determinare, in favore del rivendicante (per la metà), una relevatio ab onere probandi, così favorendo un «rafforzamento»
della comunione. Per quanto attiene, poi, all’art. 219 c.c., è senz’altro vero
che pure da siffatta disposizione si possono trarre elementi in favore
dell’esistenza di un favor communionis,
posto che, altrimenti, «non si capirebbe perché la presunzione di contitolarità
debba valere nel caso in cui i coniugi siano soggetti al regime di ‘separazione
dei beni’ e non quando vivano in regime di comunione legale»[45].
In definitiva, entrambe le norme
citate sembrano mostrare l’intento del legislatore di esprimere un favor operante come regola di giudizio
sul piano probatorio, al punto da autorizzare a ritenere che il favore predetto
possa far sì che la parte interessata sia sollevata dall’onere probatorio non
solo con riferimento ai dubbi circa l’appartenenza di singoli beni alla massa
comune, ovvero a quella dei beni personali, ma anche circa la vigenza stessa
per una data coppia del regime legale. Come stabilito, infatti, dalla Suprema
Corte, «L’art. 228 della l. dir. fam., il quale, per i beni acquistati, dopo la
data di entrata in vigore della legge stessa, da parte delle famiglie già
costituite, prevede la manifestazione della volontà contraria di uno dei
coniugi, per escludere l’assoggettamento a comunione dei beni medesimi, introduce
una deroga al regime ordinario della comunione fra coniugi, la cui ricorrenza,
pertanto, deve essere provata da chi l’invoca»[46].
Nel sistema vigente anteriormente
alla riforma del 1975 il regime patrimoniale legale risultava essere, come
noto, quello della separazione, anche se nessuna norma sanciva espressamente
tale principio[47], a differenza di quanto prevede ora per la comunione legale
proprio l’art. 159 c.c. La conclusione era peraltro arguibile dal complesso
delle disposizioni legislative, atteso che gli altri regimi previsti
(comunione, dote e patrimonio familiare) potevano instaurarsi solo attraverso
la stipulazione di un’apposita convenzione. Pertanto, se nessuna convenzione
veniva prevista, i patrimoni dei coniugi erano destinati a restare separati,
mentre le disposizioni in tema di beni parafernali trovavano applicazione non
soltanto in relazione ai beni della moglie, ma, per effetto della disposizione
di cui all’abrogato art. 214 c.c., anche a quelli del marito, nel caso in cui
questi ne avesse avuto l’amministrazione e il godimento. Già si è fatto rapido
cenno al ricco dibattito che accompagnò nel 1975 il declassamento della
separazione dei beni a mero regime convenzionale e che portò gli interpreti a
salutare con favore l’introduzione della comunione quale regime patrimoniale
legale delle famiglie italiane, esattamente qualificata come «la maggiore
novità della riforma, sul piano dei rapporti patrimoniali»[48].
Ciò che preme dire, ad alcuni
decenni di distanza, è che la cattiva prova di sé che, nei fatti, il regime ex artt. 177 ss. c.c., così come
concretamente attuato, ha fornito in questo periodo sta risospingendo un numero
vieppiù crescente di coniugi verso il «vecchio» sistema di separazione,
trasformando la relativa opzione in sede di celebrazione delle nozze – per lo
meno in vaste zone del nostro Paese – in una vera e propria «clausola di
stile». Il regime legale, invero, ha ampiamente dimostrato di potersi
tramutare, nel momento cruciale del suo scioglimento (specie se visto nella
dinamica della crisi coniugale), in un groviglio inestricabile di lacci serrati
attorno alla libertà d’azione di coniugi che si vorrebbero ormai reciprocamente
svincolati, così offrendo più di un’occasione all’uno di esercitare verso
l’altro pressioni indebite e, talora, veri e propri ricatti[49]. Di conseguenza, il vertiginoso aumento del numero
delle crisi coniugali cui abbiamo assistito nel corso di questi ultimi anni ha
finito con il favorire il massiccio ricorso, da parte delle nuove coppie, al
regime di separazione dei beni[50].
Il fenomeno – che è stato
descritto in altra occasione come un vero e proprio uso dello strumento della
convenzione matrimoniale in contemplation
of divorce[51] – appare strettamente legato anche ad alcune
pervicaci rigidità giurisprudenziali (e non solo) sul versante, da un lato,
degli accordi in vista della crisi coniugale[52] e, dall’altro, sul tema della libertà negoziale dei coniugi
in comunione: libertà che taluno vorrebbe ingabbiare in un sistema di vincoli
tanto ingiustificati quanto inspiegabili, quando si sia in presenza del
consenso di entrambi[53].
Si comprende dunque perché, dopo
un iniziale accoglimento favorevole della comunione legale da parte delle
coppie italiane, che, tanto per fare un esempio, avevano optato nel 1976 per il
regime di separazione in misura inferiore all’1%[54], anno dopo anno, è continuamente aumentata la quota
di coloro che, al momento della celebrazione delle nozze, hanno scelto il
regime separatista. In un primo momento, tale opzione cominciò ad essere
effettuata, principalmente, dalle coppie in cui uno dei coniugi svolgeva
attività imprenditoriale o una professione liberale (specie in considerazione dei
rischi cui l’art. 189 cpv. c.c. espone il patrimonio comune, sia pure pro quota, avuto riguardo alle possibili
azioni esecutive dei creditori personali)[55], nonché dalle famiglie a reddito medio-alto[56].
Come esattamente rilevato in
dottrina, con riguardo a queste ultime il regime di separazione consente
un’articolazione più flessibile dei rapporti patrimoniali[57], anche al fine di evitare – mediante l’esclusione del
regime di comunione – la somma dei benefici che derivano al coniuge superstite
dall’applicazione del regime legale e dalla normativa sulle successioni; e ciò
soprattutto in considerazione del fatto che, nelle ipotesi di mancanza di figli
(statisticamente, tra l’altro, sempre più ricorrenti in Italia), il concorso
delle due discipline determina, in ragione della semplice premorienza, uno
spostamento di ricchezza da un gruppo familiare all’altro che non trova nel
costume sufficiente «giustificazione» o consenso sociale[58]. Non va, inoltre, neppure trascurato che proprio
l’esigenza di sottrarre determinati cespiti al regime legale ha favorito il
ricorso nella pratica a taluni atti negoziali – estromissione di un bene dalla
comunione o rifiuto di coacquisto – che, pur non presentando gli estremi della
convenzione matrimoniale, restringono comunque l’oggetto della comunione e
ampliano la sfera di applicazione delle norme dettate per la separazione dei
beni[59].
Ben presto, peraltro, il processo
di disaffezione verso il regime legale è venuto ad interessare tutti gli strati
sociali.
Risalgono già ai primissimi anni
di applicazione della riforma i numerosi abbandoni del regime legale
effettuati, per così dire, «in corso d’opera» dai coniugi che – consapevolmente
o meno – avevano scelto la comunione all’atto della celebrazione delle nozze, o
si erano comunque trovati sottoposti a tale regime per effetto delle
disposizioni transitorie. Pur non esistendo statistiche al riguardo, non potrà
non menzionarsi l’impressionante numero di decisioni relative alla questione
della necessità o meno di autorizzazione giudiziale per siffatto mutamento di
regime: problema, questo, poi risolto – come noto – dalla l. 10.4.1981, n. 142[60].
Ma è sul versante delle nuove
coppie che si deve registrare una vera e propria rivoluzione. Una rivoluzione
che ha avuto luogo in tutto il Paese, sebbene con velocità assai diverse nelle
sue parti. Essa è stata molto più rapida nelle regioni settentrionali che in
quelle meridionali, tanto da suscitare negli esperti di sociologia «un senso di
stupore e di incredulità »[61]. Chi ha studiato la famiglia sa bene che la sua è in
genere una storia di lentissimo svolgimento. Invece qui, dal 1976 al 1991, la
quota degli sposi che scelgono la separazione dei beni è passata dall’1% al 40,
al 50 o addirittura al 69%. Già nel 1995 risultava che nelle regioni dell’Italia
settentrionale, la maggioranza delle nuove coppie preferivano la separazione
dei beni; peraltro, in quelle meridionali gli sposi che si comportavano in tal
modo non raggiungevano il 30%[62], con il risultato che il dato complessivo a livello
nazionale si attestava sul 55% a favore della comunione. Ma la tendenza
negativa per il regime legale non ha fatto che accentuarsi negli anni
successivi.
Ora, già i dati generali Istat
relativi ai matrimoni celebrati in Italia nell’anno 2003[63] suggellavano il definitivo «sorpasso» del regime di
separazione dei beni rispetto alla comunione a livello di media nazionale
complessiva, che vedeva – con riguardo alle coppie formatesi nell’anno di
riferimento – il regime legale scendere al 44.7%, con punte che andavano da un
minimo del 24,9% della Valle d’Aosta ad un massimo del 58,2% della Sardegna,
rimanendo confermato che la comunione apparivae costituire il regime
maggioritario ormai solo nell’Italia meridionale ed insulare, laddove nel
Nord-Ovest si attestava al 37,6%, nel Nord-Est al 40,6% e nel Centro al 34%. I
dati relativi al 2007 sottolineavano un ulteriore, pesante, calo del regime
legale al 38,66% di tutti i matrimoni celebrati in Italia in quell’anno,
mostrando che la comunione era ormai divenuta – per quel periodo di riferimento
– il regime minoritario in ciascuna delle «macro-regioni» della nostra
Penisola, ivi comprese quelle del Sud e delle Isole[64].
L’evoluzione successiva non ha
fatto che confermare tale trend[65]. Così, i dati ISTAT relativi al 2016 mostrano che in Italia
la scelta delle nuove coppie per il regime di comunione è scesa abbondantemente
al di sotto del terzo [66].
A dispetto dell’opzione di
politica legislativa compiuta nel 1975, può ben dirsi che il regime di
separazione dei beni sia ormai divenuto, da tempo, nei fatti, il regime
«normale» delle famiglie italiane, e il fenomeno non può trovare una sua
spiegazione se non nella crescente consapevolezza, da parte di vasti strati
della popolazione, del serio rischio che corre oggi la famiglia italiana di andare
incontro (in molti casi assai presto) ad una crisi, e nel timore di dover
venire un giorno a «fare i conti» con i complessi meccanismi giuridici legati
allo scioglimento del regime legale. Estremamente significativo al riguardo è
il fatto che, come dimostrato dai citati dati statistici, l’incremento delle
opzioni per il regime di separazione vada di pari passo, per aree geografiche,
con quello dei tassi di «separazionalità » e «divorzialità » del nostro Paese[67] ed è confermato dal raffronto con una realtà come
quella della vicina Francia, dove il fenomeno della crisi coniugale è esploso
ormai diversi decenni fa ed in cui il regime della séparation de biens è maggioritario da almeno quarant’anni[68].
Anche
in Germania si rileva che il regime convenzionale della Gütertrennung «den Vorzug der rechtlichen Klarheit und Einfachheit
hat», anche perché essa «vermeidet oft unerfreuliche Auseinandersetzungen beim
Scheitern der Ehe und betont die Eigenverantwortlichkeit des Ehegatten»[69], specie quando «ein Ehepartner ein
großes Vermögen mit in die Ehe bringt», posto che in tal caso «Der
schematisierte erbrechtliche Zugewinnausgleich wäre dann – insbesondere bei
kurzer Ehedauer – zu hoch und die güterrechtliche Ausgleichsforderung könnte
nach längerer Ehedauer manchen Betrieb in den Konkurs führen»[70]. Tutto ciò, si badi, in un sistema che non ha eretto alcuna forma di
contitolarità a regime legale (la Zugewinngemeinschaft,
è, come noto, un regime sostanzialmente separatista, «mitigato» da una
compartecipazione – a livello puramente obbligatorio – de residuo), e che da tempo ammette la possibilità di
predeterminare, sin dal momento della celebrazione delle nozze, le conseguenze
di un eventuale divorzio[71]. Allargando ancora ulteriormente il campo
dell’indagine si può scoprire che la separazione dei beni è ancora il regime
legale in diversi paesi del mondo e d’Europa e segnatamente in molti dei
sistemi di Common Law, nei quali
peraltro gli sbalorditivi (per lo meno ai nostri occhi) poteri concessi
all’autorità giudiziaria in sede di regolamento dei rapporti di dare-avere al
momento della crisi coniugale consentono un notevole assouplissement delle asprezze della regola rigidamente separatista[72].
L’art. 159 c.c. svolge poi, a
livello sistematico, un ruolo decisivo nella determinazione dell’autonomia
privata dei coniugi in comunione dei beni. Lasciando ad altra sede la
trattazione delle questioni specifiche circa l’ammissibilità del rifiuto del
coacquisto ex lege e della
derogabilità per via convenzionale delle disposizioni in tema di scioglimento
del regime e di rapporti con i creditori, potrà rimarcarsi come non facciano
difetto, in Italia, voci, anche autorevoli, che tendono a porre in luce il
carattere «vincolato» della comunione[73], evidenziando come, di contro al regime di
separazione, in cui i coniugi possono liberamente decidere se acquistare beni
separatamente, ovvero congiuntamente, a quote uguali o diseguali, disponendo
liberamente di queste ultime, ecc., nel regime ex artt. 177 ss. c.c. «ciascun coniuge perde in parte la sua
autonomia». Così l’eguaglianza delle quote e le disposizioni
sull’amministrazione non sono derogabili (art. 210, 3° co., c.c.), i beni indicati nelle lett. c)e d)
dell’art. 179 c.c. non possono essere messi in comune (art. 210, 2° co., c.c.), ciascuno coniuge non può disporre
unilateralmente della sua quota né sull’intero patrimonio comune, né sui
singoli beni che ne fanno parte[74].
Eppure, anche di fronte a queste
limitazioni, andrà tenuto presente che anche la comunione legale è collocata
sotto l’«ombrello» dell’art. 159 c.c. Così, è proprio la prima disposizione in
tema di rapporti patrimoniali endofamiliari a chiarire che la legge interviene
solo in funzione «suppletiva» rispetto alla volontà (rectius: al difetto di volontà) dei privati, i quali possono optare
per un regime diverso: dalla pura e semplice separazione dei beni, alla
comunione convenzionale nella forma ‘ampliativa’, ad assetti patrimoniali
‘intermedi’ che, oltre tutto, ben possono esulare dalle categorie elencate dal
legislatore e che – pur nel rispetto dei principi generali e speciali
inderogabili – ben possono a piacimento delle parti, introdurre modifiche,
tanto marginali e superficiali, quanto profonde e stravolgenti[75] del regime legale. L’opzione di politica legislativa
di concedere ai coniugi il diritto di scartare ‘a pie’ pari’ il regime
comunitario è stata ritenuta così pregnante da far esclamare ad autorevole
dottrina che con essa il legislatore avrebbe reso l’autonomia privata vincente
su esigenze che sembravano invece doverla sovrastare[76]. La regola appena richiamata, invece che
un’incoerenza del sistema – il quale pure meriterebbe una serie di
aggiustamenti volti a consentire ai privati di eliminare alcune rigidità che
contribuiscono a favorire l’abbandono della comunione[77] – va considerata, proprio per via del più ampio
contesto di negozialità endoconiugale in cui, come si è visto, si colloca, il
punto di riferimento imprescindibile per ogni considerazione sui rapporti tra
comunione legale ed autonomia privata[78].
Sarà poi d’uopo accennare ad
un’altra considerazione, di cui non sembra si sia tenuto sufficiente conto. Ci
si intende qui riferire al superamento, con la riforma del 1975, del criterio
della espressa inderogabilità delle norme in materia di comunione, fissato dal
previgente art. 216, 2° co., c.c. Stabiliva, invero,
tale articolo – dopo aver precisato al 1° co.
che «Gli sposi possono stabilire patti speciali per la comunione; in mancanza
di questi patti, si applicano le disposizioni relative alla comunione in
generale» – che «In ogni caso si osservano le disposizioni seguenti» (cioè
quelle di cui agli artt. da
Ora, proprio l’abrogazione di
quella previsione normativa, unita alla considerazione del criterio generale di
cui all’art. 159 c.c., deve indurre ad affermare il carattere generalmente
derogabile di tutte le disposizioni di cui agli artt. compresi tra il 177 e il
197 c.c., fermo restando, come più volte già chiarito, il limite delle norme
inderogabili del macrosistema civilistico (cfr. art. 1418 c.c.), nonché quelle
inderogabili del microsistema giusfamiliare, attinenti vuoi alla parte generale
delle convenzioni matrimoniali (artt. 161- 166 bis c.c.), vuoi a quella speciale della convenzione tramite la
quale il
regime legale può venire
modificato (art. 210, 2° e 3° co., c.c.).
Ciò posto, appare del tutto
inspiegabile come la decisione che, nel
L’art. 159 c.c. in esame assume
un importante rilievo sistematico anche in ordine all’accertamento della
nozione di convenzione matrimoniale e della relativa natura. Al riguardo va
subito constatato che invano si ricercherebbe nel codice una chiara
definizione, assente non solo nella legislazione vigente, bensì anche in quelle
che l’hanno preceduta (cfr. artt. 159 ss. c.c. 1942; 1378 ss., 1384 c.c. 1865;
1508 ss., 1515 c.c. albertino). Ora, l’art. 159 cit., nello stabilire che il
regime patrimoniale legale della famiglia, «in mancanza di diversa convenzione
stipulata a norma dell’art. 162», è costituito dalla comunione dei beni,
presenta proprio la caratteristica di definire (indirettamente) la convenzione
matrimoniale alla stregua di una fonte di regimi patrimoniali diversi da quello
legale[83].
Il rilievo non fornisce però
ancora una spiegazione esaustiva sulla natura delle convenzioni matrimoniali,
né sui rapporti tra tale figura ed il paradigma contrattuale. Invero, la
nozione di convenzione richiama immediatamente quella di accordo e questa,
vertendosi in materia di rapporti giuridici patrimoniali, quella di contratto
(art. 1321 c.c.). Il dibattito dottrinale sulla natura contrattuale delle
convenzioni matrimoniali vede senz’altro prevalere la tesi affermativa[84], pur non facendo difetto, nelle posizioni degli
Autori, svariate nuances. Così il richiamo
– anche sul piano terminologico – al concetto di «convenzione» consentirebbe,
secondo taluno, di ravvisare, quale categoria di riferimento, quella di negozi
idonei a incidere su valori che «certamente trascendono le dimensioni
dell’individuo», pur collocandosi comunque nel più ampio ambito contrattuale.
La conseguenza sarebbe dunque data dal fatto che a tali figure si
applicherebbero «regole speciali, deroganti alle corrispondenti norme generali,
e solo in via sussidiaria a queste ultime»[85].
Sotto un altro profilo, si è
sottolineata la differenza che, rispetto al contratto, sarebbe data dal
carattere «programmatico» tipico della convenzione[86], carattere che peraltro non contraddistingue
necessariamente ogni aspetto dell’istituto[87] e che comunque non appare incompatibile con il
paradigma contrattuale[88].
Non vi è dubbio che molte delle
perplessità di cui si è dato conto siano state generate dalla terminologia
impiegata dal legislatore, anche se, come si è già avuto modo di vedere,
all’espressione «convenzione» non si può riferire altro significato se non
quello di «accordo su questioni di carattere patrimoniale». Sarà appena il caso
di aggiungere che nessun argomento in senso contrario alla tesi qui sostenuta
può essere ricavato dalla collocazione della materia in esame, operata dal
codice del
Al riguardo sarà opportuno
soffermarsi ancora brevemente sull’affermazione dottrinale secondo cui le
convenzioni matrimoniali non costituirebbero «un ‘contratto’ corrispondente
alla figura delineata dal Titolo II del libro IV, secondo la definizione
dell’articolo 1321 c.c.», poiché il contratto potrebbe produrre soltanto, in
alternativa, effetti reali od obbligatori e le relative prestazioni non
potrebbero che trovarsi «in rapporto sinallagmatico», mentre gli istituti in
esame non sarebbero caratterizzati «né da efficacia obbligatoria, né da
efficacia reale»[91].
Non condivisibile appare la
premessa, così come ancor meno condivisibili appaiono le conseguenze che se ne
vorrebbero trarre. Per ciò che attiene alla prima, basterà ricordare che l’art.
1321 c.c. prevede che il contratto serva non solo a costituire o estinguere, ma
anche a «regolare» rapporti giuridici patrimoniali e che «si regola un rapporto
non solo quando lo si modifica, ma anche quando lo si accerta, quando si
pattuisce un rovesciamento dell’onere di provare i fatti che lo determinano»[92]. Ciò per sottolineare (sebbene non sia certo questa
la sede per affrontare ex professo il
problema) che la limitazione degli effetti del contratto alla antitesi tra
effetti reali ed effetti obbligatori appare quanto meno riduttiva. Altrettanto
inaccettabile risulta poi il citato asserto in tema di necessaria
sinallagmaticità dei contratti, posto che nessuno dubita che possano esistere
contratti anche non sinallagmatici.
Inaccettabili, si diceva, appaiono
poi anche le conseguenze della cennata impostazione: vale a dire che le
convenzioni matrimoniali non sarebbero contratti, perché inidonee a produrre
effetti reali traslativi o obbligatori. Tutto al contrario, tali particolari
tipi di contratti sono sicuramente idonei a produrre effetti reali traslativi,
tanto differiti (basti pensare al fenomeno del coacquisto automatico ex art. 177, lett. a), disposto da una convenzione costitutiva del regime di comunione
legale tra coniugi già in regime di separazione dei beni, oppure di comunione
convenzionale relativamente a determinate categorie di beni che sarebbero
altrimenti escluse dal regime legale), che immediati (si pensi ad una comunione
convenzionale comprensiva dei beni di cui ciascun coniuge è già proprietario).
Per non parlare poi di tutte le obbligazioni cui danno vita, a tacer d’altro,
le norme in materia di amministrazione dei beni in comunione convenzionale (a
cominciare da quella di munirsi del necessario consenso del coniuge per il
compimento di atti di amministrazione straordinaria) o in fondo patrimoniale. E
che dire, ancora (e sempre per restare a livello di mero esempio), degli
‘obblighi’ dell’usufruttuario espressamente richiamati dall’art. 218 c.c.?
S’aggiunga, infine, che nemmeno a voler accettare l’idea (assolutamente non
condivisibile) secondo cui le convenzioni matrimoniali non sarebbero idonee a
produrre «effetti patrimoniali attuali o immediati»[93], si potrebbe giungere alla conclusione secondo cui
ciò costituirebbe «un dato sufficiente per portarle ‘fuori’ dalla
configurazione codicistica del contratto»[94]: ché, altrimenti, contratto non potrebbe essere
considerato neppure il negozio con contenuto patrimoniale sottoposto a
condizione sospensiva o a termine iniziale.
La dottrina sottolinea il
carattere personalissimo del negozio di convenzione matrimoniale, attesa la sua
stretta correlazione con il matrimonio, ciò che dovrebbe impedirne la
conclusione a mezzo di rappresentante[95], consentendo, quale unica forma di sostituzione
personale, quella del nuncius[96]. La citata natura personale sembrerebbe del resto
confermata dall’art. 165 c.c., che concede al minore la capacità di concludere
tutte le relative convenzioni matrimoniali nelle forme di assistenza (e non già
di rappresentanza) ivi previste. La disposizione potrebbe dunque considerarsi
espressione del principio generale secondo cui non è ammessa la stipulazione di
negozi di diritto familiare a contenuto patrimoniale senza la partecipazione
diretta dei soggetti che devono risentirne gli effetti[97].
Di contro potrebbe però
osservarsi che, per il caso di convenzioni da stipularsi in costanza di
matrimonio, occorre tenere conto del fatto che la sentenza di interdizione
legittima a domandare la separazione giudiziale dei beni (art. 193 c.c.). Non
si comprende pertanto per quale motivo dovrebbe pervenirsi a tale risultato
unicamente per via contenziosa. Quindi, poiché il procedimento di cognizione
ordinario eventualmente instaurato può definirsi anche con la conciliazione
delle parti, deve necessariamente riconoscersi al tutore dell’interdetto il
potere di accordarsi con l’altro coniuge per instaurare pure in via negoziale –
con le autorizzazioni giudiziali debitamente richieste, trattandosi di atto
eccedente l’ordinaria amministrazione – il regime di separazione dei beni. A
questo punto tuttavia, di fronte al silenzio della legge, che non consente
alcuna diversità di trattamento secondo il contenuto della singola convenzione,
diviene inevitabile per l’interprete riconoscere al tutore di chi venga
interdetto dopo le nozze il potere di stipulare in nome e per conto dello
stesso qualsivoglia convenzione matrimoniale[98].
Quanto sopra sembrerebbe
suggerire la possibilità di tracciare
una linea di demarcazione tra rappresentanza volontaria e rappresentanza
legale, nel senso che il carattere personalissimo delle convenzioni matrimoniali
ne escluderebbe la stipulabilità a mezzo di rappresentante volontario, ma non
ne impedirebbe la conclusione a mezzo di rappresentante legale. In realtà, una
più approfondita valutazione del tema, che valorizzi adeguatamente l’innegabile
natura contrattuale dei negozi in discorso[99] deve portare a ritenere che, quanto meno in linea di
massima, tanto la rappresentanza legale, che quella volontaria possano
ritenersi consentite. E’ chiaro peraltro che, in ogni caso, la procura dovrà
essere rivestita della forma pubblica alla presenza di testimoni, in ossequio
al principio formale imposto dall’art. 1392 c.c.[100]. Per ciò che attiene agli altri profili negoziali non
sembrano sussistere invece ostacoli alla tendenziale applicazione delle
disposizioni codicistiche della parte generale del contratto: dalla causa, alla
condizione, agli elementi accidentali, all’interpretazione, alle cause di
nullità e di annullabilità[101].
Per ciò che attiene, in
particolare, alla possibilità di apporre alle convenzioni matrimoniali
condizioni sospensive e termini iniziali, la dottrina italiana appare orientata
generalmente per la soluzione positiva, anche in considerazione della regola
generale, adottata dalla riforma del 1975, della mutabilità delle convenzioni
medesime[102]; la medesima dottrina consente inoltre, se la
convenzione contiene una liberalità, la previsione di un modo[103], avuto altresì riguardo alla più volte ricordata
natura contrattuale delle convezioni in discorso. Sembra però evidente la
necessità di accertare, caso per caso, che la prefissione di un termine o di
una condizione non venga a porsi in contrasto con principi inderogabili: così
non sarebbe possibile la previsione di un termine iniziale o di una condizione
sospensiva tali da rendere una convenzione prenuziale efficace prima della
celebrazione del matrimonio[104]. Secondo parte della dottrina andrebbe comunque
esclusa l’apponibilità di un termine finale e di una condizione risolutiva, in
quanto si violerebbe in tal modo la regola della tassatività delle cause di
scioglimento delle convenzioni[105]. Ma altro è norma tassativa (con ciò volendosi
esprimere un vincolo per l’interprete), altro è norma inderogabile (con ciò
volendosi esprimere un vincolo alla libertà negoziale dei paciscenti). E così
anche questo ulteriore profilo di contrattualità viene ad inserirsi nel
panorama degli elementi che caratterizzano l’autonomia negoziale dei coniugi[106].
Il legislatore continua ad
impiegare, ancorché non nell’art. 159 c.c., l’antica espressione «contratto di
matrimonio»: cfr. artt. 166, 774, 1° co.,
c.c.[107]. La dottrina, già prima della riforma del 1975, si
era divisa sull’interpretazione di tale concetto. Oggi sembra pacifica l’idea
secondo cui il contratto di matrimonio è lo strumento formale, il documento
negoziale che contiene le pattuizioni fatte in occasione o in previsione di un
determinato matrimonio, ivi comprese le convenzioni matrimoniali, intese a loro
volta come atti diretti a regolare il regime patrimoniale della famiglia, oltre
ad altre eventuali stipulazioni contestualmente contratte[108], concezione che, del resto, sembra corrispondere a
quella in voga già sotto l’Ancien Régime,
come attestato da Pothier, che definiva il contrat
de mariage come l’acte qui contient
les conventions de mariage[109], conformemente del resto al dettato di alcune coutumes, tra le quali quella d’Orléans,
città del celebre giurista francese[110], anche se oggi il termine «convenzione matrimoniale» esprime
– come già visto – solo quel negozio che si pone quale fonte di un regime
diverso da quello legale[111]. Ma, a ben vedere, lo stretto legame esistente tra le
figure della convenzione matrimoniale, da un lato, e dei regimi patrimoniali
‘eccezionali’, dall’altro, non va esente da contraddizioni e perplessità. Se
infatti è innegabile che la separazione dei beni trovi la sua origine in una
apposita convenzione, va constatato che l’art. 228, 1° co., l. n. 151/1975, ha consentito – in via transitoria –
la nascita di tale regime in forza non già di una convenzione, bensì di un atto
unilaterale. Discorso per certi versi analogo va compiuto in relazione al fondo
patrimoniale, che può costituirsi anche per testamento e rappresenta anche per
altre ragioni un regime, per così dire, anomalo, non riguardando categorie
generali ed astratte di beni, bensì beni determinati e potendo il medesimo
coesistere tanto con il regime comunitario che con quello separatista. D’altro
canto (e per converso), si discute sul carattere autonomo del regime costituito
in forza di convenzione di comunione ex artt.
210 ss. c.c., che secondo alcuni sarebbe una semplice variante del regime di
comunione legale. Per concludere questa rapida carrellata delle ipotesi in
contrasto con l’affermazione di fondo che lega la convenzione ai regimi
patrimoniali «eccezionali», andrà osservato come lo stesso regime legale possa
trovare applicazione anche in forza di convenzione, allorquando una coppia
decida di abbandonare il regime di separazione anteriormente prescelto.
Peraltro, con le precisazioni e
le limitazioni testé apportate, l’esistenza di un chiaro legame tra i concetti
di convenzione matrimoniale e di regime patrimoniale della famiglia appare
incontestabile. Proprio tale legame consente di criticare la conclusione
secondo cui al concetto di convenzione matrimoniale dovrebbe essere
necessariamente estraneo ogni effetto di tipo traslativo[112]: assunto, questo, smentito dall’inscindibile rapporto
che il citato art. 159 c.c. pone tra i concetti di convenzione matrimoniale e
di regime patrimoniale della famiglia; regime che, in una ricca serie di
ipotesi, si può porre quale causa di per sé sufficiente alla creazione di
effetti reali traslativi sia differiti [si pensi solo alla regola del
coacquisto automatico ex art. 177,
lett. a), c.c., implicitamente
richiamata dall’art. 210 c.c. per tutti gli acquisti relativi ai beni che i
coniugi decidono di inserire in comunione convenzionale], sia attuali [si pensi
ad esempio alla convenzione che dia vita ad un regime di comunione
convenzionale su beni ex art. 179,
lett. a), c.c.]; per non dire poi del
fondo patrimoniale, il cui effetto è quello di dar vita, con efficacia
immediata e reale, a precisi vincoli di (limitata) indisponibilità (cfr. art.
169 c.c.) e di (limitata) inespropriabilità (cfr. art. 170 c.c.).
Né, in proposito, varrebbe
obiettare che il negozio inter vivos costitutivo
del fondo patrimoniale non sarebbe una convenzione matrimoniale[113]. Questa tesi, invero, appare chiaramente smentita non
solo – se ci si passa l’espressione – dalla ‘topografia’[114] e dalla ‘toponomastica’[115] legislative, ma anche dal fatto che, per i beni
sottoposti a tale vincolo, vigono regole (di ‘regime’) difformi rispetto a
quelle valevoli per il regime legale: il negozio che a tale regime dà vita è
pertanto riconducibile alla definizione che del concetto di convenzione
matrimoniale risulta estrapolabile dall’art. 159 c.c.
Il fatto è che occorre intendersi
sul concetto di «regime patrimoniale della famiglia»: se per tale si dovesse
ritenere esclusivamente la regola che assegna alla proprietà comune o personale
dei coniugi i futuri ed eventuali acquisti, è chiaro che la convenzione ex artt. 167 ss. c.c. non apparirebbe
idonea all’uopo, posto che il vincolo del fondo non può per definizione costituirsi
se non su beni predeterminati. Seguendo dunque il principio secondo cui la
convenzione matrimoniale è necessariamente fonte di un regime patrimoniale
della famiglia, se ne dovrebbe concludere che tale non potrebbe essere
l’accordo diretto a costituire un fondo patrimoniale. Ma la disciplina della
comunione legale dimostra che il concetto di «regime» non si esaurisce nella
regola del coacquisto; essa si risolve anche in una serie di precetti e di
vincoli che vengono ad influenzare la «vita» stessa dei beni nel corso
dell’unione matrimoniale: dall’amministrazione all’alienazione, al pignoramento
e, più in generale, alle vicende che coinvolgono terzi creditori e/o aventi
causa.
E puntuale giunge, anche sul
punto, la conferma dall’analisi storica, dalla quale si ricava che
l’espressione régime, utilizzata per
secoli in Francia per contrapporre il régime
en communauté (proprio delle regioni di droit
coutumier) a quello dotal (caratteristico
delle regioni di droit écrit), e
dunque nell’accezione, generalissima, di «regola», dopo la codificazione
napoleonica venne intesa dalla dottrina come «l’ensemble des règles qui
régissent l’association conjugale quant aux biens»[116]. Regole che, come icasticamente posto in evidenza
dalla dottrina contemporanea d’Oltralpe, attengono non solo ad una question de propriété, ma anche ad una question de pouvoirs[117].
Se così stanno le cose, è
evidente che anche la convenzione costitutiva del fondo patrimoniale, in quanto
diretta a dettare regole speciali di amministrazione, vincoli e ‘vita’ di beni
della famiglia, in (parziale) deroga ai principi propri della comunione (o
della separazione dei beni), viene a costituire proprio uno di quei possibili
negozi in deroga al regime legale che l’art. 159 c.c. raggruppa sotto
l’espressione «diversa convenzione»[118].
In considerazione
dell’interpretazione restrittiva del concetto di convenzione matrimoniale sopra
propugnata, è oggi certa la risposta negativa circa la riconducibilità a tale
categoria delle donazioni obnuziali, così come di tutti quegli atti che,
sebbene obnuziali, cioè compiuti in contemplazione causale di un determinato
matrimonio (come potrebbero essere mandati o contratti sociali), non abbiano
per oggetto la scelta di un regime patrimoniale della famiglia, ma si
riferiscano all’assegnazione in proprietà, all’uno o all’altro coniuge, o ad
entrambi, di specifici beni o rapporti[119]. Lo stesso deve valere per quegli atti con cui i
coniugi decidono di immettere nella – o di estromettere dalla – comunione
legale singoli beni determinati[120], cui va pertanto negata la natura di convenzione
matrimoniale.
Tutti questi negozi tra coniugi,
non costituenti convenzioni matrimoniali, ben potranno essere inseriti nel
«contratto di matrimonio», modificati e risolti in ogni tempo, secondo le
regole proprie dei vari tipi di contratto. A quelli testé citati andranno
aggiunte, ovviamente, le donazioni (anche non obnuziali), non più colpite –
come noto – dal secolare divieto di liberalità tra coniugi, così come qualsiasi
tipo di contratto a titolo gratuito o oneroso. Per quanto riguarda in
particolare le liberalità si dovrà poi tenere conto della possibilità che
determinate convenzioni possano contenere vere e proprie donazioni indirette.
Sempre in tema di contenuto delle convenzioni matrimoniali potranno ancora
aggiungersi i patti relativi all’assunzione degli obblighi contributivi,
sicuramente ammissibili alla luce del disposto dell’art. 144 c.c.[121], mentre, per ciò che attiene al trust si fa rinvio a quanto verrà detto più oltre nel testo[122].
9. Convenzioni matrimoniali, matrimonio e crisi
coniugale.
Neppure l’evidente legame che
sussiste tra la convenzione matrimoniale ed il matrimonio, inteso sia come atto
che come rapporto, appare idoneo a scalfire la natura contrattuale della prima.
Per approfondire questo aspetto andrà tenuto presente, in primo luogo, che le
convenzioni matrimoniali poggiano sull’evidente presupposizione della
celebrazione delle nozze e/o della persistenza del vincolo matrimoniale. Per
quanto attiene al primo profilo (rapporti tra convenzioni matrimoniali e
matrimonio inteso come negozio giuridico), andrà detto che le convenzioni
possono stipularsi sia prima che dopo la celebrazione delle nozze. Le prime
(convenzioni prenuziali o ante nuptias)
presuppongono pur sempre la contemplazione di un matrimonio determinato, nel
senso che debbono essere note, al momento della loro conclusione, le persone
dei nubendi: è nulla quindi la convenzione in vista del futuro ed eventuale
matrimonio di un infante[123].
Contestabile sembra invece
l’affermazione secondo cui la stipula di una convenzione matrimoniale
presupporrebbe sempre l’intervenuto scambio della promessa di matrimonio[124].
Se infatti l’analisi storica
dimostra che un tempo la menzione dell’intervenuto scambio della reciproca
promessa di matrimonio compariva immancabilmente, a mo’ di preambolo, nei
contratti di matrimonio (scritte nuziali, capitoli matrimoniali, costituzioni
dotali)[125], oggi può forse dirsi, rovesciando l’impostazione
precedente, che l’interprete è autorizzato a desumere l’esistenza di una
situazione rilevante ex artt. 79 ss.
sulla base del fatto che i contraenti si siano rivolti al notaio per la stipula
di una convenzione matrimoniale, manifestando così nella maniera più
inequivocabile l’esistenza di un reciproco impegno di contrarre le nozze. La
conclusione dovrebbe, ovviamente, mutare qualora i contraenti facessero ricorso
ad espressioni tali da indurre a ritenere che essi non hanno ancora inteso
assumere un impegno al riguardo (neppure ai limitati effetti disciplinati dalle
norme in tema di promessa di matrimonio), ma che hanno semplicemente voluto –
con una sorta di ‘contratto normativo’, se ci si passa l’espressione –
disciplinare il regime patrimoniale di una loro futura eventuale unione
coniugale.
L’efficacia della convenzione prenuziale
è naturalmente subordinata alla celebrazione delle nozze (arg. ex art. 785 c.c.), che ne viene così a
costituire una condicio iuris[126], ma alla quale non può applicarsi il disposto
dell’art. 1359 c.c., allorquando uno dei nubendi, senza giusto motivo, rifiuti
di ottemperare alla promessa di matrimonio, per il riconoscimento che si deve
alla libertà matrimoniale[127].
Prima della riforma del 1975 si
riteneva che la validità delle convenzioni fosse collegata strettamente a
quella del matrimonio, e si invocava al riguardo l’argomento tratto dall’art.
785 c.c.[128]. Oggi esiste però una regolamentazione speciale nel
campo dei regimi patrimoniali della famiglia: gli artt. 191 c.c., in relazione
alla comunione legale e 171 c.c., con riguardo al fondo patrimoniale, stabiliscono
infatti che l’annullamento del matrimonio determina la cessazione del regime,
con efficacia ex nunc[129]. Lo scioglimento del vincolo matrimoniale provoca la
perdita d’efficacia delle convenzioni, ad eccezione di quanto stabilito per il fondo
patrimoniale dall’art. 171 c.c., in presenza di figli minori. Per quanto
attiene alla separazione personale, invece, andrà distinto tra fondo
patrimoniale (di cui tale evento non determina lo scioglimento: arg. ex art. 171 c.c.) e comunione convenzionale,
cui andrà applicata la regola posta dall’art. 191 c.c.[130]. Anche questo peculiare aspetto denota dunque che le
convenzioni matrimoniali vivono, per così dire, una vita per molti aspetti
«autonoma» rispetto a quella del rapporto matrimoniale, ciò che contribuisce
inevitabilmente ad esaltare la natura contrattuale degli istituti in discorso.
Passando dalla considerazione dei
rapporti tra convenzioni ed atto matrimoniale a quella delle relazioni tra
convenzioni e rapporto matrimoniale, va detto che la giurisprudenza di
legittimità ha delimitato i confini dell’istituto in esame escludendo da tale
novero quegli accordi, dall’efficacia tanto reale che obbligatoria, conclusi in
occasione di separazione consensuale, negozi configurati come contratti
atipici, meritevoli di tutela da parte dell’ordinamento giuridico, ex art. 1322 c.c., non in contrasto con
l’ordine pubblico e caratterizzati da una causa loro propria, ben distinta da
quella propria delle convenzioni matrimoniali, le quali postulano «il normale
svolgimento della convivenza coniugale» ed hanno «riferimento ad una generalità
di beni anche di futura acquisizione» e non l’esigenza di assetto dei rapporti
personali e patrimoniali dei coniugi separati[131]. Anche per i giudici pare dunque assodato che i
contratti della crisi coniugale[132], ed in particolare i negozi traslativi di diritti tra
coniugi in crisi, rimangono estranei alla tipologia delle convenzioni
matrimoniali[133], ancorché le rationes
decidendi s’incentrino talvolta su di un’esaltazione della contrapposizione
tra «fase fisiologica» e «fase patologica» del regime legale[134], talvolta sul carattere «programmatico» delle
convenzioni matrimoniali, di contro a quello attributivo del contratto
postmatrimoniale.
In realtà, a ben vedere, anche
una convenzione matrimoniale può inserirsi in un più ampio accordo teso a
disciplinare gli aspetti patrimoniali della crisi coniugale: si pensi, per
esempio, al caso in cui una coppia in regime di comunione legale decida di
separarsi di fatto prevedendo un certo assetto dei relativi rapporti e optando
per il regime di separazione dei beni; oppure si ipotizzi la costituzione di un
fondo patrimoniale tra separati nell’interesse di figli economicamente non
autosufficienti[135]. D’altro canto, nulla esclude che il contenuto di un
accordo postmatrimoniale abbia anche (o, al limite, esclusivamente, sebbene
trattisi di ipotesi quasi di scuola) un contenuto programmatico. Si pensi
all’ipotesi in cui i coniugi, separandosi, si impegnino – a definitiva
regolamentazione dei propri rapporti – a trasferirsi determinati diritti su
certi beni che potrebbero diventare di loro proprietà (per esempio: Ti darò la
metà degli incassi realizzati dal mio negozio nei prossimi x anni; ti
trasferirò la quota del ...% della proprietà degli alloggi che acquisterò nel
periodo compreso tra il ... e il ... nella città di ...; ecc.). Ciò che, in
definitiva, sembra porre un’insormontabile linea di confine tra convenzioni
matrimoniali e contratti della crisi coniugale sembra costituito – come si è
già detto – dall’inidoneità di questi ultimi a porsi quale fonte di uno dei
regimi patrimoniali della famiglia disciplinati agli artt. 159 ss. c.c.[136].
10. Convenzioni
matrimoniali e autonomia negoziale. L’ammissibilità di regimi patrimoniali
atipici.
Discorrendo della considerazione
del rilievo che assume la negozialità nel campo dei rapporti patrimoniali tra i
coniugi ci si imbatte inevitabilmente nel problema del carattere tipico o meno
dei regimi patrimoniali apprestati dal legislatore, discutendosi al riguardo
circa l’esistenza o meno di un numerus
clausus di convenzioni e, conseguentemente, di regimi matrimoniali. In
proposito si erano già pronunziati variamente gli Autori in epoca anteriore
alla riforma del 1975[137], mentre la tesi dell’atipicità era stata accolta
dalla giurisprudenza[138]. La dottrina successiva alla riforma ha,
innanzitutto, posto in luce come il legislatore del 1975 non abbia accolto la
proposta di modifica dell’art. 160 c.c. avanzata dal progetto della sen.
Falcucci (art. 36), secondo cui «gli sposi non possono disporre dei diritti
loro attribuiti dalla legge all’infuori dei casi previsti dalle norme seguenti»[139] ed abbia anzi respinto un emendamento (proposto
dall’on. Morvidi) del seguente tenore letterale: «ogni convenzione matrimoniale
diversa da quelle espressamente previste dal presente capo è nulla»[140], anche se non sono mancate voci nel senso della
tipicità[141]. Proprio con riguardo all’argomento tratto dai lavori
preparatori si è voluto in dottrina proporre un dubbio da parte di chi – giustamente
preoccupato della necessità di evitare «indebite trasposizioni di diversi piani
concettuali» – si è chiesto se «alla atipicità della fattispecie possa o no corrispondere la atipicità del rapporto a questa relativo»[142]. Ma l’interrogativo, a sommesso avviso dello
scrivente, non ha motivo di porsi nel caso di specie, atteso che l’art. 159
c.c. scolpisce nella maniera più chiara – come più volte si è detto – lo
strettissimo legame esistente, nel nostro ordinamento, tra convenzioni
matrimoniali e regimi patrimoniali[143].
È dunque evidente che l’art. 159
c.c., ponendo uno stretto rapporto tra convenzioni matrimoniali e regimi
patrimoniali della famiglia, non stabilisce in alcun modo che le convenzioni
debbano essere solo quelle regolate dalla legge. La possibilità di liberamente
conformare il contenuto di queste ultime discende inoltre dal fondamentale
principio scolpito nell’art. 1322 c.c., applicabile anche alla materia in esame
per effetto del già illustrato carattere contrattuale delle convenzioni e, più
in generale, dell’appartenenza della materia in esame al campo del diritto
privato[144], in cui il principio della autonomia negoziale
rappresenta la regola e non già l’eccezione. Ed anzi, proprio il fatto che il
legislatore sia intervenuto, nel campo delle convenzioni, dichiarando di volta
in volta nullo questo o quel patto (si pensi per esempio al divieto ex art. 166 bis c.c.) consente di desumere a
contrariis la regola della generale libertà, quanto al contenuto, delle
medesime[145]. Le conclusioni di cui sopra sembrano ricevere del
resto conferma anche sul piano di un’indagine estesa ai principi
costituzionali, laddove il richiamo all’art. 1322 c.c. trova il proprio
riconoscimento nel fondamentale principio di cui all’art. 29 Cost.[146] e sono sicuramente confortate dall’indagine storica[147], così come da quella comparatistica[148].
Sul punto rileva poi anche, per
il diritto italiano, l’abrogazione del divieto di donazioni tra coniugi. Come
si è rilevato, l’art. 781 c.c. sanciva semplicemente il carattere inderogabile
delle regole legali e convenzionali sulle relazioni patrimoniali tra coniugi:
la sua abrogazione impedisce oramai di farlo rivivere desumendolo dall’insieme
delle norme sul regime patrimoniale della famiglia[149].
Accanto alle convenzioni nominate
(fondo patrimoniale, comunione convenzionale, separazione dei beni) ne andranno
pertanto ammesse di atipiche, disciplinate dagli accordi tra le parti[150], con il rispetto dei limiti posti dalle norme
inderogabili e in particolare di quelli fissati dagli artt. 160, 161, 162, 3° co., 166 bis,
210, 3°
co., c.c.[151]. Dal punto di vista pratico, però, andrà ancora detto
che la scelta di fondo sembra ridursi all’alternativa tra comunione e
separazione; e poiché è difficile ipotizzare una qualche modifica del regime di
separazione che non ne alteri irrimediabilmente i connotati, è solo sul regime
comunitario che si può esercitare la libertà di scelta dei coniugi[152]. La dottrina ha, invero, giustamente rilevato che, in
realtà, i modelli legali finiscono con l’imporsi nella prassi, quasi a
prescindere da più o meno esplicite comminatorie di inderogabilità, con
conseguente scarso rilievo pratico della questione qui discussa[153].
Una questione che, nel «diritto
vivente», sembra assumere un rilievo pratico assai più pregnante di quella
appena illustrata, ponendosi nel contempo quale dimostrazione dell’estensione
che il principio della libertà contrattuale va assumendo in subiecta materia, concerne la progressiva erosione – sancita, a
partire dalla riforma del diritto di famiglia, da svariate pronunzie di
legittimità – della sfera di applicabilità delle regole formali previste per le
convenzioni matrimoniali dall’art. 162 c.c.[154].
Si potrà qui citare, in primo
luogo, il rifiuto di riconoscere natura di convenzione matrimoniale all’accordo
con il quale i coniugi in regime legale attribuiscono ad un bene da acquistarsi
natura personale a prescindere dalla sussistenza di uno dei requisiti ex art. 179 c.c., ovvero al costante
disconoscimento del carattere di convenzione all’intesa diretta a trasferire da
un coniuge separando all’altro uno o più cespiti immobiliari o mobiliari[155]. A ciò s’aggiunga ancora, con riguardo ad un
precedente non troppo remoto, il caso in cui la Cassazione ha negato che
l’accordo intercorso, prima della riforma del diritto di famiglia del 1975, tra
coniugi in regime di separazione dei beni, con il quale questi si obbligavano a
versare in un unico conto corrente i proventi delle rispettive attività
professionali costituisse convenzione matrimoniale da stipularsi con atto
pubblico a pena di nullità, ammettendo la prova di tale intesa a mezzo di
testimoni[156].
Altro esempio di interpretazione
(correttamente) restrittiva del concetto di convenzione matrimoniale, con
conseguente esclusione dell’art. 162 c.c. è poi fornito da quelle pronunce che
ne hanno (esattamente) negato l’applicabilità alla divisione amichevole operata
dai coniugi sul patrimonio già in comunione legale, una volta intervenuta una
causa di scioglimento di quest’ultima[157], ovvero all’accordo per scrittura privata con il
quale un coniuge, successivamente alla stipula della convenzione di
scioglimento del regime legale, rinunziava ad ogni sua pretesa su un’azienda
commerciale acquistata nel vigore del regime di comunione e,
corrispettivamente, l’altro si obbligava a versargli una somma di denaro[158]. Ancora successivamente la Corte Suprema, ponendosi
su questa stessa linea, ha affermato che «Il progetto divisionale di un bene
immobile predisposto e voluto dalle parti e dichiarato esecutivo con ordinanza
dal giudice istruttore, all’esito di un subprocedimento nel corso di un
giudizio di separazione, ha natura di negozio, alla cui validità non osta il
fatto che il bene ricada in comunione legale tra i coniugi, essendo rimessi
alla discrezionalità e comune volontà di questi gli atti dispositivi sui beni
in comunione e l’esistenza della comunione stessa; tale atto divisionale, che
non presuppone la stipula di una convenzione matrimoniale, costituisce titolo
per la trascrizione, unico requisito previsto essendo la forma scritta ai sensi
dell’art. 1350 n. 11 c.c.»[159]. Il risultato pratico di questo filone
giurisprudenziale consiste – come sarà apparso evidente – nella esclusione
della necessità del rispetto della forma dell’atto pubblico notarile, richiesta
per le convenzioni matrimoniali[160]. Ne consegue, in pratica, un ulteriore ampliamento
della libertà negoziale sotto lo specifico profilo, questa volta, della libertà
delle forme. Sarà appena il caso di aggiungere in chiusura di tale argomento,
che la cennata progressiva erosione della sfera di applicabilità delle regole in
tema di forma sembra ricevere conferma dallo stesso legislatore. L’art.
12. Il problema del trust familiare. Il dibattito
sull’ammissibilità di un trust «interno».
Non è certo questa la sede per
affrontare i persistenti, seri, dubbi circa l’ammissibilità nel nostro ordinamento
della creazione di un trust c.d.
interno, sulla base della Convenzione internazionale dell’Aja del 1985[162], ratificata dall’Italia con l. 16.10.1989, n. 364
(entrata in vigore l’1.1.1992)[163]. Sono note, del resto, le questioni poste dai
rapporti dell’istituto in esame con il disposto dell’art. 2740 c.c., con il
principio del numerus clausus dei
diritti reali, con quello della tassatività delle ipotesi in cui è consentito
creare enti dotati di autonomia patrimoniale, con quello della tassatività
delle fattispecie soggette a trascrizione, o al profilo di un’eventuale
antiteticità rispetto all’art. 2744 c.c., in relazione alla possibilità di
costituire, tramite trust, nuovi
meccanismi di garanzia, alla potenziale frizione con i principi del nostro sistema
successorio, pur nell’àmbito delle clausole c.d. di salvaguardia di cui agli
artt. 15 ss. della Convenzione: si pensi, in particolare, al divieto dei patti
successori[164] e di sostituzione fedecommissaria[165], all’inapponibilità di pesi e condizioni sulla legittima e, più in generale, alle norme a tutela della successione necessaria[166]. Questi temi hanno
scatenato, come ampiamente risaputo, furibondi dibattiti dottrinali, sui quali
– attesa anche la sconfinata quantità di contributi al
riguardo[167] – non è possibile qui
soffermarsi[168]. Basti solo dire,
che, a ben vedere, la vera difficoltà
sembra essere quella di estrapolare da norme tipicamente di conflitto, quali
quelle di cui alla citata convenzione dell’Aja, una regola di diritto interno, applicabile
ai casi in cui non siano prospettabili collisioni tra diversi ordinamenti[169]. In proposito sarà sufficiente ricordare, a conferma
dei dubbi sull’accettabilità della tesi che asserisce la validità dei trusts ‘interni’, che proprio quei
lavori preparatori della Convenzione cui i fautori di tale opinione fanno
richiamo[170] contengono, in realtà, il chiaro riferimento al
potere del giudice di dichiarare la nullità di un trust «parce qu’il estime
qu’il s’agit d’une situation interne»[171]. Per giunta, proprio tali lavori preparatori rendono
evidente come l’intenzione dei redattori non sia mai stata quella di apprestare
norme di diritto materiale uniforme per paesi che, come il nostro, non
conoscevano l’istituto del trust[172].
A ciò s’aggiunga che nemmeno
l’argomento[173] fondato sulla disparità di trattamento ingenerata
dalla soluzione che non ammette il trust ‘interno’
rispetto alle situazioni caratterizzate da un obiettivo elemento di estraneità
(nelle quali non vi è dubbio che la validità del trust debba essere riconosciuta) appare del tutto convincente.
Sembra infatti a chi scrive che scopo delle norme di diritto internazionale
privato sia (e si perdoni l’apparente paradosso) proprio quello di ‘creare’
disparità di trattamento, al fine di adattare la soluzione alle peculiarità di
una fattispecie obiettivamente caratterizzata da elementi di estraneità e
dunque concretamente diversa da quella in cui tali elementi di estraneità sono
assenti. In altre parole, è proprio l’eventuale presenza di elementi di
estraneità ‘oggettivi’ (e dunque distinti dal mero capriccio delle parti) ad
imporre (ai sensi del 28, anziché del 1° co., dell’art. 3 cost.) un trattamento differenziato di
situazioni obiettivamente diversificate. D’altro canto, sarà sufficiente
riflettere sul fatto che l’argomento fondato sulla disparità di trattamento,
ove spinto alle sue estreme conseguenze, porterebbe puramente e semplicemente
all’inaccettabile risultato di una declaratoria di incostituzionalità di tutte
le norme di diritto internazionale privato[174].
Ciò premesso, va dato comunque
atto della circostanza che il ‘diritto vivente’ si sta comunque orientando
verso un uso sempre più diffuso nel trust
pure nell’ambito familiare[175], anche sulla scorta di talune pregevoli opere di
orientamento delle prassi notarili verso la redazione di clausole che, pur se
tratte da esperienze straniere, appaiano rispettose dell’«ambiente» normativo
nel quale vengono trapiantate[176]. Ulteriori argomenti in favore della validità del trust interno sono stati portati dalla
riforma del 2016 sul c.d. «dopo di noi» (l. 22.6.2016, n. 112), anche se tale
normativa, curiosamente, pur dando per scontato che il trust sia, di per sé, ammissibile (ciò che, ovviamente, nessuno
pone in contestazione), non sembra prendere posizione sul tema specifico del trust interno, ben guardandosi, oltre
tutto, dal dettare principi idonei a consentire un’armonizzazione delle regole
derivanti dall’applicazione del richiamato diritto straniero con quelle con
esse difficilmente compatibili dettate dal diritto interno.
Certamente, nel senso della
validità del trust interno vanno
orientandosi, larga parte della dottrina e della giurisprudenza più recenti[177], sebbene proprio in talune delle decisioni di merito
più vicine nel tempo deve registrarsi una vera e propria «ribellione» alla tesi
che ormai va per la maggiore. Siffatta resistenza ha suscitato, nei fautori
della tesi della validità, reazioni e toni di asprezza paragonabile solo a
quella che era propria dei sostenitori della tesi contraria, allorquando l’idea
del «trust tricolore» era vista come
una stravaganza[178]. Inutile dire che la Cassazione, a ben vedere, non è
si mai espressa funditus sul tema,
dando invece per scontato la validità di siffatto tipo di trust, ma senza rispondere mai al fondamentale interrogativo sul
perché mai una convenzione di diritto internazionale privato dovrebbe essere
letta alla stregua di una convenzione di diritto materiale uniforme.
Così pure l’attenzione con cui la
legislazione fiscale ha guardato al fenomeno (da ultimo cfr. le disposizioni di
cui alla l. 22 giugno 2016, n. 112) non fornisce ancora base sufficiente
all’ammissibilità civilistica dell’istituto. Lo stesso è a dirsi per il
contratto c.d. di affidamento fiduciario, rispetto al quale, addirittura,
nessuna norma del vigente ordinamento prevede l’effetto segregativo del
patrimonio: effetto che, alla luce del disposto dell’art. 2740 c.c., solo un
atto avente forza di legge (certo non l’autonomia contrattuale) può prevedere[179].
In ogni caso, è chiaro che le
disposizioni della Convenzione trovano sicura applicazione da noi in relazione
alle fattispecie di trusts caratterizzati
dall’effettiva presenza di un elemento di estraneità; situazioni, queste
ultime, di cui la giurisprudenza ha già avuto modo di occuparsi[180].
Siffatto innesto non è peraltro
senza conseguenze, avuto riguardo alla necessità, espressa dallo stesso art. 15
della Convenzione, di rispettare le norme inderogabili dell’ordinamento
designato dalle regole di conflitto del foro, con la conseguenza che, in tutte
le situazioni ‘interne’, in cui la legge italiana appare applicabile ai sensi
dell’art.
c.c., oltre, proprio in materia
di comunione, all’art. 210, 3° co., c.c., in cui il
legislatore menziona espressamente il carattere inderogabile di determinate
disposizioni in materia di regime legale.
Rinviando
ad altre sedi per la trattazione dei profili generali sopra indicati[181], va detto che, nello specifico
settore dei rapporti personali e patrimoniali tra coniugi (e con la prole), l’art.
15 della citata Convenzione stabilisce che «La Convention ne fait pas obstacle
à l’application des dispositions de la loi désigné e par les règles de conflit
du for lorsqu’il ne peut être dérogé à ces dispositions par une manifestation
de volonté, notamment dans les matières suivantes: a) la protection des mineurs et des incapables; b) les effets personnels et patrimoniaux
du mariage». Ai sensi di questa
disposizione, la legge del trust cede
non alla legge del foro (protetta dagli artt. 16 e 18), ma alle disposizioni
della legge, straniera o meno, indicata dalle regole di conflitto del foro.
Orbene, nel caso di specie, le regole di conflitto italiane, in materia di
rapporti patrimoniali tra coniugi, designano in primo luogo, quale legge
applicabile, quella «nazionale comune» (cfr. art.
Partendo dunque dal presupposto
che la coppia coniugata sia composta da due cittadini italiani, è alle norme
imperative dettate dal codice civile italiano in tema di rapporti patrimoniali
tra coniugi che andrà fatto riferimento. Al riguardo il nostro ordinamento
prevede limiti all’autonomia negoziale nelle disposizioni di carattere generale
contenute agli artt. 160, 161, 162 e 166 bis
c.c. A tali ostacoli vanno ancora aggiunti quelli stabiliti in relazione a
ciascuno dei tipi di convenzione: il caso più evidente è quello contemplato
dall’art. 210, 3° co., c.c., in cui il
legislatore menziona espressamente il carattere inderogabile di determinate
disposizioni in materia di comunione legale.
Tra i limiti in esame
all’autonomia negoziale dei coniugi occorre menzionare in primo luogo quello
che pone il divieto di costituzione, sotto ogni forma, di beni in dote (art.
166 bis c.c.), con riguardo al quale
la dottrina concorda nell’affermare che la regola in oggetto pone uno specifico
limite all’autonomia negoziale dei coniugi in sede di pattuizione delle convenzioni
matrimoniali diretto ad impedire, attraverso il collegamento con gli artt. 1344
e 1418 c.c., che l’effetto proprio della dote venga realizzato attraverso un
contratto in frode alla legge.
Una volta definita la dote come
quella convenzione che attribuisce ad un coniuge – indipendentemente dal fatto
che sia il marito o la moglie – una posizione di supremazia rispetto all’altro,
conferendogli il potere di amministrare e gestire beni nei confronti dei quali
egli non vanti alcun diritto reale, appare piuttosto evidente come, mercé la
stipula di un trust, si potrebbe dar
luogo ad apporti patrimoniali di provenienza di un coniuge (o della sua
famiglia), nella veste di costituente, in favore dell’altro (nella veste di trustee), con conferimento di potere di
amministrazione esclusivo in capo a quest’ultimo, con vincolo di utilizzo e
destinazione ad onera matrimonii ferenda,
con divieto di alienazione dei cespiti ‘segregati’ ed obbligo di restituzione
per il caso di separazione legale o scioglimento del vincolo matrimoniale. In
questa fattispecie appare difficilmente contestabile l’operatività, anche in
relazione ad un ipotetico trust ‘interno’,
della norma codicistica citata, proprio per effetto del rinvio di cui all’art.
15, lett. b), della Convenzione dell’Aja
alle disposizioni inderogabili relative agli «effets personnels et patrimoniaux
du mariage», disposizioni inderogabili, tra le quali dovrebbe sicuramente
rientrare anche l’art. 166 bis c.c.
nel caso in cui, come si è detto, entrambi i coniugi siano cittadini italiani,
ovvero ogniqualvolta, per effetto dell’art.
Trattando di altri possibili
limiti va detto che, ad es., il principio posto dall’art. 160 c.c. vale a
rendere inderogabili i doveri di contribuzione ex art. 143, 3° co., c.c. e di mantenimento
dei figli, ex artt. 147, 148 c.c.
D’altro canto non vi è dubbio che, nelle ipotesi e nei limiti in cui si ammetta
la costituzione in Italia di un trust,
quest’ultimo ben potrebbe essere impiegato per adempiere ai doveri testé
citati. Nel caso di applicabilità del diritto italiano per effetto del disposto
dell’art.
La constatazione sembra così
confortare ulteriormente la conclusione secondo cui il rinvio ad una legge
straniera che conosce i trusts è
ammissibile solo in presenza di un oggettivo elemento di estraneità. In ogni
caso andrà aggiunto che, anche volendo ammettere in generale la possibilità di
costituire trusts ‘interni’, nella
specifica ipotesi di costituzione tra coniugi cittadini italiani, ovvero nel
caso in cui comunque le regole di conflitto dovessero ‘puntare’ verso la legge
italiana, occorrerebbe (per evitare di incorrere negli strali dell’art. 161
c.c.) quanto meno riportare per esteso nell’atto costitutivo del trust le disposizioni della legge
straniera richiamata.
Venendo ora a dire dei limiti ex artt. 162-166 c.c. all’autonomia
negoziale dei coniugi, potrà dirsi che, esclusi i trusts costituiti in relazione alla crisi coniugale ed i c.d. trusts ‘autodichiarati’ (cioè costituiti
sulla base di una unilaterale dichiarazione del costituente), sembra possibile
riconoscere nel trust gli estremi di
una convenzione matrimoniale, come tale sottoposta alle inderogabili norme di
cui agli artt. 162 ss. c.c., allorquando esso venga a costituire un vero e
proprio regime patrimoniale della famiglia.
È noto infatti che[182] la libertà negoziale dei coniugi può spingersi a
creare regimi patrimoniali atipici. Ora, se è vero che per regime patrimoniale
deve intendersi non solo l’insieme delle regole che precostituiscono la sorte
di una serie indeterminata d’acquisti (determinabili unicamente ex post), compiuti dai coniugi, bensì
anche l’insieme di quelle regole che precostituiscono (e qui il fondo
patrimoniale docet) l’eventuale
separazione patrimoniale di una certa massa determinata di beni apportati ad onera matrimonii ferenda, oltre che le
norme per la loro amministrazione ed alienazione, si può agevolmente
comprendere come anche il trust,
ancorché avente ad oggetto una massa determinata di beni, possa ricadere in
tale categoria. In conclusione sul punto dovrà dunque dirsi che, nell’ipotesi
appena delineata (di «segregazione», cioè, di beni di uno o dell’altro dei
coniugi, destinati a sostenere gli oneri del matrimonio e ad essere
amministrati dal trustee secondo regole predeterminate dal settlor nell’interesse della famiglia), l’atto costitutivo del trust andrà considerato alla stregua di
una convenzione matrimoniale, con tutto ciò che ne consegue in tema di forma,
pubblicità, simulazione, capacità e quant’altro disposto dagli artt. da
Anche per il settore specifico dei rapporti
patrimoniali dei soggetti civilmente uniti valgono, in linea di massima, le
osservazioni svolte in generale dalla dottrina sui d.d.l. che hanno preceduto
la l. 20.5.2016, n. 76. Al riguardo, svariati Autori[184] hanno rimarcato che l’Italia, con queste
disposizioni, si è venuta ad avvicinare ai molti altri Paesi firmatari della
Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà
fondamentali (e non solo quelli), che hanno dato riconoscimento giuridico alle unioni affettive same-sex e,
più in generale, apprestato tutela alle convivenze etero- od omosessuali non
matrimoniali[185]. Si è tentato così di colmare il vuoto di tutela
segnalato, tra l’altro, dalla Corte di
Strasburgo, che aveva stigmatizzato l’inerzia dell’Italia, evidenziando
il mancato assolvimento, in violazione dell’art. 8 CEDU sul diritto al rispetto
della vita privata e familiare, dell’obbligo positivo di assicurare alle coppie
omosessuali riconoscimento e protezione con l’emanazione di una normativa ad
hoc[186]. Si è voluto altresì dar seguito alle esortazioni
della Consulta (formulate
ormai nel giugno 2014) di provvedere con «la massima sollecitudine» a dare
forma giuridica alle unioni, originariamente matrimoniali e divenute same-sex
a seguito del mutamento di genere di uno dei coniugi, in presenza della
volontà dei partner di mantenere in vita il rapporto di coppia[187].
È noto peraltro che gli svariati interventi sul testo
inizialmente presentato al Senato e, soprattutto, il maxiemendamento
governativo del febbraio 2016 hanno finito con lo stravolgere l’impianto
originario della riforma[188]. Gli autori di tali interventi non sembrano peraltro
essersi avveduti del fatto che proprio le discriminazioni così introdotte rispetto al matrimonio determineranno,
prima o poi, ricadute inattese sui rapporti tra coniugi: dalla maggiore libertà
nella scelta del cognome, all’esclusione dell’obbligo di fedeltà, all’ulteriore
semplificazione delle procedure divorzili, all’esclusione della necessità della separazione legale quale presupposto
per il divorzio, alle prospettive di una diversa regolamentazione dell’adozione
e della procreazione medicalmente assistita, etc.[189].
Purtroppo, tanto la regolamentazione dei rapporti tra
le persone che abbiano siglato un’unione civile, così come la normativa che
disciplina le relazioni tra i «conviventi di fatto»[190], manifestano smagliature e criticità molto gravi, in
merito sia alla formulazione tecnica
di quasi tutte le previsioni, sia al difetto di coordinamento con norme già esistenti, senza
parlare di una certa sciatteria[191] nel linguaggio giuridico[192].
Quanto alla soluzione normativa concretamente adottata
dalla novella del 2016, va detto che i rapporti patrimoniali delle unioni
civili riposano in gran parte sul sistema del rinvio puro e semplice operato dalla riforma alle
disposizioni codicistiche in tema di rapporti patrimoniali dell’unione
coniugale[193]. Sul punto è pure stato rilevato in dottrina che
l’unione civile è stata costruita proprio sulla falsariga dell’atto
matrimoniale e dei contenuti del relativo rapporto, attraverso la
predisposizione di regole che, di fatto, riproducono, salva qualche variante,
indiscutibilmente anche assai significativa, il contenuto di buona parte delle
disposizioni codicistiche dedicate al matrimonio[194].
Tale rinvio non si esplica però alla stessa maniera in
relazione a tutte le norme che governano questo tipo di relazioni tra i
coniugi. Per comprendere appieno queste differenze occorre partire dall’esame
del tenore letterale dei commi da
Come appare evidente, il co. 20 estende il rinvio alle disposizioni in materia,
eventualmente contenute in norme diverse da quelle citate nei commi precedenti,
che si riferiscano al matrimonio o che contengano
le parole «coniuge», «coniugi» o «termini equivalenti» (dunque,
verosimilmente: «marito», «moglie», «sposi» etc.). Norme, si badi, contenute
non solo nelle leggi speciali, ma anche in codici diversi da quello civile, naturalmente anche al di fuori
del campo dei rapporti patrimoniali (si pensi, ad es., a quegli articoli che
nel codice penale o nel codice di procedura penale che trattano del coniuge,
quale soggetto attivo o passivo di reati propri, o, ancora, quale titolare del
diritto di astenersi dalla testimonianza ecc.). Invero, il co. cit. – come
emerge dal relativo tenore letterale – è volto ad «assicurare l’effettività della tutela dei diritti e il
pieno adempimento degli obblighi derivanti dall’unione civile tra persone dello
stesso sesso»[195].
Per ciò che attiene, invece, al codice civile, provvede la parte
finale del citato co.
La via così prescelta, dettata, evidentemente, dal
timore di avvicinare « troppo » l’unione civile al matrimonio, suscita
perplessità in ordine a possibili dubbi
di costituzionalità in ordine a lacune di un certo peso. Lacune
che – per quanto attiene agli istituti disciplinati dal codice civile – non appaiono certo colmabili con il ricorso
all’analogia, posto che la ricordata disposizione di cui al co. 20 rende
evidente il carattere eccezionale e tassativo dei richiami a determinati
articoli, sezioni, capi e titoli del codice civile, contenuti nei commi
precedenti (ma anche seguenti: si pensi ad es. a quanto previsto
dall’immediatamente successivo 21° co.)[198]. Come chiarito in altra sede alla luce di qualche
esempio concreto[199], la citata tassatività non riguarda però tutte le norme del codice civile astrattamente
applicabili alle unioni civili. Essa, invero, sembra riferibile a quelle sole
disposizioni (del codice civile) che hanno quale campo d’azione diretto il matrimonio o comunque i rapporti tra i coniugi,
come reso evidente dall’inciso di apertura del co. 20 cit., che si riferisce
alle «disposizioni che si riferiscono al matrimonio e [al]le disposizioni
contenenti le parole “coniuge”, “coniugi” o termini equivalenti».
Il 13° co. dell’art. 1 della riforma del 2016 opera un
rinvio esplicito alle «sezioni II, III, IV, V e VI del capo VI del titolo VI
del libro primo del codice civile», vale a dire agli articoli compresi tra il
167 e il 230 bis c.c. Per ciò che attiene, invece, alla sezione I, cioè
agli articoli compresi tra il 159 ed il 166 bis c.c., relativi alla
parte generale delle convenzioni matrimoniali, la tecnica adottata è triplice: alcune disposizioni sono
espressamente richiamate, altre sono trasfuse in un testo dal contenuto
analogo, altre, infine non vengono richiamate (e la loro richiamabilità, per le
ragioni già esposte, va considerata tassativamente esclusa). In particolare,
gli articoli non espressamente
richiamati sono i seguenti: 159,
160, 161, 165 e 166 bis c.c., come è dato agevolmente arguire da
una lettura a contrariis del co. 13°. Sono, questi, gli articoli la cui
espunzione spiega il perché del mancato rinvio del citato comma all’intera
sezione I del capo VI del titolo VI del libro I, laddove tutte le altre sezioni
del predetto capo VI sono, per l’appunto, espressamente richiamate «in blocco».
Non appare chiaro perché, nell’iter che ha
condotto dal «secondo testo Cirinnà» al testo concretamente approvato dal
Parlamento, si sia passati dall’esclusione dei soli artt. 161 e 165
all’esclusione anche degli altri tre articoli. L’unica spiegazione plausibile
ha a che vedere con il tentativo – operato per soddisfare le sempre più
pressanti richieste di una parte della maggioranza governativa – di pervenire ad
una più evidente «dematrimonializzazione»
della riforma[200]. Va peraltro subito chiarito che, dei cinque articoli
sopra menzionati, solo tre vanno considerati come del tutto esclusi (cfr. gli
artt. 161, 165 e 166 bis c.c.), laddove il testo dei rimanenti due (artt.
159 e 160 c.c.) è stato trasfuso nel 13° co. citato. Vengono invece
espressamente richiamati gli artt. 162, 163, 164 e 166 c.c., per un dettagliato
commento ai quali (impossibile nella presente sede), in relazione alla loro
trasposizione all’unione civile, si fa rinvio ad altri lavori[201].
16. L’art. 159 c.c. nel sistema dei rapporti
patrimoniali dell’unione civile.
L’art. 159 c.c., come detto, risulta sostanzialmente
trasfuso nella prima parte del
13° co. cit. («Il regime patrimoniale dell’unione civile tra persone dello
stesso sesso, in mancanza di diversa convenzione patrimoniale, è costituito
dalla comunione dei beni»), laddove l’art. 160 c.c. fa ora capolino nel
contesto del terzo periodo del
citato capoverso («Le parti non possono derogare né ai diritti né ai doveri
previsti dalla legge per effetto dell’unione civile»). La ragione (tutta
«politica») di tale modus operandi va ricercata nell’intento di
sostituire l’espressione «convenzione matrimoniale» con quella «convenzione
patrimoniale». Operazione testuale, questa, in altra sede qualificata alla
stregua di una sorta di «prestidigitazione linguistica», quasi evocante il
gioco della sciarada[202], sebbene lo scopo risulti solo in minima parte raggiunto,
atteso che gli artt. 162, 163 e 164 c.c., espressamente richiamati, contengono
(talora addirittura nella rubrica) la terminologia incriminata, mentre l’art.
166 c.c. racchiude niente di meno che la «perla» ottocentesca del «contratto di
matrimonio»[203].
Esclusi tali rilievi, nonché quelli presentati nei §§
precedenti, va detto che i rapporti
patrimoniali dei soggetti dell’unione civile appaiono sicuramente ricalcare, in
gran parte, quelli dei coniugi. Ciò vale, in primis, per
quell’istituto (rectius: complesso di istituti) che si individua con
l’espressione sintetica «regime
patrimoniale della famiglia» e che forma oggetto del capo VI del titolo
VI del libro I del codice civile. In base alla fondamentale regola scolpita
nell’art. 159 c.c., non richiamata, come detto, ma riprodotta con gli
«opportuni» adattamenti e sterilizzazioni (patrimoniale, anziché matrimoniale)
nel contesto del co. 13°, anche nei confronti della coppia omosessuale,
civilmente unita, che non abbia operato una scelta di tipo diverso, troverà
applicazione il regime della comunione
legale dei beni, che pertanto diviene anche in questo caso il regime
patrimoniale legale operante ex lege,
in mancanza di diversa convenzione matrimoniale (o patrimoniale, che dir si
voglia) tra le parti.
Ovviamente, scopo
della norma non è certo quello[204] di operare «una imprevista (e forse non meritata) “rivitalizzazione”» del regime
patrimoniale legale della famiglia introdotto nel 1975, bensì quello di
realizzare (nei limiti, peraltro, criticabilissimi, introdotti dalla politica
italica) una ormai doverosa (e, in caso contrario, incostituzionale) equiparazione delle coppie omosessuali a
quelle eterosessuali.
La questione della revisione generale del sistema dei
regimi patrimoniali è altro paio di maniche. Essa s’impone, senza dubbio, ormai
da tempo, ma, almeno sul punto, il messaggio normativo appare chiaro: qualunque
riforma non potrà essere immaginata, se non in maniera uniforme tra matrimonio
ed unione civile. L’espresso richiamo all’art. 162 c.c. consente di
affermare che la coppia potrà optare per il regime di separazione nella stessa
«dichiarazione di fronte all’ufficiale di stato civile», resa «alla presenza di
due testimoni» (ex art. 1, 2° co., della novella sulle unioni civili),
che dovrà ritenersi costituire (anche se l’uso della parola è stato evitato per
evidenti ragioni «politiche») l’equivalente di quell’«atto di celebrazione» in
cui, dal Concilio di Trento e dall’Ordonnance de Blois, si sostanzia il
matrimonio; atto cui fa, appunto, rinvio l’art. 162 cpv. c.c.[205].
La trasposizione della regola scolpita nell’art. 159
c.c. nel campo dei rapporti patrimoniali dell’unione civile consente di
riferire a tale istituto anche la – in altra sede ricordata[206] – regola processuale relativa all’onere probatorio, secondo cui, in ogni
controversia in cui sia rilevante accertare se una data coppia si trovi o meno
in regime di comunione, l’esistenza di
un regime difforme da quello legale va dimostrata da chi lo invoca.
Per quanto attiene ai tradizionali regimi patrimoniali
della famiglia coniugale ed alle relative convenzioni matrimoniali, non vi sono, dunque, altre particolarità
da segnalare rispetto a quelle già individuate, se non il curioso effetto
«terminologico» per cui, in un istituto che si è voluto (per le sin troppo note
ragioni) tenere separato dal matrimonio, trovano perfetta applicazione tutte le
principali disposizioni in materia di convenzioni matrimoniali.
«Matrimoniali», per l’appunto (e non «convenzioni d’unione civile» o simili),
posto che qui il legislatore non ha disposto un mutamento di terminologia, come
è avvenuto, ad es., nel campo della filiazione, ove si sono espressamente
voluti cancellare i termini «potestà», «figlio legittimo», «figlio naturale»,
«figlio adulterino», «figlio legittimato» con un’apposita disposizione omnibus
(cfr. art. 105, d.lgs. 28.12.2013, n. 154 «Revisione delle disposizioni
vigenti in materia di filiazione, a norma dell’articolo 2 della legge 10
dicembre 2012, n. 219», in vigore dal 7 febbraio 2014).
Come appena detto, infatti, il tentativo di
«dematrimonializzazione», anche linguistica, mercé il cambio di un’iniziale
(«p» anziché «m»), non appare pienamente riuscito. Dunque i soggetti
dell’unione civile, pur non potendo unirsi in matrimonio, perché
omosessuali, potranno stipulare tra di
loro convenzioni matrimoniali[207].
Quanto sopra vale anche per le disposizioni in tema di
impresa familiare, estese in
blocco all’unione civile dal citato 13° co., mercé l’espresso rinvio al capo VI
del titolo VI del libro primo. Dal punto di vista della tecnica legislativa non
si è, invece, ritenuto di inserire il soggetto dell’unione civile nel testo
dell’art. 230 bis c.c., confermandosi così, ancora una volta, una scelta
«politica» di non introdurre nel testo del codice le nuove disposizioni, quasi
che si temesse di «contaminarlo» con la presente materia[208].
Fermo quanto sopra, è chiaro che tutta l’elaborazione dottrinale e giurisprudenziale
in tema di regimi patrimoniali e convenzioni matrimoniali sarà
trasponibile alla materia qui in esame. Così, ad esempio, anche per i
civilmente uniti dovrà considerarsi valevole il principio di atipicità delle convenzioni e dei regimi,
con la conseguenza che pure a siffatte nuove situazioni dovranno applicarsi
regole, idee, soluzioni a lungo discusse con riguardo ai rapporti inter
coniuges: dalla possibilità di dar vita a regimi patrimoniali non
espressamente previsti e «nominati» dal codice[209], alla libera costituibilità di vincoli di destinazione nell’interesse
della famiglia, ex art. 2645 ter c.c.[210], alla istituzione di trusts familiari,
eventualmente «interni»[211] e via dicendo.
[1] Per approfondimenti e richiami, con particolare
riguardo al ruolo dell’art. 159 c.c. nel sistema del regime legale si fa rinvio
a Oberto, La comunione legale tra coniugi, I, in Tratt. Cicu-Messineo, Milano, 2010, 329 ss., 356 ss., 372 ss., 1082
ss., 1114 ss., II, 2137 ss.
[2] Per alcuni rilievi su tale evoluzione cfr. Cian, Introduzione generale, sui presupposti storici e sui caratteri generali del diritto di famiglia riformato, in Comm. Carraro, Oppo, Trabucchi, I, 1, Padova, 1977, 35; v. inoltre Sacco, Del regime patrimoniale della famiglia, in Comm. Cian, Oppo, Trabucchi, III, Padova, 1992, 4 ss.; Lo Moro Biglia, Lo scioglimento della comunione legale tra i coniugi, Padova, 2000, 46 ss.; Oberto, La comunione legale tra coniugi, I, cit., 162 ss.
[3] Il documento è disponibile in www.legislature.camera.it. Il primo Progetto Reale venne esaminato in modo molto approfondito nel corso di un Convegno svoltosi presso la Fondazione Cini di Venezia nei giorni 30 aprile-1 maggio 1967, dal titolo «La riforma del diritto di famiglia», i cui atti sono pubblicati nei Quaderni della Riv. dir. civ., 1967. Per Cattaneo, Il diritto di famiglia, relazione tenuta in occasione del Convegno di Milano, 4-6.6.1992, dal titolo I cinquant’anni del codice civile, Milano, 1993, I, 144, «è nel periodo tra il 1967 e il 1975 che alcune grandi riforme hanno (...) attuato la trasformazione del sistema».
[4] Per una rassegna delle sentenze della Corte costituzionale, pronunciate nell’arco degli anni 1961-1973 cfr. Barile, L’eguaglianza morale e giuridica dei coniugi nella giurisprudenza costituzionale, in Atti del Convegno di Napoli, svoltosi nei giorni 14-15 dicembre 1973, dal titolo «Eguaglianza morale e giuridica dei coniugi», indetto dalla Facoltà di Economia e commercio, Napoli, 1975, 37 ss.; cfr. inoltre Lanzillo, Zanetti, Le sentenze della Corte costituzionale in materia di diritto di famiglia, in Dir. famiglia, 1976, I, 360 ss.
[5] Sul
tema si fa rinvio per tutti a Sesta, Diritto di famiglia, Padova, 2005, 21
ss., 27 ss. Si potrà ricordare anche C. cost., 26.6.1974, n.
[6] Ci si intende qui riferire a quel movimento culturale e normativo che ha visto la posizione espressa nel 1945 da Francesco Santoro-Passarelli contrapporsi – a mo’ di frattura quasi epocale – a quella combattivamente propugnata, già da prima dell’avvento al potere del Fascismo, da Antonio Cicu: sul tema cfr. per tutti Oberto, I contratti della crisi coniugale, I, Milano, 1999, 103 ss., 125 ss.; per una successiva riscoperta dello scritto di Santoro Passarelli (Santoro Passarelli, L’autonomia privata nel diritto di famiglia, in Dir. e giur., 1945, 3 ss. e in Saggi di diritto civile, I, Napoli, 1961, 381 ss.) cfr. Zoppini, L’autonomia privata nel diritto di famiglia, sessant’anni dopo, in Riv. dir. civ., 2001, 213 ss.; v. inoltre Bocchini, Autonomia negoziale e regimi patrimoniali familiari, in Riv. dir. civ., 2001, 446 ss.; Autorino Stanzione, Autonomia negoziale e rapporti coniugali, in Rass. dir. civ., 2004, 3 ss.; Costanza, Rapporti patrimoniali e autonomia privata, in Tratt. Ferrando, II, Bologna, 2008, 256 ss.; Criaco, Liberalità e rapporti patrimoniali tra coniugi, Milano, 2008, 12 ss. Sottolinea che l’affermazione del principio costituzionale d’uguaglianza ha reso possibile il superamento dei limiti tradizionalmente posti all’autonomia privata tra i coniugi anche S. Patti, I rapporti patrimoniali tra coniugi. Modelli europei a confronto, in Tratt. Ferrando, II, cit., 235. Sul tema v. anche Oberto, La comunione legale tra coniugi, I, cit., 163 ss., II, cit., 2117 ss.
[7] Pure la relazione al primo Progetto Reale è disponibile in www.legislature.camera.it.
[8] Anche se, come rilevato in dottrina (cfr. Lo Moro Biglia, Lo scioglimento della comunione legale tra i coniugi, cit., 47), ad una tale enunciazione di principi non faceva riscontro, ancora, una piena realizzazione. Basti pensare, ad esempio, all’attività di gestione ordinaria della comunione, per la quale il citato progetto (cfr. l’art. 220, 1° co., del testo novellato) stabiliva che «L’amministrazione e la rappresentanza in giudizio della comunione spettano al marito», salva la facoltà della moglie di ricorrere al giudice in caso di disaccordo (testo disponibile in Comm. Carraro, Oppo, Trabucchi, II, Padova, 1977, 272). Andrà peraltro subito aggiunto che, per gli atti eccedenti l’ordinaria amministrazione, il medesimo progetto prevedeva il necessario agire congiunto dei coniugi, in tal modo stemperando di gran lunga la posizione di ‘supremazia’ tradizionalmente riconosciuta al marito.
[9] Sulla disciplina della comunione nel progetto Reale cfr. Rescigno, I rapporti patrimoniali tra coniugi, in AA.VV., La riforma del diritto di famiglia. Atti del convegno di Venezia svolto presso la fondazione ‘Giorgio Cini’ nei giorni 30 aprile-1 maggio 1967, Padova, 1969, 60 ss.
[10] Cfr. art. 13 del disegno di legge Reale (nuovo testo dell’art. 217 c.c.).
[11] Questo regime giuridico che, secondo la critica, si risolveva dal punto di vista della effettiva tutela degli interessi in gioco, in una communio de residuo, e cioè in un modello atto a realizzare la sola finalità di assicurare alla moglie, all’atto dello scioglimento della comunione, il concreto riconoscimento dell’apporto da essa recato alla creazione del patrimonio familiare (cfr. Moscarini, Parità coniugale e governo della famiglia, Milano, 1974, 179), suscitò reazioni contrarie nella dottrina prevalente; si rilevò, infatti, che se lo scopo della nuova disciplina doveva essere solo quello di riconoscere nel suo giusto valore l’apporto del lavoro domestico della donna alla formazione del patrimonio familiare, sarebbe stata sufficiente una riforma che introducesse una espressa valutazione di tale apporto (cfr. Trabucchi, I principi generali della riforma del diritto di famiglia, in AA.VV., La riforma del diritto di famiglia, cit., 18; Oppo, Interventi, ivi, 148). D’altro canto, si affermò che la introduzione di un regime di comunione avrebbe pregiudicato la snellezza e la sicurezza dei traffici, ed avrebbe inserito nel nostro ordinamento un istituto non corrispondente al costume sociale, che già aveva rigettato la comunione convenzionale degli utili e degli acquisti prevista dal codice civile del 1942 (sul punto cfr. Spinelli, I rapporti patrimoniali tra coniugi nel progetto di riforma, in Dir. famiglia, 1973, 183; Scaduto, Intervento, in AA.VV., La riforma del diritto di famiglia, cit., 123 ss., spec. 134 ss.; Betti, Intervento, ivi, 173 ss., spec. 138 s.). Sul tema cfr. anche Nuzzo, L’oggetto della comunione legale tra coniugi, Milano, 1984, 24 ss.; Oberto, La comunione legale tra coniugi, I, cit., 163 ss.
[12] Tutti questi testi sono ora disponibili in www.legislature.camera.it, nell’archivio dei documenti relativi alla Quinta Legislatura. Essi sono raccolti in versione cartacea nel Comm. Carraro, Oppo, Trabucchi, II, Padova, 1976, 266 ss.
[13] Cfr. Nuzzo, L’oggetto della comunione legale tra coniugi, cit., 25 ss.
[14] Per una analisi comparativa dei diversi progetti cfr. Zatti, Il diritto di famiglia nei progetti di riforma, in Riv. dir. civ., 1970, II, 371 ss.
[15] In questo senso v. soprattutto Moscarini, Parità coniugale e governo della
famiglia, cit., 196, il quale afferma che, nel quadro di una consapevole
valutazione globale di tutta la problematica giuridica della famiglia, sembra
ineluttabile, per la piena attuazione del principio di parità coniugale, la
scelta di un regime patrimoniale di comunione puro o integrale non suscettibile
di esclusione convenzionale, o quanto meno derogabile solo in presenza di ben
determinati presupposti di censo, soggetti ad un rigoroso controllo preventivo
del giudice. Sostanzialmente nello stesso senso Schlesinger, Della comunione
legale, in Comm. Carraro, Oppo,
Trabucchi, I, 1, Padova, 1977, 366 ss., il quale rileva che il sistema
seguito dalla legge appare contraddittorio e perfino venato da un dubbio di
legittimità costituzionale, in quanto il regime di separazione dei beni non
sembra compatibile con il principio di eguaglianza cosicché, in parte, l’averlo
conservato, potrebbe giustificare il sospetto di una carente attuazione
dell’art. 29 cost. Contro questa impostazione, cfr. Pino, Spunti critici sul disegno di legge in riforma del diritto familiare,
III, I rapporti familiari tra coniugi,
in Riv. trim. dir. e proc. civ.,
1967, 1233 ss. Secondo questo Autore, infatti, l’affermazione di una necessaria
connessione tra regime di comunione dei beni e principio di solidarietà
familiare non tiene conto del fatto che i procedimenti tecnici sono sempre
neutri rispetto agli orientamenti ideologici.
L’esistenza
di una connessione necessaria tra affermazione dell’obbligo di contribuzione di
entrambi i coniugi per il reciproco mantenimento e la previsione di un diritto
della moglie sui beni acquistati dal marito in costanza di matrimonio fu
sostenuta da Trabucchi nel commento alla sentenza della C. cost., 24.6.1970, n.
133, la quale aveva dichiarato la illegittimità costituzionale dell’art. 145
c.c., nella parte in cui non subordinava alla condizione che la moglie non
avesse mezzi sufficienti, il dovere del marito di mantenerla in proporzione
alle sue sostanze (Trabucchi, La contribuzione agli onera matrimonii e il principio costituzionale di parità,
in Riv. dir. civ., II, 1970, 465).
Sul tema della costituzionalità o meno del regime di separazione dei beni cfr.
per tutti Oberto, Il regime di separazione dei beni tra
coniugi. Artt. 215-
[16] Il principio fu espressamente affermato anche nel corso della discussione parlamentare del progetto della legge di riforma: per tutti, v. gli interventi dell’On. Castelli, in Camera, V legislatura, IV Commissione, resoconto stenografico della seduta del 7 luglio 1971, 813, e dell’On. La Loggia, ivi, 811.
[17] Cfr. il progetto n. 23/VI/C, in www.legislature.camera.it.
[18] La discussione iniziò il 2.8.1972 e terminò il 18.10.1972: il testo fu approvato senza alcuna modificazione, in quanto i gruppi politici, pur rilevando imperfezioni e lacune del testo unificato, furono concordi nell’approvarlo allo scopo di accelerare i lavori. Il testo di riforma venne trasmesso dal Presidente della Camera al Presidente del Senato il 7.10.1972. La Commissione Giustizia del Senato esaminò il testo proponendone uno parzialmente diverso da quello approvato dalla Camera. Il testo proposto dalla Commissione venne accompagnato da una relazione del sen. Agrimi e da una relazione di minoranza. Il Senato in aula esaminò il progetto di legge e, a causa delle modifiche apportate, il Presidente del Senato trasmise alla Presidenza della Camera il 5.3.1975 il nuovo testo. La proposta di legge, assegnata per l’esame in sede legislativa alla quarta Commissione Giustizia, venne da questa definitivamente approvata il 22.4.1975. La legge entrò in vigore il 20.9.1975. Sull’iter parlamentare della legge di riforma del diritto di famiglia cfr. Finocchiaro A. e Finocchiaro M., Diritto di famiglia, I, Milano, 1984, 1 ss.
[19] Cfr. Nuzzo, L’oggetto della comunione legale tra coniugi, cit., 27 ss.
[20] Fondamentale
al riguardo l’analisi di Bin, Rapporti patrimoniali tra coniugi e
principio di eguaglianza, Torino,
[21] Cfr. De Paola, MacrÌ, Il nuovo regime patrimoniale della famiglia, Milano, 1978, 77 ss. Sul tema cfr. anche Corsi, Il regime patrimoniale della famiglia, I, in Tratt. Cicu-Messineo, Milano, 1979, 54 ss., il quale ritiene che la considerazione del lavoro domestico sia stato uno degli elementi determinanti della scelta legislativa a favore della comunione, negando però che la comunione costituisca il corrispettivo dell’attività di lavoro domestico.
[22] Denunciava gravi carenze tecniche nella legge di riforma del 1975, ad esempio, già Corsi, Il regime patrimoniale della famiglia, I, cit., 1 che si esprimeva in termini di «vera sciatteria»; v. inoltre Schlesinger, Il nuovo regime patrimoniale tra coniugi. La contrattazione e la pubblicità immobiliare, in AA.VV., Diritto, di famiglia. Società Contrattazione immobiliare, Milano, 1978, 30 ss., ad avviso del quale la predetta riforma «rappresenta, dal punto di vista tecnico, la peggiore delle leggi di diritto privato approvata negli ultimi trent’anni!». Nel senso che una delle cause della disaffezione verso il regime legale sarebbe data dall’«enorme mole di problemi sollevati dall’infelice formulazione delle norme» cfr. Schlesinger, I regimi patrimoniali della famiglia, in AA.VV., La riforma del diritto di famiglia dieci anni dopo. Bilanci e prospettive, Atti del convegno di Verona 14-15.6.1985, Padova, 1986, 126; nello stesso senso v. anche Russo E., L’oggetto della comunione legale e i beni personali. Artt. 159-166 bis, in Comm. Schlesinger, Milano, 1999, 6. Inutile dire che l’‘evoluzione’ successiva del diritto privato italiano si è incaricata di sottrarre alla riforma del 1975 siffatto non commendevole primato.
[23] Palermo, Ordinamento patrimoniale della famiglia, in AA.VV., Sulla riforma del diritto di famiglia. Seminario diretto dal prof. Francesco Santoro-Passarelli, Padova, 1973, 257.
[25] Cfr. Oberto,
La comunione legale tra coniugi, I,
cit., 380 ss.
[26] Cfr. Finocchiaro A. e Finocchiaro M., Diritto di famiglia, I, cit., 711; 2485 ss.
[27] Oltre che conforme al principio dell’efficacia della legge solo per il futuro, considerando un diritto acquisito da ciascuno dei ‘vecchi coniugi’, all’atto della celebrazione delle nozze, quello di non vedere costituirsi un regime diverso da quello applicabile al momento della creazione dell’unione coniugale.
[28] Cfr. Finocchiaro A. e Finocchiaro M., Diritto di famiglia, I, cit., 743 ss.
[29] Conservata soltanto in via di diritto transitorio: sul punto cfr. per tutti Oberto, L’autonomia negoziale nei rapporti patrimoniali tra coniugi (non in crisi), cit., 643 ss.
[30] Al riguardo v. per tutti Oberto, L’autonomia negoziale nei rapporti patrimoniali tra coniugi (non in crisi), in Familia, 2003, 643 ss.
[31] Cfr., tra le tante, T. Rieti, 23.4.1976, in Riv. notariato, 1976, 583; T. Bergamo,
16.3.1978, in Giur. di Merito, 1978,
503, con nota di Finocchiaro M.; T. Sanremo, 15.2.1978, in Foro it., 1978, I, 1556; A. Palermo, 10.2.1978, in Vita notarile, 1978, 131; T. Verbania,
19.2.1978, in Vita notarile, 1978,
209; A. Napoli, 16.1.1978, in Giust. civ.,
1978, I, 972; A. Napoli, 7.12.1977, in Vita
notarile, 1977, 1069; T. Catania, 25.3.1977, in Vita notarile, 1977, 922, con nota di De Rubertis; T. Genova,
21.4.1978, in Riv. dir. ipotecario,
1978, 54; A. Bologna, 13.6.1977, in Riv.
notarile, 1977, 727; A. Ancona, 27.4.1979, in Riv. notarile, 1979, 960; A. Bari, 14.2.1979, in Riv. notarile, 1979, 648; A. Catanzaro,
16.1.1979, in Giur. it., 1979, I, 2,
289; T. Torino, 17.6.1978, in Vita
notarile, 1978, 854; T. Roma, 30.11.1977, in Dir. famiglia, 1978, 890; contra,
A. Catania, 23.3.1979, in Foro it.,
1979, I, 2734, con nota di De Rubertis; A. Firenze, 19.10.1979, in Riv. notarile, 1979, 1249; T. Cosenza,
10.3.1978, in Foro it., 1978, I,
1556; T. Genova, 14.10.1977, in Giur. di
Merito, 1978, 503. Il problema era anche stato portato all’attenzione della
Consulta, che aveva però dichiarato la manifesta infondatezza della questione
di legittimità costituzionale dell’art. cit. nel testo vigente prima della
riforma del 1981: v. C. cost., 31.3.1988, n. 385; in dottrina cfr. sul punto Pacia Depinguente, Autonomia dei coniugi e mutamento del regime
patrimoniale legale, in Riv. dir. civ., 1980, II,
518 ss.; Gabrielli, Pacia Depinguente, Commentario alla l. 10 aprile 1981, n.
[32] Una vera e propria ‘legge francobollo’, la cui approvazione, di fronte ai baratri di incertezze ermeneutiche scavati dalla riforma del 1975, sembra sfuggire ad ogni razionale spiegazione.
[34] Sull’atto di matrimonio cfr. per tutti Ferrando, Il matrimonio, in Tratt. Cicu-Messineo, Milano, 2002, 344 ss.
[35] Così invece Russo E., Ancora sull’oggetto della comunione legale: favor communionis o favor personae coniugis?, in Dir. famiglia, 1998, 206 ss.; Id., L’oggetto della comunione legale e i beni personali, cit., 11 ss., 20 ss.; 373 ss., 486 ss.; sul tema del favor communionis v. inoltre Id., Nuove considerazioni sull’oggetto della comunione legale, in Riv. dir. civ., 1997, I, 671 ss. e in Dir. famiglia, 1998, 1106 ss.; Quadri, L’oggetto della comunione legale tra coniugi: i beni in comunione immediata, in Famiglia e dir., 1996, 179, 184.
[36] Si pensi, per esempio, a quanto disposto dall’ultima parte dell’art. 179, lett. b), c.c., o alla possibilità che l’acquisto avvenga a titolo originario (su quest’ultimo tema v. per tutti Oberto, Acquisti a titolo originario e comunione legale, in Famiglia e dir., 1994, Allegato, passim; Id., La comunione legale tra coniugi, I, cit., 405 ss.).
[37] Così invece Russo E., L’oggetto della comunione legale e i beni personali, cit., 21.
[38] L’Autore (cfr. Russo E., L’oggetto della comunione legale e i beni personali, cit., 21 ss.) allega anche l’eccezionalità della comunione rispetto al principio secondo cui nemo invitus locupletari potest, ma è chiaro che, da un lato, la regola ex art. 177 c.c. non costituisce in alcun modo eccezione a tale principio generale (essendo la stessa derogabile sia in linea generale, mediante la stipula di convenzione di separazione, sia con riguardo a singoli acquisti) e, dall’altro, invitus non equivale certo a inscius.
[39] Così Oberto, La comunione legale tra coniugi, I, cit., 361 ss.; cfr. anche Auletta, La comunione legale, in Tratt. Bessone, Il diritto di famiglia, IV, 2, Torino, 1999, 19 ss., con ampi richiami. Da un punto di vista più ampio, scettico sulla possibilità di individuare principi generali nel campo del diritto di famiglia, vedendo in essi null’altro che ‘scatole vuote’, idonee, in astratto, a giustificare ogni tipo di soluzione, è Alpa, I principi generali del diritto di famiglia, in Riv. dir. fam., 1993, 270 ss.
[40] Sul tema cfr. Oberto,
La comunione legale tra coniugi, I, cit.,
364 ss.
[41] Schlesinger, Del regime patrimoniale della famiglia, in Comm. Cian, Oppo, Trabucchi, III, Padova, 1992, 87 ss. Anche Tanzi, In tema di beni relativi a beni personali nel regime di comunione legale, in Riv. dir. civ., 2001, 53, sottolinea il rilievo dell’art. 219 c.c. Sull’esistenza di un favor communionis cfr. inoltre Comporti, Gli acquisti dei coniugi in regime di comunione legale dei beni, in Riv. notariato, 1979, 50.
[42] In senso contrario v. però Lodo arbitrale, 27.3.1993, citato da Caravaglios, La comunione legale, I, Milano 1995, 297 ss. (con ulteriori richiami dottrinali); sui rapporti tra gli artt. 219 e 195 c.c. cfr. per tutti Santosuosso, Beni ed attività economica della famiglia, in Giur. sist. Bigiavi, Torino, 1995, 299, secondo cui tali disposizioni, «pur essendo parallele, funzionano ciascuna nella logica del proprio regime e con un significato totalmente differente. Mentre l’art. 195 c.c. rappresenta una conseguenza naturale del regime di comunione, l’art. 219 c.c., per contro, viene a facilitare la separazione del patrimonio, offrendo una soluzione al problema tutte le volte che non risulti la titolarità esclusiva in favore dell’uno o dell’altro coniuge»; sul tema cfr. pure Oberto, Il regime di separazione dei beni tra coniugi, cit., 261 ss.
[43] Sul punto, che non si può approfondire in questa sede, si fa rinvio a Oberto, Il regime di separazione dei beni tra coniugi, cit., 336 ss. Sul carattere probatorio e non sostanziale dell’art. 219 c.c. cfr. anche Santosuosso, Beni ed attività economica della famiglia, cit., 300.
[44] Schlesinger, Del regime patrimoniale della famiglia, 1992, cit., 88.
[45] Ibidem.
[46] Cfr.
Cass., 15.7.1982, n. 4137. Nel senso dell’esistenza di una presunzione di
sottoposizione al regime legale dei beni acquistati dopo il 20.9.1977, laddove
«l’eventuale, diversa disciplina del regime di separazione dei beni acquistati
durante il matrimonio» andrebbe provata dal coniuge che l’invoca, v. anche
Cass., 17.8.1990, n.
[47] Cfr. Sesta, Valignani, Il regime di separazione dei beni, in Tratt. Zatti, III, Milano, 2002, 459; Oberto, Il regime di separazione dei beni tra coniugi, cit., 5 ss.; Id., La comunione legale tra coniugi, I, cit., 372 ss.
[48] Valga per tutti il richiamo a Schlesinger, Della comunione legale, 1977, cit., 361.
[49] Oberto, Il regime di separazione dei beni tra coniugi, cit., 7; Id., La comunione legale tra coniugi, I, cit., 372, 382, II, 1783.
[50] Di una «fuga verso la separazione» parlano anche Sesta, Valignani, Il regime di separazione dei beni, cit., 460. Per analoghe considerazioni v. anche Rimini, La tutela del coniuge più debole fra logiche assistenziali ed esigenze compensative, in Fam. dir., 2008, 414.
[51] Oberto, I contratti della crisi coniugale, I, cit., 558 ss.; per analoghe considerazioni v. anche Sesta, Titolarità e prova della proprietà nel regime di separazione dei beni, in Familia, 2001, 871 ss.
[52] Sul
tema, che non può certo essere approfondito in questa sede, v. per tutti Oberto, I contratti della crisi coniugale, I, cit., 483 ss.; Id., «Prenuptial agreements in contemplation of divorce» e disponibilità in
via preventiva dei diritti connessi alla crisi coniugale, in Riv. dir. civ., 1999, II, 171 ss.; Id., Contratto e famiglia, in Tratt.
Roppo, VI, Interferenze, Milano,
2006, 251 ss.; Id.,
Gli accordi preventivi sulla crisi
coniugale, in Familia, 2008, 25
ss.; Id., Per un intervento
normativo in tema di accordi preventivi sulla crisi della famiglia,
[53] Sul tema si fa rinvio per tutti a Oberto, L’autonomia negoziale nei rapporti patrimoniali tra coniugi (non in crisi), cit., 617 ss., 655 ss.
[54] Barbagli, La scelta del regime patrimoniale, in AA.VV., Lo stato delle famiglie in Italia, a cura di Barbagli e Saraceno, Bologna, 1997, 105.
[55] Cfr. Cavallaro, Il regime di separazione dei beni fra i coniugi, Milano, 1997, 5 ss.
[56] Già a dieci anni di distanza dalla riforma Schlesinger, I regimi patrimoniali della famiglia, in La riforma del diritto di famiglia dieci anni dopo. Bilanci e prospettive, Atti del convegno di Verona 14-15.6.1985, Padova, 1986, 121 ss. notava che la comunione veniva rifiutata dal corpo sociale, almeno nelle famiglie che avevano una certa consistenza economica e la cui attività era di carattere imprenditoriale. Nello stesso senso cfr. Russo E., L’oggetto della comunione legale e i beni personali, cit., 6.
[57] Particolare, questo, evidenziato da Gabrielli, I rapporti patrimoniali e successori nell’ambito della famiglia, cit., 48 ss.; nello stesso senso Cavallaro, Il regime di separazione dei beni fra i coniugi, cit., 5.
[58] In tal senso v. Gabrielli, La successione per causa di morte nella riforma del diritto di famiglia, in AA.VV., La riforma del diritto di famiglia dieci anni dopo, Padova, 1986, 180 ss.
[59] Cfr. Gabrielli, I rapporti patrimoniali e successori nell’ambito della famiglia, in Aa.Vv., Famiglia e diritto a vent’anni dalla riforma, a cura di Belvedere e Granelli, Padova, 1996, 49 ss.; Oppo, Autonomia negoziale e regolamento tipico nei rapporti patrimoniali fra coniugi, in Riv. dir. civ., 1997, I, 19; Cavallaro, Il regime di separazione dei beni fra i coniugi, cit., 6. Sui temi specifici dell’estromissione di beni dalla comunione e del rifiuto preventivo del coacquisto v. i richiami in Oberto, L’autonomia negoziale nei rapporti patrimoniali tra coniugi (non in crisi), cit., 655 ss.
[60] Per analoghe considerazioni v. anche Russo E., Le convenzioni matrimoniali. Artt. 159-166 bis, in Comm. Schlesinger, Milano, 2004, 504 ss., che parla al riguardo di ‘fuga’ dal regime di comunione legale. Per i richiami giurisprudenziali sulla questione di cui al testo si rinvia a Oberto, Le convenzioni matrimoniali: lineamenti della parte generale, in Famiglia e dir., 1995, 610 ss.
[61] Barbagli, op. cit., 106.
[62] Ibidem.
[63] Cfr. Istat, Matrimoni, separazioni e divorzi 2003, Roma, 2006, 9, 50, 86 (tavole 1.1, 2.10, 2.11, 2.20), in www.istat.it.
[64] Cfr. i dati di cui al rapporto Istat, in www.demo.istat.it. Da tali risultati emerge che su 250.360 matrimoni celebrati in quell’anno 153.563 sono stati caratterizzati dalla scelta per il regime di separazione, laddove solo 96.797 dalla comunione. Interessanti poi i dati che incrociano il regime patrimoniale prescelto dai novelli sposi con riguardo al titolo di studio di questi ultimi (cfr. Istat, op. cit., 50, tavola 2.11. V. inoltre, per il 2007, www.demo.istat.it). Da tali dati emergeva che, a livello nazionale, il regime di separazione veniva già (maggioritariamente) prescelto dai laureati con percentuali assai più elevate rispetto alla media generale e con un rapporto nella media dai titolari di diploma di scuola media superiore, mentre i possessori di licenza di scuola media inferiore o di scuola elementare sceglievano (rectius, più probabilmente: non sceglievano) ancora maggioritariamente il regime di comunione.
[65] Per i dati relativi al 2007 cfr. Oberto, La comunione legale tra coniugi, I, cit., 377 s.
[66] Più esattamente, in tale anno hanno deciso di non
scegliere il regime di separazione dei beni solo il 27% delle nuove coppie, con
un minimo regionale del 19,7% in Calabria ed un massimo pari al 34,6% in
Trentino-Alto Adige (cfr.
http://demo.istat.it/altridati/matrimoni/2016/tav1_1.pdf).
[67] «Il secondo fattore è l’aumento del numero delle separazioni legali e dei divorzi, che ha fatto nascere, in un numero crescente di coppie, il timore che anche il loro matrimonio possa finire nell’aula di un tribunale. Così, è la paura di dover cedere metà del patrimonio familiare ad un coniuge con cui ci si è accorti in ritardo di non riuscire a vivere che spinge molti sposi a preferire il regime della separazione dei beni e molti dei loro genitori a consigliarli in questo senso (...). È significativo, da questo punto di vista, che gli strati della popolazione che sono alla testa del mutamento del regime patrimoniale sono anche quelli che corrono più rischi di rompere il matrimonio con un divorzio: i più secolarizzati, i più ricchi e i più istruiti delle regioni settentrionali» (cfr. Barbagli, op. cit., 105 ss.). Le considerazioni di cui sopra sono pienamente confermate dai dati Istat già citati, relativi agli anni 2003 e seguenti.
[68] Cfr. Lamboley e Laurens-Lamboley, Droit des régimes
matrimoniaux, Paris, 1998, 88 ss.: «Au sein des régimes conventionnels, la
séparation de biens occupe la première place, au regard des données
statistiques établies par le Conseil supérieur du notariat à la suite d’une
enquête menée en 1973 auprès des notaires de France, représentant à elle seule
plus de 53% des contrats de mariage; la seconde place est occupé e par la
communauté réduite aux acquêts qui, bien qu’elle soit devenue communauté légale
le 1er février 1966, représente encore 29,38% des contrats de mariage; la
troisième place est occupé e par la communauté des meubles et acquêts qui
continue de subsister, puisque près de 10% des couples qui se marient avec
contrat l’adopte encore; la quatrième place est occupé e par la communauté
universelle avec un pourcentage de 5,78%. La participation aux acquêts ne
recueille, quant à elle, que 0,18%». Interessante poi è il
raffronto con la situazione della stessa Francia a cavallo tra Ottocento e
Novecento. Come attestato dalla dottrina
dell’epoca (cfr. Colin, Capitant, Cours élémentaire
de droit civil français, III, Paris, 1929, 247), la separazione non era a
quel tempo adottata che «par des époux déjà âgés, possédant chacun une fortune
personnelle, et n’espérant pas avoir d’enfants de leur union, ou par des époux
qui ont des enfants d’un premier lit. La statistique de l’année 1898 nous
révèle que sur les 82.346 contrats de mariage rédigés au cours de cette année,
2.128 seulement ont adopté la séparation de biens». Gli Autori testé citati
concludevano quindi rilevando che «Dans notre pays, accoutumé par une longue
tradition à la communauté, la séparation de biens nous parait peu conforme à
l’union que le mariage crée entre les époux».
[69] Cfr. Brambring, Ehevertrag und
Vermögenszuordnung unter Ehegatten, Mnchen, 1997, 45.
[70] Cfr. Von Münch, Ehe-und
Familienrecht, München, 1996, 151.
[71] Sul tema v. per tutti Oberto, I contratti della crisi coniugale, I, cit., 529 ss.; Id., ‘Prenuptial agreements in contemplation of divorce’ e disponibilità in via preventiva dei diritti connessi alla crisi coniugale, cit., 189 ss.; Id., Contratto e famiglia, cit., 251 ss.
[72] Per approfondimenti v. i rinvii in Oberto, La comunione coniugale nei suoi profili di diritto comparato, internazionale ed europeo, in Dir. famiglia, 2008, 367 ss.; Id., La comunione legale tra coniugi, I, 377 ss.
[73] Così, per tutti, Schlesinger, Della comunione legale, 1977, cit., 77 ss.
[74] Ibidem.
[75] Sulla possibilità di introdurre, ad esempio un regime analogo alla Zugewinngemeinschaft cfr. per tutti Oberto, L’autonomia negoziale nei rapporti patrimoniali tra coniugi (non in crisi), cit., 617 ss.; Id., Contratto e famiglia, cit., 147 ss.; v. inoltre Quadri, Regime patrimoniale e autonomia dei coniugi, in Dir. famiglia, 2006, II, 1817.
[76] Cfr. Oppo, Autonomia negoziale e regolamento tipico nei rapporti patrimoniali tra coniugi, in Riv. dir. civ., 1997, I, 21 (sulla legittimità costituzionale delle norme che consentono ai coniugi di derogare in tutto o in parte al regime legale v. per tutti Gabrielli, Regime patrimoniale della famiglia, in Digesto civ., XVI, Torino, 1997, 336). L’attribuzione di un carattere meramente suppletivo alla comunione è vista anche da Morelli, Autonomia negoziale e limiti legali nel regime patrimoniale della famiglia, in Famiglia e dir., 1994, 105 come sintomo di un maggior spazio aperto all’autonomia negoziale; nel medesimo senso v. anche Carnevali, Le convenzioni matrimoniali, in Il diritto di famiglia, Tratt. Bonilini-Cattaneo, II, Il regime patrimoniale della famiglia, Torino, 1997, 18; Oberto, I contratti della crisi coniugale, I, cit., 155 ss.; Patti, Regime patrimoniale della famiglia e autonomia privata, in Familia, 2002, 290 ss.; Andreola, Autonomia negoziale dei coniugi e regime patrimoniale legale. Riducibilità della comunione e rifiuto del coacquisto ex lege, in Riv. dir. civ., 2007, 55 ss. Riconosce l’opportunità del riconoscimento di un’adeguata autonomia dei coniugi anche Quadri, Regime patrimoniale e autonomia dei coniugi, cit., 1806 ss.
[77] Sull’argomento v. supra, § 4. Cfr. inoltre Falzea, Il regime patrimoniale della famiglia, in AA.VV., La riforma del diritto di famiglia. Atti del II Convegno di Venezia, cit., 62, il quale, proprio dal carattere vincolato del regime legale, deduce l’incoerenza della legge, in quanto essa da un lato consente ai coniugi un’illimitata libertà di deroga, attraverso lo strumento della separazione, dall’altro limita a tal punto la libertà dei coniugi che non hanno stipulato un’esplicita convenzione, al punto da costituire forti stimoli ad emigrare dal regime legale; anche per Cian, Villani, La comunione dei beni tra coniugi (legale e convenzionale), in Riv. dir. civ., 1980, I, 400: «l’eccesso di garantismo per il coniuge vivente in regime di comunione rischia di generare un effetto in un certo senso contrario: l’esclusione stessa del regime di comunione, per lo meno per quelle coppie che non abbiano un’economia di consumo».
[78] Oberto, Il regime di comunione legale tra coniugi,
II, cit., 2138 ss.
[79] Cfr. per tutti Gangi, Il matrimonio, Milano, 1969, 523, ad avviso del quale dal 2° co. dell’art. 216 c.c. doveva ricavarsi che le disposizioni in tema di comunione tra coniugi avevano ‘carattere cogente’.
[80] Cfr. Cass., 27.2.2003, n.
[81] Anche
Napolitano, Beni personali e rifiuto del coacquisto,
Nota a Cass., 27.2.2003, n.
[82] Cfr.
ad esempio la tesi di Calice, Acquaviva, Inammissibilità del rifiuto del coacquisto, Nota a Cass.,
27.2.2003, n.
[83] Rimane così superata l’impostazione – per così dire, più ‘largheggiante’ – consentita dalla formulazione precedente della disposizione testé citata («I rapporti patrimoniali tra coniugi sono regolati dalle convenzioni delle parti e dalla legge»), che induceva la dottrina a qualificare alla stregua di convenzione matrimoniale ogni accordo contenuto in un contratto di matrimonio, in connessione diretta con la relativa situazione patrimoniale, e non altrimenti disciplinato dalla legge (cfr. Busnelli, Convenzione matrimoniale, in Enc. Dir., X, Milano, 1962, 514; v. inoltre Tedeschi, Il regime patrimoniale della famiglia, in Jemolo e Tedeschi, Il matrimonio, Il regime patrimoniale della famiglia, in Tratt. Vassalli, III, 1, Torino, 1950, 469 ss.). Per la definizione del concetto di convenzione matrimoniale dopo la riforma del 1975 cfr. Oberto, Le convenzioni matrimoniali: lineamenti della parte generale, cit., 596 ss.; Bargelli, Busnelli, Convenzione matrimoniale, in Enc. Dir., Agg., IV, Milano, 2000, 436 ss., 442 ss.; Ieva, Le convenzioni matrimoniali, in Tratt. Zatti, III, 2a ed., Milano, 2012, 55 ss.; Giletta, Le convenzioni matrimoniali, in Tratt. Ferrando, II, Bologna, 2008, 310 ss., nonché gli Autori citati alle note seguenti.
[84] Cfr., tra gli altri, Messineo, Convenzione (dir. priv.), in Enc. Dir., X, Milano, 1962, 512, secondo cui l’uso del termine ‘convenzione’ è qui improprio; Santosuosso, Il regime patrimoniale della famiglia, in Comm. cod. civ., Torino, 1983, 55; Cattaneo, Corso di diritto civile. Effetti del matrimonio, regime patrimoniale, separazione e divorzio, Milano, 1988, 52; Oberto, Le convenzioni matrimoniali: lineamenti della parte generale, cit., 597; Sesta, Diritto di famiglia, Padova, 2003, 185.
[85] Moscarini, Convenzioni matrimoniali in genere, in AA.VV., La comunione legale, a cura di Bianca C.M., II, Milano, 1989, 1004 ss., 1007.
[86] Russo E., L’autonomia privata nella stipulazione di convenzioni matrimoniali, in Le convenzioni matrimoniali ed altri saggi sul nuovo diritto di famiglia, Milano, 1983, 155 s.; Bocchini, Rapporto coniugale e circolazione dei beni, Napoli, 1989, 182, 185; Galasso, Tamburello, Del regime patrimoniale della famiglia, I, in Comm. Scialoja-Branca, I, Roma-Bologna, 1999, 54. Anche Gabrielli, Acquisto in proprietà esclusiva di beni immobili e mobili registrati da parte di persona coniugata, in Vita notarile, 1984, 658 rileva che le convenzioni sono negozi regolatori in astratto del regime patrimoniale e non già dispositivi, in concreto, di singoli beni determinati.
[87] Si pensi per esempio alla convenzione
costitutiva di un fondo patrimoniale o a quella avente ad oggetto una comunione
convenzionale comprendente beni di cui uno dei coniugi o entrambi siano già
titolari: sul punto cfr. Oberto, Le
convenzioni matrimoniali: lineamenti della parte generale, cit., 597; in
senso conforme v., anche per ulteriori rinvii, Bargelli,
Busnelli, Convenzione matrimoniale, cit., 444 ss.; sul tema cfr. inoltre Giletta,
op. cit., 295 s.
[88] Tanto per fare un esempio, come si è dimostrato in altra sede (cfr. Oberto, I regimi patrimoniali della famiglia di fatto, Milano, 1991, 262 ss.), i contratti di convivenza ben possono programmaticamente prevedere la caduta in comunione (ordinaria, ma ora anche legale: cfr. art. 1, 53° co., l. 20.5.2016, n. 76) di determinati diritti al momento dell’acquisto dei medesimi da parte dell’uno o dell’altro dei partners.
[89] Cfr. Relazione della Commissione parlamentare, 761; analogamente, Relazione del Guardasigilli al progetto definitivo, 169.
[90] Così Bocchini, Autonomia negoziale e regimi patrimoniali familiari, cit., 433.
[91] Così Russo E., Le convenzioni matrimoniali, cit., 172.
[92] Così Sacco, Il contratto, in Tratt. Vassalli, Torino, 1975, 482.
[93] Così Russo E., Le convenzioni matrimoniali, cit., 172.
[94] Così sempre Russo E., Le convenzioni matrimoniali, cit., 172. Si noti che peraltro lo stesso Autore, nella parte del suo lavoro in cui esamina il rapporto tra il concetto di contratto e di convenzione (su cui cfr., anche per i richiami, Oberto, L’autonomia negoziale nei rapporti patrimoniali tra coniugi (non in crisi), cit., 617 ss., 620 ss.), non esita a parlare di «contratto di convenzione matrimoniale» e a definire le convenzioni matrimoniali come «contratti tipici nella loro struttura essenziale, ma atipici nel loro contenuto» (cfr. Russo E., Le convenzioni matrimoniali, cit., 177).
[95] Santoro-Passarelli, Dottrine generali del diritto civile, Napoli, 1978, 276; Mazzocca, I rapporti patrimoniali tra i coniugi nel nuovo diritto di famiglia, Milano, 1977, 37; Oberto, Le convenzioni matrimoniali: lineamenti della parte generale, cit., 597; Ieva, Le convenzioni matrimoniali, cit., 74 ss.
[96] Santarcangelo, La volontaria giurisdizione nell’attività negoziale, IV, Milano, 1989, 29; De Paola, Il diritto patrimoniale della famiglia coniugale, II, Milano, 1995, 34 ss.
[97] Grasso, Il regime patrimoniale delle famiglia in generale, in Tratt. Rescigno, 3, Torino, 1982, 384; Jannuzzi, Manuale della volontaria giurisdizione, Milano, 1990, 281; Cannizzo, Le convenzioni matrimoniali e gli incapaci, in Vita notarile, 1993, 1007.
[98] Beninteso, dopo essersi in ogni caso fornito
di autorizzazione giudiziale: così Gabrielli,
Cubeddu, Il regime patrimoniale dei coniugi, Milano, 1997, 247.
[99] Per la quale si fa rinvio a Oberto, Il regime patrimoniale dell’unione civile,
Commento all’art. 1, 13° co., l. 20.5.2016, n.
[100] Giletta, op. cit., 306. Ovviamente, la conclusione di
cui sopra è valida nei limiti in cui la particolare struttura della fattispecie non impedisca all’interprete di
ricondurla alla figura del contratto, ovvero
l’esistenza di norme speciali non imponga di qualificare l’atto medesimo
come strettamente personale e, quindi, tale
da non consentire sostituzione: è il caso
del fondo patrimoniale costituito,
rispettivamente, mediante testamento o donazione. Da un lato, il principio della personalità della
volontà testamentaria rende
inammissibile non solo la procura, ma anche la disposizione per relationem,
con rinvio cioè a determinazioni altrui,
come risulta dalle previsioni contenute negli artt. 631 e 632 c.c.: è valido tuttavia, per quanto in questa sede
rileva, il legato alternativo in favore
di persona da scegliere tra più soggetti già individuati dal testatore. Dall’altro, la norma speciale dell’art.
778 c.c. ammette soltanto la procura con
espressa indicazione della persona del donatario e dell’oggetto della donazione (Gabrielli,
Cubeddu, op. cit., 248 s.).
[101] In questo senso cfr. De Paola, Il diritto patrimoniale della famiglia coniugale, II, cit., 45, che giunge però a tale conclusione non in forza di applicazione diretta delle regole codicistiche, ma invocando l’analogia; sullo specifico aspetto dell’applicabilità degli artt. 1339 e 1419 c.c. cfr. Donisi, Convenzioni modificative del regime della comunione legale tra coniugi e nullità parziale, in Rass. dir. civ., 1992, 515 ss.
[102] V. per tutti De Paola, Il diritto patrimoniale della famiglia coniugale, II, cit., 187 ss.; Oberto, Le convenzioni matrimoniali: lineamenti della parte generale, cit., 599 ss. (con le limitazioni, peraltro, di cui tra breve nel testo); Carnevali, Le convenzioni matrimoniali, cit., 20; per la dottrina anteriore alla riforma cfr. Tedeschi, Il regime patrimoniale della famiglia, cit., 474. Dubbi vengono invece espressi da Corsi, Il regime patrimoniale della famiglia, II, in Tratt. Cicu-Messineo, Milano, 1984, 23.
[103] Cfr. De Paola, Il diritto patrimoniale della famiglia coniugale, II, cit., 187 ss.; Carnevali, Le convenzioni matrimoniali, cit., 20.
[104] Cfr. Oberto, Le convenzioni matrimoniali: lineamenti della parte generale, cit., 600.
[105] De Paola, Il diritto patrimoniale della famiglia coniugale, II, cit., 185 ss.
[106] Regola, questa, tra l’altro,
sicuramente estesa, negli stessi limiti, ai soggetti civilmente uniti, in base
alla riforma del 2016 (cfr. art. 1, 13° co., l. 20.5.2016, n. 76. Sul punto
cfr. per tutti Oberto, I rapporti patrimoniali nelle unioni civili
e nelle convivenze di fatto, in Blasi,
Campione, Figone, Mecenate,
Oberto, La nuova
regolamentazione delle unioni civili e delle convivenze, Torino, 2016, 54
ss.). La conclusione rende peraltro ancora più manifesta l’assurdità della
previsione di cui al 56° c. della novella citata, che nega, invece, ai partners dell’union libre la possibilità di apporre termini e condizioni al
contratto di convivenza (per la critica e per una lettura restrittiva al
riguardo cfr. ivi, 90 ss.).
[107] L’espressione
«contratti di matrimonio» di cui all’art.
[108] Cfr.
Busnelli, Convenzione matrimoniale, cit., 512 ss.;
D’Antonio, Convenzioni matrimoniali, donazioni e capacità del minore nel disposto
dell’art.
[109] Pothier, Traité du Contrat
de Mariage, in Pothier, Traités sur différentes matières de droit
civil, appliquées à l’usage du barreau et de jurisprudence françoise,
Paris-Orléans, 1781, 145 s.; nel medesimo senso, già prima di Pothier, v. [Du Perray], Traité des contrats de mariage, Du
Mesnil, 1741, 117; per Denisart, Collection de décisions nouvelles et de
notions relatives à la jurisprudence actuelle, I, Paris, 1763, 591, il contrat de mariage è l’«acte qui règle
les conditions de la société qui se forme entre les futurs é poux»; per De Ferriere, Dictionnaire de droit et de pratique, I,
Paris, 1769, 369 si tratta dell’«acte ou contrat qui précède la bénédiction
nuptiale, et qui contient les clauses et conventions faites par rapport au
mariage».
[110] Cfr.
art. 202: «En traité de mariage, et avant la foy baillée, et bénédiction
nuptiale, homme et femme peuvent faire et apposer telles conditions, douaires,
donations, et autres conventions, que bon leur semblera».
[111] Cfr. Grasso, Il regime patrimoniale delle famiglia in generale, cit., 378; Santosuosso, Il regime patrimoniale della famiglia, cit., 55 ss.; Spinelli, Parente, Le convenzioni matrimoniali, in I rapporti patrimoniali della famiglia Saggi dai corsi di lezioni di diritto civile tenute dai proff. Spinelli e Panza, Bari, 1987, 43 ss.; Bocchini, Rapporto coniugale e circolazione dei beni, cit., 185; Galletta, I regolamenti patrimoniali tra coniugi, Napoli, 1990, 7; De Paola, Il diritto patrimoniale della famiglia coniugale, II, cit., 29 ss.; Oberto, Le convenzioni matrimoniali: lineamenti della parte generale, cit., 597 s.; Bocchini, Autonomia negoziale e regimi patrimoniali familiari, cit., 447 s.
[112] Cfr. Russo E., Le convenzioni matrimoniali, cit., 74, 100 ss., ove l’Autore critica la «funzione dispositiva o attributiva» riferita dalla dottrina alle convenzioni matrimoniali.
[113] L’assunto è sviluppato da Russo E., Le convenzioni matrimoniali, cit., 77, 124 ss., 136 ss. essenzialmente sulla base del rilievo secondo cui il codice non qualifica expressis verbis il negozio costitutivo del fondo patrimoniale alla stregua di una convenzione matrimoniale.
[114] Il fondo patrimoniale si trova collocato nel codice tra la parte generale delle convenzioni matrimoniali e la comunione legale, all’interno di una sezione posta sullo stesso piano di quelle dedicate alla comunione legale, alla comunione convenzionale, alla separazione dei beni e all’impresa familiare.
[115] Gli artt. 167 ss. fanno pur sempre parte del Capo VI (del Titolo VI del Libro I del codice), intitolato «del regime patrimoniale della famiglia», dopo una parte generale che, come si è appena detto, è interamente dedicata alle convenzioni matrimoniali.
[116] Così Laurent, Principes
de droit civil, XXI, Bruxelles, 1878, 8.
[117] Cfr. Flour, Champenois, Les régimes matrimoniaux, Paris, 1995,
5.
[118] Per
non dire poi (concludendo sul tema), che una conferma della natura di
convenzione matrimoniale propria del negozio inter vivos costitutivo del fondo patrimoniale sembra venire dalla
riforma dell’art.
[119] Sul punto si rinvia ancora, a Oberto, Le convenzioni matrimoniali:
lineamenti della parte generale, cit., 598 ss. In senso contrario Bocchini, Autonomia negoziale e regimi
patrimoniali familiari, cit., 448, secondo cui sarebbero ascrivibili al
novero delle convenzioni matrimoniali anche quegli accordi «che orientano le
appartenenze e le destinazioni di singoli beni da acquisire o (che) incidono
sullo statuto (titolarità e/o destinazione) di singoli beni attuali»; nello
stesso ordine di idee cfr. Parente, Il
preteso rifiuto del coacquisto ex lege da
parte di coniuge in comunione legale, nota a Cass., 2.6.1989, n.
[120] Cfr. Finocchiaro A. e Finocchiaro M., Diritto di famiglia, I, cit., 1153; Gabrielli, Scioglimento parziale della comunione legale fra coniugi. Esclusione dalla comunione di singoli beni e rifiuto preventivo del coacquisto, in Riv. dir. civ., 1988, I, 347; Roppo, Coniugi I) Rapporti personali e patrimoniali tra coniugi, in Enc. Giur., VIII, Roma, 1988, ad vocem, 2.
[121] Sul tema v., anche per gli ulteriori rinvii, Bargelli, Busnelli, Convenzione matrimoniale, cit., 447 ss.
[122] Per un approfondimento delle questioni relative all’impiego del trust nei rapporti familiari si fa rinvio per tutti a Oberto, Trust e autonomia negoziale nella famiglia, in Famiglia e dir., 2004, 201 ss.; cfr. inoltre Id., Il trust familiare, in www.giacomooberto.com.
[123] A. Catania, 16.4.1981, in Dir. famiglia, 1981, 1056.
[124] In questo senso cfr. invece A. Catania,
16.4.1981, cit.; in dottrina sembra orientato in tale senso anche Finocchiaro F., Del matrimonio, Artt. 79-
[125] Cfr., con riferimento alla prassi notarile nell’Italia preunitaria, Ungari, Il diritto di famiglia in Italia dalle Costituzioni ‘giacobine’ al Codice civile del 1942, Bologna, 1970, Appendici, 211 ss., 217, 277, 281, 309, 311.
[126] Busnelli, Convenzione matrimoniale, cit., 516.
[127] De Paola, Il diritto patrimoniale della famiglia coniugale, II, cit., 185 ss.
[128] Tedeschi, Il regime patrimoniale della famiglia, cit., 471 ss.
[129] Russo E., L’autonomia privata nella stipulazione di convenzioni matrimoniali, cit., 217 ss.; Corsi, Il regime patrimoniale della famiglia, II, cit., 21 ss.
[130] Così Corsi, Il regime patrimoniale della famiglia, II, cit., 22 ss.
[131] Cass., 11.5.1984, n. 2887; Cass., 11.11.1992,
n. 12110; Cass., 12.9.1997, n. 9034; per la giurisprudenza di merito v.
A. Bologna, 29.1.1980, in CED Cass.,
Arch. Merito, pd. 820052; per l’esclusione del carattere di convenzione
matrimoniale in relazione ai trasferimenti di diritti tra coniugi in sede di
separazione e divorzio v. anche Zoppini, Contratto, autonomia contrattuale, ordine
pubblico familiare nella separazione personale dei coniugi, nota a Cass.,
23.12.1988, n.
[132] Per gli approfondimenti cfr. Oberto, I contratti della crisi coniugale,I e II, cit., passim.
[133] Condivide la conclusione (già prospettata ed argomentata in Oberto, I contratti della crisi coniugale, I, cit., 683 ss.) Ieva, Le convenzioni matrimoniali, cit., 58.
[134] Questa è anche l’opinione di Morelli, Il nuovo regime patrimoniale della famiglia, cit., 61.
[135] La conclusione sembra potersi argomentare a contrariis dal 1° co. dell’art 171 c.c. e a fortiori dal capoverso del medesimo articolo; nel senso che l’utilità del fondo permane anche in presenza di una crisi coniugale v. anche Auletta, Il fondo patrimoniale, Milano, 1990, 337 ss.; contra Oppo, Tizio e Mevia, che hanno costituito, all’atto del loro matrimonio, un fondo patrimoniale in ‘comproprietà’, attendono un figlio quando Tizio fallisce nell’esercizio di impresa commerciale iniziata dopo il matrimonio. Quale la sorte del fondo?, in Questioni di diritto patrimoniale della famiglia discusse da vari giuristi e dedicate ad Alberto Trabucchi, Padova, 1989, 126.
[136] Sul tema delle convenzioni matrimoniali con ‘motivo postmatrimoniale’ si fa rinvio, per ulteriori approfondimenti, a Oberto, I contratti della crisi coniugale, II, Milano, 1999, 1037 ss.
[137] Sul tema v., in senso favorevole alla regola dell’atipicità, Gangi, Il matrimonio, cit., 317 ss.; Busnelli, Convenzione matrimoniale, cit., 514; contra Ferrara, Diritto delle persone e della famiglia, Napoli, 1941, 297; Tedeschi, Il regime patrimoniale della famiglia, cit., 477 s.; sostiene che, prima della riforma, «era opinione diffusa che la libertà convenzionale potesse solo scegliere tra i regimi tipici adottati dalla legge» Bocchini, Autonomia negoziale e regimi patrimoniali familiari, cit., 436 ss. Per la dottrina sul c.c. 1865 cfr. Bianchi, Del contratto di matrimonio, Napoli, 1907, 30 ss. (secondo cui il contratto di matrimonio «si ispira al concetto della più sconfinata libertà (...). La libertà è la regola, il divieto è l’eccezione»); contra Stolfi, Diritto civile, V, Diritto di famiglia, Torino, 1921, 285 (secondo cui nelle convenzioni matrimoniali «l’autonomia individuale ha un campo non molto esteso»).
[138] Cfr. Cass., 16.9.1969, n.
[139] Cfr. Sacco, Regime patrimoniale e convenzioni, cit., 325, nt. 6.
[140] Cfr. il resoconto della seduta in data 6.7.1971, della IV Commissione, 777; in dottrina cfr. Sacco, Regime patrimoniale e convenzioni, cit., 325, nt. 6; Finocchiaro A. e Finocchiaro M., Diritto di famiglia, I, cit., 196 ss.; Morelli, Autonomia negoziale e limiti legali nel regime patrimoniale della famiglia, cit., 105 ss.
[141] In questo senso cfr. Tamburrino, Lineamenti del nuovo diritto di
famiglia italiano, Torino, 1978, 210 s.; Russo E., L’autonomia
privata nella stipulazione di convenzioni matrimoniali, cit., 154 ss.; Maiorca, Regime patrimoniale della famiglia (disposizioni generali), in Noviss. Dig. it., App., VI, Torino, 1986, 472 ss.; De Rubertis, La comunione convenzionale tra coniugi,
in Riv. notariato, 1989, 42 ss.; Moscarini, Convenzioni matrimoniali in genere, cit., 1103; Zatti, Colussi, Lineamenti di diritto privato, Padova, 2001, 876 ss. Contra, per la atipicità, Irti, Della comunione convenzionale, in Comm. Carraro, Oppo, Trabucchi, I, 1, Padova, 1977, 459 ss.; De Paola, MacrÌ, Il nuovo regime patrimoniale della famiglia,
cit., 219 ss.; Santosuosso, Il regime patrimoniale della famiglia,
cit., 329 ss.; Morelli, Autonomia negoziale e limiti legali nel
regime patrimoniale della famiglia, cit., 105 ss.; Id., Il nuovo regime patrimoniale della famiglia, Padova, 1996, 16 ss.; Oberto, Le convenzioni matrimoniali: lineamenti della parte generale, cit.,
604 ss.; Quadri, Autonomia negoziale e regolamento tipico nei
rapporti patrimoniali tra coniugi, in Giur.
it., 1997, IV, 235 ss.; Bocchini, Autonomia negoziale e regimi patrimoniali
familiari, cit., 453; Zaccaria, Possono i coniugi optare per un regime
patrimoniale ‘atipico’?, in Studium
iuris, 2000, 947 ss.; Patti, Regime patrimoniale della famiglia e
autonomia privata, cit., 291 ss. Sul tema cfr. inoltre, in vario senso, Marti, Il problema delle convenzioni atipiche nel diritto di famiglia, in
AA.VV., Tipicità e atipicità nei
contratti, in Quaderni di
Giurisprudenza Commerciale, 53, Milano, 1983, 89 ss.; Galletta, I regolamenti patrimoniali tra coniugi, cit., 9 ss., 36 ss.; Fusaro, Il regime patrimoniale della famiglia, Padova, 1990, 21 ss.; Bocchini, Rapporto coniugale e circolazione dei beni, Napoli, 1995, 5 ss.; Doria, Autonomia privata e ‘causa’ familiare. Gli accordi traslativi tra i
coniugi in occasione della separazione personale e del divorzio, Milano,
1996, 156 ss.; Carnevali, Le convenzioni matrimoniali, cit., 18
ss.; Gabrielli, Regime patrimoniale della famiglia,
cit., 382 ss.; Gabrielli, Cubeddu, Il regime patrimoniale dei coniugi, cit., 236 ss.; Montecchiari, In tema di forma e contenuto delle convenzioni matrimoniali
modificative, nota a Cass., 11.11.1996, n.
[142] Donisi, Limiti all’autoregolamentazione degli interessi nel diritto di famiglia, cit., 17.
[143] Oberto, I contratti della crisi coniugale, I, cit., 146 s.; nel medesimo senso Verde, Le convenzioni matrimoniali, Torino, 2003, 39.
[144] Sulla questione cfr. Oberto, I contratti della crisi coniugale, I, cit., 103 ss.
[145] Rescigno, Manuale del diritto privato italiano, Napoli, 1975, 274; per considerazioni analoghe cfr. Doria, Autonomia privata e ‘causa’ familiare. Gli accordi traslativi tra i coniugi in occasione della separazione personale e del divorzio, cit., 183 ss.
[146] Sul punto cfr. Oberto, I contratti della crisi coniugale, I, cit., 121 ss. e da ultimo anche Bocchini, Autonomia negoziale e regimi patrimoniali familiari, cit., 432, 440; Patti, Regime patrimoniale della famiglia e autonomia privata, cit., 292, nt. 18; Giletta, op. cit., 296 s.
[147] Che non è possibile svolgere in tale sede; al riguardo si fa rinvio a Oberto, I precedenti storici del principio di libertà contrattuale nelle convenzioni matrimoniali, in Dir. famiglia, 2003, I, 535 ss.
[148] Per la comparazione con il sistema tedesco e con quello francese contemporanei, nei quali vige il principio della libertà contrattuale ed è ritenuta come preferibile la regola della atipicità dei regimi patrimoniali cfr. Patti, Regime patrimoniale della famiglia e autonomia privata, cit., 297 ss.
[149] Sacco, Se tra i coniugi l’attuazione di fatto di un regime patrimoniale diverso da quello corrispondente a diritto dia luogo a restituzioni, in AA.VV., Questioni di diritto patrimoniale della famiglia dedicate a Trabucchi, cit., 91.
[150] Busnelli, Convenzione matrimoniale, cit., 514; in questo senso cfr. inoltre Cattaneo, Note introduttive agli artt. 82-88 Nov., in Comm. Cian, Oppo, Trabucchi, III, Padova, 1992, 396 ss.; Corsi, Il regime patrimoniale della famiglia, II, cit., 8 ss.; Gabrielli, Scioglimento parziale della comunione legale fra coniugi. Esclusione dalla comunione di singoli beni e rifiuto preventivo del coacquisto, cit., 349; Sacco, Del regime patrimoniale della famiglia, cit., 17 ss.; Morelli, Autonomia negoziale e limiti legali nel regime patrimoniale della famiglia, cit., 105 ss.; Oberto, Le convenzioni matrimoniali: lineamenti della parte generale, cit., 604 ss.; Angeloni, Autonomia privata e potere di disposizione nei rapporti familiari, Padova, 1997, 270 ss.; Carnevali, Le convenzioni matrimoniali, cit., 19; Confortini, La comunione convenzionale tra coniugi, in Il diritto di famiglia, Tratt. Bonilini-Cattaneo, Torino, 1997, 297; Gabrielli, Cubeddu, Il regime patrimoniale dei coniugi, cit., 8 ss., 294 ss.; Bargelli, Busnelli, Convenzione matrimoniale, cit., 436 ss., spec. 443 ss.; Valignani, I limiti dell’autonomia dei coniugi nell’assetto dei loro rapporti patrimoniali, in Familia, 2001, 381 ss., 384; Zoppini, L’autonomia privata nel diritto di famiglia, sessant’anni dopo, cit., 218; Patti, Regime patrimoniale della famiglia e autonomia privata, cit., 291 ss. Una parte della dottrina individua peraltro una possibile atipicità di contenuto all’interno degli schemi prefigurati dal legislatore (in argomento, tra gli altri, Russo E., L’autonomia privata nella stipulazione di convenzioni matrimoniali, cit., 154 ss.; Galletta, I regolamenti patrimoniali tra coniugi, cit., 36 ss.; Barchiesi, Il sistema della pubblicità nel regime patrimoniale della famiglia, Milano, 1995, 110), mentre altri preferiscono indicare un limite per ogni possibile regime atipico nel principio di «non contraddittorietà legato all’esigenza cioè di coerenza tra le regole volte nel loro complesso a realizzare il programma (obbligato) di equilibrio degli interessi in gioco» (Morelli, Autonomia negoziale e limiti legali nel regime patrimoniale della famiglia, cit., 107). Sull’ampiezza dei margini di autonomia lasciati dal legislatore del 1975 v. infine la riflessione di De Nova, Disciplina inderogabile dei rapporti patrimoniali e autonomia negoziale, in Studi in onore di Rescigno, Milano, 1998, 259 ss.
[151] Sui limiti all’autonomia privata nelle convenzioni matrimoniali v. anche Maiorca, Regime patrimoniale della famiglia (disposizioni generali), cit., 469 ss.; per uno studio comparatistico sull’autonomia privata nelle convenzioni matrimoniali in Italia e in Francia cfr. Dassio, Autonomia privata e convenzioni matrimoniali: l’esperienza francese a confronto con quella italiana, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 1996, 837 ss., il quale giunge alle non condivisibili conclusioni – cfr. in partic. 875 ss. – secondo cui i coniugi italiani fruirebbero, rispetto ai loro omologhi francesi, di un assai minore grado d’autonomia, trascurando peraltro di attribuire il giusto rilievo, da un lato, al carattere essenzialmente atipico delle convenzioni in diritto italiano e, dall’altro, alla persistenza di gravi limitazioni alla modifica delle convenzioni matrimoniali nel diritto transalpino: cfr. artt. 1396 ss. Code Civil; nel senso che la possibilità di stipula e modifica in ogni tempo delle convenzioni costituisce un aspetto dell’autonomia dei coniugi cfr. anche Carnevali, Le convenzioni matrimoniali, cit., 19.
[152] Russo E., L’autonomia privata nella stipulazione di convenzioni matrimoniali, cit., 166; Corsi, Il regime patrimoniale della famiglia, II, cit., 9; Carnevali, Le convenzioni matrimoniali, cit., 19; per quanto concerne l’autonomia privata nella convenzione costitutiva del regime di comunione convenzionale (con particolare riguardo ai limiti fissati dall’art. 210) cfr. anche Lo Sardo, La comunione convenzionale nel regime patrimoniale della famiglia, in Riv. notariato, I, 1991, 1229 ss.
[153] Quadri, Autonomia negoziale e regolamento tipico nei rapporti patrimoniali tra coniugi, cit., 235 ss., il quale parla al riguardo di una «libertà virtuale» di creazione di nuovi tipi di convenzione matrimoniale, consentita dal legislatore «proprio in considerazione di un simile prevalente e spontaneo adeguamento degli interessati».
[154] Su cui v. per tutti Oberto, Le convenzioni matrimoniali: lineamenti della parte generale, cit., 608 ss.; per una rassegna di giurisprudenza al riguardo v. anche Pepe, Convenzioni matrimoniali Comunione convenzionale Separazione dei beni, in Nuova giur. comm., 1991, II, 237 ss. In senso contrario rispetto al segnalato trend giurisprudenziale si pongono i rilievi di quella dottrina che mira a proporre o ad estendere tecniche di controllo legate all’irrigidimento formale della fattispecie (cfr. Bargelli, Busnelli, Convenzione matrimoniale, cit., 449 ss. e, per una critica a tale posizione, Zoppini, L’autonomia privata nel diritto di famiglia, sessant’anni dopo, cit., 230).
[155] Cfr. Oberto, I contratti della crisi coniugale, II, cit., 1243 ss.; Id., Prestazioni ‘una tantum’ e trasferimenti tra coniugi in occasione di separazione e divorzio, cit., 77 ss.
[156] Cass., 18.8.1993, n. 8758: «L’accordo intercorso, prima della riforma del diritto di famiglia del 1975, tra coniugi in regime di separazione dei beni, con il quale questi si obbligavano a versare in un unico conto corrente i proventi delle rispettive attività professionali, costituendo esercizio della privata autonomia, è soggetto alle norme ordinarie e non costituisce convenzione matrimoniale da stipularsi con atto pubblico a pena di nullità, con la conseguenza che tale accordo può essere provato anche a mezzo di testimoni».
[157] Cass., 11.11.1996, n.
[158] Cass., 11.11.1996, n. 9846, cit.
[159] Cass., 15.11.2000, n. 14791.
[160] Sul punto, che non può essere approfondito in questa sede, si fa rinvio per tutti a Oberto, Le convenzioni matrimoniali: lineamenti della parte generale, cit., 608 ss.
[161] L’osservazione di cui al testo vale oggi a maggior
ragione per i soggetti legati da unione
civile, cui la riforma in materia è venuta a concedere la possibilità di
esercizio di un’optio iuris in tutto
e per tutto analoga a quella permessa ai coniugi (art. 32 ter, 4°c., l. 31.5.1995, n. 218, aggiunto dall’art. 1, d.lgs.
19.1.2017, n.
[162] Convention de La
Haye du 1er juillet 1985 relative à la loi applicable au trust et à sa
reconnaissance (il relativo testo è disponibile in www.hcch.e-vision.nl).
[163] Su
cui cfr., ex multis, Piccoli, L’avanprogetto di convenzione sul ‘trust’ nei lavori della Conferenza di diritto internazionale privato de
L’Aja ed i riflessi di interesse notarile, in Riv. notariato, 1984, 844 ss.; Lupoi, Introduzione ai trusts.
Diritto inglese, Convenzione dell’Aja, Diritto italiano, Milano,
[164] Sul rapporto tra trusts e patti successori, cfr. Rescigno, Trasmissione della ricchezza e divieto dei patti successori, in Vita notarile, 1993, 1281; Calò, Dal probate al family trust, riflessi ed ipotesi applicative in diritto italiano, Milano, 1996, 101 ss.; Miranda, Trust e patti successori: variazioni sul tema, in Vita notarile, 1997, 1578 ss.; Gambaro, Trusts, in Digesto civ., XIX, Torino, 1999, 459 ss.; Pene Vidari, Trust e divieto dei patti successori, in Riv. dir. civ., 2000, 851 ss.; Lupoi, Trusts, Milano, 2001, 663; Bartoli, Il trust, Milano, 2001, 667 ss.
[165] Sul rapporto tra trusts e sostituzione fedecommissaria, cfr., fra gli altri, Palazzo, I trusts in materia successoria, in Vita notarile, 1996, 671 ss.; Lupoi, Trusts, cit., 553 ss.; Amenta, Trusts a protezione di disabile, in Trusts att. fid., 2000, 618 ss.; Bartoli, Muritano, Le clausole dei trusts interni, cit., 177 ss.
[166] Sul tema cfr., anche per i richiami dottrinali
e giurisprudenziali, Di Landro, Trusts per
disabili. Prospettive applicative, in Dir.
famiglia, 2003, 166 ss.; Bartoli, Muritano, Le
clausole dei trusts interni,
cit., 119 ss.; in giurisprudenza v. T. Udine, 18.8.2015, in Trusts att. fid., 2016, 250.
[167] Rileva Lupoi, Perché i trust in Italia, in Dogliotti, Braun (a cura di), Il trust nel diritto delle persone e della famiglia. Atti del convegno. Genova, 15 febbraio 2003, Milano, 2003, 19 che «La produzione della letteratura italiana al riguardo non ha l’eguale in alcun altro Paese di diritto civile, mentre il numero delle pronunce giurisprudenziali italiane in materia negli ultimi tre anni è probabilmente maggiore della somma delle sentenze emesse nel medesimo periodo in tutti gli altri paesi di tradizione civilistica del mondo».
[168] Sul tema cfr.
ex multis Lupoi, Il
trust
nell’ordinamento giuridico italiano dopo
la convenzione dell’Aja del 10 luglio
[169] Il dubbio è posto e superato da Calvo, La tutela dei beneficiari nel ‘trust’ interno, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 1998, 51 ss., cui si fa rinvio anche per ulteriori richiami.
[170] Cfr. ad es. T. Bologna, 1.10.2003, in Foro it., 2004, I, 1295, con nota di Di
Ciommo; in Trusts att. fid., 2004, 67;
in Nuova giur. comm., 2004, I, 840,
con nota di Renda; per la dottrina cfr. Lupoi, Trusts, cit., 520 ss.; Carbone, Trust interno e legge straniera,
in Dogliotti, Braun (a cura di), Il trust nel diritto delle
persone e della famiglia. Atti del
convegno. Genova, 15 febbraio 2003, cit., 28.
[171] Cfr. il rapport
explicatif (cfr. Von Overbeck, Rapport
explicatif sur la Convention de La Haye du premier juillet 1985 relative à la
loi applicable au trust et à sa reconnaissance, n.
[172] Così alle obiezioni sollevabili da parte di quegli ordinamenti nei quali si potrebbe temere «que les principes de leur système juridique ne soient ébranlés par l’intrusion d’une institution étrangère quelque peu inquiétante» risponde esplicitamente il rapport explicatif lapidariamente chiarendo «qu’il n’a jamais été question d’introduire le trust dans les pays de civil law, mais simplement de fournir à leurs juges les instruments propres à appréhender cette figure juridique». Ed è proprio qui, continua il rapport explicatif, che risiede l’interesse della Convenzione per gli Stati che non conoscono il trust: «L’institution n’étant pas prévue par leur droit matériel, ils ne possèdent pas non plus de règles de droit international privé qui puissent la régir et ils en sont réduits à chercher laborieusement à faire entrer les éléments du trust dans leurs propres concepts. Au contraire, la Convention met à disposition des règles de conflit de lois relatives au trust; puis elle indique en quoi doit consister la reconnaissance du trust, mais aussi les limites de cette reconnaissance» (cfr., testualmente, Von Overbeck, Rapport explicatif sur la Convention de La Haye du premier juillet 1985 relative à la loi applicable au trust et à sa reconnaissance, cit., n. 14). Del resto, proprio dall’ambito del diritto internazionale privato, da cui la Convenzione dell’Aja proviene, sembra potersi estrapolare la regola generale che fa divieto ai privati di scegliere a loro arbitrio la legge che disciplinerà i loro rapporti, in assenza di un elemento di estraneità, che pertanto non può essere costituito dalla sola legge dalle stesse parti indicata. Come rilevato in dottrina, l’ambito di applicazione del diritto internazionale privato va circoscritto alle fattispecie che presentino elementi di internazionalità sulla base di un giudizio ex ante, soltanto a seguito del quale, accertata la ricorrenza del carattere internazionale della fattispecie, può applicarsi la normativa di diritto internazionale privato e, quindi la norma che legittima la facoltà di scelta di una legge straniera. Ritenere, invece, che la legge straniera scelta dalle parti possa da sola fungere da elemento di internazionalità che giustifica l’applicazione della normativa di diritto internazionale privato significa operare una inversione concettuale contraria ai principi della logica (così Santoro, op. cit., 54). Al riguardo va detto che, se è vero che la Convenzione di Roma del 19.6.1980 sulla legge applicabile alle obbligazioni contrattuali stabilisce, all’art. 3, che «il contratto è regolato dalla legge scelta dalle parti», è altrettanto vero che l’art. 1 della citata Convenzione delimita espressamente il campo d’applicazione della medesima alle sole «obbligazioni contrattuali nelle situazioni che implicano un conflitto di leggi», mentre il 3° co. dell’art. 3 cit. impedisce espressamente alle parti di derogare alle disposizioni imperative dell’ordinamento cui «nel momento della scelta tutti gli altri dati di fatto si riferiscano». La scelta non potrà dunque sortire l’effetto di eludere l’applicazione delle norme cogenti (si badi: quelle cogenti e non solo quelle di ordine pubblico) del Paese con cui il contratto è collegato in via esclusiva, proprio al fine di evitare che i soggetti di un rapporto giuridico privo di elementi di estraneità possano sfuggire all’applicazione delle norme imperative attraverso la designazione di una legge straniera.
[173] Su cui cfr. Calvo, op. cit., 51 ss.; cfr. inoltre Lipari, Fiducia statica e trusts, in Beneventi (a cura di), I trusts in Italia oggi, cit., 75; Lupoi, Legittimità dei trusts interni, ivi, 41; Calò, Dal probate al family trust, riflessi ed ipotesi applicative in diritto italiano, cit., 99, nt. 86.
[174] Ugualmente non persuasivo, a sommesso avviso dello scrivente, appare poi il tentativo di fondare sulla normativa del codice civile la possibilità di dar luogo a fenomeni di ‘segregazione’ patrimoniale al di là dei casi normativamente previsti. Si sono citati al riguardo, per ricordare solo alcune fattispecie, i fenomeni previsti in relazione agli acquisti del mandatario senza rappresentanza, alla posizione del debitore che ha costituito in pegno uno o più beni, alla situazione che si viene a produrre nella c.d. ‘fiducia statica’ (che altro non è se non il mandato senza rappresentanza fiduciae causa) o nel sequestro convenzionale (i rilievi sono stati presentati da Lupoi nel corso del convegno dal titolo «Autonomia patrimoniale e segregazione patrimoniale nel trust», organizzato dall’Associazione Avvocati del Distretto di Torino e dall’Associazione «Il trust in Italia», svoltosi a Torino il 24.1.2004; per un approccio riconducibile alla stessa ratio cfr. anche Lupoi, Trusts, cit., 551 ss.). In tutti questi casi (e fermo restando, naturalmente, che la questione meriterebbe ben altro approfondimento, impossibile nella presente sede), l’effetto ‘segregativi’, in deroga al disposto di cui all’art. 2740 c.c., sembra invero porsi quale esclusiva conseguenza di precise disposizioni di legge, in fattispecie che la legge stessa tassativamente descrive, ricollegandole a ben precise dichiarazioni negoziali (bilaterali, tra l’altro), inestensibili analogicamente. In altre parole, sembra a chi scrive che l’art. 2740 c.c. non possa subire deroghe se non nei casi tassativamente previsti dalla legge. Ciò sembra valere anche in relazione al tema (che non è possibile sviluppare nella presente sede) del contratto di affidamento fiduciario, su cui v. i richiami in nota infra.
[175] Sul
tema cfr. Oberto,
Trust e autonomia negoziale nella
famiglia, cit., 201 ss., 310 ss.; Id.,
Il trust familiare, cit., §§ 15 ss.; v. inoltre Dogliotti, Piccaluga, I trust nella crisi della
famiglia, in AA.VV., Il trust nel diritto delle persone e della famiglia.
Atti del convegno. Genova, 15 febbraio
[176] Cfr. ad es. Bartoli, Muritano, Le clausole dei trusts interni, cit.; v. inoltre Petrelli, La trascrizione degli atti di destinazione, in Riv. dir. civ., 2006, II, 161 ss.
[177] Per alcuni recenti pregevoli studi sul tema cfr. Petrelli, Trust interno, art. 2645-ter c.c. e
“trust italiano”, in Riv. dir. civ., 2016, 167 ss.; Reali, I trusts, gli atti di assegnazione di beni in trust
e la
convenzione dell’Aja. Parte prima: i princìpi generali, in Riv. dir.
civ., 2017, 398 ss.; Id., I trusts, gli atti di
assegnazione di beni in trust e la convenzione dell’Aja. Parte seconda:
le regole giuridiche operative, ibidem, 608 ss. Per una recente
pronuncia di legittimità in tema di trust cfr. Cass., 27.1.2017, n.
[178] Cfr. ad es. le sentenze di merito colpite dagli strali
polemici di Lupoi, Il dovere
professionale di conoscere la giurisprudenza e il trust interno, in Trusts att. fid.,
2016, 113 ss. e di Tonelli, I nuovi negazionisti, ivi, 2016, 250 ss.
[179] Sul contratto di affidamento fiduciario v. per tutti Lupoi, Il contratto di affidamento fiduciario, Milano, 2014, passim; Mazzone,
La funzionalità del contratto di affidamento
fiduciario, in Trusts att. fid.,
2016, 351 ss.
[180] Per un significativo caso in proposito v. T.
Milano, 21.11.2002, in Trusts att. fid.,
2003, 265; il caso trattato dalla sentenza di merito è stato definitivamente risolto
a livello di legittimità da Cass., 13.6.2008, n.
[181] Cfr. Oberto, Trust e autonomia negoziale nella famiglia, cit.; Id., Il trust familiare, cit.; Id., Il regime di separazione dei beni tra coniugi. Artt. 215-219, cit., 183 ss.
[183] Sul tema cfr., anche per gli ulteriori
necessari richiami, Oberto, Atti
di destinazione (art. 2645 ter c.c.)
e trust: analogie e differenze,
in Contratto impr./Europa, 2007, 351
ss.; Id., Vincoli
di destinazione ex art. 2645 ter c.c. e rapporti patrimoniali tra coniugi,
in Famiglia e dir., 2007, 202 ss.; Id., Le
destinazioni patrimoniali nell’intreccio dei rapporti familiari, in Calvo, Ciatti
(a cura di), Trattato dei contratti,19,
I contratti di destinazione patrimoniale,
Torino, 2014, 140 ss.; Id., Atto
di destinazione e rapporti di famiglia, in Giur. it., 2016, 239 ss. Per un recente pregevole studio sull’art.
2645 ter c.c. cfr. Galluzzo, Gli atti di disposizione e di amministrazione dei beni destinati,
in Contratto impr., 2016, 205 ss.
[184] Cfr. per tutti Romeo,
Venuti, Relazioni affettive non
matrimoniali: riflessioni a margine del d.d.l. in materia di regolamentazione
delle unioni civili e disciplina delle convivenze, in Leggi civ. comm.,
2015, 971 ss., 991 s.; per un quadro generale della situazione al momento
dell’entrata in vigore della riforma del 2016 cfr. anche Oberto, I diritti dei conviventi. Realtà e prospettive tra Italia ed Europa,
Padova, 2012, passim; Id., I contratti di convivenza nei progetti di
legge (ovvero sull’imprescindibilità di un raffronto tra contratti di
convivenza e contratti prematrimoniali), in Famiglia e dir., 2015, 165 ss.; Auletta,
Modelli familiari, disciplina applicabile
e prospettive di riforma, in Leggi civ. comm., 2015, 615
ss.; Id., Disciplina delle unioni non fondate sul matrimonio: evoluzione o morte
della famiglia? (L. 20 maggio 2016, n. 76), in Leggi civ. comm.,
2016, 371 ss.; Dell’Anna Misurale, Unioni civili tra diritto e
pregiudizio. Prima lettura del nuovo testo di legge, in giustiziacivile.com, 2016, 1 ss.; De Filippis,
Unioni civili e contratti di convivenza,
Milano, 2016, 1 ss.; Ferrando, Le unioni civili: la situazione in Italia,
in Rescigno, Cuffaro (a cura di), Unioni civili e convivenze di fatto: la
legge, in Giur. it., 2016, 1771
ss.
[185] Per alcune disamine comparate cfr. Bonini Baraldi,
Le nuove convivenze tra discipline
straniere e diritto interno, Milano,, passim; Id., La
famiglia de-genere. Matrimonio, omosessualità e Costituzione, Milano-Udine,
2010, passim; Bilotta (a
cura di), Le unioni tra persone dello
stesso sesso: profili di diritto civile, comunitario e comparato, Milano,
2008, passim; Pezzini, Lorenzetti (a cura di), Unioni e matrimoni same-sex dopo la sentenza
138 del 2010: quali prospettive?, Napoli, passim; Fusaro, Profili di diritto comparato sui regimi patrimoniali, in Giur. it., 2016, 1789 ss.
[186] Corte EDU, 21.7.2015, Oliari et al. c. Italia,
in Famiglia e dir., 2015, 1069, con
nota di Bruno; reperibile anche in hudoc.echr.coe.int; Corte EDU
30.6.2016, Taddeucci e McCall c. Italia, ivi, sul tema cfr. Oberto, I diritti dei conviventi. Realtà e prospettive tra Italia ed Europa,
cit., 211 ss.; Dell’Anna Misurale, op. cit., 8 ss.; Romano C., Unioni civili e convivenze di fatto: una prima lettura del testo
normativo, in Notariato, 2016, 334 s.; Rossi,
La “legge Cirinnà” tra love rights e politica del diritto, in Studium iuris, 2016, 979 ss.; Ferrando, Le unioni civili: la situazione in Italia, cit., 1771 ss.
[187] Cfr. C. cost., 11.6.2014, n. 170. Con tale sentenza
era stata dichiarata l’illegittimità costituzionale degli artt. 2 e
[188] Per le critiche cfr. Oberto,
I rapporti patrimoniali nelle unioni
civili e nelle convivenze di fatto, cit., 30 ss.; Id., Il regime patrimoniale dell’unione civile, cit.,
340 ss.
[189] Oberto, I rapporti patrimoniali nelle unioni civili
e nelle convivenze di fatto, cit., 30 ss.; in termini analoghi si esprime Quadri, “Unioni civili tra persone dello stesso sesso” e “convivenze”: il non
facile ruolo che la nuova legge affida all’interprete, in Corr. giur., 2016, 898, ad avviso del
quale «la ricerca di soluzioni originali nella regolamentazione delle “unioni
civili” non ha mancato di risolversi nell’anticipazione di modelli di
disciplina, prevedibilmente destinati ad estendersi alla materia matrimoniale»;
per uno spunto in questo senso v. anche Gattuso
Cosa c’è nella legge sulle unioni civili:
una prima guida,
[190] Su cui v. per tutti Oberto,
I rapporti patrimoniali nelle unioni
civili e nelle convivenze di fatto, cit., 59 ss.; Id., I contratti di convivenza, Commento all’art. 1,
co. 50-
[191] In questi termini Oberto,
I rapporti patrimoniali nelle unioni
civili e nelle convivenze di fatto, cit., 32, con giudizio condiviso da Quadri,“Unioni civili tra persone dello stesso sesso” e “convivenze”: il non
facile ruolo che la nuova legge affida all’interprete, cit., 895;
stigmatizza la «confusa sequenza di 69 commi in un unico articolo» Pacia, op. cit., 1; di «ecomostro normativo» parla,
condivisibilmente, Querzola, op. cit, 844.
[192] Come rilevato in dottrina (Rossi, op.
cit, 985), «al fine di perseguire
l’obiettivo di accontentare l’area cattolica, si è invertito il processo di costruzione normativa, legiferando per sottrazione, o meglio
decostruendo il puzzle normativo. L’impressione, analizzando le proposte della
relatrice, è che si sia principiato da una versione massimalista volta a
prevedere una piena equiparazione delle unioni omosessuali al matrimonio per
poi sottrarre progressivamente tessere al mosaico al fine di trasfigurare la
figura dell’unione civile rendendola un istituto sostanzialmente corrispondente
al matrimonio, ma formalmente alternativo, che garantisse comunque il
soddisfacimento delle medesime esigenze sostanziali che trovano realizzazione
nel matrimonio, sia pure attraverso una diversa forma giuridica». La stessa
collocazione della riforma al di fuori
del contesto codicistico appare sicuramente criticabile, in
quanto possibile fonte di confusione ed incertezze (in questo senso v. anche,
con riguardo alla precedente – penultima – versione del d.d.l. in tema di
unioni civili, Casaburi, Il disegno di legge sulle unioni civili tra
persone dello stesso sesso: verso il difficile ma obbligato riconoscimento
giuridico dei legami omosessuali, in Foro
it., 2016, V, 11 ss. e, successivamente, Id.,
Le unioni civili tra persone dello stesso
sesso nella l. 20 maggio 2016 n. 76 (nota a T. Roma, 3.5.2016), ibidem, I, 2246 ss.). Trattasi, del
resto, di un’evidente scelta «politica» volta a non introdurre nel «sacro»
testo del codice le nuove disposizioni, quasi che si temesse di «contaminarlo»
con la presente materia: il che marca una chiara differenza (negativa) rispetto
all’opposto atteggiamento mostrato, ad esempio, dai cugini transalpini,
allorquando questi, ormai diversi anni or sono, introdussero il PACS nel Code Civil (cfr.
artt. 515-1 ss. del Code Civil, introdotti dalla l. n. 2007-308 del
3.5.2007, in vigore dal 1.1.2009) e, nel 2013, addirittura aprirono il
matrimonio alle coppie dello stesso sesso, modificando in tal senso l’art. 143
dello stesso codice («Le mariage est contracté par deux personnes de sexe
différent ou de même sexe»:
cfr. art.
[193] Oberto, I rapporti patrimoniali nelle unioni civili
e nelle convivenze di fatto, cit., 33 ss.; nello stesso senso v. anche Bianca Mirzia, op. loc. ultt. citt.
[194] Balestra,
Unioni civili, convivenze di fatto e
“modello” matrimoniale: prime riflessioni, cit., 1779 ss.; 1782. Altrove
(cfr. ad es. Dell’Anna Misurale, op. cit., 10) si
sottolinea come il legislatore, nel regolare il rapporto tra persone dello
stesso sesso mediante il ricorso al modello dell’unione civile, scartando
l’opzione matrimonio, abbia tuttavia attinto «a piene mani» dalla disciplina di
quest’ultimo istituto, laddove, secondo altra Autrice (Pacia, op.
cit., 19), la disciplina delle unioni
civili rappresenta una «brutta copia del matrimonio» (sostiene che il
legislatore ha voluto «una unione meno impegnativa ma anche con minori garanzie
per i suoi componenti, indebolendone la stabilità nel discutibile intento di
privilegiare l’unione matrimoniale» Auletta,
Disciplina delle unioni non fondate sul
matrimonio: evoluzione o morte della famiglia? (L. 20 maggio 2016, n. 76),
cit., 382).
[195] Per un’interessante «anticipazione» della riforma da
parte di una commissione tributaria, che ha esteso ai conviventi omosessuali
tra persone dello stesso sesso legate tra loro da un’unione civile formalizzata
all’estero la disciplina fiscale favorevole prevista per i coniugi in materia
di donazioni cfr. Comm. Trib. Reg. Liguria 18.4.2016, n.
[196] Oberto, I rapporti patrimoniali nelle unioni civili
e nelle convivenze di fatto, cit., 38 s.
[197] Così Oberto,
I rapporti patrimoniali nelle unioni
civili e nelle convivenze di fatto, cit., 38 s., con soluzione condivisa da
Quadri,“Unioni civili tra persone dello stesso sesso” e “convivenze”: il non
facile ruolo che la nuova legge affida all’interprete, cit., 895.
[198] Né in senso contrario può tentarsi (come vorrebbe
invece Casaburi, Le unioni civili tra persone dello stesso
sesso nella l. 20 maggio 2016 n. 76 (nota a T. Roma, 3.5.2016), cit., 2254) di far valere il carattere
(incontestabilmente) eccezionale (a
sua volta) della citata clausola di chiusura. Il ricorso all’analogia, invero,
è ammesso solo in caso di incertezza sull’individuazione della regolamentazione
di una certa situazione: ciò che è ben diverso dalla presenza, tutto al
contrario, di una situazione di certezza, sebbene negativa. In altre parole, la
legge appare estremamente chiara
nell’escludere la possibilità di qualsiasi applicazione della normativa
matrimoniale codicistica non espressamente richiamata e, in
claris, non vi è spazio né per interpretazione, né per analogia.
[199] Oberto, I rapporti patrimoniali nelle unioni civili
e nelle convivenze di fatto, cit., 45 ss.
[200] Oberto, I rapporti patrimoniali nelle unioni civili
e nelle convivenze di fatto, cit., 40.
[201] Oberto, I rapporti patrimoniali nelle unioni civili
e nelle convivenze di fatto, cit., 49 s.; Id.,
Il regime patrimoniale dell’unione civile, cit., 377 ss., 401 ss., 405
s., 407 ss.
[202] Oberto, I rapporti patrimoniali nelle unioni civili
e nelle convivenze di fatto, cit., 44.
[203] Oberto, I rapporti patrimoniali nelle unioni civili
e nelle convivenze di fatto, cit., 44.
[204] Come invece ritenuto da Casaburi, Le unioni
civili tra persone dello stesso sesso nella l. 20 maggio 2016 n. 76 (nota a T.
Roma, 3.5.2016), cit., 2253.
[205] così Oberto,
I rapporti patrimoniali nelle unioni
civili e nelle convivenze di fatto, cit., 47 ss.
[207] Oberto, I rapporti patrimoniali nelle unioni civili
e nelle convivenze di fatto, cit., 43 ss., 47 ss.
[208] Oberto, I rapporti patrimoniali nelle unioni civili
e nelle convivenze di fatto, cit., 49; in senso conforme v. pure Quadri,“Unioni civili tra persone dello stesso sesso” e “convivenze”: il non
facile ruolo che la nuova legge affida all’interprete, cit., 895.
[210] A dispetto dell’esistenza per i coniugi – e, di
conseguenza, per i soggetti civilmente uniti – dello specifico istituto del
fondo patrimoniale, con cui il vincolo di destinazione introdotto nel 2006 ben
potrà convivere: cfr., anche per i richiami, Oberto,
Atto di destinazione e rapporti di famiglia, cit., 239 ss., 243 ss.