L’AUTONOMIA IN MATERIA PATRIMONIALE
NEI RAPPORTI FAMILIARI
Sommario: 1. Introduzione. Autonomia
negoziale e famiglia. – 2. Il superamento della
«concezione istituzionale» della famiglia e la teoria del negozio giuridico
familiare. – 3. Tutela dell’individuo e principio
dell’accordo nella Costituzione e nella legislazione ordinaria. – 4. Tutela dell’individuo e principio dell’accordo nella
riforma del 1975. – 5. L’evoluzione dottrinale e
giurisprudenziale sul tema della negozialità tra coniugi. – 6.
Gli interventi normativi e giurisprudenziali nel secondo decennio del terzo
millennio in tema di autonomia negoziale dei coniugi. – 7.
La natura contrattuale delle
convenzioni matrimoniali. – 8. Le regole in tema di simulazione e di
capacità delle parti quali ulteriori conferme della natura contrattuale delle
convenzioni matrimoniali. – 9. Convenzioni
matrimoniali, contratto di matrimonio e regimi patrimoniali. – 10. Il problema del trust
familiare. Il dibattito sull’ammissibilità di un trust «interno». – 11. Alcune specifiche
questioni relative al trust familiare.
Trust, vincolo ex art. 2645-ter c.c. e
convenzione matrimoniale. – 12. Convenzioni
matrimoniali, matrimonio e crisi coniugale. – 13. Convenzioni matrimoniali e autonomia
negoziale. L’ammissibilità di regimi patrimoniali atipici. – 14. Convenzioni
matrimoniali e autonomia negoziale. La progressiva erosione della
sfera di applicabilità delle regole in tema di forma. – 15. Convenzioni
matrimoniali e autonomia negoziale. Modifica delle convenzioni e
mutamento di regime. – 16. Convenzioni matrimoniali e
autonomia negoziale. I limiti (relativi alla parte generale). – 17. Autonomia
negoziale dei coniugi e comunione legale. Oggetto della comunione e rifiuto
del coacquisto ex lege. – 18. Autonomia negoziale dei coniugi e comunione
legale. Le regole in tema di amministrazione. – 19. Autonomia
negoziale dei coniugi e comunione legale. Regime transitorio. – 20. Autonomia
negoziale dei coniugi e comunione convenzionale. I limiti di cui all’art. 210
c.c. – 21.
Autonomia negoziale dei coniugi e comunione convenzionale. Gli ampliamenti e
le riduzioni dell’oggetto. – 22. Autonomia negoziale dei coniugi e separazione dei
beni. – 23.
Autonomia negoziale dei coniugi, fondo patrimoniale e impresa familiare. –
24. L’autonomia privata di fronte all’art. 2645-ter c.c. nell’intreccio delle
relazioni familiari. I rapporti con il fondo patrimoniale. – 25.
Segue. Sulla possibile
«coesistenza» del vincolo di destinazione con il fondo patrimoniale, anche in
relazione alla famiglia fondata sul matrimonio. – 26.
Vincoli di destinazione ex art.
2645-ter c.c. e convenzioni
matrimoniali. – 27. Vincoli di destinazione ex art. 2645-ter c.c. e regimi patrimoniali della famiglia. Forma dell’atto
costitutivo e norme applicabili. – 28. La costituzione
di un vincolo di destinazione ex
art. 2645-ter c.c. su beni in
comunione legale o convenzionale, ovvero su beni costituiti in fondo
patrimoniale. – 29. Vincoli di destinazione e famiglia
di fatto. Generalità. Differenze rispetto al fondo patrimoniale. – 30. Il problema dell’individuazione dei beneficiari del
vincolo di destinazione a favore della famiglia di fatto. – 31.
Incapaci e semi-incapaci quali beneficiari del vincolo. Esclusione della
necessità di autorizzazione giudiziale. |
1.
Introduzione. Autonomia negoziale e famiglia.
Autonomia
negoziale e famiglia: un accostamento che sino a non moltissimi anni fa poteva
ancora apparire ardito, sulla base di perduranti echi della concezione
istituzionale della famiglia, enfatizzante in questa materia gli aspetti d’ordine
pubblico, le regole inderogabili e la tutela del soggetto «debole»; profili,
questi, che non solo si presentavano con andamento ciclico nella dottrina [1] , ma che sembravano ricevere conforto da alcuni (peraltro,
con l’andar del tempo, sempre più ristretti) filoni nella stessa giurisprudenza
di legittimità. Filoni che, almeno in parte, sopravvivono ancora ad oggi.
Potranno citarsi, a titolo d’esempio, le persistenti «chiusure» della
Cassazione in materia di disponibilità del contributo al mantenimento del
coniuge separato e dell’assegno di divorzio, che, criticate in altra sede [2] , dovrebbero però oggi, presumibilmente, ritenersi
superate, o, quanto meno, agevolmente superabili, anche alla luce del recente revirement sul concreto contenuto della
c.d. «solidarietà postconiugale», con la radicale revisione delle modalità di
determinazione dell’assegno divorzile [3] .
Per non parlare poi di svariate, perduranti, rigidità in materia di comunione
legale tra coniugi: si pensi al requisito (immotivamente e contra legem) richiesto della partecipazione del coniuge non
acquirente ai sensi dell’art. 179 cpv. c.c. [4] ,
o alla vicenda del rifiuto del coacquisto ex
lege [5] .
Ancora, si potrà porre mente alle sin troppo note pronunzie in materia di (in)validità
degli accordi preventivi in vista del divorzio [6] .
Rimanendo
per il momento su di un piano generale e terminologico, va considerata la
propensione dello stesso codice ad evitare il più possibile l’uso della parola
«contratto» in materia di rapporti tra coniugi. Questo termine, invero, compare
nel solo art. 162, comma quarto, nonché nell’art. 166, all’interno della
locuzione «contratto di matrimonio», al punto da fornire l’impressione che l’impiego
dell’espressione in discorso sia quasi il frutto di una «svista» del
legislatore. Così non è, di certo; e le pagine che seguono vogliono fornire una
smentita di una simile, quanto mai affrettata, conclusione: in questa
introduzione potrà ricordarsi, per l’intanto, che in svariati ordinamenti
vicini al nostro non si ha difficoltà a definire alla stregua di un contratto
lo stesso istituto matrimoniale. Così l’art. 1055 del codice di diritto
canonico parla di matrimonialis contractus, mentre la dottrina francese,
se sembra convergere sulla nozione di acte juridique, si divide poi tra
la tesi «contrattualistica» e quella «istituzionale» [7] , laddove in Italia è solo l’elemento della
patrimonialità, introdotto dall’art. 1321 c.c., ad impedire di ricondurre il
matrimonio all’archetipo contrattuale. Non è certo questa la sede per trattare
della questione – dal sapore forse più storico che attuale [8] – della natura
del matrimonio [9] , ma non potrà farsi a meno di constatare come
comunque, anche da noi, pure in presenza del dato positivo testé posto in luce,
la concezione «istituzionale» del matrimonio abbia ceduto ormai il passo a
quella negoziale [10] .
Sempre
restando sul piano terminologico, andrà notato che il codice sembra manifestare
una preferenza, anche in materia di rapporti patrimoniali, per termini quali
«convenzione» o «patto» [11] . Ora, non vi è dubbio che molte delle perplessità di
cui si è dato conto siano state generate dalla terminologia impiegata dal legislatore,
anche in considerazione di un diffuso (e autorevolmente avallato) luogo comune,
secondo cui il concetto di «convenzione», nel nostro ordinamento, s’attaglierebbe
a quei soli istituti negoziali che, «avendo ad oggetto rapporti non
patrimoniali, devono espungersi dalla cerchia del contratto» [12] . In realtà, una semplice ricerca compiuta a mezzo di
strumenti informatici – si pensi ad un’analisi per parole testuali sul testo
del codice civile su di una banca dati legislativa off line (su CD-ROM
o DVD), ovvero all’interno di un sito Internet che consenta tale
tipo di interrogazione [13] – permette di
scoprire che il testo del codice contiene il termine «convenzione» (sia al
singolare che al plurale) in ben quarantotto distinti articoli, sparsi un po’
in tutti i sei libri, ma sempre e soltanto nell’accezione di «accordo su
questioni di carattere patrimoniale» [14] . La «vitalità» del termine in discorso, nella sua
valenza semantica qui indicata, è ribadita dalla riforma del 2016 sulle unioni
civili, in cui viene presentata [15] l’espressione «convenzioni patrimoniali», per
altro assolutamente equivalente a quella «convenzioni matrimoniali».
A
puntuale conferma di quanto sopra giungono le conclusioni in tema di natura
contrattuale delle convenzioni matrimoniali, su cui si è detto in altri lavori [16] , nonché il dato storico, a mente del quale,
tradizionalmente, «conventionis verbum generale est, ad omnia pertinens, de
quibus negotii contrahendi transigendique causa consentiunt, qui inter se
agunt» [17] . Elemento, questo, rafforzato dalla considerazione,
pure sviluppata altrove, secondo cui, storicamente, il principio della più
ampia libertà contrattuale venne sempre rispettato proprio in tema di
convenzioni matrimoniali [18] .
Con
un salto, poi, di diversi secoli, troviamo – ad ulteriore conferma delle
conclusioni di cui sopra, circa l’assoluta compatibilità tra i concetti di
contratto e di famiglia – il dato normativo proveniente dal recepimento della
normativa comunitaria in tema di commercio elettronico, laddove l’art. 11
d.lgs. 70/2003, stabilisce l’inapplicabilità della relativa regolamentazione ai
«contratti disciplinati dal diritto di famiglia». Può ben dirsi, dunque, che
ora è lo stesso legislatore ad ammettere che la normativa tradizionalmente
qualificata come giusfamiliare può contenere norme che disciplinano contratti [19] . Le considerazioni sin qui svolte mostrano il
carattere prettamente linguistico della diatriba, laddove ciò che assume
rilievo in questo contesto è semmai il superamento del supposto antagonismo tra
contratto e famiglia [20] , nonché l’evoluzione che, a livello concettuale e
degli istituti, ha portato all’irruzione della negozialità in tutti i campi
riferibili ai rapporti patrimoniali all’interno del nucleo familiare [21] .
Per
negozialità si intende [22] la «possibilità
per determinati soggetti di concludere tra di loro negozi giuridici» e
segnatamente, per quanto attiene ai coniugi, di disciplinare a mezzo di negozi
determinati aspetti (personali e/o patrimoniali) della vita coniugale. Il
termine, non ignoto ai principali dizionari della lingua italiana – per lo meno
nelle due accezioni di «natura di negozio giuridico (di determinati atti)» e di
«possibilità di condurre trattative (politiche, sindacali, ecc.) con buone
probabilità di successo» [23] – può ormai
vantare, anche nell’accezione qui indicata, illustri precedenti, se è vero che
già diversi anni fa la nostra Corte Suprema [24] constatava che
«in dottrina si è indicata la separazione consensuale come uno dei momenti di
più significativa emersione della negozialità nel diritto di famiglia» [25] . Il concetto viene dunque sostanzialmente a
coincidere con quello di «autonomia (o libertà) privata», intesa appunto come
indicativa del potere, attribuito all’ordinamento ai soggetti «di
autodeterminazione, di autoregolamento dei propri interessi fra gli stessi
interessati» [26] . D’altro canto, nel campo patrimoniale, la
negozialità viene a collimare con quella «autonomia (o libertà) contrattuale»,
cui fa riferimento la rubrica dell’art. 1322 c.c. [27] . Il termine «negozialità», peraltro – forse perché
non ancora logorato dall’uso – sembra più indicato degli altri, appena citati,
ad esprimere l’irrompere del principio generale dell’autonomia privata nello
specifico settore dei rapporti tra i coniugi.
Ma
ora è giunto veramente il momento di lasciare da parte le notazioni di tipo più
stilistico che concettuale, osservando ancora una volta come in favore di un’opera
ricostruttiva della normativa vigente diretta ad esaltare i momenti di
negozialità tra coniugi in crisi parlino considerazioni di tipo normativo,
certo, ma anche storico, sociologico, comparatistico e sistematico. Ad esse si
è fatto dettagliato riferimento in un’apposita opera, consacrata a quelli che
lo scrivente ha definito i «contratti della crisi coniugale» [28] : qui ci si limiterà ad una sintesi dei soli dati più
significativi.
Lo
sviluppo della negozialità nell’ambito della famiglia ha inizio – per lo meno
nei tempi a noi più recenti [29] – con il
tramonto della «concezione istituzionale», autorevolmente propugnata in Italia
dal Cicu agli inizi del secolo scorso [30] ; idea, questa, quanto mai remota da quella della
libertà contrattuale, dal momento che vedeva l’istituzione familiare come
organizzata gerarchicamente e sottoposta al potere del capo, ciò che appare
incompatibile con la figura del contratto, che, per definizione, presuppone la
presenza di soggetti posti su di un piano di parità.
Il
passaggio dalla «concezione istituzionale» a quella «costituzionale» della
famiglia [31] , operatosi dopo la caduta del regime fascista, vede
quale significativa tappa un importante articolo di Francesco
Santoro-Passarelli, pubblicato per la prima volta nel 1945, dal titolo L’autonomia
privata nel diritto di famiglia [32] . In tale contributo l’insigne civilista, oltre a
ricondurre alla categoria generale del negozio giuridico singoli istituti
familiari, contraddistinti dalla presenza di manifestazioni di volontà,
teorizzava la configurabilità di un istituto di carattere unitario, il negozio
giuridico familiare, come vero e proprio atto di autonomia privata, ancorché
caratterizzato da un livello di libertà ridotto rispetto a quello usualmente
presente in materia contrattuale [33] .
E’
sicuro che, nella formulazione proposta da Santoro-Passarelli, il negozio
giuridico familiare risentiva ancora fortemente degli influssi della dottrina
dallo stesso Autore contrastata, al punto che in essa vi si trova ancora il
richiamo alla «funzione d’interesse superiore che debbono genericamente adempiere
i vari negozi del diritto di famiglia»; né la constatazione deve stupire più di
tanto, se si considera che stiamo qui parlando del medesimo giurista secondo
cui «la famiglia, come qualunque altro organismo, e più di ogni altro, per la
sua particolare struttura, non vive senza un capo» [34] . Sta però di fatto che, al di là di questo tributo
pagato all’autorevolezza della dottrina del Cicu, nella tesi testé esposta
erano presenti in nuce tutte le premesse per un pieno sviluppo della
autonomia privata anche nel campo familiare (ed in quello matrimoniale in
particolare), come verrà tra breve detto.
Il
superamento della «concezione istituzionale» della famiglia e l’affermazione
della teoria del negozio giuridico familiare sono dovute del resto anche ai
mutamenti che la stessa nozione di negozio giuridico in generale ha conosciuto.
Non
è certo questa la sede per prendere posizione sulla configurabilità in generale
della categoria del negozio giuridico, né tanto meno sulla questione dell’idoneità
della medesima ad assicurare ai privati una vera sfera di autonomia. Basti solo
citare al riguardo l’autorevole ammonimento di Kelsen, secondo il quale non
esisterebbe nel diritto privato «una completa autonomia», atteso che è pur
sempre il diritto oggettivo a stabilire che il contratto «produce diritto, così
che la determinazione giuridica proviene in ultimo termine da questo diritto
oggettivo, non già dai soggetti giuridici che vi sono sottoposti» [35] .
Del
resto la sopravvivenza della figura del negozio giuridico a constatazioni, pur
corrosive, quali quella sopra ricordata di Kelsen, si spiega alla luce della
capacità di adattamento della stessa alle idee dei tempi moderni. Come
esattamente osservato [36] , «nella nostra cultura l’idea della disponibilità
degli effetti e della loro commisurazione al contenuto della volontà è andata
perdendo progressivamente di importanza, essendo ormai adusi, nel più profondo
livello culturale, alla eterointegrazione, ad opera della legge, degli effetti
previsti dalle parti, o alla non disponibilità degli stessi effetti. L’elemento
costituito dalla (totale) disponibilità degli effetti può essere considerato
inidoneo per la costruzione del concetto di negozio, perché troppe sono ormai
le deroghe che nell’ordinamento un tale elemento subisce; ed inoltre sempre più
numerosi sono gli effetti (non voluti, o comunque non presenti nella
rappresentazione delle parti) con i quali l’ordinamento integra il rapporto» [37] .
Quanto
detto vale poi, in particolare, per il negozio giuridico familiare, figura che,
ritagliata sotto il vigore del c.c. 1865 su alcuni (pochi) negozi evidentemente
caratterizzati dall’assenza della patrimonialità: matrimonio, adozione,
legittimazione, emancipazione [38] , ha finito con l’assumere una valenza ben più ampia.
Bisogna
tenere presente, al riguardo, che la codificazione del 1942 era venuta a
fondare la distinzione tra il contratto e gli altri negozi giuridici bilaterali
proprio sul carattere patrimoniale dei primi. Quest’operazione si collocava nel
solco di un’antica tradizione, che ravvisava «nel contratto la fonte tipica e
principale delle obbligazioni o, secondo una più evoluta qualificazione, dei
rapporti (effetti) giuridici che si definiscono patrimoniali» [39] . Peraltro, è anche vero che l’innovazione introdotta
dal 1942 poteva essere vista pure come un «mero espediente per lasciar fuori
della categoria contrattuale i grandi negozi o procedimenti bilaterali che
operano nel campo della famiglia» [40] . Sebbene queste premesse potessero indurre a ritenere
il futuro del negozio familiare come inesorabilmente tracciato su di un
percorso alternativo rispetto a quello contrattuale, le successive vicende
dottrinali e giurisprudenziali hanno evidenziato un’evoluzione ben diversa, nel
corso della quale il richiamo alla figura in esame è servito proprio al fine di
introdurre nel campo familiare, con sempre maggiore ampiezza, gli istituti del
diritto contrattuale.
Già
la Relazione ministeriale sul testo definitivo del codice civile (n. 602)
lasciava chiaramente aperta la porta ad un’applicazione – ancorché non diretta
– ai negozi familiari delle disposizioni in materia di contratto, prospettando
un’interpretazione tesa ad attribuire una «portata espansiva» alle norme
stabilite per i contratti facente perno sull’art. 1324 c.c. Negli anni
successivi, poi, si sono moltiplicate le voci, anche autorevoli, nel senso dell’estensibilità
della disciplina contrattuale al di fuori del diritto patrimoniale, nonostante
la limitazione desumibile dall’art. 1324 c.c.
Tra
queste voci si colloca, appunto, quella di Santoro-Passarelli nel suo già
citato scritto in materia di autonomia privata nel campo familiare, il quale
rilevava testualmente quanto segue: «Il codice civile non contiene una
disciplina generale del negozio giuridico, la quale può però ricavarsi dalle
sue norme, essendo evidente che le norme sui contratti, ‘in quanto compatibili’,
siano suscettibili di applicazione non solo agli ‘atti unilaterali tra vivi
aventi contenuto patrimoniale’ (art. 1324), ma al negozio giuridico anche fuori
del diritto patrimoniale. A ciò è da aggiungere che la figura del negozio
giuridico nel diritto familiare è supposta dal codice (e la sua
utilizzazione s’impone perciò all’interprete), poiché in esso si fa richiamo a
nozioni caratteristiche del negozio, come i vizi della volontà (articoli
122, 265), le modalità, quali il termine e la condizione (articoli 108, 257),
l’irrevocabilità o la revocabilità dell’atto (articoli 256, 2982),
la sua invalidità (artt. 117 segg., 263 segg.)» [41] .
3. Tutela
dell’individuo e principio dell’accordo nella Costituzione e nella legislazione
ordinaria.
La
concezione del negozio giuridico familiare come strumento di ampliamento dell’autonomia
dei coniugi, nata – come si è visto – alla fine dell’ultima guerra, venne ben
presto ad inquadrarsi nei principi accolti dalla Costituzione repubblicana, che
gettò le basi per un totale sovvertimento dell’ottica in cui si collocava la
«concezione istituzionale» della famiglia. In questo già ricordato passaggio da
una «concezione istituzionale» ad una «concezione costituzionale» della
famiglia, l’istituto familiare veniva ora fondato sui principi d’uguaglianza e
di pari dignità dei coniugi (artt. 3 e 29 Cost.) [42] , mentre la posizione del singolo in seno alla
comunità familiare veniva tutelata dalla regola della salvaguardia dei diritti
fondamentali dell’individuo anche all’interno di quelle formazioni sociali in
cui esso, secondo quanto stabilito dall’art. 2 Cost., «svolge la sua
personalità» [43] .
Questa
accentuata attenzione per la tutela del singolo e – conseguentemente – dell’autonomia
dei privati all’interno della comunità familiare trovò quindi i suoi ulteriori
sviluppi sul piano della legislazione ordinaria, attraverso alcuni interventi
della Corte costituzionale, l’introduzione del divorzio e la riforma del 1975 [44] . Per quanto attiene alle decisioni della Consulta
basti ricordare, in primis, l’impatto, sul piano sistematico, dell’abolizione
del divieto di donazioni tra coniugi [45] . Come rilevato in dottrina «L’abrogazione del divieto
è ricca di implicazioni perché rende ‘automaticamente’ legittima ogni attività
negoziale tra coniugi. Anzi, proprio perché l’attività negoziale tra coniugi si
presume fondata sugli affetti familiari, essa viene ora in qualche misura
agevolata e protetta. Il ‘mutuo amore’ o la riconoscenza o, comunque, l’affetto
(in sintesi: le situazioni esistenziali) se nel diritto romano doveva
soggiacere alle ‘istanze’ patrimoniali, ora invece diviene la privilegiata
ragione giustificatrice degli atti di attribuzione patrimoniale; e ciò dipende
dalla funzionalizzazione dei rapporti patrimoniali nella famiglia ad assicurare
una misura di eguaglianza sostanziale tra i coniugi e di tutela della persona» [46] .
A
questa storica decisione della Corte costituzionale potranno poi anche
affiancarsi quelle tendenti a ricondurre le convenzioni matrimoniali al campo
contrattuale [47] e ad estendere
alla separazione consensuale alcune disposizioni dettate con riguardo alla
separazione giudiziale [48] .
Gli
effetti sul piano sistematico, poi, dell’introduzione del divorzio sono più che
evidenti. Basti ricordare l’insistenza con la quale la concezione istituzionale
della famiglia aveva fatto richiamo alla regola dell’indissolubilità, per
dimostrare l’impossibilità di ricondurre il matrimonio (oltre che gli altri
istituti familiari) al concetto di atto di manifestazione di volontà sulla
falsariga del paradigma contrattuale [49] . Inoltre, la possibilità della cessazione degli
effetti civili del matrimonio, impone di ripensare la materia in una diversa
prospettiva: è infatti concepibile la successione di differenti famiglie nel
tempo, facenti capo agli stessi individui. L’intreccio dei rapporti è dunque
tale che non è possibile, nemmeno logicamente, far luogo ad una completa
regolazione imperativa di legge, e conseguentemente aumenta lo spazio lasciato
all’autoregolamento dei privati [50] . Quanto sopra ha poi ricevuto ulteriore conferma dall’introduzione
nel 1987 del divorzio su domanda congiunta, del cui carattere prettamente
negoziale (per lo meno per ciò attiene alla regolamentazione delle relative
condizioni e degli effetti) non pare lecito dubitare [51] .
L’evoluzione
della legislazione italiana trova un corrispondente nello sviluppo di
ordinamenti stranieri. Così – a parte le considerazioni svolte in altra sede
sull’ammissibilità di contratti prematrimoniali tesi a disciplinare,
addirittura, le conseguenze di un eventuale futuro divorzio [52] , sulla base di precedenti storici comuni un po’ a
tutte le principali esperienze europee [53] – potrà
rilevarsi come, ad esempio, in Germania la piena consapevolezza della necessità
di salvaguardare la più ampia libertà contrattuale dei coniugi in relazione ad
ogni aspetto della determinazione dei rispettivi rapporti patrimoniali sia
sempre stata ben presente, addirittura già in sede di lavori preparatori del BGB, ove il § 1408, c. 1. [54] venne
espressamente basato «auf den Grundsatz der Vertragsfreiheit» [55] , facendosi altresì rimarcare – contro le obiezioni,
di cui pure i Materialien danno
conto, fondate sulla necessità di protezione della donna contro il rischio di
una «ungebürlichen und missbräulichen Beeinflussung» da parte dell’uomo – che i
coniugi erano nella situazione «ihre Angelegenheiten selbständig und frei zu
ordnen», per cui non sarebbe sembrato opportuno «dieselben in diesem einzelnen
Punkte zu bevormunden» [56] .
Anche
nella vicina Francia si è assistito, nel corso degli ultimi decenni, ad un
processo che ha progressivamente portato all’emergere del consenso e della
negozialità nella famiglia, nel corso di quella che è stata definita come una
«révolution tranquille, qui remet en cause la cohérence antérieure en matière
de gouvernement de la famille» [57] , passando attraverso le riforme della tutela (1964),
dei regimi matrimoniali (1965), dell’adozione (1966), degli incapaci
maggiorenni (1968), della potestà dei genitori (1970), della filiazione (1972)
e del divorzio (1975), cui ben può aggiungersi, per i tempi meno remoti (1999),
la regolamentazione della convivenza more uxorio e l’introduzione del
«patto civile di solidarietà», nonché (2005) un’ulteriore riforma del divorzio,
che ha semplificato notevolmente l’iter
procedurale dello scioglimento del vincolo nel caso di requête conjointe [58] . In tempi ulteriormente più recenti, poi, la legge n°
2006-728 del 23 giugno
La conclusione è dunque che anche Oltralpe «l’irruption
de la volonté dans le droit de la famille est un fait peu discutable» [59] .
Tutt’altro
che «tranquilla», come si sa, è invece stata la rivoluzione che, nel volgere di
pochi mesi, ha portato il diritto spagnolo ad estendere il matrimonio alle
unioni omosessuali e a riconoscere all’accordo dei coniugi sullo scioglimento
del vincolo l’effetto di determinare un vero e proprio «divorzio lampo» [60] : piuttosto significativo è il fatto che, nella
relativa exposición de motivos, si
legga, tra l’altro, che «esta ley persigue ampliar el ámbito de libertad de los
cónyuges (…) pues tanto la continuación de su convivencia como su vigencia
depende de la voluntad constante de ambos» [61] .
4. Tutela dell’individuo e principio dell’accordo
nella riforma del 1975.
Per
quanto attiene alla riforma italiana del 1975, uno dei pochi punti che hanno
visto concordi gli interpreti è costituito dalla constatazione dell’incrementato
rilievo che la negozialità è venuta ad assumere nel campo familiare, tanto che,
per constatazione unanime, l’accordo è ormai lo strumento privilegiato per la
disciplina dei rapporti familiari [62] . Proprio in questa regola la dottrina coglie un segno
della «privatizzazione» del diritto di famiglia [63] ed il
superamento della concezione pubblicistica che, come si è visto, voleva le
posizioni individuali dei singoli orientate al raggiungimento di interessi
superiori o «pubblici» [64] .
Il
dispiegamento dell’autonomia privata nel campo matrimoniale si estende ormai ad
abbracciare un campo che va dalla celebrazione delle nozze sino allo
scioglimento del vincolo.
Sotto
il primo aspetto si rileva il rinnovato ruolo, dopo la riforma del diritto di
famiglia, dell’autonomia privata nel matrimonio, «come affermazione della
dignità dell’istituto che deve essere riconosciuto in tutta la sua importanza
solo quando l’atto costitutivo risponda alle caratteristiche di una cosciente
autonomia» [65] , rimarcandosi d’altro canto come lo stesso
ampliamento del tema delle azioni di impugnativa matrimoniale confermi il
deciso riconoscimento dell’idea del matrimonio come atto di autonomia privata [66] .
Per
ciò che attiene, poi, ai rapporti tra coniugi nella fase non patologica della
loro unione basterà qui citare la novità, rispetto al sistema previgente, costituita
dall’introduzione della regola dell’accordo circa la determinazione dell’indirizzo
concordato, di cui all’art. 144 c.c. [67] , rispetto alla quale, come si è autorevolmente
rimarcato, il legislatore ha aperto alla regola del consenso e dunque alla sfera
dell’autodeterminazione dei coniugi, interi «territori dove regnavano il potere
autoritario e la sottomissione» [68] , fissando una regola fondamentale, imperniata su un
«regime consensuale permanente» [69] che
costituisce, in sostanza, la fonte di legittimazione di ogni manifestazione
negoziale dei coniugi: l’accordo dei coniugi pone così le regole del ménage
e, per ciò stesso, determina e concretizza il contenuto degli obblighi
inderogabili incidendo, quindi, su di essi [70] . Sul punto sarà il caso di aggiungere che tale
principio sembra ormai avere impiantato nella odierna realtà italiana solide
radici, se è vero che, come emergeva già diversi anni fa da un’indagine ISTAT,
tre persone su quattro tra quelle che vivono in coppia dichiarano di
condividere con il partner le decisioni relative a spese importanti (acquisto
di una casa, ristrutturazioni, acquisto di beni ad alta tecnologia) e le scelte
di gestione del denaro in famiglia [71] .
Anche
per quanto attiene al dovere di contribuzione ex art. 143, comma terzo,
c.c., occorre constatare che, pur restando ferma l’inderogabilità sancita dall’art.
160 c.c. – con conseguente invalidità tanto del patto con cui uno dei coniugi
venga esonerato del tutto dall’obbligo di concorrere al sostentamento della
famiglia e della prole, quanto di quello che deroghi al criterio di
proporzionalità fissato dalla legge – non si hanno difficoltà ad ammettere
accordi che traducano, ad esempio, l’astratta regola della proporzionalità alle
sostanze e alla capacità di lavoro in una determinazione che, valutata la
situazione concreta dei due coniugi, fissi una ripartizione dei doveri secondo
percentuali prestabilite [72] .
Per
ciò che riguarda, poi, lo sterminato campo dei rapporti patrimoniali nella
famiglia fondata sul matrimonio, basterà richiamare in questa sede la natura
contrattuale delle convenzioni matrimoniali, così come il principio secondo cui
l’amministrazione dei beni sottoposti al regime legale è rimessa, per gli atti
più rilevanti, all’accordo dei coniugi (cfr. art. 180 c.c.) e che in relazione a
questo stesso accordo la Cassazione era un tempo giunta a riconoscere, per
esempio (peraltro successivamente tornando sui propri passi), il potere di
impedire la caduta in comunione, anche al di fuori delle ipotesi contemplate
dall’art. 179 c.c. [73] .
Sul
versante della crisi coniugale sarà sufficiente citare l’accordo alla base
della corresponsione una tantum dell’assegno [74] , cui può senz’altro aggiungersi, oltre al negozio di
separazione personale consensuale, l’intesa posta a fondamento del ricorso su
domanda congiunta. La stessa Corte di cassazione non esita ormai a richiamare
sempre più spesso expressis verbis la regola dell’autonomia negoziale
nelle materie legate ai rapporti tra coniugi in crisi [75] . A quest’evoluzione giurisprudenziale, compiutasi non
senza contraddizioni (basti ricordare ancora una volta le persistenti reticenze
sul fronte del tema della disponibilità degli assegni di separazione e divorzio
e degli accordi conclusi in sede di separazione ma in vista del futuro divorzio),
ha fatto da pendant un’evoluzione
altrettanto tormentata e complessa dal punto di vista dottrinale.
Così,
già nel 1967, vigente il regime di indissolubilità del vincolo, quella stessa
autorevole dottrina che solo dieci anni prima aveva definito la famiglia come
«un’isola che il mare del diritto può lambire, ma lambire soltanto» [76] , valutando un accordo diretto alla predeterminazione
delle conseguenze dell’annullamento del matrimonio, individuava proprio nel
principio della autonomia contrattuale (art. 1322 c.c.) il fondamento di una
siffatta pattuizione, rilevando come in questo caso sia «palese l’interesse
tipico del regolamento di rapporti, se pure non si abbia una disposizione
esplicita del codice che preveda tale regolamento, essendo quasi impensabile
che al termine della convivenza non ci siano ragioni di dare ed avere, pretese
reciproche» [77] .
Neanche
un decennio più tardi una delle più celebri monografie in materia di contratto
affermava che «Necessità pratiche e progresso civile esigono che, de iure
condendo, e, per quanto possibile, de iure interpretando, si
rivalutino questi patti regolatori di rapporti di famiglia, o associativi, e
così via», aggiungendo che «guardando lontano, si potrebbero immaginare scelte
pattizie della regola sulla dissoluzione del matrimonio, sul governo della
famiglia, sul cognome dei coniugi» [78] . Lo stesso principio veniva contemporaneamente
enunciato addirittura in una delle più autorevoli opere istituzionali [79] . A parte queste voci – tutto sommato isolate, ancorché
di rilievo – l’interesse della dottrina fino a non molto tempo addietro è stato
sovente attratto, tutto all’opposto rispetto all’autonomia negoziale, dalle
questioni attinenti all’intervento dell’autorità giudiziaria nella vita della
famiglia: basti citare, per tutte, una celebre monografia consacrata al tema (beninteso,
pur esso fondamentale, specie se si ha riguardo al tema dei diritti
indisponibili attinenti ai rapporti con la prole) dell’intervento del giudice
nel conflitto coniugale [80] .
5. L’evoluzione
dottrinale e giurisprudenziale sul tema della negozialità tra coniugi.
Nel
corso degli ultimi decenni il richiamo alle regole in tema di autonomia
contrattuale è andato via via infittendosi, specie sull’onda dell’autorevole
constatazione per cui, anche nel campo dei rapporti patrimoniali tra i coniugi (in
crisi), «ove tra le parti si convenga l’attribuzione di diritti e l’assunzione
di obblighi di natura patrimoniale, non parrebbe contraddire alla definizione
dell’art. 1321 c.c. la qualificazione di ‘contratto’» [81] . Lo stesso può dirsi per la giurisprudenza,
particolarmente per quella di legittimità.
Così,
per esempio, troviamo che un espresso rimando al principio della libertà
contrattuale consacrato dall’art. 1322 c.c. compare per ben due volte in una
nota decisione sulla validità degli accordi preventivi tra coniugi in materia
di conseguenze patrimoniali dell’annullamento del matrimonio [82] , mentre espliciti o impliciti riferimenti all’autonomia
contrattuale punteggiano tutta o quasi la complessa vicenda in tema di
trasferimenti immobiliari e mobiliari in sede di separazione personale tra
coniugi [83] , già a cominciare da quel leading case
risalente al 1972 [84] , che pure all’epoca aveva suscitato le (ingiustificatamente)
preoccupate reazioni di parte della dottrina [85] ; per continuare con il caso in cui i supremi giudici
invocarono proprio il principio in esame, al fine di ammettere la validità dell’impegno
con il quale uno dei coniugi, in vista di una futura separazione consensuale,
aveva promesso di trasferire all’altro la proprietà di un bene immobile, anche
se tale sistemazione dei rapporti patrimoniali era avvenuta al di fuori di
qualsiasi controllo giudiziale in sede di omologa [86] ; per culminare con la decisione con cui la Corte
Suprema, accogliendo la tesi avanzata dallo scrivente, ha ribadito la
legittimità di trasferimenti operati con efficacia reale nello stesso accordo
di separazione, riconoscendo al relativo verbale la natura di atto pubblico
idoneo alla trascrizione sui pubblici registri immobiliari [87] .
Per
non dire poi dell’evoluzione più recente in materia di accordi non omologati
modificativi di precedenti intese (ovvero delle condizioni dettate dal giudice),
ove la Cassazione riconosce effetto, ormai da alcuni anni a questa parte, al
pieno dispiegarsi della negozialità dei coniugi, in forza del principio sancito
dall’art. 1322 c.c., ritenuto senza riserve applicabile al caso di specie,
addirittura anche per quanto concerne le pattuizioni concernenti la prole
minorenne; conclusione, quest’ultima, che conferma l’espansione dell’operatività
della sfera dell’autonomia privata anche nel settore di quei negozi del diritto
di famiglia non caratterizzati dalla patrimonialità [88] .
Ancora,
per quanto attiene, più specificamente, alle intese costituenti il «contenuto
eventuale» [89] dell’accordo di
separazione consensuale, non sembra ormai potervi essere dubbio sulla natura
non solo negoziale di questi atti, bensì addirittura sul relativo carattere
contrattuale, allorquando gli stessi (come per lo più accade) abbiano ad
oggetto prestazioni di carattere patrimoniale [90] . Anche qui l’art. 1322 c.c. ha ricevuto concreta
applicazione in un’innumerevole serie di casi, che hanno portato il «diritto
vivente» a determinare, in nome del principio dell’autonomia contrattuale (sovente
espressamente menzionato nelle motivazioni delle decisioni), una vera e propria
dilatazione dell’usuale contenuto dell’accordo di separazione, ben al di là di
quegli angusti limiti in cui parte della dottrina [91] lo avrebbe
voluto inquadrare.
Si
è così deciso, per esempio, in relazione ad una complessa pattuizione
transattiva di tutti i rapporti nati dal vincolo coniugale, che l’accordo dei
coniugi sottoposto all’omologazione del tribunale ben può contenere rapporti
patrimoniali anche «non immediatamente riferibili, né collegati in relazione
causale al regime di separazione o ai diritti ed agli obblighi derivanti dal
matrimonio» [92] . Sempre in materia di transazione la Corte ha
stabilito, in epoca ancora più recente, che «Anche nella disciplina dei
rapporti patrimoniali tra i coniugi è ammissibile il ricorso alla transazione
per porre fine o per prevenire l’insorgenza di una lite tra le parti, sia pure
nel rispetto della indisponibilità di talune posizioni soggettive, ed è
configurabile la distinzione tra contratto di transazione novativo e non
novativo, realizzandosi il primo tutte le volte che le parti diano luogo ad un
regolamento d’interessi incompatibile con quello preesistente, in forza di una
previsione contrattuale di fatti o di presupposti di fatto estranei al rapporto
originario (nella specie, la S.C. ha confermato la decisione di merito che ha
ritenuto novativa e, quindi, non suscettibile di risoluzione per inadempimento,
a norma dell’art. 1976 cod. civ., la transazione con la quale il marito si
obbligava espressamente, in vista della separazione consensuale, a far
conseguire alla moglie la proprietà di un appartamento in costruzione, allo
scopo di eliminare una situazione conflittuale tra le parti)» [93] . L’estensione della disciplina contrattuale ai negozi
familiari ha poi portato la giurisprudenza ad affermare, per esempio,
l’applicabilità all’accordo di riconciliazione dei principi in tema di
formazione del consenso contenuti agli artt. 1326-1328 c.c. [94] , o dell’art. 1371 c.c. ad una «convenzione accessoria
alla sentenza di divorzio» [95] , o, più in generale degli artt. 1362 ss. c.c. in tema
di interpretazione del contratto ad una pattuizione a latere rispetto all’accordo di separazione omologato [96] , ovvero per un accordo prodromico ad una consensuale
non concretizzata, ritenuto perfettamente valido ed efficace [97] , ovvero ancora per le stesse intese di separazione
consensuale [98] , nonché l’impugnabilità del negozio di separazione
consensuale per simulazione [99] e per vizi del
consenso [100] .
Non
stupisce dunque che, da alcuni anni a questa parte, accada sempre più di
frequente all’osservatore della giurisprudenza di legittimità di imbattersi in
affermazioni del genere di quella secondo cui «i rapporti patrimoniali tra i
coniugi separati hanno rilevanza solo per le parti, non essendovi coinvolto
alcun pubblico interesse, per cui essi sono pienamente disponibili e rientrano
nella loro autonomia privata» [101] . In altri termini, pur con le dovute cautele, sembra
potersi dire che anche nel diritto patrimoniale della famiglia deve darsi atto
di una progressiva evoluzione «dagli status al contratto». La nota
massima elaborata da Maine oltre un secolo fa, sebbene abusata e sottoposta a
critiche, sembra ancora adatta ad esprimere il lungo e travagliato percorso
compiuto dalla negozialità anche in questo settore del diritto privato [102] . In contraddizione, peraltro, rispetto a simili
aperture nei confronti della negozialità dei coniugi si colloca quel già
ricordato processo involutivo che la giurisprudenza – in particolare quella di
legittimità – ha subito relativamente a due settori ben individuati: ci si
intende riferire alle questioni relative al carattere disponibile del
contributo al mantenimento del coniuge separato o dell’assegno di divorzio,
nonché alla materia degli accordi preventivi in vista di un futuro ed eventuale
divorzio [103] .
Ulteriori
mutamenti assai rilevanti e repentini appaiono oggi in atto.
Basti
dire che le tesi dello scrivente hanno ricevuto un poderoso avallo da una
importante decisione di legittimità del 2014 [104] ,
che, riprendendo «passo a passo» numerosi rilievi del sottoscritto, ha
proclamato apertis verbis che «Nella
separazione consensuale, così come nel divorzio congiunto, ma pure in caso di precisazioni
comuni che concludano e trasformino il procedimento contenzioso di separazione
e divorzio, si stipula un accordo, di natura sicuramente negoziale (tra le altre,
Cass. n. 17607 del 2003), che, frequentemente, per i profili patrimoniali si configura
come un vero e proprio contratto. Non rileva che, in sede di divorzio, esso sia
recepito, fatto proprio dalla sentenza: all’evidenza tale sentenza è necessaria
per la pronuncia sul vincolo matrimoniale, ma, quanto all’accordo, si tratta di
un controllo esterno del giudice, analogo a quello di separazione consensuale».
Più
oltre, la decisione continua rilevando che «Tradizionalmente gli accordi “negoziali”
in materia familiare, erano ritenuti del tutto estranei alla materia e alla
logica contrattuale, affermandosi che si perseguiva un interesse della famiglia
trascendente quello delle parti, e l’elemento patrimoniale, ancorché presente,
era strettamente collegato e subordinato a quello personale. Oggi, escludendosi
in genere che l’interesse della famiglia sia superiore e trascendente rispetto
alla somma di quelli, coordinati e collegati, dei singoli componenti, si ammette
sempre più frequentemente un’ampia autonomia negoziale, e la logica contrattuale,
seppur con qualche cautela, là dove essa non contrasti con l’esigenza di protezione
dei minori o comunque dei soggetti più deboli, si afferma con maggior
convinzione».
Ancora
oltre si rimarca che «Come si è detto, l’accordo delle parti in sede di
separazione o di divorzio (e magari quale oggetto di precisazioni comuni in un
procedimento originariamente contenzioso) ha natura sicuramente negoziale, e
talora da vita ad un vero e proprio contratto. Ma, anche se esso non si
configurasse come contratto, all’accordo stesso sarebbero sicuramente
applicabili alcuni principi generali dell’ordinamento come quelli attinenti
alla nullità dell’atto o alla capacità delle parti, ma pure alcuni più
specifici (ad es. relativi ai vizi di volontà, del resto richiamati da varie
norme codicistiche in materia familiare dalla celebrazione del matrimonio al
riconoscimento dei figli nati fuori di esso) (al riguardo, ancora, Cass. n.
17607 del 2003). (…). Ove l’accordo (o il contratto) sia nullo, tale nullità
potrebbe essere fatta valere da chiunque vi abbia interesse, e dunque anche da
chi abbia dato causa a tale nullità. Ed esso potrebbe essere oggetto di
annullamento da parte del soggetto incapace o la cui volontà risulti viziata (ad
es. da un errore pure sulla sussistenza dell’interesse del minore, ma si
dovrebbe ricordare che se nell’accordo sia preminente una causa transattiva,
non rileverebbe ai sensi dell’art. 1969 c.c., errore di diritto). Ma nullità o annullamento
non potrebbero costituire motivo di impugnazione dei soggetti dell’accordo da
cui essi sono vincolati, ma dovrebbero essere fatti valere in un autonomo
giudizio di cognizione (In termini generali n. 17607 del 2003)».
Altro
rilevantissimo endorsement della tesi
che si pone alla base della teoria sui contratti della crisi coniugale è
senz’altro venuta, sempre nel corso del citato anno 2014, dalla riforma che ha
introdotto la c.d. «negoziazione assistita» (cfr. gli artt. 6 e 12, d.l. 12
settembre 2014, n. 132, convertito con modifiche in l. 10 novembre 2014, n. 162).
La novella si caratterizza per una sua carica «desacralizzante» dell’intervento
giurisdizionale (in buona sostanza, puramente e semplicemente messo da parte
nella maggior parte delle ipotesi). Dato, questo, cui vanno aggiunti, da un
lato, l’approvazione del c.d. divorzio breve (cfr. l. 6 maggio 2015, n. 55),
con la sostanziale deminutio del
ruolo concreto delle procedure separatizie nel contesto della crisi coniugale, e,
dall’altro, la riforma sulle unioni civili, le convivenze di fatto e,
soprattutto, i contratti di convivenza (cfr. l. 26 maggio 2016, n. 76): novità,
queste, idonee a sensibilizzare l’opinione pubblica circa la necessità (o,
comunque, l’opportunità) di ricorrere sempre più spesso ad una previa
definizione per via negoziale delle questioni patrimoniali potenzialmente
connesse all’eventuale crisi dei legami affettivi.
Queste
nuove regole, pur se introdotte da interventi caratterizzati da una tecnica
normativa spesso scadente, sono destinate a rivoluzionare il panorama dei
rapporti tra autonomia negoziale e diritto di famiglia. Esse, del resto, erano
state precedute da intensi dibattiti dottrinali che negli anni immediatamente
precedenti avevano visto una ripresa d’attenzione da parte degli Autori
favorevoli all’espansione della negozialità, mediante approfondimenti di temi
di carattere generale, quali, per esempio, quello dei rapporti tra autonomia
privata e «causa familiare» [105] o tra autonomia
privata e potere di disposizione nei rapporti familiari in genere [106] , oppure sui «contratti della crisi coniugale» [107] , ovvero attraverso studi settoriali, quali quelli
sulle convenzioni preventive di separazione, di divorzio e di annullamento del
matrimonio [108] , sulla disponibilità dell’assegno ex art.
Si
noti, tanto per portare un altro caso concreto, che le esigenze di
determinazione e predeterminazione della sorte dei rapporti patrimoniali all’interno
delle famiglie giungono a lanciare fremiti d’agitazione persino in un settore
del diritto civile tradizionalmente ritenuto «tranquillo», quale quello delle
successioni per causa di morte, alimentando un rilevante movimento d’opinione –
a livello sia di teoria che di prassi – in senso favorevole all’abolizione del
divieto dei patti successori [114] , anche sulla scia delle innovazioni apportate dallo
stesso legislatore mediante l’introduzione del patto di famiglia [115] .
7. La natura contrattuale delle convenzioni matrimoniali.
Volgendo
ora lo sguardo al precipuo tema dell’autonomia negoziale dei coniugi nel
contesto dei loro rapporti patrimoniali nella fase, per così dire, fisiologica
del legame, va subito constatato che il discorso viene inevitabilmente a cadere
sul tema dei regimi patrimoniali della famiglia, disciplinati agli artt. da
Iniziando,
dunque, da queste ultime, occorrerà prendere le mosse dalla definizione
dell’istituto, posto che proprio da essa potranno ricavarsi utili indicazioni
circa gli spazi di autonomia che l’ordinamento concede alle parti nella
regolamentazione dei profili patrimoniali dell’unione coniugale. Al riguardo va
subito constatato che invano si ricercherebbe nel codice una chiara definizione,
assente non solo nella legislazione vigente, bensì anche in quelle che l’hanno
preceduta (cfr. artt. 159 ss. c.c. 1942; 1378 ss., 1384 c.c. 1865; 1508 ss.,
1515 c.c. alb.). Una precisa indicazione al riguardo è stata però fornita con
l’introduzione, ad opera della riforma del 1975, dell’attuale versione
dell’art. 159 c.c., secondo cui «Il regime patrimoniale legale della famiglia,
in mancanza di diversa convenzione stipulata a norma dell’art. 162, è
costituito dalla comunione dei beni regolata dalla sezione III del presente
capo». Dunque, la convenzione matrimoniale viene qui indirettamente definita
come la fonte di regimi patrimoniali diversi da quello legale [117] .
Le
considerazioni di cui sopra, sebbene di un certo rilievo per le conseguenze che
– come si vedrà in prosieguo – se ne potranno trarre, non forniscono però
ancora una spiegazione esaustiva sulla natura delle convenzioni matrimoniali,
né sui rapporti tra tale figura ed il paradigma contrattuale. Invero, la
nozione di convenzione richiama immediatamente quella di accordo e questa,
vertendosi in materia di rapporti giuridici patrimoniali, quella di contratto (art.
1321 c.c.). Il dibattito dottrinale sulla natura contrattuale delle convenzioni
matrimoniali vede senz’altro prevalere la tesi affermativa [118] ,
pur non facendo difetto, nelle posizioni degli autori, svariate nuances. Così il richiamo – anche sul
piano terminologico – al concetto di «convenzione» consentirebbe, secondo
taluno, di ravvisare, quale categoria di riferimento, quella di negozi idonei a
incidere su valori che «certamente trascendono le dimensioni dell’individuo»,
pur collocandosi comunque nel più ampio ambito contrattuale. La conseguenza
sarebbe dunque data dal fatto che a tali figure si applicherebbero «regole
speciali, deroganti alle corrispondenti norme generali, e solo in via
sussidiaria a queste ultime» [119] .
Sotto
un altro profilo, si è sottolineata la differenza che, rispetto al contratto,
sarebbe data dal carattere «programmatico» tipico della convenzione [120] ,
carattere che peraltro non contraddistingue necessariamente ogni aspetto
dell’istituto [121] e che comunque non appare incompatibile con il
paradigma contrattuale [122] .
Qualcuno, poi, ha ritenuto dover riscontrare un elemento di diversità rispetto
alla fattispecie descritta dall’art. 1321 c.c. in considerazione del
particolare oggetto dell’intesa che, nelle convenzioni matrimoniali, sarebbe
dato non già da «un rapporto giuridico patrimoniale», bensì «dalla complessa
situazione giuridica, che compete normativamente ai coniugi nel campo delle
relazioni patrimoniali con i terzi» [123] ,
quasi che la complessità di una data situazione e le sue ricadute nei confronti
dei terzi potessero in qualche modo compromettere il carattere intimamente
giuridico (oltre che patrimoniale) degli svariati rapporti che la compongono.
Dell’irrilevanza dell’utilizzo del termine
«convenzione» (anziché «contratto») nella materia in esame s’è già detto [124] .
Sarà appena il caso di aggiungere che nessun argomento in senso contrario alla
tesi qui sostenuta può essere ricavato dalla collocazione della materia in
esame, operata dal codice del
La
dottrina sottolinea comunque giustamente il carattere personalissimo del
negozio, attesa la sua stretta correlazione con il matrimonio, ciò che dovrebbe
impedirne la conclusione a mezzo di rappresentante [128] ,
consentendo, quale unica forma di sostituzione personale, quella del nuncius [129] . La citata natura personale sembrerebbe del resto confermata dall’art.
165 c.c., che concede al minore la capacità di concludere tutte le relative
convenzioni matrimoniali nelle forme di assistenza (e non già di rappresentanza)
ivi previste. La disposizione potrebbe allora forse considerarsi espressione
del principio generale secondo cui non è ammessa la stipulazione di negozi di
diritto familiare a contenuto patrimoniale senza la partecipazione diretta dei
soggetti che devono risentirne gli effetti [130] .
Peraltro, riflessioni più recenti ed approfondite consentono di contestare
siffatti risultati e di pervenire così alla conclusione favorevole alla stipula
per mezzo di rappresentante (sia volontario che legale) anche di siffatto tipo
di negozi [131] .
Per
il resto non sembrano comunque sussistere ostacoli alla tendenziale
applicazione delle disposizioni codicistiche della parte generale del
contratto: dalla causa, alla condizione [132] ,
agli elementi accidentali, all’interpretazione, alle cause di nullità e di
annullabilità [133] .
All’esaltazione
del carattere contrattuale delle convenzioni matrimoniali aveva già contribuito
[134] ,
prima ancora del riformatore del 1975, la Corte costituzionale che, in un suo
intervento risalente al 1970 [135] ,
aveva dichiarato in contrasto con gli artt. 3 e 24 Cost. l’art. 164, primo
comma, c.c. per la parte in cui – in deroga alle regole comuni in materia di
simulazione – non consentiva la prova della simulazione ai terzi, in tal modo
stigmatizzando, nella maniera più evidente, «la disparità di trattamento
istituita tra i contratti in genere e le convenzioni matrimoniali in specie» e
consentendo all’interprete di ritenere che «anche in futuro le regole
specifiche, destinate alle convenzioni patrimoniali tra coniugi, e divergenti
dalle regole comuni sui contratti, potranno subire più o meno penetranti
sindacati di costituzionalità» [136] .
La
formulazione odierna dell’art. 164 [137] ,
se da un lato risolve ogni dubbio (peraltro non più ammesso dopo la citata sentenza)
circa la legittimazione dei terzi a far valere la nullità per simulazione delle
convenzioni matrimoniali, solleva d’altro canto un grave problema in ordine ai
mezzi con i quali ai terzi è consentito fornire tale prova. Il secondo comma,
infatti, potrebbe essere inteso come l’espressione dell’intenzione del
legislatore di consentire la prova della simulazione solo a mezzo di
«controdichiarazioni scritte», per lo meno nel caso in cui il processo vertesse
tra un terzo ed un partecipe della convenzione [138] .
La conclusione viene però scartata dalla dottrina, che sottolinea come i terzi
– intendendosi per tali sia i creditori che gli aventi causa a titolo
particolare – possano dimostrare la simulazione con ogni mezzo, ivi compresa la
prova per testi o presunzioni, esattamente come disposto dall’art. 1417 c.c. in
materia contrattuale [139] .
La disposizione di cui al capoverso dispiega dunque effetto nei soli rapporti
tra le parti, nel senso che la controdichiarazione scritta (la cui esistenza i
terzi potrebbero provare con ogni mezzo) avrà valore tra di esse unicamente se
fatta con la presenza ed il simultaneo consenso di tutte le persone che sono
state parte delle convenzioni matrimoniali [140] .
La legge parla di controdichiarazioni scritte,
senza richiedere la forma dell’atto pubblico. Rimane dunque il problema di
sapere se attribuire rilevanza (sempre e solo, beninteso, tra le parti) alle
controdichiarazioni per scrittura privata all’esclusivo fine di disapplicare le
convenzioni simulate, ovvero anche applicare le nuove e diverse convezioni che
eventualmente risultassero dissimulate, con il rischio di attribuire valore di
convenzioni a stipulazioni non contratte per atto pubblico [141] .
E’ dubbio, infine, se all’ipotesi della domanda di accertamento della simulazione
proposta da una delle parti si applichi la deroga alla limitazione dei mezzi di
prova sancita dalla norma generale in materia di contratti (art. 1417 c.c.) per
il caso di simulazione illecita [142] .
Ulteriore
conferma della natura contrattuale delle convenzioni matrimoniali è desumibile
dalla disciplina dell’incapacità.
Al riguardo il
codice contiene due distinti articoli. Il primo di essi (art. 165 c.c.) si
occupa della posizione del minore, prevedendo il già ricordato principio che
trova riflesso nel noto brocardo secondo cui habilis ad nuptias, habilis ad
pacta nuptialia [143] .
Il minore ammesso a contrarre matrimonio, ancorché non emancipato, manifesta
qui personalmente la propria volontà, con l’assistenza (e non già a mezzo della
rappresentanza) dei genitori esercenti la potestà, ovvero del tutore o del
curatore speciale [144] ,
senza necessità di autorizzazione giudiziale [145] .
La regola vale anche per la scelta del regime di separazione compiuta nell’atto
di matrimonio [146] ,
posto che tale scelta altro non è se non una convenzione matrimoniale [147] .
Il favor nei confronti della conclusione di convenzioni matrimoniali non
potrebbe dunque essere più evidente, implicando a tali fini una vera e propria
anticipazione dell’emancipazione [148] .
Dopo la celebrazione delle nozze il minore si trova ad essere di diritto
emancipato (art. 390 c.c.). Questa situazione gli consente di stipulare
direttamente e personalmente convenzioni matrimoniali, sia pure con
l’assistenza del curatore [149] .
Non è però richiesta alcuna autorizzazione giudiziale, avendo il minore, già
per effetto dell’ammissione al matrimonio, acquisito la speciale capacità di
stipulare convenzioni matrimoniali [150] .
Del resto, non vi è dubbio che se qui si richiedesse l’autorizzazione si
darebbe luogo ad una disparità di trattamento del tutto ingiustificata rispetto
alla situazione del minore che non abbia ancora contratto matrimonio [151] .
L’articolo
166 c.c. si occupa invece della situazione dell’inabilitato, nonché di quella
del soggetto contro cui sia stata proposta domanda di inabilitazione. In
relazione all’inabilitato la disposizione risulta sostanzialmente ripetitiva di
quanto già previsto in linea generale dalla normativa in materia di
semi-incapaci, così confermando, ancora una volta, la collocazione della
fattispecie nell’ambito della materia contrattuale. Peraltro, sulla base del
raffronto con il principio desumibile per il minore dall’art. 165 c.c. occorre
concordare con quella dottrina che ritiene non necessaria l’autorizzazione
giudiziale [152] .
Per
quanto concerne invece l’interdetto per infermità mentale si ritiene che il
silenzio della legge al riguardo denoti una conferma da parte del legislatore
del principio secondo cui, in relazione ai negozi di carattere personale, non è
ammessa alcuna forma di sostituzione, né in vista di un futuro matrimonio, da
celebrarsi dopo la revoca dell’interdizione, né dopo le nozze, per passare da
uno all’altro regime patrimoniale [153] .
La soluzione può darsi per sicura in relazione al caso di stipula che si
vorrebbe compiere ante nuptias.
Perplessità sono invece state espresse per il caso di convenzioni da stipularsi
in costanza di matrimonio [154] ,
specie avuto riguardo al fatto che la sentenza di interdizione legittima a
domandare la separazione giudiziale dei beni (art. 193 c.c.): non si comprende
pertanto per quale motivo dovrebbe pervenirsi a tale risultato unicamente per
via contenziosa [155] .
Per quanto attiene poi all’interdicendo, relativamente alla fase di pendenza
del giudizio anteriormente alla eventuale nomina di un tutore provvisorio, si
discute se sia analogicamente applicabile la regola dettata dalla norma in
commento [156] .
In senso negativo sembra comunque valere il rilievo che le disposizioni in tema
di incapacità di agire hanno natura eccezionale [157] .
Dubbi
sussistono altresì in relazione alla posizione dell’interdetto legale. Secondo
una prima serie di autori tale soggetto, potendo liberamente contrarre
matrimonio, sarebbe ammesso alla stipula di convenzioni matrimoniali, che
dovrebbero però essere per lui concluse dal suo legale rappresentante [158] .
D’altro canto, negare a questo soggetto la possibilità di contrarre convenzioni
matrimoniali significherebbe applicargli un effetto sanzionatorio che non può
desumersi da alcuna norma precettiva [159] ,
mentre la situazione contraria appare sicuramente più consona al clima che ha
ispirato l’eliminazione della sanzione della perdita della capacità di testare
per il condannato all’ergastolo (art.
9. Convenzioni matrimoniali, contratto
di matrimonio e regimi patrimoniali.
Rimanendo
per un momento sul piano terminologico, notiamo che il legislatore continua ad
impiegare, ancorché non nell’art. 159 c.c., l’espressione «contratto di
matrimonio» (cfr. artt. 166, 774, primo comma, c.c.,
Ma, a ben vedere, lo stretto legame esistente
tra le figure della convenzione matrimoniale, da un lato, e dei regimi
patrimoniali «eccezionali», dall’altro, non va esente da contraddizioni e
perplessità. Se infatti è innegabile che la separazione dei beni trovi la sua
origine in una apposita convenzione, va constatato che l’art. 228, primo comma,
l. 19 maggio 1975, n.
Peraltro,
con le precisazioni e le limitazioni testé apportate e in considerazione
dell’interpretazione restrittiva del concetto di convenzione matrimoniale sopra
indicata, è oggi certa la risposta negativa circa la riconducibilità a tale
categoria delle donazioni obnuziali, così come di tutti quegli atti che,
sebbene obnuziali, cioè compiuti in contemplazione causale di un determinato
matrimonio (come potrebbero essere mandati o contratti sociali), non abbiano
per oggetto la scelta di un regime patrimoniale della famiglia, ma si
riferiscano a specifici beni o rapporti [167] .
Lo stesso deve valere per quegli atti con cui i coniugi decidono di immettere
nella – o di estromettere dalla – comunione legale singoli beni determinati [168] ,
cui va pertanto negata la natura di convenzione matrimoniale.
Tutti
questi negozi tra coniugi non costituenti convenzioni matrimoniali ben potranno
essere inseriti nel «contratto di matrimonio», modificati e risolti in ogni
tempo, secondo le regole proprie dei vari tipi di contratto. A quelli testé
citati andranno aggiunte, ovviamente, le donazioni (non obnuziali), non più
colpite – come noto – dal secolare divieto di liberalità tra coniugi, così come
qualsiasi tipo di contratto a titolo gratuito o oneroso. Per quanto riguarda in
particolare le liberalità si dovrà poi tenere conto della possibilità che
determinate convenzioni possano contenere vere e proprie donazioni indirette,
come verrà illustrato in seguito [169] .
Sempre in tema di contenuto delle convenzioni matrimoniali potranno ancora
aggiungersi i patti relativi all’assunzione degli obblighi contributivi,
sicuramente ammissibili alla luce del disposto dell’art. 144 c.c. [170] .
10. Il problema del trust familiare. Il dibattito sull’ammissibilità di un trust «interno».
Rimanendo
nell’argomento della parte generale degli accordi inter coniuges diretti a regolamentare la contribuzione al ménage familiare è d’uopo effettuare un
accenno al trust e al vincolo di destinazione
ai sensi dell’art. 2645-ter c.c.,
tanto più che, proprio in virtù del principio di atipicità delle convenzioni
matrimoniali, anche gli accordi tra coniugi (ed oggi anche tra persone
civilmente unite) diretti alla costituzione di siffatti vincoli ben potrebbero
rientrare nella nozione di convenzione matrimoniale, come verrà chiarito meglio
in seguito.
Quanto
al primo istituto [171] ,
va subito detto che non è certo questa la sede in cui affrontare i persistenti,
seri, dubbi circa l’ammissibilità nel nostro ordinamento della creazione di un trust c.d. interno, sulla base della
Convenzione internazionale dell’Aja del 1985 [172] , ratificata dall’Italia con l. 16 ottobre 1989, n.
364 (entrata in vigore il 1° gennaio 1992) [173] . Sono note, del resto, le questioni poste dai
rapporti dell’istituto in esame con il disposto dell’art. 2740 c.c., con il
principio del numerus clausus dei
diritti reali, con quello della tassatività delle ipotesi in cui è consentito
creare enti dotati di autonomia patrimoniale, con quello della tassatività
delle fattispecie soggette a trascrizione, o al profilo di un’eventuale
antiteticità rispetto all’art. 2744 c.c., in relazione alla possibilità di
costituire, tramite trust, nuovi
meccanismi di garanzia, alla potenziale frizione con i principi del nostro
sistema successorio, pur nell’àmbito delle clausole c.d. di salvaguardia di cui
agli artt. 15 ss. della Convenzione: si pensi, in particolare, al divieto dei
patti successori [174] e di
sostituzione fedecommissaria [175] , all’inapponibilità di pesi e condizioni sulla
legittima e, più in generale, alle norme a tutela della successione necessaria [176] .
Questi
temi hanno scatenato, come ampiamente risaputo, furibondi dibattiti dottrinali,
sui quali – attesa anche la sconfinata quantità di contributi al riguardo [177] – non è
possibile qui soffermarsi [178] . Basti solo dire, che, a ben vedere, la vera
difficoltà sembra essere quella di estrapolare da norme tipicamente di
conflitto, quali quelle di cui alla citata convenzione dell’Aja, una regola di
diritto interno, applicabile ai casi in cui non siano prospettabili collisioni
tra diversi ordinamenti [179] . In proposito sarà sufficiente ricordare, a conferma
dei dubbi sull’accettabilità della tesi che asserisce la validità dei trusts ‘interni’, che proprio quei
lavori preparatori della Convenzione cui i fautori di tale opinione fanno
richiamo [180] contengono, in
realtà, il chiaro riferimento al potere del giudice di dichiarare la nullità di
un trust «parce qu’il estime qu’il s’agit d’une situation interne» [181] . Per giunta, proprio tali lavori preparatori rendono
evidente come l’intenzione dei redattori non sia mai stata quella di apprestare
norme di diritto materiale uniforme per paesi che, come il nostro, non
conoscevano l’istituto del trust [182] .
A
ciò s’aggiunga che nemmeno l’argomento [183] fondato sulla
disparità di trattamento ingenerata dalla soluzione che non ammette il trust ‘interno’ rispetto alle situazioni
caratterizzate da un obiettivo elemento di estraneità (nelle quali non vi è
dubbio che la validità del trust debba
essere riconosciuta) appare del tutto convincente. Sembra infatti a chi scrive
che scopo delle norme di diritto internazionale privato sia (e si perdoni
l’apparente paradosso) proprio quello di ‘creare’ disparità di trattamento, al
fine di adattare la soluzione alle peculiarità di una fattispecie
obiettivamente caratterizzata da elementi di estraneità e dunque concretamente
diversa da quella in cui tali elementi di estraneità sono assenti. In altre
parole, è proprio l’eventuale presenza di elementi di estraneità ‘oggettivi’ (e
dunque distinti dal mero capriccio delle parti) ad imporre (ai sensi del 28,
anziché del 1° co., dell’art. 3 Cost.) un trattamento differenziato di
situazioni obiettivamente diversificate. D’altro canto, sarà sufficiente
riflettere sul fatto che l’argomento fondato sulla disparità di trattamento,
ove spinto alle sue estreme conseguenze, porterebbe puramente e semplicemente
all’inaccettabile risultato di una declaratoria di incostituzionalità di tutte
le norme di diritto internazionale privato [184] .
Ciò
premesso, va dato comunque atto della circostanza che il ‘diritto vivente’ si
sta comunque orientando verso un uso sempre più diffuso nel trust pure nell’ambito familiare [185] , anche sulla scorta di talune pregevoli opere di
orientamento delle prassi notarili verso la redazione di clausole che, pur se
tratte da esperienze straniere, appaiano rispettose dell’«ambiente» normativo
nel quale vengono trapiantate [186] . Ulteriori argomenti in favore della validità del trust interno sono stati portati dalla
riforma del 2016 sul c.d. «dopo di noi» (l. 22 giugno 2016, n. 112), anche se
tale normativa, curiosamente, pur dando per scontato che il trust sia, di per sé, ammissibile (ciò
che, ovviamente, nessuno pone in contestazione), non sembra prendere posizione
sul tema specifico del trust interno,
ben guardandosi, oltre tutto, dal dettare principi idonei a consentire
un’armonizzazione delle regole derivanti dall’applicazione del richiamato
diritto straniero con quelle con esse difficilmente compatibili dettate dal
diritto interno.
Certamente,
nel senso della validità del trust
interno vanno orientandosi, larga parte della dottrina e della giurisprudenza
più recenti [187] , sebbene proprio in talune delle decisioni di merito
più vicine nel tempo debba registrarsi una vera e propria «ribellione» alla
tesi che ormai va per la maggiore. Siffatta resistenza ha suscitato, nei
fautori della tesi della validità, reazioni e toni di asprezza paragonabile
solo a quella che era propria dei sostenitori della tesi contraria, allorquando
l’idea del «trust tricolore» era
vista come una stravaganza [188] . Inutile dire che la Cassazione, a ben vedere, non è
si mai espressa funditus sul tema,
dando invece per scontato la validità di siffatto tipo di trust, ma senza rispondere mai al fondamentale interrogativo sul
perché mai una convenzione di diritto internazionale privato dovrebbe essere
letta alla stregua di una convenzione di diritto materiale uniforme.
Così
pure l’attenzione con cui la legislazione fiscale ha guardato al fenomeno (da
ultimo cfr. le disposizioni di cui alla l. 22 giugno 2016, n. 112) non fornisce
ancora base sufficiente all’ammissibilità civilistica dell’istituto. Lo stesso
è a dirsi per il contratto c.d. di affidamento fiduciario, rispetto al quale,
addirittura, nessuna norma del vigente ordinamento prevede l’effetto
segregativo del patrimonio: effetto che, alla luce del disposto dell’art. 2740
c.c., solo un atto avente forza di legge (certo non l’autonomia contrattuale)
può stabilire [189] .
In
ogni caso, è chiaro che le disposizioni della Convenzione trovano sicura
applicazione da noi in relazione alle fattispecie di trusts caratterizzati dall’effettiva presenza di un elemento di
estraneità; situazioni, queste ultime, di cui la giurisprudenza ha già avuto
modo di occuparsi [190] .
Siffatto
innesto non è peraltro senza conseguenze, avuto riguardo alla necessità,
espressa dallo stesso art. 15 della Convenzione, di rispettare le norme
inderogabili dell’ordinamento designato dalle regole di conflitto del foro, con
la conseguenza che, in tutte le situazioni «interne», in cui la legge italiana
appare applicabile ai sensi dell’art.
Rinviando ad altre sedi la trattazione dei profili
generali sopra indicati [191] , va detto che, nello
specifico settore dei rapporti personali e patrimoniali tra coniugi (e con la
prole), l’art. 15 della citata Convenzione stabilisce che «La Convention ne
fait pas obstacle à l’application des dispositions de la loi désigné e par les
règles de conflit du for lorsqu’il ne peut être dérogé à ces dispositions par
une manifestation de volonté, notamment dans les matières suivantes: a) la protection des mineurs et des
incapables; b) les effets personnels
et patrimoniaux du mariage». Ai sensi di
questa disposizione, la legge del trust cede
non alla legge del foro (protetta dagli artt. 16 e 18), ma alle disposizioni
della legge, straniera o meno, indicata dalle regole di conflitto del foro.
Orbene, nel caso di specie, le regole di conflitto italiane, in materia di
rapporti patrimoniali tra coniugi, designano in primo luogo, quale legge
applicabile, quella «nazionale comune» (cfr. art.
Partendo
dunque dal presupposto che la coppia coniugata sia composta da due cittadini
italiani, è alle norme imperative dettate dal codice civile italiano in tema di
rapporti patrimoniali tra coniugi che andrà fatto riferimento. Al riguardo il
nostro ordinamento prevede limiti all’autonomia negoziale nelle disposizioni di
carattere generale contenute agli artt. 160, 161, 162 e 166 bis c.c. A tali ostacoli vanno ancora
aggiunti quelli stabiliti in relazione a ciascuno dei tipi di convenzione: il
caso più evidente è quello contemplato dall’art. 210, 3° co., c.c., in cui il
legislatore menziona espressamente il carattere inderogabile di determinate
disposizioni in materia di comunione legale.
Tra
i limiti in esame all’autonomia negoziale dei coniugi occorre menzionare in
primo luogo quello che pone il divieto di costituzione, sotto ogni forma, di
beni in dote (art. 166 bis c.c.), con
riguardo al quale la dottrina concorda nell’affermare che la regola in oggetto
pone uno specifico limite all’autonomia negoziale dei coniugi in sede di
pattuizione delle convenzioni matrimoniali diretto ad impedire, attraverso il
collegamento con gli artt. 1344 e 1418 c.c., che l’effetto proprio della dote
venga realizzato attraverso un contratto in frode alla legge.
Una
volta definita la dote come quella convenzione che attribuisce ad un coniuge –
indipendentemente dal fatto che sia il marito o la moglie – una posizione di
supremazia rispetto all’altro, conferendogli il potere di amministrare e
gestire beni nei confronti dei quali egli non vanti alcun diritto reale, appare
piuttosto evidente come, mercé la stipula di un trust, si potrebbe dar luogo ad apporti patrimoniali di provenienza
di un coniuge (o della sua famiglia), nella veste di costituente, in favore
dell’altro (nella veste di trustee),
con conferimento di potere di amministrazione esclusivo in capo a quest’ultimo,
con vincolo di utilizzo e destinazione ad
onera matrimonii ferenda, con divieto di alienazione dei cespiti
‘segregati’ ed obbligo di restituzione per il caso di separazione legale o
scioglimento del vincolo matrimoniale. In questa fattispecie appare
difficilmente contestabile l’operatività, anche in relazione ad un ipotetico trust ‘interno’, della norma codicistica
citata, proprio per effetto del rinvio di cui all’art. 15, lett. b), della Convenzione dell’Aja alle
disposizioni inderogabili relative agli «effets personnels et patrimoniaux du
mariage», disposizioni inderogabili, tra le quali dovrebbe sicuramente
rientrare anche l’art. 166 bis c.c.
nel caso in cui, come si è detto, entrambi i coniugi siano cittadini italiani,
ovvero ogniqualvolta, per effetto dell’art.
Trattando
di altri possibili limiti va detto che il principio posto dall’art. 160 c.c.
vale a rendere inderogabili i doveri di contribuzione ex art. 143, 3° co., c.c. e di mantenimento dei figli, ex artt. 147, 148 c.c. D’altro canto non
vi è dubbio che, nelle ipotesi e nei limiti in cui si ammetta la costituzione
in Italia di un trust, quest’ultimo
ben potrebbe essere impiegato per adempiere ai doveri testé citati. Nel caso di
applicabilità del diritto italiano per effetto del disposto dell’art.
La
constatazione sembra così confortare ulteriormente la conclusione secondo cui
il rinvio ad una legge straniera che conosce i trusts è ammissibile solo in presenza di un oggettivo elemento di
estraneità. In ogni caso andrà aggiunto che, anche volendo ammettere in
generale la possibilità di costituire trusts
‘interni’, nella specifica ipotesi di costituzione tra coniugi cittadini
italiani, ovvero nel caso in cui comunque le regole di conflitto dovessero
‘puntare’ verso la legge italiana, occorrerebbe (per evitare di incorrere negli
strali dell’art. 161 c.c.) quanto meno riportare per esteso nell’atto
costitutivo del trust le disposizioni
della legge straniera richiamata.
Venendo
ora a dire dei limiti ex artt.
162-166 c.c. all’autonomia negoziale dei coniugi, potrà dirsi che, esclusi i trusts costituiti in relazione alla
crisi coniugale ed i c.d. trusts ‘autodichiarati’
(cioè costituiti sulla base di una unilaterale dichiarazione del costituente),
sembra possibile riconoscere nel trust gli
estremi di una convenzione matrimoniale, come tale sottoposta alle inderogabili
norme di cui agli artt. 162 ss. c.c., allorquando esso venga a costituire un
vero e proprio regime patrimoniale della famiglia.
È
noto infatti che [192] la libertà negoziale
dei coniugi può spingersi a creare regimi patrimoniali atipici. Ora, se è vero
che per regime patrimoniale deve intendersi non solo l’insieme delle regole che
precostituiscono la sorte di una serie indeterminata d’acquisti (determinabili
unicamente ex post), compiuti dai
coniugi, bensì anche l’insieme di quelle regole che precostituiscono (e qui il
fondo patrimoniale docet) l’eventuale
separazione patrimoniale di una certa massa determinata di beni apportati ad onera matrimonii ferenda, oltre che le
norme per la loro amministrazione ed alienazione, si può agevolmente
comprendere come anche il trust,
ancorché avente ad oggetto una massa determinata di beni, possa ricadere in
tale categoria. In conclusione sul punto dovrà dunque dirsi che, nell’ipotesi
appena delineata (di «segregazione», cioè, di beni di uno o dell’altro dei
coniugi, destinati a sostenere gli oneri del matrimonio e ad essere
amministrati dal trustee secondo regole predeterminate dal settlor nell’interesse della famiglia), l’atto costitutivo del trust andrà considerato alla stregua di
una convenzione matrimoniale, con tutto ciò che ne consegue in tema di forma,
pubblicità, simulazione, capacità e quant’altro disposto dagli artt. da
12. Convenzioni matrimoniali, matrimonio
e crisi coniugale.
Neppure
l’evidente legame che sussiste tra la convenzione matrimoniale ed il
matrimonio, inteso sia come atto che come rapporto, appare idoneo a scalfire la
natura contrattuale della prima. Per approfondire questo aspetto andrà tenuto
presente, in primo luogo, che le convenzioni matrimoniali poggiano
sull’evidente presupposizione della celebrazione delle nozze e/o della persistenza
del vincolo matrimoniale. Per quanto attiene al primo profilo (rapporti tra
convenzioni matrimoniali e matrimonio inteso come negozio giuridico), andrà
detto che le convenzioni possono stipularsi sia prima che dopo la celebrazione
delle nozze. Le prime (convenzioni prenuziali o ante nuptias) presuppongono pur sempre la contemplazione di un
matrimonio determinato, nel senso che debbono essere note, al momento della
loro conclusione, le persone dei nubendi: è nulla quindi la convenzione in
vista del futuro ed eventuale matrimonio di un infante [194] .
Contestabile sembra invece l’affermazione secondo cui la stipula di una
convenzione matrimoniale presupporrebbe sempre l’intervenuto scambio della
promessa di matrimonio [195] .
Se infatti l’analisi storica dimostra che un tempo la menzione dell’intervenuto
scambio della reciproca promessa di matrimonio compariva immancabilmente, a mo’
di preambolo, nei contratti di matrimonio (scritte nuziali, capitoli
matrimoniali, costituzioni dotali [196] ),
oggi può forse dirsi, rovesciando l’impostazione precedente, che l’interprete è
autorizzato a desumere l’esistenza di una situazione rilevante ex artt. 79 ss. c.c. sulla base del
fatto che i contraenti si siano rivolti al notaio per la stipula di una
convenzione matrimoniale, manifestando così nella maniera più inequivocabile
l’esistenza di un reciproco impegno di contrarre le nozze. La conclusione
dovrebbe, ovviamente, mutare qualora i contraenti facessero ricorso ad
espressioni tali da indurre a ritenere che essi non hanno ancora inteso
assumere un impegno al riguardo (neppure ai limitati effetti disciplinati dalle
norme in tema di promessa di matrimonio), ma che hanno semplicemente voluto –
con una sorta di «contratto normativo», se ci si passa l’espressione –
disciplinare il regime patrimoniale di una loro futura eventuale unione
coniugale.
L’efficacia
della convenzione prenuziale è naturalmente subordinata alla celebrazione delle
nozze (arg. ex art. 785 c.c.), che ne
viene così a costituire una condicio
iuris [197] ,
ma alla quale non può applicarsi il disposto dell’art. 1359 c.c., allorquando
uno dei nubendi, senza giusto motivo, rifiuti di ottemperare alla promessa di
matrimonio, per il riconoscimento che si deve alla libertà matrimoniale [198] .
La dottrina ammette pure l’apponibilità di condizioni sospensive e di termini
iniziali, anche in considerazione della regola generale, adottata dalla riforma
del 1975, della mutabilità delle convenzioni [199] ,
nonché, se la convenzione contiene una liberalità, la previsione di un modo [200] .
Sembra però evidente la necessità di accertare, caso per caso, che la
prefissione di un termine o di una condizione non venga a porsi in contrasto
con principi inderogabili: così non sarebbe possibile la previsione di un
termine iniziale o di una condizione sospensiva tali da rendere una convenzione
prenuziale efficace prima della celebrazione del matrimonio. Secondo parte
della dottrina andrebbe comunque esclusa la apponibilità di un termine finale e
di una condizione risolutiva, in quanto si violerebbe in tal modo la regola
della tassatività delle cause di scioglimento delle convenzioni [201] .
Ma, tale presunta tassatività – indiscutibile nel campo del regime legale, in
relazione all’art. 191 c.c. [202] – rimane ancora tutta da dimostrare con
riguardo ai regimi convenzionali, specie di fronte alla regola della atipicità
che, come si vedrà, governa la materia in esame. D’altro canto, altro è norma
tassativa (con ciò volendosi esprimere un vincolo per l’interprete), altro è
norma inderogabile (con ciò volendosi esprimere un vincolo alla libertà
negoziale dei paciscenti). E così anche questo ulteriore profilo di
contrattualità viene ad inserirsi nel panorama degli elementi che
caratterizzano l’autonomia negoziale dei coniugi.
Prima
della riforma del 1975 si riteneva che la validità delle convenzioni fosse
collegata strettamente a quella del matrimonio, e si invocava al riguardo
l’argomento tratto dall’art. 785 c.c. [203] .
Oggi esiste però una regolamentazione speciale nel campo dei regimi
patrimoniali della famiglia: gli artt. 191 c.c., in relazione alla comunione
legale e 171 c.c., con riguardo al fondo patrimoniale, stabiliscono infatti che
l’annullamento del matrimonio determina la cessazione del regime, con efficacia
ex nunc [204] . Lo scioglimento del vincolo matrimoniale provoca la perdita d’efficacia
delle convenzioni [205] ,
ad eccezione di quanto stabilito per il fondo patrimoniale dall’art. 171 c.c.,
in presenza di figli minori. Per quanto attiene alla separazione personale,
invece, andrà distinto tra fondo patrimoniale (di cui tale evento non determina
lo scioglimento: arg. ex art. 171 c.c.) e comunione convenzionale, cui
andrà applicata la regola posta dall’art. 191 c.c. [206] .
Anche questo peculiare aspetto denota dunque che le convenzioni matrimoniali
vivono, per così dire, una vita per molti aspetti «autonoma» rispetto a quella
del rapporto matrimoniale, ciò che contribuisce inevitabilmente ad esaltare la
natura contrattuale degli istituti in discorso.
Passando
dalla considerazione dei rapporti tra convenzioni ed atto matrimoniale a quella
delle relazioni tra convenzioni e rapporto matrimoniale, va detto che la
giurisprudenza di legittimità ha delimitato i confini dell’istituto in esame
escludendo da tale novero quegli accordi, dall’efficacia tanto reale che obbligatoria,
conclusi in occasione di separazione consensuale, negozi configurati come
contratti atipici, meritevoli di tutela da parte dell’ordinamento giuridico, ex art. 1322 c.c., non in contrasto con
l’ordine pubblico e caratterizzati da una causa loro propria, ben distinta da
quella propria delle convenzioni matrimoniali, le quali postulano «il normale
svolgimento della convivenza coniugale» ed hanno «riferimento ad una generalità
di beni anche di futura acquisizione» e non l’esigenza di assetto dei rapporti
personali e patrimoniali dei coniugi separati [207] .
Anche per i giudici pare dunque assodato che i contratti della crisi coniugale [208] ,
ed in particolare i negozi traslativi di diritti tra coniugi, rimangono
estranei alla tipologia delle convenzioni matrimoniali [209] ,
ancorché le rationes decidendi
s’incentrino talvolta su di un’esaltazione della contrapposizione tra «fase
fisiologica» e «fase patologica» del regime legale [210] ,
talvolta sul carattere «programmatico» delle convenzioni matrimoniali, di
contro a quello attributivo del contratto postmatrimoniale.
In
realtà, a ben vedere, anche una convenzione matrimoniale può inserirsi in un
più ampio accordo teso a disciplinare gli aspetti patrimoniali della crisi
coniugale: si pensi, per esempio, al caso in cui una coppia in regime di
comunione legale decida di separarsi di fatto prevedendo un certo assetto dei
relativi rapporti e optando per il regime di separazione dei beni; oppure si
ipotizzi la costituzione di un fondo patrimoniale tra separati nell’interesse
di figli economicamente non autosufficienti [211] .
D’altro canto, nulla esclude che il contenuto di un accordo postmatrimoniale
abbia anche (o, al limite, esclusivamente, sebbene trattisi di ipotesi quasi di
scuola) un contenuto programmatico. Si pensi all’ipotesi in cui i coniugi,
separandosi, si impegnino – a definitiva regolamentazione dei propri rapporti –
a trasferirsi determinati diritti su certi beni che potrebbero diventare di
loro proprietà (es.: Ti darò la metà degli incassi realizzati dal mio negozio
nei prossimi x anni; ti trasferirò la quota del ...% della proprietà degli
alloggi che acquisterò nel periodo compreso tra il ... e il ... nella città di
...; ecc.). Ciò che, in definitiva, sembra porre un’insormontabile linea di
confine tra convenzioni matrimoniali e contratti della crisi coniugale sembra
costituito – come si è già detto – dall’inidoneità di questi ultimi a porsi
quale fonte di uno dei regimi patrimoniali della famiglia disciplinati agli
artt. 159 ss. c.c. [212] .
13. Convenzioni matrimoniali e autonomia negoziale. L’ammissibilità di regimi patrimoniali atipici.
Discorrendo
della considerazione del rilievo che assume la negozialità nel campo dei
rapporti patrimoniali tra i coniugi ci si imbatte inevitabilmente nel problema
del carattere tipico o meno dei regimi patrimoniali apprestati dal legislatore,
discutendosi al riguardo circa l’esistenza o meno di un numerus clausus
di convenzioni e, conseguentemente, di regimi matrimoniali. In proposito si
erano già pronunziati variamente gli autori in epoca anteriore alla riforma del
1975 [213] ,
mentre la tesi dell’atipicità era stata accolta dalla giurisprudenza [214] .
La
dottrina successiva alla riforma ha, innanzi tutto, posto in luce come il
legislatore del 1975 non abbia accolto la proposta di modifica dell’art. 160
c.c. avanzata dal progetto della sen. Falcucci (art. 36), secondo cui «gli
sposi non possono disporre dei diritti
loro attribuiti dalla legge all’infuori dei casi previsti dalle norme seguenti»
[215] ed abbia anzi respinto un emendamento (proposto
dall’on. Morvidi) del seguente tenore letterale: «ogni convenzione matrimoniale
diversa da quelle espressamente previste dal presente capo è nulla» [216] ,
anche se non sono mancate voci nel senso della tipicità [217] .
Proprio con riguardo all’argomento tratto dai lavori preparatori si è voluto in
dottrina proporre un dubbio da parte di chi – giustamente preoccupato
della necessità di evitare «indebite
trasposizioni di diversi piani concettuali» – si è chiesto se «alla atipicità
della fattispecie possa o no corrispondere la atipicità del rapporto
a questa relativo» [218] .
Ma l’interrogativo, a sommesso avviso dello scrivente, non ha motivo di porsi
nel caso di specie, atteso che l’art. 159 c.c. scolpisce nella maniera più
chiara lo strettissimo legame esistente, nel nostro ordinamento, tra
convenzioni matrimoniali e regimi patrimoniali [219] .
E’
dunque evidente che l’art. 159 c.c., ponendo – come già più volte ricordato –
uno stretto rapporto tra convenzioni matrimoniali e regimi patrimoniali della
famiglia, non stabilisce in alcun modo che le convenzioni debbano essere solo
quelle regolate dalla legge. La possibilità di liberamente conformare il
contenuto di queste ultime discende inoltre dal fondamentale principio scolpito
nell’art. 1322 c.c., applicabile anche alla materia in esame per effetto del
già illustrato carattere contrattuale delle convenzioni e, più in generale,
dell’appartenenza della materia in esame al campo del diritto privato [220] ,
in cui il principio della autonomia negoziale rappresenta la regola e non già
l’eccezione. Ed anzi, proprio il fatto che il legislatore sia intervenuto, nel
campo delle convenzioni, dichiarando di volta in volta nullo questo o quel
patto (si pensi per esempio al divieto ex art. 166-bis c.c.)
consente di desumere a contrariis la regola della generale libertà,
quanto al contenuto, delle medesime [221] .
Le conclusioni di cui sopra sembrano ricevere del resto conferma anche sul
piano di un’indagine estesa ai principi costituzionali, laddove il richiamo
all’art. 1322 c.c. trova il proprio riconoscimento nel fondamentale principio
di cui all’art. 29 Cost. [222] e sono sicuramente confortate dall’indagine
storica [223] ,
così come da quella comparatistica [224] .
Sul
punto rileva poi anche, per il diritto italiano, l’abrogazione del divieto di
donazioni tra coniugi. Come si è rilevato, l’art. 781 c.c. sanciva
semplicemente il carattere inderogabile delle regole legali e convenzionali
sulle relazioni patrimoniali tra coniugi: la sua abrogazione impedisce oramai
di farlo rivivere desumendolo dall’insieme delle norme sul regime patrimoniale
della famiglia [225] .
Accanto
alle convenzioni nominate (fondo patrimoniale, comunione convenzionale,
separazione dei beni) ne andranno pertanto ammesse di atipiche, disciplinate
dagli accordi tra le parti [226] ,
con il rispetto dei limiti posti dalle norme inderogabili e in particolare di
quelli fissati dagli artt. 160, 161, 162, terzo comma, 166-bis, 210,
terzo comma, c.c. [227] .
Dal punto di vista pratico, però, andrà ancora detto che la scelta di fondo
sembra ridursi all’alternativa tra comunione e separazione; e poiché è
difficile ipotizzare una qualche modifica del regime di separazione che non ne
alteri irrimediabilmente i connotati, è solo sul regime comunitario che si può
esercitare la libertà di scelta dei coniugi [228] .
La dottrina ha, invero, giustamente rilevato che, in realtà, i modelli legali finiscono con
l’imporsi nella prassi, quasi a prescindere da più o meno esplicite
comminatorie di inderogabilità, con conseguente scarso rilievo pratico della
questione qui discussa [229] .
Sul tema si avrà ancora modo di tornare con qualche concreto esempio nella
parte del presente lavoro dedicata ai profili di negozialità dei singoli regimi
convenzionali [230] .
14. Convenzioni matrimoniali e autonomia negoziale. La progressiva erosione della sfera di applicabilità
delle regole in tema di forma.
Una
questione che, nel «diritto vivente», sembra assumere un rilievo pratico assai
più pregnante di quella appena illustrata, ponendosi nel contempo quale dimostrazione
dell’estensione che il principio della libertà contrattuale va assumendo in subiecta
materia, concerne la progressiva erosione – sancita, a partire dalla
riforma del diritto di famiglia, da svariate pronunzie di legittimità – della
sfera di applicabilità delle regole formali previste per le convenzioni
matrimoniali dall’art. 162 c.c. [231] .
Si
potrà qui citare, in primo luogo, il rifiuto di riconoscere natura di
convenzione matrimoniale all’accordo con il quale i coniugi in regime legale
attribuiscono ad un bene da acquistarsi natura personale a prescindere dalla
sussistenza di uno dei requisiti ex art. 179 c.c. [232] ,
ovvero al costante disconoscimento del carattere di convenzione all’intesa
diretta a trasferire da un coniuge separando all’altro uno o più cespiti
immobiliari o mobiliari [233] .
A ciò s’aggiunga ancora, con riguardo ad un precedente non troppo remoto, il
caso in cui la Cassazione ha negato che l’accordo intercorso, prima della
riforma del diritto di famiglia del 1975, tra coniugi in regime di separazione
dei beni, con il quale questi si obbligavano a versare in un unico conto
corrente i proventi delle rispettive attività professionali costituisse
convenzione matrimoniale da stipularsi con atto pubblico a pena di nullità,
ammettendo la prova di tale intesa a mezzo di testimoni [234] .
Altro
esempio di interpretazione (correttamente) restrittiva del concetto di
convenzione matrimoniale, con conseguente esclusione dell’art. 162 c.c. è poi
fornito da quelle pronunce che ne hanno (esattamente)
negato l’applicabilità alla divisione amichevole operata dai coniugi sul
patrimonio già in comunione legale, una volta intervenuta una causa di
scioglimento di quest’ultima [235] ,
ovvero all’accordo per scrittura privata con il quale un coniuge,
successivamente alla stipula della convenzione di scioglimento del regime
legale, rinunziava ad ogni sua pretesa su un’azienda commerciale acquistata nel
vigore del regime di comunione e, corrispettivamente, l’altro si obbligava a
versargli una somma di denaro [236] .
Ancora più di recente la Corte Suprema, ponendosi su questa stessa linea, ha
affermato che «Il progetto divisionale di un bene immobile predisposto e voluto
dalle parti e dichiarato esecutivo con ordinanza dal giudice istruttore,
all’esito di un subprocedimento nel corso di un giudizio di separazione, ha
natura di negozio, alla cui validità non osta il fatto che il bene ricada in
comunione legale tra i coniugi, essendo rimessi alla discrezionalità e comune
volontà di questi gli atti dispositivi sui beni in comunione e l’esistenza
della comunione stessa; tale atto divisionale, che non presuppone la stipula di
una convenzione matrimoniale, costituisce titolo per la trascrizione, unico
requisito previsto essendo la forma scritta ai sensi dell’articolo 1350 n. 11
cod. civ.» [237] .
Il
risultato pratico di questo filone giurisprudenziale consiste – come sarà
apparso evidente – nella esclusione della necessità del rispetto della forma
dell’atto pubblico notarile, richiesta per le convenzioni matrimoniali [238] .
Ne consegue, in pratica, un ulteriore ampliamento della libertà negoziale sotto
lo specifico profilo, questa volta, della libertà delle forme. Sarà appena il
caso di aggiungere in chiusura di tale argomento, che la cennata progressiva erosione della sfera di
applicabilità delle regole in tema di forma sembra ricevere conferma dallo
stesso legislatore. Così, l’art.
15. Convenzioni matrimoniali e autonomia negoziale. Modifica delle convenzioni e mutamento di regime.
Un’altra
prova del rilievo che l’autonomia negoziale è andata assumendo nel corso degli
ultimi anni è costituita dall’evoluzione in tema di modifica delle convenzioni
e di mutamento dei regimi matrimoniali, laddove oggi il terzo comma dell’art.
162 c.c. e l’art. 163 segnano il definitivo superamento della tradizionale
regola dell’immutabilità dei patti nuziali (cfr. artt. 1384 c.c. 1865; 162 cpv.
c.c. 1942). Principio, quest’ultimo, che, come si è già rilevato in altre sedi [239] ,
era a sua volta storicamente collegato al divieto di donazioni tra coniugi e,
con questo, funzionalmente ordinato a quella trasmissione «patrilineare
indivisibile» dei patrimoni cui facevano anticamente da contorno anche gli
istituti del fedecommesso e del maggiorascato, nonché l’esclusione del coniuge
dal novero degli eredi [240] .
Con
le innovazioni introdotte dalla legislazione rivoluzionaria e dal codice
Napoleone (in particolare: divieto dei patti successori, abolizione dei
fedecommessi e dei maggiorascati) cominciò a venir meno anche la ratio
giustificatrice degli altri istituti finalizzati ad evitare una «frammentazione
in linea orizzontale» dei patrimoni. Peraltro la regola dell’immodificabilità
delle convenzioni e dei regimi ha resistito più a lungo, forse perché essa
continuò ad essere vista da molti anche come il riflesso «del carattere di
stabilità che deve avere, pur nella sfera patrimoniale, la società coniugale»,
riverberandosi su di essa «quella nota tutta propria del matrimonio, che è data
dalla perpetuità e dalla indissolubilità del vincolo» [241] .
Una volta caduta la regola dell’indissolubilità del vincolo non aveva dunque
più ragione alcuna di sussistere neppure il principio dell’immutabilità delle
convenzioni e dei regimi.
Come
si è appena visto, modifica delle convenzioni e mutamento di regime sono
disciplinati da due disposizioni distinte (artt. 162, terzo comma, 163 c.c.).
Più esattamente, quest’ultimo fenomeno designa il passaggio di una certa coppia
da un tipo di regime ad un altro e conserva un limitato rilievo in relazione a
quanto disposto in via transitoria dalla l. 10 aprile 1981, n. 142 [242] .
Tale risultato – il mutamento, cioè, di regime – può essere l’effetto della
stipula ex novo di una convenzione,
mai intercorsa tra le parti, sottoposte al regime legale, ovvero essere
prodotto dall’abrogazione o dalla radicale modifica di una convenzione
matrimoniale. D’altro canto, possono darsi modifiche di convenzioni le quali
non determinano in alcun modo il mutamento del regime previgente: si pensi ad
una convenzione di comunione ex art.
210 c.c. il cui contenuto venga variato durante il rapporto coniugale [243] .
In
relazione, dunque, alla modifica delle convenzioni, stabilisce l’art. 163 c.c.
che dette modifiche «non hanno effetto se l’atto pubblico non è stipulato col
consenso di tutte le persone che sono state parti nelle convenzioni medesime, o
dei loro eredi». Nella sua versione anteriore alla riforma del 1975 l’art. cit.
prevedeva come necessari anche la presenza
e il simultaneo consenso di tutti i
partecipanti: l’eliminazione di tali requisiti induce a ritenere che tale
consenso possa essere espresso anche separatamente, in tempi diversi [244] .
Un’altra differenza rispetto al regime previgente è costituita dal fatto che
l’art. 163 c.c. 1942 non faceva riferimento all’ipotesi del decesso di uno dei
partecipanti; la soluzione oggi prevista dalla legge era però già stata
indicata dalla dottrina [245] .
Si è peraltro rimarcato che la norma si riferisce al caso della morte di uno
dei partecipanti diversi dai coniugi, atteso che, di regola, il decesso di uno
di questi ultimi determina lo scioglimento del regime convenzionale (con
l’eccezione del fondo patrimoniale in presenza di figli minori: cfr. art. 171
c.c.).
Quanto
al contenuto dell’accordo, esso soffre di alcuni limiti obiettivi costituiti
dal fatto che il regime posto in essere dalla convenzione con la morte di uno
dei coniugi viene, di regola, a cessare: così si potranno ipotizzare modifiche
destinate ad operare retroattivamente (si pensi all’inclusione in comunione
convenzionale di un bene che originariamente non ne faceva parte), od ancora
alle eventuali modifiche di un fondo patrimoniale in presenza di figli minori [246] .
Venendo
al mutamento vero e proprio di regime va rilevato che, ai sensi del già citato
art. 162, terzo comma, c.c., oggi rimane, quale unico limite, il richiamo
all’inderogabilità dell’art. 194 c.c., nella parte in cui prevede la divisione
in parti uguali dei beni già in comunione legale. Secondo la dottrina trattasi
di richiamo di oscuro significato, che si spiega soltanto in considerazione del
fatto che nel testo approvato dalla Camera dei deputati nella seduta del 18
ottobre 1972, l’art. 194 c.c. era molto più ricco, e prevedeva soluzioni
differenziate a seconda della misura con cui l’uno e l’altro coniuge avessero
contribuito alla creazione del patrimonio comune [247] .
Prima della modifica apportata con l. 10 aprile 1981, n. 142, la disposizione
in esame stabiliva che «Le convenzioni possono essere formulate in ogni tempo,
ferme restando le disposizioni dell’articolo 194. Dopo la celebrazione del
matrimonio possono essere mutate soltanto previa autorizzazione del giudice».
Dopo alcune iniziali incertezze l’opinione dominante, quanto meno in
giurisprudenza, si era assestata sulla tesi che riteneva necessaria
l’autorizzazione soltanto nel caso di passaggio da un regime convenzionale a
quello legale, non essendovi, nella situazione opposta, alcuna convenzione da
modificare [248] .
Qui è interessante notare come l’opinione prevalente, alla vigilia della
modifica del terzo comma dell’art. 162 c.c., fosse nel senso di una (apprezzabilissima)
lettura restrittiva dei poteri di intervento attribuiti all’autorità
giudiziaria, sia con riguardo al controllo sulla eventuale violazione dell’art.
160 c.c., sia con riferimento all’indagine sul pregiudizio economico che il
nuovo regolamento avrebbe potuto arrecare ad uno dei coniugi, indagine –
quest’ultima – che si riteneva assolutamente esclusa [249] .
La
correttezza dell’interpretazione restrittiva cui si è fatto cenno è stata poi
definitivamente confermata dall’ulteriore riduzione dei casi di intervento
dell’autorità giudiziaria in ordine alle modifiche delle convenzioni
matrimoniali operata dalla già citata l. 10 aprile 1981, n. 142, che ha
circoscritto tale intervento ad alcune situazioni di diritto transitorio [250] .
Ancora una volta, pertanto, il legislatore sembra essersi mosso nel senso
dell’esaltazione dell’autonomia privata in questo settore del diritto civile [251] .
Se
dunque il nuovo testo dell’art. 162 terzo comma c.c. risolve il problema di cui
sopra, una serie di interrogativi si pone, sotto il profilo del diritto
transitorio, in relazione a quanto disposto dall’art.
Convenzione
è invece sicuramente la scelta del regime di separazione risultante dalla
dichiarazione effettuata dai coniugi nell’atto di matrimonio ai sensi del
capoverso dell’art. 162 c.c., con conseguente necessità di autorizzazione per
il passaggio al regime legale (sempre, ovviamente, a condizione che la
celebrazione risalga ad epoca ricompresa
tra l’entrata in vigore della riforma del 1975 e quella della disposizione
transitoria della legge del 1981). Così pure non dovrebbero sussistere dubbi
sulla necessità dell’autorizzazione in relazione alla modifica di un regime comunitario
instauratosi non già ex lege, bensì
in forza di convenzione stipulata prima dell’entrata in vigore della legge del
1981, come per esempio nel caso in cui i coniugi si fossero avvalsi della
facoltà loro concessa dal capoverso del citato articolo 228 di assoggettare
alla comunione i beni da ciascuno di essi acquistati prima dell’entrata in
vigore della riforma del 1975 [253] .
Per
quanto attiene al procedimento da seguire in merito all’autorizzazione non vi è
dubbio che esso abbia natura di volontaria giurisdizione e debba conformarsi
alle regole del rito camerale ex
artt. 737 ss. c.p.c. (cfr. art. 38, terzo comma, disp. att. c.c.) [254] .
Passando
all’esame dell’aspetto dei criteri di cui il giudice deve servirsi per valutare
la fondatezza o meno dell’istanza occorre constatare che sull’argomento regna
la più assoluta incertezza, di fronte al silenzio della norma in commento. Con
riguardo alla situazione preesistente alla modifica del 1981 alcune voci
dottrinali e giurisprudenziali si erano spinte ad invocare un controllo, da
parte del giudice, del merito dell’accordo, con conseguente rigetto
dell’istanza nell’ipotesi in cui la parte richiedente non avesse fornito la
prova che il divisato mutamento del regime patrimoniale della famiglia sarebbe
stato vantaggioso per il coniuge economicamente più debole [255] .
Preferibile appare dunque la tesi seguita dalla dottrina minoritaria [256] e dalla prevalente giurisprudenza [257] ,
secondo cui l’autorizzazione in oggetto non può essere negata, se non
allorquando la convenzione risulti contraria a disposizioni inderogabili di
legge (e, in particolare, agli artt. 160, 161, 162, terzo comma, 166-bis e 210 c.c.). La conclusione è del
resto strettamente legata, ancora una volta, alla natura contrattuale delle
intese in questione, con conseguente esclusione di ogni possibilità di un
intervento dell’autorità giudiziaria sul momento formativo dell’accordo e sulla
conformazione delle intese delle parti, che, spingendosi al di là di un mero
controllo di legalità, miri ad alterare le intese stesse mercé l’inserimento di
valutazioni di convenienza, le quali vanno invece interamente rimesse alla
libera voluntas contrahentium.
Per
quanto attiene, infine, agli effetti di una convenzione che, benché stipulata
con il rispetto della forma prescritta, non sia autorizzata ai sensi della
disposizione transitoria in discorso, non sembra qui potersi applicare la
regola generale vigente nel campo dell’attività negoziale degli incapaci, che
vuole annullabile tale atto (cfr. artt. 322, 377, 427 s.). L’azione
d’annullamento è sempre concessa a tutela di una parte del contratto (art. 1441
c.c.), mentre qui entrambi i coniugi sono in difetto e la legge non indica chi
sia legittimato ad agire [258] .
Secondo parte della dottrina ci si troverebbe di fronte ad una
pseudo-autorizzazione, avente in realtà natura di omologazione, con conseguente
inefficacia dell’atto concluso in sua assenza [259] .
In alternativa sarebbe forse ipotizzabile la nullità della convenzione per
violazione di norma imperativa [260] .
In ogni caso, riallacciandoci alle riflessioni sopra svolte, sembra di dover
concludere nel senso che proprio il livello d’autonomia concesso oggi ai
coniugi induce ad escludere che agli stessi possano essere estese norme dettate
a tutela dei soggetti incapaci o semi-incapaci.
16. Convenzioni matrimoniali e autonomia
negoziale. I limiti (relativi alla parte generale).
Venendo
a trattare ora dei limiti imposti all’autonomia negoziale va rilevato che il
codice ne prevede alcuni di carattere generale agli artt. 160, 161, 162 terzo
comma e 166-bis. A tali ostacoli
vanno ancora aggiunti quelli stabiliti in relazione a ciascuno dei tipi di
convenzione: il caso più evidente è quello contemplato dall’art. 210, terzo
comma, c.c., in cui il legislatore menziona espressamente il carattere
inderogabile di determinate disposizioni in materia di comunione legale.
Oggetto del presente § sono soltanto i limiti d’ordine generale, laddove quelli
attinenti alle specifiche convenzioni verranno illustrati oltre [261] .
Il
primo, dunque di tali limiti, è quello fissato dall’art. 160 c.c., secondo cui
«Gli sposi non possono derogare né ai diritti né ai doveri previsti dalla legge
per effetto del matrimonio». Nel tentativo di attribuire un contenuto concreto
alla disposizione, la dottrina ha innanzitutto osservato come i diritti e i
doveri cui la norma fa riferimento non possano essere quelli di carattere
personale. Già dalla natura contrattuale delle convenzioni matrimoniali,
invero, discende che in esse non è consentito disporre di rapporti diversi da
quelli patrimoniali [262] .
Nell’ambito di questi ultimi, si è poi fatto richiamo, in modo particolare, ai
doveri di contribuzione ex art. 143,
terzo comma, c.c. [263] e di mantenimento dei figli, ex artt. 147, 148 c.c. [264] .
Secondo
alcuni autori l’art. 160 c.c. varrebbe anche ad escludere la derogabilità della
presunzione di comunione (ordinaria) dei beni sancita dall’art. 219 c.c. cpv. [265] ,
ma sembra lecito dubitare del fatto che la disposizione possa trovare
applicazione nel campo dei regimi patrimoniali della famiglia: il concetto
«diritti e doveri che nascono dal matrimonio» è scolpito nella rubrica del capo
IV, come ben distinto da quello (capo VI) in cui viene disciplinato il regime
patrimoniale della famiglia. Del resto – come si è incisivamente rilevato [266] – l’articolo in commento non può intendersi
alla stregua di un’interdizione dei patti non previsti dalle leggi: il
legislatore, quando intende mettere all’indice questo o quello specifico regime
patrimoniale, questa o quella clausola, ha cura di dirlo. Così vieta
espressamente la costituzione della dote (nuovo art. 166-bis); così vieta espressamente le convenzioni contenenti generici
rinvii ad usi o leggi (art. 161 c.c.); così fissa espressamente limiti alle
modifiche del regime legale (art. 210 c.c.).
L’osservazione
vale a confutare pure un’altra opinione, secondo cui la disposizione servirebbe
a colpire di nullità assoluta tutti quegli accordi e quei patti con i quali le
parti mirassero ad introdurre, surrettiziamente, modifiche alle norme che
impongono limiti inderogabili all’autonomia privata nell’assetto del regime
patrimoniale della famiglia [267] .
Qui, del resto, delle due l’una: o il patto è in violazione diretta di una
norma inderogabile, ed allora è nullo già in base a quanto disposto dall’art.
1418 c.c.; oppure perviene al risultato vietato dalla legge mediante un
procedimento lecito: ed allora l’intesa è nulla perché in frode alla legge. In
altri termini la norma in commento non pone un ulteriore divieto alla stipula
di clausole già per altro verso vietate (se così fosse, la disposizione
sarebbe, tra l’altro, inutile), ma fissa la regola secondo cui quei diritti e
doveri nascenti dal matrimonio, che costituiscono il c.d. «regime primario
della famiglia» (artt. 143, terzo comma, 147 e 148 c.c.), non sono oggetto di
negoziazione. L’art. 160 viene poi sovente utilizzato dalla dottrina e dalla
giurisprudenza al fine di affermare il carattere indisponibile del diritto al
mantenimento dovuto al coniuge separato, così come dell’assegno di divorzio. Il
tema è stato sviluppato in altra sede dallo scrivente [268] .
Stabilisce
il successivo art. 161 c.c. che «Gli sposi non possono pattuire in modo
generico che i loro rapporti patrimoniali siano in tutto od in parte regolati
da leggi alle quali non sono sottoposti o dagli usi, ma devono enunciare in
modo concreto il contenuto dei patti con i quali intendono regolare questi loro
rapporti». La ratio della norma va
ricercata storicamente nel fatto che il legislatore francese del 1804 temeva
che i cittadini optassero in massa per quei regimi del diritto consuetudinario
da cui essi erano stati, in vaste zone del paese, sino ad allora governati [269] .
La disposizione conserva peraltro una sua utilità, consistente nel fatto di
evitare tre inconvenienti: innanzitutto, quello che i paciscenti si sottraggano
al rigoroso formalismo dell’art. 162 adottando per relationem norme e regole di cui il notaio non potrebbe dar
loro lettura. Secondariamente, viene risparmiata al giudice una troppo penosa
ricerca sul diritto straniero o, peggio, sugli usi. Infine, si evita ai terzi
di veder frustrato il meccanismo della pubblicità mediante rinvii ad indici che
in ipotesi potrebbero essere difficilmente reperibili, o disagevoli da tradurre
e da interpretare [270] .
Sotto il primo profilo, dunque, la ratio
è identica a quella delle norme che impongono, per determinati negozi,
l’obbligatorietà della forma pubblica ad
substantiam, e cioè l’esigenza di garantire al massimo la certezza e la
legalità della volontà espressa dalle parti [271] .
Il
divieto della relatio concerne solo
il richiamo a norme straniere o consuetudinarie. Restano pertanto ammissibili
altri tipi di rinvio, per esempio a convenzioni in precedenza stipulate tra le
parti. L’ostacolo posto dall’art. 161 c.c. è di natura puramente formale, nel
senso che nulla impedisce che le parti si limitino a tradurre dalla lingua
straniera la regolamentazione di un certo istituto e ad inserirla tale e quale
nelle loro pattuizioni [272] .
Proprio per questo motivo si è rilevato come la disposizione finisca con il
fornire un argomento alla tesi della libera stipulabilità di convenzioni
atipiche, osservandosi in proposito che «La norma (...) non stabilisce quali
regimi si possono o non si possono adottare, ma presuppone che gli sposi siano
liberi di adottare regimi patrimoniali diversi da quello legale tipico con i
soli limiti sanciti dalla disciplina della comunione convenzionale ed afferenti
alla inderogabilità delle norme relative all’amministrazione e all’eguaglianza
di quote per i beni oggetto della comunione legale, e quindi anche di
uniformare il regime liberamente prescelto ad un modello disegnato da un
ordinamento straniero o da una consuetudine, anch’essa eventualmente straniera»
[273] .
La
norma va ora coordinata con il disposto dell’art.
La
dottrina concorda nell’affermare che l’art. 166-bis c.c. pone un ulteriore limite all’autonomia negoziale dei
coniugi in sede di pattuizione delle convenzioni matrimoniali [275] :
trattasi, più in particolare, di limite diretto ad impedire, attraverso il
collegamento con gli artt. 1344 e 1418 c.c., che l’effetto proprio della dote
venga realizzato attraverso un contratto in frode alle legge [276] .
Il
principale problema interpretativo é quello di identificare il significato
attuale del termine «dote», atteso che esso, nel sistema previgente alla
riforma del 1975, era collegato ad un dato formale (l’art. 177 c.c.
presupponeva infatti un apporto effettuato dalla moglie o da altri per essa
«espressamente a questo titolo») che oggi non esiste più [277] .
In proposito si è affermato che, se si intende attribuire un senso compiuto
all’art. 166-bis c.c., occorre
individuare la dote nella figura di un diritto il cui scopo sta nel potere o
nella potestà di comando o nel privilegio di un coniuge [278] .
A tale impostazione si è obiettato che, se la ratio fosse quella indicata, il motivo
della proibizione legislativa si sarebbe potuto agevolmente superare
attribuendo l’amministrazione dei beni dotali ad entrambi i coniugi, come in
effetti si è fatto con il fondo patrimoniale [279] .
Si è pertanto proposto di identificare il concetto di dote con quello di
apporto cui si attribuisca il valore di corrispettivo, «di indennizzo per aver
preso in moglie l’altra metà» [280] .
Ma a questo rilievo potrebbe ulteriormente obiettarsi che, per evitare sospetti
di illegittimità costituzionale, bisogna innanzi tutto pensare che il divieto
si riferisca ad apporti non solo provenienti dalla moglie, bensì anche dal marito
[281] e che comunque non appare possibile procedere
all’individuazione di criteri in grado di permettere l’accertamento, nel caso
concreto, dell’intenzione delle parti di prevedere un siffatto «indennizzo per
aver preso in moglie l’altra metà».
Nemmeno
le altre soluzioni prospettate appaiono esenti da critiche. Così non può certo
ritenersi costituire dote ogni convenzione volta ad apportare o vincolare beni
della moglie ad sustinenda onera
matrimonii, atteso che l’art. 167 c.c. prevede espressamente che ciascun
coniuge possa destinare beni determinati «a far fronte ai bisogni della famiglia»
[282] .
Né si può pensare che l’elemento essenziale della dote risieda nell’obbligo
della restituzione dei beni all’atto dello scioglimento del matrimonio [283] :
invero, a parte che, nel previgente sistema, tale principio poteva subire tutta
una serie di eccezioni [284] ,
rimane il fatto che l’idea di un «apporto» la cui durata sia commisurata a
quella di svolgimento del rapporto coniugale non sembra poi così aliena al nostro
sistema, come dimostrato dal fatto che il vincolo derivante dal fondo
patrimoniale cessa (almeno tendenzialmente: cfr. art. 171 c.c.) all’atto dello
scioglimento del matrimonio. Né, infine, può affermarsi che il divieto ex art. 166-bis varrebbe ad interdire ogni convenzione tendente ad un
accrescimento temporaneo del patrimonio di un coniuge «in corrispettivo della
liberazione, in tutto o in parte, del coniuge conferente, dall’obbligo di
contribuzione ai pesi del matrimonio»: da un lato, infatti, i coniugi ben
possono adempiere al dovere di contribuzione proprio «ponendo a disposizione
della famiglia determinati beni» [285] ;
dall’altro, ogni eventuale accordo diretto a derogare alla fondamentale regola
posta dall’art. 143 c.c. è nullo perché già vietato dall’art. 161, senza che si
renda con ciò necessario «scomodare» l’art. 166-bis.
In
definitiva, non rimane che ribadire la correttezza dell’impostazione
prevalente, che ritiene vietata, per effetto della norma in commento, la
stipulazione di convenzioni che attribuiscano ad un coniuge –
indipendentemente dal fatto che sia il marito o la moglie – una posizione di
supremazia rispetto all’altro, conferendogli il potere di amministrare e
gestire beni nei confronti dei quali egli non vanti (o non vanti esclusivamente)
alcun diritto reale [286] .
La conclusione, anziché essere smentita dalla figura del fondo patrimoniale, ne
riceve conferma: il legislatore, nel momento in cui ha deciso di abrogare la
dote per ragioni essenzialmente storico-ideologiche, si è visto costretto a far
confluire nel solo istituto del fondo patrimoniale quello che si è felicemente
definito come il «momento contributivo» [287] .
Peraltro, in considerazione del principio della libera stipulabilità di
convenzioni atipiche [288] ,
era necessario impedire che la «messa a disposizione» di beni ad onera matrimonii ferenda potesse
avvenire per mezzo di accordi diversi da quelli disciplinati dagli artt. 167
ss. c.c. e che mirassero a ricreare pattiziamente quegli stessi poteri di
disposizione, gestione ed amministrazione su beni comuni (magari in comunione
ordinaria, visto che per la comunione legale e per quella convenzionale
provvede già l’art. 210, terzo comma, c.c.) o di proprietà esclusiva dell’altro
coniuge, che erano previsti dagli artt. 184 ss. c.c. nella formulazione
precedente alla riforma del 1975.
A
corollario delle illustrate conclusioni va aggiunto che, con il divieto di cui
all’art. 166-bis, c.c. dovrebbe «fare i conti» anche il negozio
eventualmente costitutivo di un trust familiare, sempre, ovviamente, a
condizione che si riesca previamente a superare il ben più «radicale» problema
circa la possibilità di costituire in Italia, anche in assenza di elementi di
estraneità, un trust interno ai sensi della convenzione dell’Aja del
1985, ratificata con l. 16 ottobre 1989, n. 364 (entrata in vigore il 1°
gennaio 1992) [289] .
Passando
ai profili di negozialità propri di ogni singolo regime patrimoniale andrà
notato, innanzi tutto, che per quanto attiene all’istituto della comunione
legale, lo spazio concesso dal legislatore alla libertà contrattuale è talmente
ampio da abbracciare, addirittura, la possibilità stessa di escludere del tutto
l’operatività del regime, così attribuendo alla comunione carattere suppletivo;
opzione di politica legislativa, questa, tanto pregnante da far esclamare ad
autorevole dottrina che con essa il legislatore avrebbe reso l’autonomia
privata vincente su esigenze che sembravano invece doverla sovrastare [290] .
L’autonomia privata potrà così valutare e sfruttare profili di convenienza
economica legati a ragioni, per esempio, d’ordine fiscale [291] ,
ovvero a «timori» legati alle conseguenze di un’eventuale crisi coniugale [292] .
Ma a parte quell’atto di autonomia – consistente, appunto, nella scelta del
regime o nella scelta… di non scegliere – che si pone già nel momento genetico
di ciascuno dei regimi patrimoniali della famiglia, andrà aggiunto che la
libertà negoziale ha ormai fatto massiccia irruzione nel campo stesso della
disciplina dell’istituto della comunione legale, come dimostrato da alcune
prese di posizione della giurisprudenza a tal punto «ardite» da far temere a
parte della dottrina (a sommesso avviso dello scrivente, ingiustificatamente)
una vera e propria «disarticolazione del regime legale di comunione» [293] .
Emblematico
è il caso del rifiuto preventivo del coacquisto ex lege ai sensi
dell’art. 177 lett. a), d) e cpv., la cui ammissibilità, sebbene negata dalla
giurisprudenza di merito [294] ,
è stata affermata da un celebre leading case [295] ,
dopo essere stata prospettata e adeguatamente dimostrata dalla dottrina [296] .
Interessante sarà notare che il rationale di questa soluzione si fonda (oltre
che su di una serie di considerazioni che in questa sede non possono essere
sviluppate) in primo luogo proprio sulla constatazione che l’autonomia dei
coniugi può spingersi, ex art. 2647 c.c. (ma anche ex art. 210
c.c.), ad escludere dalla comunione singoli beni, se non addirittura l’intero
regime comunitario. Ancora più significativo l’articolato argomentare della
citata dottrina [297] ,
che in un complesso mosaico esegetico, colloca una dopo l’altra una serie di
rilievi che vanno dalla considerazione della possibilità (concessa dall’art.
159 c.c.), di escludere in toto il regime comunitario, a quella (ammessa
dall’art. 210 c.c.) di dar luogo a convenzioni «riduttive» [298] ,
a quella (argomentabile ex art. 191 cpv. c.c.) di effettuare
scioglimenti parziali del regime legale, a quella (espressamente contemplata
dall’art. 2647 c.c.) di stipulare convenzioni che escludano singoli beni dalla
comunione, a quella (consentita dall’abrogazione dell’art. 781 c.c.) di
stipulare donazioni tra coniugi [299] .
Anche la qualificazione della dichiarazione di rifiuto preventivo del
coacquisto ex lege alla stregua di un vero e proprio negozio giuridico,
prospettata in dottrina [300] ,
è stata esplicitamente accolta dalla Corte Suprema, nella sentenza già
ricordata [301] .
Le
critiche imperniate sul rischio che il «meccanismo di funzionamento della
comunione legale, che prevede, al suo interno, i casi e le modalità con cui i
coniugi possono attribuire carattere personale a determinati beni (art. 179
comma 1 lett. b e f e comma 2 c.c.)» sia «snaturato ed alterato» [302] sono destinate a cadere di fronte al rilievo
secondo cui alla sovrana volontà delle parti è concesso, addirittura, derogare
in ogni momento in toto al regime legale; mentre la considerazione
secondo cui sarebbe lecito perseguire tale effetto solo tramite una convenzione
[303] s’infrange dinanzi alla forza del principio di
autonomia negoziale vigente per tale tipo di atti, il quale consentirebbe
comunque ai coniugi di pervenire al medesimo risultato, determinando, per
esempio «il carattere della categoria in modo che essa sia idonea a comprendere
proprio e soltanto quel bene» [304] .
Del resto, non sarà inutile ribadire ancora una volta quanto messo in luce
dalla più volte citata dottrina, secondo cui, prima di negare che un coniuge
possa, direttamente e senza ricorso a infingimenti, consentire, respingendo
l’effetto ex lege in proprio favore, che l’acquisto operato dall’altro
resti a beneficio esclusivo dello stesso acquirente, conviene riflettere sul
fatto che il vigente ordinamento non conosce più alcun limite alla possibilità
di donazioni fra coniugi [305] . Come rilevato già parecchi
anni or sono, «sul piano sistematico,
l’abolizione del divieto di donazioni tra coniugi significa la definitiva
privatizzazione senza residui, di tutta la materia degli acquisti e delle
perdite dei coniugi. Accanto alle modifiche delle convenzioni e del regime
legale opereranno le mille modifiche e deroghe consentite dal donatore diretto,
indiretto, formale e manuale (…). Il consenso, cioè anche se liberale, diventa
valida giustificazione di qualsiasi deroga alla legge» [306] .
Di
tali considerazioni sembra invece non essersi fatta minimamente carico una successiva
decisione di legittimità, secondo cui «la partecipazione alla stipula del
coniuge formalmente non acquirente e l’eventuale dichiarazione di assenso, da
parte sua, all’intestazione personale del bene, immobile o mobile registrato,
all’altro coniuge, non hanno efficacia negoziale o dispositiva, sotto forma di
rinuncia, del diritto alla comunione legale sul bene acquisendo, né sono
elementi di per sé sufficienti a escludere l’acquisto dalla comunione, ma hanno
carattere ricognitivo degli effetti della dichiarazione, resa dall’altro
coniuge, circa la natura personale del bene, se e in quanto questa
oggettivamente sussista, ex art. 179 c.c.». Partendo da queste premesse
la Corte ha deciso che «ove tale natura personale dei beni manchi (e tale
mancanza si ha allorché il bene, senza essere di uso strettamente personale o
destinato all’esercizio della professione del coniuge, venga acquistato con
denaro del coniuge stesso, ma non proveniente dalla vendita di beni personali),
la caduta in comunione legale non è preclusa da dette partecipazione e
dichiarazione, tanto più che, nella pendenza di tale regime, il coniuge non può
rinunciare alla comproprietà di singoli beni acquistati durante il matrimonio (e
non appartenenti alle categorie elencate nel comma 1 dell’articolo 179 del c.c.)
salvo che sia previamente o contestualmente mutato, nelle debite forme di legge
e nel suo complesso, il regime patrimoniale della famiglia» [307] .
La
motivazione della sentenza si snoda attraverso una serie di affermazioni tanto
apodittiche da renderne difficile una contestazione, a cominciare dal rilievo
secondo cui «la partecipazione al contratto del coniuge (formalmente) non
acquirente, ed il suo eventuale assenso esplicito all’acquisto personale da
parte dell’altro, non sono considerati dalla legge, rettamente interpretata,
elementi sufficienti, di per sé, ad escludere l’acquisto dalla comunione coniugale».
La decisione in esame dichiara expressis verbis di discostarsi dal
citato precedente del 1989, laddove, in realtà, quest’ultimo – a differenza del
caso più recente, relativo ad un problema di «surroga» del carattere personale
di un bene – riguardava un caso pacificamente non riferibile al disposto
dell’art. 179 c.c., in cui l’esclusione dalla comunione legale non era fatta
risalire alla riconducibilità della fattispecie ad una delle ipotesi
contemplate in tale norma, bensì esclusivamente alla volontà concorde dei
coniugi.
I Supremi Giudici, in tale decisione qui da ultimo citata,
proseguono poi affermando che «in regime di comunione legale dei beni fra
coniugi, il consenso di uno di loro all’intestazione esclusiva dello specifico
bene acquisendo all’altro coniuge, ossia la rinunzia alla comunione su di esso,
non è valida, in termini generali, ad escluderlo effettivamente dalla comunione
legale», aggiungendo che l’elenco di cui all’art. 179 c.c. avrebbe carattere
tassativo, contemplando «poche eccezioni» alla regola fissata dall’art. 177
c.c., tra le quali non rientrerebbe il caso in cui un coniuge «rinunzi (…) alla
contitolarità di un singolo bene». Un argomento testuale, in questo senso –
sempre ad avviso della Cassazione – sarebbe ricavabile dall’articolo 210, terzo
comma, c.c., a mente del quale le norme della comunione legale non sono
derogabili relativamente, fra l’altro, all’uguaglianza delle quote di
comproprietà sui beni che formerebbero oggetto della comunione legale. Ne
conseguirebbe che, a maggior ragione, un coniuge, in regime di comunione
legale, non potrebbe rinunziare all’intera quota a lui spettante su un bene che
ne forma oggetto, non rientrando tale ipotesi nelle categorie elencate
dall’articolo 179 c.c. [308] .
La decisione non presta peraltro alcuna attenzione al fatto
che i coniugi potrebbero in ogni momento addirittura escludere in toto
l’operatività del regime legale, ovvero escluderlo per tutti gli acquisti da
compiersi in quel dato giorno e/o aventi quelle determinate caratterische idonee
ad eliminare l’operatività del regime comunitario in relazione a quel
determinato bene. La decisione propone poi un inaccettabile riferimento ad un
supposto «carattere pubblicistico» della disciplina della comunione legale,
legato all’art. 160 c.c. Tesi, questa, clamorosamente smentita, peraltro, in
parte qua, dall’art. 159 c.c., che consente ai coniugi di optare, tutto al
contrario, addirittura per un regime interamente e rigorosamente separatista.
Al riguardo osserva la Cassazione che, argomentando diversamente,
«il regime di comunione legale, assunto come normale dalla legge (in mancanza
di diversa convenzione) sarebbe, in realtà, modificabile ad nutum,
secondo l’opzione estemporanea di ciascuno dei coniugi in relazione
all’acquisto di singoli beni». L’affermazione lascia sbalorditi, posto che
nessuno si è mai sognato di sostenere che la volontà di uno solo dei coniugi
potrebbe determinare il carattere personale del bene in difetto di uno dei
presupposti di cui all’art. 179 c.c. L’evidente lapsus in cui incorre la
motivazione sul punto, con il richiamo ad una supposta modificabilità «ad
nutum, secondo l’opzione estemporanea di ciascuno (corsivo d.a.) dei
coniugi» manifesta nella maniera più evidente come la fattispecie tenuta
presente dalla Corte fosse quella (diametralmente opposta rispetto a quella di
cui qui si discute) dell’inesistenza di un accordo tra i coniugi [309] .
A completare un quadro già di per sé sconsolante giunge poi
l’immancabile richiamo (un vero must per la giurisprudenza di legittimità
di questi ultimi tempi…) alla famigerata decisione della Consulta che ha
attribuito alla comunione legale la caratteristica della comproprietà solidale
o «senza quote» [310] .
Premessa, questa, da cui viene derivato un supposto divieto di rinunzia dei
coniugi alle proprie quote in comunione, tralasciando di considerare che –
anche se si volesse aderire a tale opinabilissima ricostruzione – la natura
solidale della situazione soggettiva in oggetto avrebbe comunque un senso solo
nei riguardi dei terzi (verso i quali i negozi dispositivi non potrebbero
considerarsi come atti a non domino). Naturalmente ciò nulla ha a che
vedere con il diverso profilo della rinunziabilità o meno della posizione
giuridica soggettiva che compete ad ogni coniuge in comunione, confermata,
questa, dal testuale disposto dell’art. 2647 c.c., dall’abolizione del divieto
di donazioni tra coniugi, dal principio generale secondo cui nemo potest
locupletari invitus, dalla piena liceità della convenzione di separazione
dei beni, dalla certissima ammissibilità di convenzioni matrimoniali aventi ad
oggetto una comunione «ridotta» rispetto a quella ordinaria, nonché dalla
libera modificabilità in ogni tempo delle convenzioni matrimoniali.
Si
è già accennato al fatto che le aperture verso la negozialità nel campo
dell’oggetto della comunione legale hanno suscitato il timore di una
«disarticolazione» del medesimo, tanto meno giustificata quanto più in
contrasto con la «volontà del corpo sociale», che avrebbe sostanzialmente
manifestato di accettare il regime legale [311] .
In realtà, le ricerche sociologiche degli ultimi anni hanno dimostrato la
crescente tendenza del corpo sociale a manifestare fenomeni di vero e proprio
rigetto verso il regime legale, rigetto che non può spiegarsi se non alla luce (o
comunque anche alla luce) della presa in conto dei rischi connessi alla
rigidità del sistema così come disegnato dagli artt. 177 ss. c.c. [312] .
Sembra dunque inevitabile, al fine di arginare il fenomeno di massiccia
disaffezione in atto nei riguardi della comunione legale, auspicare in tempi
brevi ben maggiori concessioni all’irresistibile avanzata della negozialità
anche in questo settore.
18. Autonomia negoziale dei coniugi e comunione
legale. Le regole in tema di amministrazione.
Passando
ora dal tema dell’oggetto a quello dell’amministrazione notiamo come
l’autonomia dei coniugi trovi comunque un notevole livello di esplicazione
anche nel governo del regime legale, fondato sul principio dell’accordo per gli
atti di straordinaria amministrazione (art. 180 c.c.), in applicazione della
regola generale fissata dall’art. 144 c.c., con l’ulteriore previsione di una
serie di disposizioni (artt. 181 ss. c.c.) tendenti a risolvere i problemi
posti dalla impossibilità di pervenire ad una soluzione concordata, in determinate
ipotesi [313] .
Anche in questo caso può dunque dirsi che «la pertinenza della materia
all’àmbito dell’autonomia privata è rafforzata dalla necessità di valutare il
concetto di interesse della famiglia in rapporto al principio dell’accordo,
assunto a base dell’unità familiare» [314] .
Ma
se, per quanto attiene ai rapporti interni, la regola del consenso sembra
permeare di sé ogni aspetto pregnante dell’amministrazione del patrimonio
comune, con conseguente esaltazione dell’autonomia negoziale della coppia,
l’autonomia del singolo nei rapporti esterni sembrerebbe uscire rafforzata – a
dispetto della regola dell’agire congiunto per gli atti di disposizione e di
straordinaria amministrazione – da alcune prese di posizione in campo
giurisprudenziale.
In
particolare ci si intende qui riferire al riconoscimento della possibilità per
ciascuno dei coniugi – ferma restando l’indisponibilità della quota in
comunione legale – di procedere ad atti di disposizione di interi beni soggetti
al regime legale, ponendosi il consenso
dell’altro coniuge (richiesto dal cpv. dell’art. 180 cod. civ. per gli atti di
straordinaria amministrazione) come un negozio unilaterale autorizzativo che
rimuove un limite all’esercizio del potere dispositivo sul bene e che
rappresenta un mero requisito di regolarità del procedimento di formazione
dell’atto di disposizione, la cui mancanza (ove si tratti di bene immobile o di
bene mobile registrato) si traduce in un vizio da far valere nei termini
fissati dall’art. 184 c.c. Sul punto la Corte di cassazione, respingendo la
tesi della radicale inefficacia degli atti in discorso, si è riallacciata
direttamente ad una nota pronunzia di rigetto della Corte costituzionale [315] ,
secondo cui dall’art. 189 cpv. c.c. sarebbe argomentabile il carattere di
«proprietà solidale» della massa in comunione [316] .
Ora,
il pregio della decisione della Consulta, così come di quella più recente della
Cassazione – a parte l’opinabile ricostruzione della comunione legale alla
stregua di una «comunione senza quote» [317] – risiede nel fatto di avere respinto quella
lettura restrittiva del disposto dell’art. 184 c.c., proposta da una parte
della dottrina, secondo la quale la norma in esame avrebbe potuto trovare
applicazione nel solo caso in cui l’immobile venduto fosse risultato
«intestato» al solo coniuge alienante, dovendosi nelle altre ipotesi («intestazione»
ad entrambi, ovvero al solo coniuge del soggetto alienante) ricadere nella
regola generale dell’inefficacia [318] .
Il risultato sarebbe quindi stato, secondo l’opinione qui criticata, quello di
sottoporre siffatti atti ad un tipo di sanzione decisamente più grave di quella
prevista dall’art. 184 c.c. senza distinzioni di sorta [319] .
Dunque, anche questa lettura estensiva dell’art. 184 c.c., proposta dalla
Cassazione, appare in linea con l’esigenza di favorire la negozialità (questa
volta nei suoi profili «esterni») dei coniugi.
19. Autonomia negoziale dei coniugi e comunione
legale. Regime transitorio.
Volgendo
ora l’attenzione ai peculiari profili di diritto transitorio concernenti il
tema della determinazione dell’oggetto della comunione legale potrà ricordarsi,
in primo luogo, quella pronuncia che, argomentando dai già citati artt. 210 e
2647 c.c., ha riconosciuto la validità dell’atto con cui un coniuge aveva conferito
in comunione, ex art. 228 cpv. l. 19 maggio 1975, n. 151, solo alcuni
degli immobili acquistati prima dell’entrata in vigore della legge predetta:
anche questa decisione sembra sottolineare il ruolo che, al di là delle
previsioni della legge, viene riconosciuto all’autonoma determinazione
negoziale dei coniugi [320] .
In senso contrario rispetto al pieno esplicarsi
dell’autonomia privata va registrata una decisione precedente [321] , con cui la Corte
Suprema, confermando una pronunzia della Corte d’appello di Bari [322] , ha stabilito che «i
coniugi che, a seguito dell’entrata in vigore della legge 19 maggio 1975, n.
151, abbiano convenzionalmente esteso il regime di comunione, avvalendosi del
disposto della norma transitoria di cui al secondo comma dell’art. 228 della
medesima legge, ai beni dei quali avevano la proprietà individuale
anteriormente al sopravvenuto mutamento del regime patrimoniale della famiglia,
rimangono, anche quando con la detta
convenzione abbiano manifestato contraria volontà, nella proprietà individuale
di quei beni che, ai sensi dell’art. 179 c.c. sono personali e, quindi esclusi
dalla comunione legale cui esclusivamente si riferisce la succitata norma
transitoria, senza che possa farsi luogo, attesa la nullità della convenzione in parte qua, all’applicazione al suo
riguardo del principio della conservazione ex
art. 1367 cod. civ.».
Il ragionamento che si pone a base di entrambe le decisioni (quella
di legittimità e quella di merito da ultimo citate) muove dal presupposto
secondo il quale il richiamo operato dalle parti all’art 228 cit. non avrebbe
in alcun modo consentito l’inserimento nella convenzione dei beni personali ex art. 179 lett. a), c.c. I coniugi,
afferma la Cassazione, «si avvalsero di uno strumento negoziale sbagliato,
ossia della convenzione prevista dal secondo comma dell’art.
Ma il problema, nel caso di specie, non era certo quello di
sostituirsi alle parti nel governo dei loro interessi, bensì solo quello di
interpretare correttamente quale fosse lo strumento negoziale effettivamente
prescelto. La decisione si fonda, sostanzialmente, sul rimprovero ai coniugi di
aver sbagliato ... l’ «etichettatura» del negozio, per effetto del riferimento
da essi erroneamente operato all’art. 228 cit.; errore, questo, che avrebbe
dovuto semmai portare all’esclusione del regime fiscale più favorevole
riservato dalla normativa transitoria alle sole convenzioni in grado di
equiparare le «vecchie» coppie alle «nuove» sul piano del regime legale (e non di
quelli convenzionali), ma che non avrebbe certo dovuto portare all’aberrante
conclusione – in pieno contrasto con il canone ermeneutico scolpito nell’art.
1362 c.c. e con lo stesso principio costituzionale di uguaglianza – di inibire ad una chiara manifestazione di
volontà, diretta a porre in comunione una serie di cespiti patrimoniali e
rivestita della forma notarile, di produrre l’effetto civilistico perseguito
dai contraenti.
Insomma, in quello che allo scrivente pare un vero e proprio
eccesso di formalismo, le decisioni
citate hanno del tutto negletto la reale, comune intenzione delle parti (art.
1362 c.c.), chiaramente diretta alla sottoposizione al regime di
comunione di quei beni, facendo invece perno su di una «scelta del tipo
negoziale» che, anziché essere desunta dalla sostanza degli accordi, è stata
inferita dal mero richiamo ad un ... numero piuttosto che ad un altro, come se
non competesse invece al giudice fornire il corretto inquadramento giuridico
delle fattispecie erroneamente «battezzate» (o demonstratae, come si sarebbe detto un tempo) dai contraenti (e al
riguardo tutta la giurisprudenza in materia di distinzione tra contratto
preliminare e contratto definitivo dovrebbe pur insegnare qualcosa!). Dunque,
nulla avrebbe impedito nel caso di specie di ravvisare nell’unico atto posto in
essere dalle parti due distinti negozi, il primo dei quali diretto a creare una
comunione ai sensi della norma transitoria e il secondo rivolto invece alla
costituzione di un regime di comunione convenzionale, ex art. 210 c.c., esteso ai beni già di proprietà dei coniugi in
data anteriore alla celebrazione delle nozze, salve – ovviamente – le
conseguenze derivanti sul piano pubblicistico dall’impossibilità di attribuire
a questo secondo negozio il medesimo trattamento tributario di favore
riconosciuto alla convenzione contemplata dall’art. 228, cpv., c.c.
La
Suprema Corte ha peraltro provveduto, in seguito, ad operare al riguardo una
saggia «correzione di tiro», affermando l’ammissibilità del conferimento in comunione
dei beni di cui ciascuno dei «vecchi» coniugi era titolare prima della
celebrazione delle nozze, e precisando che tale conferimento non è però
regolato dall’art. 228 cit., bensì dall’art. 210 c.c. Conseguentemente,
l’effetto traslativo della convenzione conclusa invocando (ancorché
impropriamente) l’applicazione della citata norma è salvo; le parti non
potranno invece usufruire delle agevolazioni fiscali di cui al terzo comma
dell’art. 228 cit. [323] .
20. Autonomia negoziale dei coniugi e comunione convenzionale.
I limiti di cui all’art. 210 c.c.
Venendo
a parlare della comunione convenzionale, va subito detto che, anche a
prescindere dalla vexata quaestio circa la natura dell’istituto, vale a
dire se si tratti di un regime autonomo, ovvero di una semplice «variante» del
regime di comunione legale [324] ,
occorre riconoscere che l’àmbito della sfera lasciata al libero esplicarsi
dell’autonomia privata appare assai consistente, pur nei limiti generali e
speciali tracciati dal legislatore. In particolare, l’art. 210 c.c. contiene un
espresso richiamo all’art. 161 c.c., ma è chiaro che il negozio costitutivo del
regime in questione, proprio in quanto convenzione matrimoniale, dovrà anche
sottostare a tutti i limiti previsti per tali tipi di atti dall’ordinamento,
limiti sulla cui portata si è già avuto occasione di discorrere. Un altro
limite in ordine all’oggetto della comunione convenzionale, fissato questa
volta dallo stesso art. 210 cpv. c.c., concerne il divieto di inclusione nella
convenzione di quei rapporti contemplati dalle lettere c), d) ed e) dell’art.
179 c.c., ciò che ha fatto dire alla
dottrina che il nostro ordinamento non prevedrebbe ipotesi di comunione
universale tra coniugi [325] .
Una
lettura particolarmente restrittiva dei principi testé enunciati viene
proposta, con specifico riguardo alla convenzione concernente i beni personali ex
art. 179 lett. b) c.c., da quella dottrina che nega la possibilità di prevedere
la caduta in comunione di quei beni (o di quelle categorie di beni) non ancora
entrati nel patrimonio di una delle parti al momento della stipula della
convenzione, argomentando dal contrasto con il divieto dei patti successori (art.
458 c.c.) e con il divieto (art. 771 c.c.) della donazione di beni futuri.
La
questione sarà affrontata tra breve. Per il momento occorrerà invece rammentare
che un preciso argine al potere dispositivo delle parti viene posto dal terzo comma dell’art. 210 c.c., con riguardo
all’inderogabilità delle norme della comunione legale relative
all’amministrazione dei beni della comunione e all’uguaglianza delle quote.
Siffatta compressione di quell’autonomia privata che, come si è visto costituisce la regola in tema di convenzioni
matrimoniali, viene però circoscritta ai beni che formerebbero oggetto della
comunione legale. Il testé evidenziato carattere eccezionale della limitazione
dovrebbe pertanto sconsigliarne l’applicazione anche a quei beni che, benché
destinati ad essere personali, siano invece immessi in comunione in forza di
convenzione ex art. 210 c.c. [326] .
Diversa è invece la soluzione per i beni di cui agli artt. 177 lett. b) e c) e
178 c.c., poiché i rapporti formanti oggetto della c.d. comunione de residuo
costituiscono comunque parte della comunione legale, ancorché differita. Non
sarà quindi possibile prevederne una divisione, all’atto dello scioglimento, in
misura difforme da quella paritaria. Le regole sull’amministrazione di quei
rapporti potranno invece essere liberamente rimesse all’autonomia negoziale, in
quanto è noto che i beni in comunione residuale, propri sino al momento dello
scioglimento, possono essere liberamente amministrati (ed anzi, addirittura
alienati o consumati) dal titolare, senza che al riguardo competa all’altro
coniuge alcun tipo di controllo.
La
dottrina manifesta una certa tendenza ad inserire nel novero delle disposizioni
inderogabili anche quelle concernenti la responsabilità (artt. 186 ss. c.c.) e
lo scioglimento (artt. 191 ss. c.c.), poiché poste a tutela dei terzi, benché
non si tratti di norme comprese nell’elencazione di cui al terzo comma
dell’art. 210 c.c. Ora, proprio perché questo catalogo ha carattere tassativo,
occorrerà procedere con estrema cautela all’ampliamento delle ipotesi in cui
all’autonomia privata viene impedito di intervenire sulle disposizioni codicistiche
in materia di comunione legale. Pertanto, se è vero che non può consentirsi che
le parti, in base ai propri accordi, regolino in maniera diversa da quanto
stabilito dal codice lo svolgimento delle eventuali azioni esecutive dei
creditori personali o comuni, magari eliminando o creando beneficia
excussionis, rispettivamente, contemplati dalla o sconosciuti alla legge [327] ,
non sembra invece che, almeno in linea di principio, ai coniugi medesimi sia
inibito dar vita a nuove cause di scioglimento del regime comunitario diverse
da quelle previste dall’art. 191 c.c.
Come
esattamente rilevato al riguardo [328] ,
pur senza disconoscere il carattere tassativo dell’elenco di cui all’art. 191
c.c., va constatato che, se è possibile determinare lo scioglimento della
comunione legale attraverso un mutamento convenzionale del regime patrimoniale,
a maggior ragione deve ritenersi consentita un’apposita disciplina pattizia
delle cause di scioglimento del regime comunitario, in deroga a quanto previsto
dall’art. ult. cit. In proposito si può suggerire l’adozione di clausole di
«integrazione della disciplina legale», come, per esempio, quelle che
prevedessero, quali nuove cause di scioglimento del regime, la separazione di
fatto, l’abbandono della residenza familiare, la proposizione della domanda di
separazione legale [329] .
In effetti, il problema
dell’ammissibilità di un intervento dell’autonomia negoziale in merito alla
predeterminazione delle cause di scioglimento del regime di comunione non è
nuovo. Già i primi commentatori del Code Napoléon si erano posti
l’interrogativo della possibilità di legare la vigenza di un dato regime
matrimoniale ad un termine – tanto finale che iniziale – o ad una condizione –
tanto sospensiva che risolutiva – concludendo per lo più, almeno per quanto
attiene alla condizione, in senso positivo [330] ,
proprio sulla scorta del principio della libertà contrattuale, sulla scorta
dell’autorevole avviso già espresso da Pothier [331] .
Del resto, le uniche perplessità prospettate in Francia avevano riguardo al
principio, allora imperante, dell’immutabilità delle convenzioni matrimoniali [332] ,
oltre che al disposto dell’art. 1399 del Code Napoléon, che – sempre in
vista del rafforzamento del principio dell’immutabilità delle convenzioni
matrimoniali – stabiliva nella sua versione originale il divieto per le parti
di prevedere una decorrenza dei regimi
di comunione legale e convenzionale da
una data diversa da quella di celebrazione delle nozze [333] .
Orbene, il totale superamento, nel nostro sistema, del principio
dell’immodificabilità delle convenzioni matrimoniali viene ad eliminare ogni
possibile obiezione relativa alla possibilità che i coniugi, con il prevedere
nuove cause di cessazione di un regime patrimoniale, si riservino la
possibilità di un più agevole mutamento di regime, mutamento che, oltretutto,
appare quanto mai salutare ed auspicabile per le coppie in comunione nel
momento in cui si profila la causa più ricorrente di scioglimento, vale a dire
la separazione personale.
Sempre per rimanere nel campo
delle considerazioni storiche potrà infine aggiungersi che sin dall’abrogazione
del c.c. 1865 è venuto a cadere l’argomento testuale che aveva indotto la
dottrina italiana [334] a fornire in passato risposta negativa al
quesito qui discusso: ci si intende qui riferire a quella disposizione (art.
1411) che, nell’elencare le cause di scioglimento della comunione (convenzionale)
dei beni, stabiliva che questa «non si può sciogliere che per la morte di uno
dei coniugi...», così evidenziando l’intento del legislatore di scolpire una
serie inderogabile di cause di cessazione del regime.
Una volta ammesso che
l’autonomia dei coniugi può dar vita a nuove cause di scioglimento dei regimi
patrimoniali nulla esclude che gli stessi attribuiscano in qualche modo rilievo
alla separazione di fatto, prevedendo che la medesima determini la cessazione
del regime legale. Peraltro, attese le evidenti necessità di certezza collegate
alla determinazione del momento di cessazione del regime legale, sarebbe
opportuno ancorare tale evento [335] ad un atto avente data certa o comunque
facilmente accertabile (si pensi all’invio di una raccomandata).
Per quanto attiene ai
rapporti con i terzi, è chiaro che le cause di scioglimento del regime
comunitario aventi fonte pattizia non sarebbero opponibili a costoro neppure
nell’ipotesi di annotazione a margine dell’atto di matrimonio e/o di
trascrizione sui pubblici registri immobiliari della convenzione contenente la
relativa clausola, non essendo prevista una pubblicità apposita dell’evento
individuato dalle parti quale «nuova» ipotesi di cessazione del regime legale.
Lo scioglimento avrebbe dunque effetto nei soli rapporti interni, salva la
possibilità da parte del coniuge interessato di proporre azione d’accertamento
in merito alla titolarità dei diritti acquistati medio tempore, con
immediata trascrizione della relativa domanda, ai fini dell’opponibilità ai
terzi in forza delle comuni regole (art. 2653, n. 1, c.c.).
Si potrebbe anche ipotizzare
la possibilità – accogliendo il suggerimento proposto da chi scrive in merito
alla soluzione dei complessi problemi posti dagli aspetti pubblicitari dei
regimi matrimoniali [336] – che terzi eventualmente interessati a
dimostrare il carattere personale dei beni acquistati dopo che si sia
verificata la causa di scioglimento convenzionalmente prefissata (si pensi ai
creditori personali del coniuge che abbia operato tali acquisti), siano
legittimati a far valere quest’ultima, ancorché non pubblicizzata.
Una
questione discussa in dottrina concerne la riferibilità del limite di cui
all’art. 210 c.c. relativo alla necessaria parità delle quote e inderogabilità
delle regole in tema di amministrazione anche a convenzioni aventi ad oggetto
la creazione di regimi comunitari totalmente difformi dal tipo legale della
comunione ex artt. 177 ss. c.c. Problema, questo, legato strettamente al
già ricordato dilemma sulla natura della comunione convenzionale: nel senso,
cioè, che la stessa sia una vero e proprio regime autonomo o una mera
collezione di «variazioni sul tema» del regime legale. Invero, ad avviso di una
parte della dottrina, aderendo a quest’ultima impostazione, i limiti di cui
all’art. 210 c.c. «indicherebbero i limiti entro i quali è possibile
intervenire sul regime di comunione legale. Tali disposizioni, in altri
termini, contribuirebbero ad identificare il ‘tipo’ comunione legale, ma non
impedirebbero di adottare regimi ‘atipici’, anche di comunione attuale,
diversamente configurati. Una volta scelto di abbandonare il regime legale, si
potrebbe pertanto convenire anche un diverso regime di comunione attuale, fatti
salvi i limiti inderogabili valevoli per ogni convenzione matrimoniale (…) tra
i quali non sarebbero compresi né il limite del rispetto delle regole
dell’amministrazione né quello relativo all’eguaglianza delle quote» [337] .
Più
persuasiva appare invece la tesi secondo cui, da un lato, la comunione
convenzionale disciplinata dagli artt. 210 e 211 è un autonomo regime pattizio
e, dall’altro, non esiste un ulteriore diverso regime convenzionale (...) atipico, che non ricada nella disciplina degli articoli 210 e 211, ossia
nella comunione convenzionale, con la logica conseguenza che «anche una
comunione convenzionale profondamente svincolata dallo schema tipico della
comunione legale (...)
rientra pur sempre nell’ampio genus (...) della comunione convenzionale delineata e (…) delimitata negli
artt. 210 e 211» [338] .
Questa conclusione sembra anche più conforme al dettato normativo, posto che i
limiti che l’art. 210 c.c. disegna sono tracciati senza restrizione alcuna: le
modifiche alla comunione legale sono tutte quelle previsioni che mirano a
realizzare un regime comunitario di qualsivoglia tipo: comunione immediata,
differita, parzialmente immediata e parzialmente differita, limitata a
determinati tipi o categorie di beni o a determinati periodi di tempo, ecc.,
come appare del resto confermato dal fatto che il primo comma della norma in
esame non si limita certo a prevedere l’ipotesi di conferimento in comunione di
beni personali ex art. 179 c.c., ma si richiama ad un concetto quanto
mai vasto, espresso nei termini seguenti: «modificare il regime della comunione
legale dei beni purché i patti non siano in contrasto con le disposizioni
dell’articolo 161».
Sempre in tema di oggetto della comunione convenzionale si
suole distinguere tra ampliamenti e riduzioni rispetto all’oggetto della
comunione legale, così come individuato dagli artt. 177 s. c.c. Cominciando dal
primo aspetto occorre constatare che l’ipotesi dell’ampliamento sembra essere
quella considerata dal legislatore come fisiologica, peraltro nei precisi
limiti imposti dal capoverso dell’art. 210 c.c., che vieta l’inclusione nel regime convenzionale dei beni personali ex art. 179, lett. c), d) ed e) c.c. Si tratta di una disposizione diretta a salvaguardare una
sfera di piena autonomia a ciascun coniuge, nei limiti in cui determinati beni
costituiscono il supporto per la libera esplicazione della relativa personalità
[339] . La dottrina peraltro
ammette che il divieto riguardi solo la previsione di una futura titolarità di
simili beni, senza impedire il loro eventuale conferimento alla comunione se
già presenti nel patrimonio dei coniugi [340] .
Rimanendo in tema di beni personali, va detto che non vi è
dubbio che anche quelli di cui alla lettera b) dell’art. 179 c.c. (acquisti mortis
causa e per donazione), in quanto non compresi nell’elenco di cui al
capoverso dell’art. 210 c.c., possano essere conferiti in comunione. In
proposito si è però voluta porre in dottrina una pesante limitazione, con
riguardo a quei beni (o a quelle categorie di beni) non ancora entrati nel
patrimonio di una delle parti al momento della stipula della convenzione.
L’inclusione in comunione convenzionale dei beni da acquisirsi mortis causa o per effetto di donazione
verrebbe, invero, a porsi in contrasto con il divieto dei patti successori (art.
458 c.c.), così come con quello (art. 771 c.c.) della donazione di beni futuri [341] .
Sarà appena il caso di rilevare come una siffatta
interpretazione finirebbe con il fornire una lettura totalmente abrogatrice del
richiamo (implicito, ma indiscutibile) all’art. 179, lett. b) c.c. operato
dall’art. 210 c.c. Invero, secondo la tesi qui criticata, potrebbero essere
inclusi nella convenzione solo i beni già acquistati da ciascuno dei coniugi
per causa di morte prima della stipula della convenzione: ipotesi, questa, già
contemplata dalla lettera a) dell’art. 179 c.c. (essendo noto che l’inciso
«prima del matrimonio» va inteso come «prima del matrimonio ovvero della
stipula della convenzione costitutiva del regime comunitario, legale o
convenzionale»). Del resto, potrebbe anche legittimamente dubitarsi della
circostanza che un generico riferimento, nella convenzione, a tutti i beni
destinati ad essere acquistati mortis
causa, senza l’indicazione di uno specifico probabile de cuius integri gli estremi della regola che vuole nulli i patti
successori dispositivi.
Il principio, come è noto, si fonda sulla repulsione
dell’ordinamento per un votum captandae
mortis che però, per suscitare scandalo, non può che essere diretto verso
uno o più soggetti determinati. Non per nulla la più attenta dottrina [342] sembra limitare al solo caso «dell’eventuale
eredità dello zio Sempronio» il problema dei rapporti con il divieto posto
dall’art. 458 c.c. Ma anche in tale ipotesi ben potrebbe affermarsi l’implicita
abrogazione della disposizione da ultimo citata per incompatibilità con l’art.
210 c.c. [343] .
Per quanto attiene poi ai beni che la dottrina qui criticata
chiama «futuri» è evidente la duplice confusione:
a)
tra i concetti di «bene futuro» (cioè che non esiste ancora in rerum natura) e di «bene già
esistente, ma di cui il soggetto non sia ancora titolare»;
b)
tra l’acquisto a titolo gratuito da parte del singolo
coniuge e il successivo ritrasferimento automatico a favore dell’altro coniuge.
Per quanto attiene al punto a) [344] , anche gli eventuali
dubbi derivanti dal divieto di donazione di cosa altrui [345] possono essere fugati sulla base del rilievo
per cui, per effetto del meccanismo dell’ «acquisto automatico», il bene
acquistato dal coniuge entra comunque a far parte nella sua interezza, anche se
per un solo istante, nel patrimonio di questi, con la conseguenza che il
ritrasferimento (immediatamente successivo) della quota a vantaggio del coniuge
avverrebbe in ogni caso a domino [346] . Venendo poi al punto b)
andrà osservato che, se fosse vera l’affermazione secondo cui l’inserimento in
comunione legale dei beni da acquistarsi per successione o donazione darebbe
luogo ad «una interpretazione in aperto contrasto (...) con il divieto di
donare beni futuri» [347] , non si comprenderebbe
perché mai tale obiezione dovrebbe colpire la sola inclusione di beni ex art. 179 lett. b) e non già di
qualsiasi acquisto futuro, anche inter
vivos, e a titolo oneroso, da operarsi da parte di ciascuno dei coniugi.
Proprio quest’ultima osservazione dimostra l’impossibilità di riferire le
regole in tema di donazione alla convenzione intesa come atto diretto a porre
in essere un regime patrimoniale, con contenuto, cioè, non necessariamente
dispositivo, ma essenzialmente programmatico in ordine all’assetto economico
della famiglia nel suo profilo dinamico ed eventuale [348] .
Per ciò che attiene ai beni destinati a far parte della comunione de
residuo (artt. 177, lett. b) e c), 178 c.c.) la dottrina
maggioritaria, oltre alla scarsa giurisprudenza edita, appaiono orientate nel
senso dell’ammissibilità della relativa inclusione nell’oggetto della comunione
convenzionale, rilevando il difetto di ragioni in senso contrario [349] . Si precisa peraltro
che per tali rapporti le limitazioni di cui al terzo comma sembrano avere un
senso solo in relazione al divieto di previsione di regole divisionali diverse
da quella del fifty-fifty [350] , mentre, per quanto
riguarda l’amministrazione, la natura stessa della comunione de residuo implica che il titolare dei
relativi rapporti ne possa liberamente disporre sino al momento dello
scioglimento: logica impone pertanto che i contraenti fruiscano, nel momento in
cui decidono di immettere in comunione immediata tali utilità, della più ampia
sfera di libertà nel prevedere le regole di amministrazione, eventualmente
anche in deroga a quanto statuito dagli artt. 180 s. c.c. [351] .
Per concludere in tema di convenzioni ampliative dell’oggetto
della comunione legale andrà detto che la semplice stipula di una convenzione
programmatica di comunione convenzionale non rappresenta di per sé una donazione. Ad escluderlo varrebbe
già infatti il carattere reciproco delle previsioni, oltre che la (normale)
presenza dell’intento di costituire le premesse economiche per un regolare
svolgimento della vita coniugale, ciò che dovrebbe impedire in limine la possibilità di ravvisare un
animus donandi [352] . Peraltro non vi è
dubbio che l’inserimento in comunione
convenzionale di diritti di cui ciascuno dei coniugi era già titolare all’atto
della convenzione possa essere inquadrato nello schema della donazione, quanto
meno indiretta [353] . Secondo la dottrina,
poi, anche gli atti con i quali si procede all’acquisto di uno o più beni
appartenenti a categorie non rientranti nella comunione legale, se effettuati
con denaro o beni personali, costituirebbero altrettante donazioni indirette,
con conseguente applicazione delle disposizioni in tema di revocazione degli
atti a titolo gratuito compiuti in frode ai creditori, collazione e riduzione [354] , ferma restando
comunque, ad avviso di chi scrive, la necessità di accertare, volta per volta,
la reale esistenza di un animus donandi
(esistenza che dovrebbe essere negata laddove, per esempio, l’intento che
muoveva le parti fosse solo quello di poter usufruire di agevolazioni fiscali).
La
libertà negoziale dei coniugi può spingersi anche a prevedere riduzioni
rispetto all’oggetto della comunione legale. La dottrina [355] fonda tale conclusione principalmente sulla
constatazione per cui, posto che ai coniugi è consentito derogare in toto al regime legale optando per
quello di separazione, a fortiori
vanno consentite forme, per così dire, più contenute di comunione. Esempi al
riguardo potrebbero essere rappresentati dall’esclusione della caduta in
comunione dei beni mobili, ovvero di quelli immobili, di quelli acquistati da
uno solo dei coniugi, dalla eliminazione della figura della comunione de residuo [356] ,
o viceversa dall’esclusione delle ipotesi di comunione immediata, con
istituzione di un regime analogo a quello della Zugewinngemeinschaft (§§ 1363 ss. BGB: si tratta, in buona sostanza, di una comunione differita degli
incrementi patrimoniali conseguiti durante la vita coniugale) [357] .
L’unica voce contraria [358] vorrebbe argomentare la soluzione negativa
dalla constatazione secondo cui l’esclusione di una o più categorie di beni si
porrebbe in contrasto con la necessaria parità delle quote: ma è chiaro che
altro è individuare l’oggetto della comunione (cioè predeterminare quali
rapporti giuridici sono destinati a farne parte) ed altro è stabilire quali
saranno le quote pertoccanti a ciascuno dei comunisti. Del resto, la tesi
prevalente ha dalla sua due argomenti letterali, ricavabili, rispettivamente,
dall’art. 191 cpv. c.c., che contempla un’ipotesi di scioglimento parziale,
nonché – soprattutto – dall’art. 2647 c.c., laddove viene fatta menzione delle
«convenzioni matrimoniali che escludono i beni medesimi dalla comunione tra i
coniugi» e «del bene escluso».
22. Autonomia negoziale dei coniugi e separazione dei
beni.
Pure
nel regime di separazione dei beni [359] si possono cogliere chiari i segni del riconoscimento
dell’autonomia dei coniugi, a cominciare dal fatto stesso – già ricordato – che
il legislatore, nell’attribuire alla comunione la dignità di regime legale, ha
pur tuttavia concesso alle parti di escluderne in toto l’operatività, a
costo di attirarsi le (infondate) critiche di una scarsa attuazione del
principio scolpito nell’art. 29 Cost. [360] .
A parte la disputa circa la configurabilità della separazione dei beni alla
stregua di un regime ovvero – tutto al contrario – di un «non regime»,
questione su cui non ci si può intrattenere in questa sede [361] ,
va notato che i segni del rilievo attribuito alla negozialità si colgono già a
partire dal momento genetico dell’istituto in discorso ed in particolare da
quella «scelta dichiarata nell’atto di celebrazione del matrimonio», ex
art. 162 cpv. c.c., cui va sicuramente riconosciuto carattere negoziale, con
tutte le conseguenze che ne derivano, sul piano sia della forma che della
sostanza [362] .
Né
vale in questo campo distinguere, come pure si è tentato di fare [363] ,
tra fattispecie (convenzione costitutiva di un regime) e rapporto
(il regime, cioè, costituito dalla convenzione), al fine di negare la
possibilità di trasfondere le conclusioni sviluppate con riguardo alla prima
nel campo del secondo, atteso il già evidenziato strettissimo legame esistente
nel nostro sistema tra la convenzione e il regime di fonte convenzionale, per
cui il carattere negoziale e atipico della prima non può non permeare di sé il
secondo.
Tutta
la materia, poi, dell’amministrazione e del godimento dei beni [364] è governata dal principio della libera
disponibilità da parte dei rispettivi titolari [365] ,
mentre la sanzione prevista dall’ultimo comma dell’art. 217 c.c. per il coniuge
che abbia amministrato o comunque compiuto atti sui beni dell’altro, nonostante
l’opposizione di quest’ultimo, conferma la necessità del ricorso agli ordinari
strumenti negoziali (in particolare alla procura e al mandato) richiamati
direttamente o indirettamente dai commi secondo e terzo dell’art. cit.
Semmai
il problema è dato proprio dal significato da attribuire alla attività
negoziale delle parti, specie se nella stessa vengano coinvolti terzi. In
particolare ci si deve chiedere quali rimedi competano, nel caso di crisi
coniugale, al coniuge (o ex tale) che abbia
fornito, in regime di separazione dei beni, denaro per l’acquisto di un
immobile effettuato esclusivamente dall’altro. La risposta a tale
interrogativo non può essere univoca, dovendo necessariamente avere riguardo
alle particolarità del caso concreto e tenendo conto del fatto che la giurisprudenza rigetta la tesi
dell’applicabilità alla specie dell’art. 219 c.c., ed in particolare della
presunzione di comproprietà in esso contenuta. La disposizione, secondo i
giudici, concerne essenzialmente le controversie relative a beni mobili,
siccome la prova della proprietà degli immobili risulta di solito da un titolo
non equivoco, ed è volto principalmente a derogare, attraverso la presunzione
posta nel secondo comma, alla regola generale sull’onere della prova in tema di
rivendicazione, mentre nessuna deroga configura alla normale disciplina della
prova dei contratti formali, in particolare degli acquisti immobiliari. Le
relative domande giudiziali – dirette a rivendicare la proprietà o la
comproprietà dell’immobile «intestato» all’altro coniuge – vengono pertanto, in
pratica, sistematicamente rigettate, richiedendosi, in alternativa: a) la
presenza di un mandato senza rappresentanza rilasciato per iscritto dal
titolare dei capitali investiti al soggetto intestatario, qualora la tesi
sostenuta sia quella dell’esistenza di un obbligo di ritrasferire, violato
dall’autore dell’acquisto (interposizione reale); b) la presenza di un
contratto dissimulato redatto, sempre per iscritto, tra chi ha sborsato il
denaro, chi ha operato l’acquisto ed il terzo dante causa (interposizione
fittizia) [366] .
L’applicazione proprio di tali regole alle coppie in regime di separazione è
assolutamente costante da parte della giurisprudenza, tanto di merito che di
legittimità, con la conseguenza che l’ambito di operatività dell’art. 219 cit.
viene circoscritto al campo dei beni
mobili [367] .
Una
volta scartata, dunque, la soluzione «giusfamiliare» basata su tale
disposizione occorrerà verificare se per caso il diritto comune non offra
rimedi in grado di consentire al coniuge che ha erogato i mezzi per l’acquisto
un recupero degli stessi.
L’ipotesi più frequente è quella in cui il denaro sia stato
direttamente corrisposto al terzo dante causa. La giurisprudenza tende qui,
come noto, a ravvisare un’ipotesi di
donazione indiretta; più esattamente, mentre un tempo si vedeva
nell’operazione una donazione indiretta del denaro, vi si riscontra ora una
donazione indiretta dell’immobile. La questione appare strettamente legata a
quella, dibattutissima, dell’individuazione dell’oggetto del conferimento in
collazione, ex art. 737 c.c. Al
riguardo andrà segnalato che le più recenti pronunce, superando un precedente –
peraltro non univoco – indirizzo [368] , hanno ritenuto
necessario spostare, per così dire, l’attenzione dall’impoverimento del donante
all’arricchimento del donatario, per lo meno tutte le volte in cui le parti,
invece di porre in essere un trasferimento diretto del denaro dal donante al
donatario, ricorrono alla vendita come mero strumento formale di trasferimento
della proprietà del bene per l’attuazione di un complesso procedimento di
arricchimento del destinatario della detta traslazione.
Si ritiene pertanto oggi che il bene da conferire in
collazione, nel caso di acquisto da parte del donatario indiretto contro
pagamento del prezzo direttamente effettuato dal donante al terzo, sia appunto
il bene e non già il denaro impiegato per l’acquisto [369] . Tornando dunque al
campo dei rapporti tra coniugi, la donazione
indiretta – si diceva – viene usualmente ravvisata nell’ipotesi di
acquisto di un bene da parte dell’uno con denaro versato direttamente
dall’altro al terzo dante causa [370] . Talora il ragionamento
è stato esteso anche all’ipotesi di dazione del denaro al coniuge con «lo
scopo, preciso e specifico, di fargli acquistare un bene» [371] . Ciò determina, in base
ai noti principi in tema di donazione indiretta (art. 809 c.c.),
l’inapplicabilità delle disposizioni in materia di forma dettate dall’art. 782
c.c., con conseguente «salvezza» dell’acquisto in capo al coniuge intestatario,
nonché reiezione di qualsiasi pretesa avanzata dal soggetto erogatore del
denaro, anche se solo diretta al mero rimborso delle somme versate [372] .
Non è però detto, per lo meno in linea di principio, che
questa debba essere sempre la sorte delle attribuzioni di cui si discute. Come
si è infatti cercato di dimostrare in relazione ai rapporti tra conviventi more uxorio, anche sulla scorta di
alcune esperienze straniere [373] , sovente uno dei tratti
fondamentali che sembrano caratterizzare tali tipi di atti è costituito dalla difficoltà di rinvenire l’animus donandi. Ciò vale, in
particolare, per quei negozi diretti, sì, a rendere possibile un acquisto
esclusivamente in capo al ricevente, ma relativamente a beni che, nell’intenzione
del «donante» sarebbero destinati a servire ad entrambi. Esempio tipico è
l’acquisto della casa di abitazione, ovvero anche di quella delle vacanze,
oppure dell’autovettura destinata all’uso da parte del nucleo familiare, e così
via. È chiaro che qui l’eventuale difetto dell’intento liberale impedirebbe
all’interprete di ravvisare in quelle operazioni economiche gli estremi della
donazione, ancorché indiretta [374] .
Se dunque, in base alle argomentazioni sopra svolte, si
negherà la presenza di una donazione, ancorché indiretta, l’interprete dovrà,
caso per caso, indagare se per avventura l’attribuzione non sia sorretta da
un’autonoma causa, distinta da quella donandi.
E ciò egli dovrà fare avvalendosi, ovviamente, degli elementi offerti dalla
fattispecie concreta. Così, per esempio, l’esistenza di un accordo per la
restituzione della somma messa a disposizione dal «donante» dovrebbe indurre ad
affermare l’esistenza di un mutuo,
mentre l’intesa in forza della quale quello dei coniugi che agiva verso l’esterno
lo avrebbe dovuto fare per conto dell’altro, con l’impegno ad operare il
ritrasferimento nei suoi confronti, dovrebbe far propendere per l’esistenza di
un mandato o di un negozio fiduciario. In
assenza di uno di questi elementi, non rimarrà che riconoscere ingiustificata (sin
ab initio) l’attribuzione e dunque
proporre l’applicazione di rimedi di diritto comune, quali la ripetizione dell’indebito o l’arricchimento
ingiustificato, in maniera in tutto e per tutto simile a quanto si è
ritenuto di dover suggerire con riguardo all’analogo problema delle
attribuzioni patrimoniali tra conviventi more
uxorio [375] .
23. Autonomia negoziale dei coniugi, fondo
patrimoniale e impresa familiare.
Anche
per quanto riguarda il fondo patrimoniale la dottrina sottolinea, quale aspetto
qualificante del rilievo attribuito alla autonomia negoziale, l’ampiezza dei
poteri riconosciuti ai coniugi in ordine all’impiego dei beni sottoposti a
vincolo [376] ,
cui potrebbe sicuramente aggiungersi il potere delle parti di determinare
discrezionalmente il contenuto dell’atto costitutivo del fondo nel rispetto dei
principi fondamentali che caratterizzano l’istituto [377] .
Prima ancora, anzi, occorrerà sottolineare che il riconoscimento di tale
autonomia si spinge a consentire al costituente di derogare addirittura a
talune disposizioni poste a tutela dell’interesse familiare.
Ci
si intende qui riferire alla norma contenuta nell’art. 169 c.c., singolare
esempio di cattiva tecnica legislativa, caratterizzata da una bizzarra forma di
contorsionismo verbale in cui, come è stato esattamente notato [378] ,
tre «se» e tre «non» si accoppiano e si susseguono, ma da cui appare comunque
chiaro che al costituente è consentito di prevedere che i coniugi dispongano
liberamente dei beni del fondo, pur in presenza di figli minori. Conclusione,
questa, cui perviene la dottrina maggioritaria [379] e con essa la giurisprudenza [380] .
La soluzione appare senz’altro condivisibile alla luce del disposto dell’art.
169 c.c.; né in contrario vale asserire l’anomalia di un intervento
giurisdizionale la cui necessità venisse rimessa alla volontà delle parti [381] :
l’art. 356 c.c. sta invero a dimostrare che il nostro ordinamento conosce
quanto meno un caso in cui la necessità di un intervento autorizzativo previsto
come normale dalla legge può essere escluso per effetto della volontà dei
privati.
Altro
rilevante profilo di autonomia nell’istituto in questione è costituito dalla
possibilità di suo scioglimento per via consensuale. Invero, dal raffronto
dell’art. 171 c.c. con il suo omologo in tema di comunione legale (art. 191
c.c.) emerge che talune fattispecie estintive di quest’ultimo regime non sono
prese qui, almeno espressamente, in considerazione. In particolare, non si
prevede l’ipotesi del mutamento convenzionale di regime, con la conseguenza
che, secondo alcuni, il fondo non potrebbe essere eliminato mediante la stipula
di una nuova convenzione, bensì solo «esaurito», per effetto
dell’alienazione dei beni che lo
costituiscono [382] .
Si è però obiettato al riguardo che l’art. 171 c.c. non sembra derogare alla
generale previsione di cui all’art. 163 c.c., con conseguente possibilità, nel
caso di costituzione del fondo a mezzo di convenzione matrimoniale, di una
modifica della medesima, o addirittura di una sua risoluzione consensuale, nel
rispetto delle prescrizioni formali dell’art. ult. cit. [383] .
Proprio questa soluzione, senz’altro preferibile, alla luce della normativa
citata, esalta l’autonomia contrattuale dei coniugi anche in tale settore [384] .
Anche
la disciplina dell’impresa familiare concede un ampio spazio all’autonomia
privata, a cominciare dal celebre inciso «salvo che sia configurabile un
diverso rapporto», con cui s’apre l’art. 230-bis c.c. e che – quasi ad
instar di quanto stabilito dall’art. 159 c.c. con riguardo al regime
legale – s’espone alla critica di consentire alle coppie «accorte» di evitare
le disposizioni poste a tutela del «coniuge debole», rimuovendo in toto
un istituto che, nell’intenzione del legislatore, avrebbe dovuto apprestare un
rimedio ai problemi posti dalla spontanea prestazione di attività lavorativa
nell’àmbito della comunità familiare.
A
prescindere poi dalle dispute sulla natura dell’istituto, cui non può
ovviamente farsi neppure un sommario richiamo in questa sede [385] ,
va detto che la giurisprudenza, pur riconoscendo la natura sostanzialmente
quasi-contrattuale dell’impresa familiare [386] ,
riconosce comunque effetto al negozio che se ne ponga eventualmente
all’origine, non lasciando così priva di effetti la volontà diretta a costituire
una serie di rapporti economici purché non in contrasto con le disposizioni
dell’art. 230-bis c.c. ritenute dotate del carattere di imperatività [387] .
È
noto che il concetto di destinazione patrimoniale ha trovato espresso
riconoscimento legislativo con l’art. 39-novies
della l. 23 febbraio
2006, n. 51,
di conversione con modifiche del d.l. 30 dicembre 2005, n. 273 («Recante definizione e proroga di termini,
nonché conseguenti disposizioni urgenti. Proroga di termini relativi
all’esercizio di deleghe legislative»), che è venuto ad introdurre nel nostro
ordinamento il già più volte ricordato art. 2645-ter c.c., volto a consentire
«atti di destinazione per la realizzazione di interessi meritevoli di tutela» [388] .
Nel presente scritto – tralasciati i profili
generali dell’istituto, tra cui si potranno segnalare i rapporti con il trust [389] , o la nota disputa
sull’essere l’art. 2645-ter c.c.
norma sui soli effetti e non, invece (come correttamente ammesso dalla tesi
assolutamente prevalente), sulla fattispecie [390] , o, ancora, la gestione dei
beni vincolati [391] , nonché, il fondamentale
profilo della tutela dei creditori, avuto riguardo all’azione esecutiva
introdotta dall’art. 2929-bis c.c. [392] – si tratterà delle sole questioni relative
all’impiego dello strumento in esame nel territorio dei rapporti giusfamiliari.
In proposito appare quindi indispensabile procedere ad un rapido raffronto tra
vincolo di destinazione ex art. 2645-ter c.c. e fondo patrimoniale. Iniziando, infatti, dall’esame della funzione che
l’art. 2645-ter c.c. può svolgere
nella fase fisiologica del rapporto coniugale, v’è da chiedersi se il vincolo
di destinazione contemplato dalla norma in esame possa costituire una sorta di
succedaneo del fondo patrimoniale, il che comporta necessariamente un raffronto
tra i due istituti.
Per
assolvere a funzioni analoghe a quelle descritte dagli artt. 167 ss. c.c.,
invero, il vincolo ex art. 2645-ter c.c. dovrebbe essere creato, dai
coniugi o da terzi, a beneficio della famiglia, cioè a dire di quella
determinata famiglia costituita dai coniugi e dai figli nati e/o nascituri.
Peraltro, come appare evidente dalla lettura dell’art. 2645-ter c.c., la destinazione va
necessariamente disposta a favore di uno o più soggetti determinati. Ad avviso
di chi scrive, la meritevolezza dell’interesse, per le ragioni solidaristiche
lumeggiate in altra sede [393] ,
è di tale evidenza da consentire anche di collocare la famiglia nel suo
complesso tra uno di quegli «altri enti» cui fa richiamo la norma citata,
magari valorizzando quell’indirizzo che ormai unanimemente considera tanto la
famiglia legittima come quella di fatto quali «formazioni sociali» riconosciute
dall’art. 2 Cost.
E’
chiaro che la soluzione, la quale individua come beneficiario del vincolo di
destinazione la famiglia nel suo complesso – ed analogo discorso vale per la
convivenza more uxorio – eviterebbe
la necessità di un riferimento specifico ai membri attuali del nucleo in
considerazione, e, conseguentemente, il ricorso a non agevolmente ipotizzabili
atti di revoca e/o modifica, qualora il nucleo medesimo avesse ad ampliarsi o
ridursi.
Ai
sensi dell’art. 2645-ter c.c. sarà
quindi immaginabile la costituzione di un vincolo nell’interesse della famiglia
più «forte» di quello da fondo patrimoniale, per via dell’opponibilità nei
confronti di tutti i creditori dei coniugi, anche a prescindere dalla
ricorrenza delle condizioni, per così dire, «soggettive» descritte dall’art.
170 c.c., nonché per la diversa ripartizione dell’onus probandi delle
condizioni «oggettive» [394] .
La
formulazione di tale ultima norma, invero, impone, per l’opponibilità del
vincolo al creditore, non solo l’obiettiva estraneità del credito ai bisogni
della famiglia, ma anche la conoscenza, in capo al creditore, di tale
estraneità. Stato soggettivo, questo, il cui onere probatorio ricade sul
debitore [395] .
Al contrario, l’art. 2645-ter c.c. si
limita a stabilire che «I beni conferiti e i loro frutti possono essere
impiegati solo per la realizzazione del fine di destinazione e possono
costituire oggetto di esecuzione, salvo quanto previsto dall’articolo 2915,
primo comma, solo per debiti contratti per tale scopo». Ciò significa, in primo
luogo, che sul debitore non graverà l’onere di fornire alcuna prova (e sovente
si tratta di vera e propria probatio
diabolica) sullo stato soggettivo del creditore al momento della nascita
del rapporto obbligatorio e, in secondo luogo, che spetta al creditore
dimostrare che il debito è stato contratto «per la realizzazione del fine di
destinazione», posto che qui tale fatto viene descritto in positivo, quale
elemento costitutivo della fattispecie rappresentata dalla realizzazione in executivis della pretesa creditoria,
laddove l’art. 170 c.c. si riferisce ad un elemento impeditivo (descritto in
negativo: «l’esecuzione … non può avere luogo…»), che individua inevitabilmente
il debitore quale soggetto onerato [396] .
Va
precisato, a questo punto, che a soluzioni quanto meno parzialmente diverse
conduce la considerazione delle novità introdotte dall’art. 2929-bis c.c. [397] ,
laddove – ovviamente, a condizione che sussistano gli estremi per l’esperimento
della citata azione esecutiva: si pensi ad es. al rispetto del termine annuale
e alla circostanza che il vincolo sia stato creato a titolo gratuito dopo
l’insorgenza del credito – l’onere dell’iniziativa processuale sulle questioni
di cognizione viene posto a carico della parte debitrice, onerata per diversi
aspetti anche della prova liberatoria [398] .
Peraltro,
a parte i rilievi sull’azione esecutiva appena citata, non appaiono
condivisibili le affermazioni di chi sostiene che la norma in tema di
destinazione sarebbe analoga all’art. 170 c.c. [399] .
Tesi, questa, che può accettarsi, a tutto concedere, solo limitatamente ai
crediti nascenti ex delicto, in
relazione ai quali, come esattamente rilevato in dottrina [400] ,
l’obbligazione nasce indipendentemente dalla conoscenza o conoscibilità del
vincolo di destinazione, oltre che al di fuori di qualsiasi scelta del
creditore, mancando una situazione
affidante che giustifichi la limitazione della responsabilità [401] .
Così, pur in assenza di una norma analoga all’art. 2447-quinquies, terzo
comma, c.c., dovrà affermarsi che, come per il fondo patrimoniale [402] ,
così nella fattispecie in esame i beni vincolati rispondono ove siano fonte di
danni, perché, in entrambi i casi, è il vincolo di destinazione, quale elemento
distintivo, a fornire il criterio di riferimento per stabilire le categorie di
creditori interessate dalla vicenda destinatoria [403] .
Altro
effetto è sicuramente quello – lasciando da parte, ovviamente, l’ipotesi della
revocatoria, nonché dell’esperimento dell’azione ex art. 2929-bis c.c. e
la peculiare disposizione dell’art. 64, secondo comma, l. fall. [404] – dell’esclusione dei beni vincolati dalla
eventuale massa fallimentare, se non in relazione a quei debiti contratti «per
la realizzazione del fine di destinazione»: ciò in forza del generale riferimento,
nella norma in esame, ai «terzi», a prescindere dalla sede nella quale (e dalle
modalità con cui) essi facciano valere i loro diritti, nonché avuto riguardo a
quella già ricordata parte della disposizione secondo la quale «I beni
conferiti e i loro frutti possono essere impiegati solo per la realizzazione
del fine di destinazione e possono costituire oggetto di esecuzione, salvo
quanto previsto dall’articolo 2915, primo comma, solo per debiti contratti per
tale scopo». Tale effetto, derivando direttamente dall’art. 2645-ter c.c., non abbisogna di alcuna
interpretazione analogica dell’art. 46, primo comma, n. 3, r.d. 16 marzo 1942,
n. 267, così come modificato dal d.lgs. 9 gennaio 2006, n. 5, che, per il fondo
patrimoniale, prevede l’inclusione dei relativi beni nella massa fallimentare
nel caso di ricorrenza delle condizioni di cui all’art. 171 c.c.,
inapplicabile, come si è detto, al caso di specie. Inapplicabile appare
inoltre, per la sua specialità, l’art. 155, r.d. cit., che attribuisce al
curatore, nel caso di patrimonio
destinato ad uno specifico affare, ex
art. 2447-bis c.c., l’amministrazione
del patrimonio medesimo.
D’altro
canto, per ciò che attiene agli eventuali atti dispositivi, se il vincolo ai
sensi dell’art. 2645-ter c.c. può
sembrare a tutta prima più «debole» di quello da fondo patrimoniale, avuto
riguardo alla non necessità di autorizzazione giudiziale per gli atti ex art. 169 c.c. in presenza di figli
minorenni, è anche vero che la regola appena citata risulta, quanto meno
secondo l’opinione dominante, derogabile [405] .
Inoltre, l’effettuazione della pubblicità rende comunque il vincolo di
destinazione ex art. 2645-ter c.c. opponibile verso ogni
subacquirente, a differenza di quello che accade allorquando i coniugi si siano
riservati la facoltà di alienazione dei beni del fondo patrimoniale senza
autorizzazione (ovvero quando, in presenza della necessità di autorizzazione,
quest’ultima sia stata rilasciata), posto che, in tal caso, il terzo acquista
il bene certamente libero dal vincolo.
Concludendo
queste notazioni introduttive sul raffronto tra vincolo di destinazione fondo
patrimoniale, andrà affrontata brevemente un’obiezione il cui accoglimento
costituirebbe un evidente fin de non recevoir sulla possibilità di
parlare di vincoli di destinazione nella compagine familiare.
Ci si intende qui riferire al fatto che una
parte della dottrina, sembra ravvisare una ragione di inammissibilità della
costituzione del vincolo inter coniuges
nella non condivisibile tesi dell’esclusività (così potremmo tentare di
definire quest’idea) del fondo patrimoniale, ai fini della realizzazione
dell’intento dei coniugi di ottenere la creazione di un patrimonio separato ad onera matrimonii ferenda. Invero,
secondo tale avviso, anche considerando l’art. 2645-ter c.c. come norma sulla fattispecie a mezzo della quale si è
introdotta una nuova figura di patrimonio destinato allo scopo, lo strumento
ivi previsto rimarrebbe, comunque, inutilizzabile da parte di una famiglia che
volesse costituire un patrimonio vincolato al soddisfacimento dei propri
bisogni, in quanto ciò rappresenterebbe un inammissibile aggiramento
dell’istituto (il fondo patrimoniale) a tale fine tipicamente previsto dal
legislatore [406] .
In tale ottica, pertanto, la famiglia legittima, avendo a disposizione lo
strumento del fondo patrimoniale, connotato peraltro da una disciplina per
molti versi inderogabile, non potrebbe destinare taluni beni al soddisfacimento
dei bisogni della famiglia ex art.
2645-ter c.c., ma dovrebbe
necessariamente seguire le modalità costitutive, e attenersi alla disciplina,
del fondo. Infatti, si dice anche, sarebbe in concreto immeritevole di tutela
un interesse che trovi già adeguata e specifica disciplina in un istituto
tipico espressamente disciplinato [407] .
Una possibile variante di quest’impostazione è rappresentata dalla tesi secondo
cui (proprio in relazione ai rapporti con il fondo patrimoniale) l’atto di
destinazione andrebbe «sottoposto ad un severo controllo per evitare la
violazione, anche indiretta, di norme imperative relative a destinazioni
patrimoniali tipiche» [408] .
Ma,
in senso contrario, va considerato che nessuna disposizione del vigente
ordinamento, né tanto meno alcuno degli articoli dettati in materia di fondo
patrimoniale, assegna all’istituto ex
artt. 167 ss. c.c. il compito di vietare apporti di tipo diverso, ugualmente
tendenti al fine di fornire i mezzi di sostentamento alla famiglia. Fermo
restando l’ovvio divieto sancito dall’art. 166-bis c.c. e tenendo a mente il principio di libertà negoziale che
caratterizza (anche) quei particolari contratti che vanno sotto il nome di
convenzioni matrimoniali, ai coniugi (così come a qualsiasi altro soggetto)
deve ritenersi permesso realizzare qualsiasi fine meritevole di tutela, ivi
compresi quelli più strettamente attinenti alla gestione del ménage familiare, mercé lo strumento
generale e di diritto comune contemplato dall’art. 2645-ter c.c.
Come
correttamente già rilevato in dottrina, le indicate fattispecie non si pongono
in un rapporto di genere a specie, ma tutte su un medesimo piano, costituendo,
i patrimoni destinati ad uno scopo meritevole di tutela, una nuova ipotesi di
articolazione patrimoniale, che si affianca alle altre già previste dal
legislatore. In tale ottica, può quantomeno valutarsi la possibile
alternatività degli istituti in esame [409] .
Sul piano della meritevolezza degli interessi, per quanto riguarda poi la
creazione di un patrimonio destinato e separato al fine del soddisfacimento dei
bisogni della famiglia, esistendo già una fattispecie nominata in cui la
valutazione è stata compiuta a priori
dal legislatore, non vi è dubbio che tale interesse possa giustificare il
sacrificio delle ragioni creditorie. Vi si ravvisa, infatti, sia la tutela di
diritti costituzionalmente protetti, sia la loro rilevanza sul piano sociale e
morale, rappresentando, il dovere di contribuzione tra coniugi e quello di
mantenimento dei figli, prima che un obbligo giuridico, un dovere morale [410] .
Seguendo,
del resto, l’insostenibile tesi qui criticata, si finirebbe con il negare, nei
fatti, l’esistenza di un principio di atipicità delle convenzioni e dei regimi
matrimoniali [411] ;
d’altro canto, si dovrebbe concludere nel senso che – in ipotesi e per assurdo
– ad un coniuge sarebbe vietata la donazione in favore dell’altro di metà del
proprio patrimonio, posto che, per raggiungere il medesimo fine, sussiste lo
strumento «giusfamiliare tipico» del conferimento in comunione convenzionale!
L’art.
2645-ter c.c. permette poi anche la
costituzione di un vincolo nell’interesse della famiglia al di là delle ipotesi
in cui l’istituto ex artt. 167 ss.
c.c. è consentito: a parte l’ammissibilità di un vincolo in favore di un ménage di fatto [412] ,
il conferente potrà, anche in relazione ad una famiglia fondata sul matrimonio,
derogare a quanto stabilito dall’art. 171 c.c., stabilendo ad esempio che il
vincolo non cessi (ed anzi, questa sarà la regola, atteso il principio che
autorizza una durata dello stesso per novanta anni o per tutta la vita della
persona fisica beneficiaria) in caso di annullamento, scioglimento o cessazione
degli effetti civili del matrimonio, pur in assenza di figli minori.
Come
riconosciuto da una rilevante parte della dottrina, poi, un’applicazione ampia
dell’istituto ex art. 2645-ter c.c. consente di soddisfare quelle
esigenze alle quali il fondo patrimoniale non riesce ad adattarsi. In questo
senso, si ritiene che l’atto di destinazione potrebbe consentire di ampliare
l’ambito di applicazione del fondo patrimoniale oltre il limite dei bisogni
familiari. Potrebbe, dunque, ipotizzarsi una destinazione volta a soddisfare
solo alcuni bisogni della famiglia, e non altri, ovvero anche altri ed
ulteriori bisogni, ricomprendendovi, per esempio, le obbligazioni contratte
nell’esercizio dell’impresa familiare o dell’impresa svolta da uno solo dei
coniugi o dei figli. Potrebbe anche prevedersi una categoria di beneficiari più
ampia o più ristretta rispetto ai componenti della famiglia nucleare, ad
esempio facendo riferimento ai bisogni anche di un fratello unilaterale [413] .
Non
solo. Proprio per effetto della citata e dimostrata «concorrenzialità» tra gli
istituti in esame sarà possibile, per una coppia di coniugi, non solo
costituire un fondo patrimoniale su alcuni beni ed un vincolo di destinazione
su altri, ma anche stabilire, nell’atto costitutivo di un fondo patrimoniale,
che lo stesso si trasformerà in vincolo di destinazione al sopravvenire di uno
degli avvenimenti di cui sopra (crisi coniugale, o comunque scioglimento del
vincolo, sopravvenuta incapacità di uno o più figli, ecc.) [414] ,
dando così luogo, da un lato, ad uno strumento valido per la soluzione di
alcuni problemi patrimoniali collegati alla crisi della famiglia [415] e realizzando, dall’altro, una forma piuttosto
singolare di ideale «contraltare» rispetto alla possibilità, per un vincolo di
destinazione tra conviventi, di trasformarsi in fondo patrimoniale all’atto
della celebrazione delle eventuali nozze tra i partners [416] .
26. Vincoli di destinazione ex art. 2645-ter c.c. e
convenzioni matrimoniali.
Una
volta provata l’idoneità, quanto meno in astratto, della destinazione di uno o
più beni, ai sensi dell’art. 2645-ter
c.c., a realizzare gli interessi di un determinato nucleo familiare,
tratteggiate le differenze tra questo tipo di vincolo e quello creato dal fondo
patrimoniale, occorre però inevitabilmente porsi l’interrogativo sul rapporto
tra il negozio istitutivo del vincolo e la categoria delle convenzioni
matrimoniali.
Sul
punto sarà appena il caso di premettere che il problema non avrebbe, con ogni
probabilità, neppure ragione di porsi, qualora si dovesse ritenere di limitare
in via tassativa il novero delle convenzioni matrimoniali a quelle regolate nel
capo sesto del titolo sesto del libro primo del codice. Ma è noto che la tesi
ormai prevalente afferma il carattere atipico delle convenzioni e dei relativi
regimi patrimoniali [417] :
se, dunque, all’autonomia negoziale è concesso di liberamente dar vita a
convenzioni matrimoniali disegnanti regimi diversi da quelli previsti dagli
artt. 159 ss. c.c., a maggior ragione sarà consentito ai coniugi di avvalersi
di strumenti negoziali tipici (ancorché non previsti da norme tipicamente
giusfamiliari) per conseguire il risultato di ottenere un regime divergente da
quelli legislativamente nominati come tali.
Non
sembra che significative obiezioni possano insorgere avuto riguardo al
carattere essenzialmente unilaterale dell’atto costitutivo del vincolo. La
questione è già stata affrontata dallo scrivente con riguardo al trust [418] .
In quella peculiare situazione si era osservato che le più approfondite
trattazioni in materia evidenziano come – a parte la questione della dinamica
contrattuale esistente nel mondo dei trusts
– anche per il diritto inglese dall’accettazione del trustee (ancorché eventualmente in forma implicita) non possa
prescindersi, prevedendo del resto l’equity
procedure per sostituire un trustee
che sia mancato e per nominare un altro trustee
qualora quello indicato dal disponente non abbia accettato [419] .
Se ne era quindi concluso che, per diritto italiano, un accordo che
vedesse un coniuge (o un terzo) costituire beni in trust, nominando trustee
l’altro, andrebbe qualificato alla stregua di un negozio bilaterale e dunque di
una «convenzione matrimoniale», se diretto alla creazione di un regime
patrimoniale, intendendosi per tale (come, del resto, già specificato sopra), non solo l’insieme delle regole che precostituiscono la
sorte di una serie indeterminata
d’acquisti (determinabili unicamente ex
post), compiuti dai coniugi, bensì anche l’insieme di quelle regole che
precostituiscono (e qui il fondo patrimoniale docet) l’eventuale separazione patrimoniale di una certa massa determinata di beni apportati ad onera matrimonii ferenda, oltre che i
principi per la loro amministrazione ed alienazione [420] .
Allo
stesso modo potrà dunque riconoscersi nella creazione del vincolo ex art. 2645-ter c.c., alle condizioni predette, la natura di convenzione
matrimoniale, allorquando il negozio costitutivo nell’interesse della famiglia
assuma una struttura bilaterale o plurilaterale (si pensi alla costituzione di
un vincolo su beni di entrambi i coniugi e/o di terzi, sulla base di un accordo
tra tutti i soggetti coinvolti) e pertanto possa qualificarsi come
«convenzione», cioè accordo di due o più soggetti. Probabilmente alle medesime
conclusioni potrà pervenirsi anche in relazione ad una manifestazione puramente
unilaterale di volontà, posto che strettissima connessione esistente tra i
concetti di convenzione matrimoniale e di regime patrimoniale della famiglia (di
cui si dirà tra poco) può forse consentire di ampliare la prima delle due
nozioni, al punto da comprendere ogni tipo di atto idoneo, secondo la legge, a
dar vita ad un regime, a prescindere dalla struttura unilaterale, bilaterale o
plurilaterale dell’atto stesso.
L’ostacolo potrebbe essere, semmai, un altro. Se, invero,
dovesse seguirsi quell’opinione dottrinale secondo cui la convenzione può dar
vita solo ad una scelta tra un regime comunitario o un regime separatista [421] ,
con assoluta esclusione di qualsiasi altro tipo di effetto, vuoi reale, vuoi
obbligatorio, non potrebbe esservi spazio per una convenzione matrimoniale che
si limitasse invece a porre, nell’interesse della famiglia, vincoli su beni
determinati, che si trovino già nella titolarità dell’uno e/o dell’altro dei
coniugi o di terzi. Ed in effetti i sostenitori di quella tesi si vedono, per
coerenza, costretti a negare la natura di convenzione matrimoniale del negozio inter vivos costitutivo di fondo
patrimoniale, così come la natura di regime, propria dell’istituto ex artt. 167 ss. c.c. [422] .
Questa
tesi, però, appare chiaramente smentita non solo – se ci si passa l’espressione
– dalla «topografia» [423] e dalla
«toponomastica» [424] legislative, ma
anche dal fatto che, per i beni sottoposti a tale vincolo, vigono regole (di
«regime») difformi rispetto a quelle valevoli per la comunione legale: il negozio
che al fondo dà vita è pertanto riconducibile alla definizione che del concetto
di convenzione matrimoniale risulta estrapolabile dall’art. 159 c.c., come di
quel negozio idoneo a dar luogo ad un regime patrimoniale della famiglia [425] .
La
verità è che occorre intendersi sul concetto di regime: se per tale si dovesse
ritenere esclusivamente la regola che assegna alla proprietà comune o personale
dei coniugi i futuri ed eventuali acquisti, è chiaro che la convenzione ex artt. 167 ss. c.c. non apparirebbe
idonea all’uopo, posto che il vincolo del fondo – e, oggi, quello ex art. 2645-ter c.c. – non può per definizione costituirsi se non su beni
predeterminati. Seguendo dunque il principio secondo cui la convenzione
matrimoniale è necessariamente fonte di un regime patrimoniale della famiglia (arg.
ex art. 159 c.c.), se ne dovrebbe
concludere che tale non potrebbe essere l’accordo diretto a costituire un fondo
patrimoniale. Ma la disciplina della comunione legale dimostra che il concetto
di «regime» non si esaurisce nella regola del coacquisto; essa si risolve anche
in una serie di precetti e di vincoli che vengono ad influenzare la «vita»
stessa dei beni nel corso dell’unione matrimoniale: dall’amministrazione
all’alienazione, al pignoramento e, più in generale, alle vicende che
coinvolgono terzi creditori e/o aventi causa.
E
puntuale giunge, anche sul punto, la conferma dall’analisi storica, dalla quale
si ricava che l’espressione régime (dal
latino regere: governare,
amministrare), utilizzata per secoli in Francia per contrapporre il régime en communauté (proprio delle
regioni di droit coutumier) a quello dotal (caratteristico delle regioni di droit écrit), e dunque nell’accezione,
generalissima, di «regola», dopo la codificazione napoleonica venne intesa
dalla dottrina come «l’ensemble des règles qui régissent l’association
conjugale quant aux biens» [426] . Regole che, come icasticamente posto in evidenza
dalla dottrina contemporanea d’Oltralpe, attengono non solo ad una question de propriété, ma anche ad una question de pouvoirs [427] .
Se
così stanno le cose, è evidente che anche la convenzione costitutiva del fondo
patrimoniale, in quanto diretta a dettare regole speciali di amministrazione,
vincoli e «vita» di beni della famiglia, in (parziale) deroga ai principi
propri della comunione (o della separazione dei beni), viene a costituire
proprio uno di quei possibili negozi in deroga al regime legale che l’art. 159
c.c. raggruppa sotto l’espressione «diversa convenzione» [428] .
Ne
discende dunque ulteriormente che, per identiche ragioni, alle stesse
conclusioni deve pervenirsi con riguardo ad un vincolo costituito ex art. 2645-ter c.c. nell’interesse della famiglia.
Riconosciuta la natura di convenzione matrimoniale propria
dell’atto costitutivo di un vincolo di destinazione in favore di una
determinata famiglia, dovrà ulteriormente concludersi che, ai sensi dell’art.
Le considerazioni sin qui svolte aprono la via alla
trattazione dei rapporti tra vincolo ex
art. 2645-ter c.c. e comunione
legale.
Il primo rilievo da svolgere al riguardo attiene al fatto che
l’eventuale costituzione di vincoli di destinazione (vuoi nell’interesse della
famiglia, vuoi di terzi) su beni in comunione legale costituisce sicuramente
atto di straordinaria amministrazione, con conseguente applicabilità degli
artt. 180 ss. c.c. ed in particolare del rimedio dell’annullabilità dell’atto, ex art. 184 c.c., se l’atto è compiuto senza il necessario consenso del
coniuge [434] .
Qualora, invece, gli atti in oggetto dovessero colpire la sola quota di
pertinenza del disponente, essi sarebbero senz’altro nulli, in quanto
determinativi di una situazione di scioglimento della comunione non prevista
dall’art. 191 c.c. [435] .
Si noti, poi, che, per quanto attiene alla annullabilità
comminata in relazione agli atti relativi ai beni immobili o mobili registrati
dall’art. 184, primo e secondo comma, c.c., il negozio su beni della comunione
posto in essere da uno solo dei coniugi in veste di conferente e dall’altro in
veste di beneficiario (o, per il trust, nelle vesti, rispettivamente, di
costituente e di trustee) dovrebbe
comunque ritenersi convalidato dall’accettazione espressa o tacita di
quest’ultimo [436] .
Da
quanto appena detto deriva, a contrariis,
che la costituzione di un trust o di
un vincolo ai sensi dell’art. 2645-ter c.c.
su beni della comunione da parte di entrambi i coniugi nella veste di settlors o, rispettivamente, di
«conferenti», non dovrebbe dar luogo a problemi di applicazione dell’art. 184
c.c.
Sul
piano della validità del negozio potrebbe però revocarsi in dubbio la stessa
ammissibilità di un’operazione diretta a vincolare beni della comunione legale
per effetto di un atto posto in essere da entrambi i coniugi, nella veste di settlors o di «conferenti», alla luce
della tesi – non condivisa dallo scrivente, ma comunque affermata da una parte
rilevante della dottrina – che contesta la possibilità di estromettere singoli
beni dalla comunione, durante la vigenza di quest’ultima [437] .
Il risultato dell’operazione sarebbe invero costituito dall’assoggettamento di
uno o più beni, destinati a rimanere di proprietà comune dei coniugi, a regole
diverse da quelle proprie della comunione legale. L’argomento appare, ancora
una volta, strettamente connesso al tema dell’autonomia privata dei coniugi in
comunione [438] ,
nonché, più specificamente, alla vexata quaestio dell’ammissibilità di
un rifiuto preventivo del coacquisto ex lege [439] ,
controversia rinfocolata – come pure si è già detto – da quella decisione di
legittimità del 2003 sul tema, che, andando di contrario avviso rispetto ad un
precedente del 1989, si è spinta ad affermare che, manente communione, «il coniuge non può rinunciare alla
comproprietà di singoli beni acquistati durante il matrimonio (e non
appartenenti alle categorie elencate nell’art. 179, primo comma, c.c.) salvo
che sia previamente o contestualmente mutato, nelle debite forme di legge e nel
suo complesso, il regime patrimoniale della famiglia» [440] .
E’
chiaro che, qualora questa non condivisibile teoria dovesse venire trasposta
alla materia qui in esame, dovrebbe ritenersi inibito ai coniugi in comunione
di vincolare uno o più beni del patrimonio comune, se non previa stipula di
convenzione di passaggio al regime di separazione dei beni. E’ innegabile,
infatti, che la sottoposizione di beni al vincolo da trust o da atto di destinazione, pur se nell’interesse della
famiglia e senza espropriare i coniugi della contitolarità del diritto
dominicale sui beni stessi, sottrarrebbe questi ultimi al regime proprio della
comunione legale (si pensi alle norme in tema di amministrazione e di rapporti
con i creditori, tanto comuni che personali dei coniugi), così determinandone
una forma di «estromissione» dalla massa soggetta all’applicazione degli artt.
177 ss. c.c. [441] .
In
senso contrario alla tesi proposta da chi scrive si è sottolineato [442] che il vincolo ex art. 2645-ter c.c. non
sottrarrebbe il bene al regime della comunione legale, poiché il cespite «resta
in comunione salvo che contestualmente al vincolo esso non sia stato del pari
trasferito, ed il suo modificato regime di aggredibilità da parte dei creditori
con la conseguente prevalenza del disposto dell’art. 2645-ter, ultima parte, c.c. rispetto agli artt. 186-189 c.c. è effetto
stabilito dalla legge senza limitazione alcuna». Tale avviso, a ben vedere,
conferma proprio che il bene, pur rimanendo in contitolarità dei coniugi, non è
più soggetto alla comunione legale: quest’ultima, come più volte chiarito, non
è solo principio di determinazione della co-appartenenza, ma – in quanto regime
patrimoniale legale – è (anche) regola di amministrazione dei cespiti comuni e
di rapporti con in creditori [443] .
E non appare contestabile che le proprio tali basilari regole (quelle, cioè,
dettate dagli artt. da
Una
soluzione del problema potrebbe essere rinvenuta mercé il ricorso alla tesi,
prospettata dallo scrivente, secondo la quale la costituzione stessa di un trust familiare, o di un vincolo di
destinazione ex art. 2645-ter c.c. nell’interesse della famiglia,
costituisce una convenzione matrimoniale atipica, dal momento che, pur
investendo uno o più beni determinati, essa influisce inevitabilmente sul
relativo «regime» di gestione, venendo a plasmarlo in modo difforme rispetto a
quello che esso ordinariamente sarebbe, nei rapporti con i terzi, aventi causa
o creditori che siano [445] .
La conclusione, se prospetta un aggravamento delle formalità da rispettarsi per
la validità e per l’opponibilità del vincolo (si pensi, a tacer d’altro, a
quanto disposto dai vari commi dell’art. 162 c.c.), esonera le parti dalla
necessità di prevedere un passaggio «intermedio» al regime di separazione dei
beni: una «tappa», questa, non necessaria, ad avviso dello scrivente, per le
ragioni sopra evidenziate, ma indubbiamente richiesta dall’opinione prevalente
in giurisprudenza, come si è appena chiarito [446] .
Sino
ad ora si è detto della posizione del coniuge (o dei coniugi) agente quale
conferente, nel negozio di destinazione, o quale settlor nel trust.
Vedendo le cose, invece, dal lato del trustee,
ed ipotizzando che costui si trovi in regime di comunione, va osservato come il
problema dell’eventuale caduta in regime legale dei diritti dal trustee acquisiti in forza del trust possa apparire, almeno a prima
vista, per molti versi analogo a quello, in altra sede discusso, del mandatario
per l’acquisto [447] .
In realtà la questione è affrontata e risolta dall’art. 11, secondo comma,
lett. c), della Convenzione del L’Aja, a mente del quale, «Qualora la legge
applicabile al trust lo richieda, o
lo preveda, tale riconoscimento implicherà, in particolare: (…) c) che i beni
del trust non facciano parte del
regime matrimoniale o della successione dei beni del trustee». Come rilevato in dottrina [448] ,
ci troviamo qui di fronte ad un complemento importantissimo del regime di
separazione patrimoniale, a cui consegue l’esclusione del bene vincolato dalla
comunione legale dei beni, nonché dalla successione per causa di morte del trustee, coerentemente con la natura di «proprietà
nell’interesse altrui» di quest’ultimo.
La
soluzione a suo tempo prospettata da chi scrive per gli acquisti del mandatario
sarà invece senz’altro valevole nel caso del vincolo ex art. 2645-ter c.c.,
qualora il conferente intenda operare un trasferimento della titolarità del
bene vincolato ad un mandatario «attuatore del vincolo» [449] .
In diritto italiano un tale effetto non è previsto dalla legge, cosicché – nel
caso in cui il vincolo di destinazione sia accompagnato dal trasferimento della
proprietà, fiduciae causa, ad un
terzo – si porrà il problema della sua eventuale inclusione nel regime di
comunione legale dei beni del fiduciario, nonché quello della trasmissione agli
eredi del fiduciario medesimo in caso di sua morte.
Per
quanto concerne il regime patrimoniale, la dottrina ha sostenuto l’esclusione
della proprietà fiduciaria, ed in genere degli acquisti meramente «strumentali»
e «non definitivi» dalla comunione legale dei beni [450] ,
ma si tratta di opinione non convincente, in assenza di una disposizione
espressa che tale esclusione sancisca, di fronte al principio generale
stabilito dall’art. 177, lett. a), c.c. D’altro canto la giurisprudenza di
legittimità ha già avuto modo di affermare [451] l’inopponibilità dell’interposizione reale al
coniuge dell’interposto in comunione legale con quest’ultimo. Al coniuge è
dunque stato riconosciuto il diritto di esperire proficuamente l’azione di
annullamento ex art. 184 c.c. di un
preliminare volto al trasferimento del bene dall’interposto all’interponente [452] .
La
costituzione di un vincolo ex art.
2645-ter c.c. su beni già costituiti
in fondo patrimoniale presuppone la previa estinzione del vincolo ex artt. 167 ss. c.c. L’operazione
necessita dell’autorizzazione ex art.
169 c.c., qualora essa non sia stata esclusa dal titolo costitutivo [453] .
Al riguardo potrà soccorrere la giurisprudenza in tema di trust, con particolare riguardo a quella decisione di merito [454] che ha respinto un ricorso tendente a
consentire lo scioglimento anticipato del fondo patrimoniale affinché i beni in
esso inclusi fossero vincolati nel trust.
La decisione poggia sul rilievo secondo cui, nonostante l’analogia di effetti
tra trust e fondo patrimoniale, al
potere di disposizione del trustee
non veniva posto alcun limite né, conseguentemente, onere di richiedere
autorizzazione giudiziale (come invece richiesto, nel caso di specie, ai sensi
dell’art. 169 c.c. nel caso del fondo patrimoniale). E’ evidente che, in una
situazione analoga, anche la sottoposizione a vincolo di destinazione ex
art. 2645-ter c.c. di beni oggetto di fondo patrimoniale (in caso il
titolo costitutivo non escludesse la necessità dell’autorizzazione ex art. 169 c.c.) priverebbe il vincolo
delle garanzie proprie del regime autorizzativo previsto dalla norma in esame e
pertanto non potrebbe essere autorizzata.
Avviandoci alla conclusione
della trattazione degli aspetti problematici del vincolo di destinazione nei
rapporti endofamiliari non possiamo fare a meno di occuparci del ruolo che
l’art. 2645-ter c.c. può svolgere
nell’ambito della famiglia di fatto.
Sul punto va subito detto che
numerosi commentatori non esitano a ravvisare nella disposizione la possibilità
di creare vincoli in favore della convivenza more uxorio: da disposizioni sulla casa familiare, alla protezione
del patrimonio destinato ad alimentare le risorse del ménage, alla creazione di un vero e proprio fondo patrimoniale tra
conviventi [455] , non essendo discutibile la meritevolezza di
tutela degli scopi perseguiti [456]
.
Sul piano pratico non appare
del resto condivisibile il rilievo
espresso da una parte della dottrina [457]
, ad avviso della quale alcuni notai si sarebbero addirittura «rifiutati di predisporre l’atto
in parola a garanzia dell’adempimento del mantenimento dei figli naturali in
seno a una famiglia di fatto, ritenendo applicabile la disciplina de qua ai soli accordi tra coniugi uniti
in matrimonio e i loro figli». Invero, a chi scrive risulta l’esatto opposto,
avendo, anzi ricevuto da diversi notai proprio il «canovaccio» di possibili
intese del genere [458]
. Sia inoltre
consentito aggiungere che l’istituto in esame è già stato utilizzato, nella
prassi notarile, non solo per prevedere forme di garanzia alla contribuzione
verso i figli della coppia, ma anche, tutto al contrario, per disporre una
forma di «assicurazione materiale» della contribuzione da parte del figlio
della coppia di fatto alle esigenze dei genitori [459] .
Ancora, dovrà tenersi presente che lo stesso Consiglio
Nazionale del Notariato, nel corso del
Nessuna preoccupazione d’ordine
costituzionale sembra del resto sorgere dalla diversa disciplina della norma in
discorso rispetto a quella delle norme che governano il fondo patrimoniale [461]
: la diversità di trattamento è legata alla diversità degli istituti, ma
nulla esclude che anche nella famiglia fondata sul matrimonio si possa fare
ricorso ad un vincolo di destinazione ex
art. 2645-ter c.c., come si è tentato
in precedenza di dimostrare [462]
.
Anzi, come appare documentato
da alcuni atti costitutivi del vincolo in oggetto tra conviventi pervenuti allo
scrivente, nulla sembra escludere che un’apposita clausola dell’atto stesso
colleghi all’eventuale celebrazione del matrimonio inter partes l’automatica trasformazione del vincolo in fondo
patrimoniale [463]
. È noto che le convenzioni matrimoniali [464]
ben possono essere stipulate in
data precedente alle nozze e, del resto, la condizione legale di celebrazione
delle nozze impedisce alle stesse di produrre effetti in epoca anteriore; il
riferimento sarebbe qui comunque ad un matrimonio ben determinato (quello dei
conviventi, per l’appunto), per cui neppure sotto questo profilo potrebbero
sussistere problemi di validità. Il tutto, ovviamente, a condizione che l’atto
in questione soddisfi i requisiti di forma (art. 162 c.c.,
Meno che mai si potranno
immaginare ostacoli sulla base di una pretesa (nella famiglia di fatto)
«assenza di una predeterminazione astratta dell’interesse» del nucleo
familiare, così come di una asserita «impossibilità di procedere ad una sua
[dell’interesse: n.d.a.] tendenziale definizione sotto il profilo temporale» [465]
. L’interesse patrimoniale a far fronte ai bisogni del ménage familiare è vivo, reale e
riconosciuto come tutelabile tanto nella famiglia fondata sul matrimonio, così
come nella libera unione, come attestato dalla possibilità di esprimersi, anche
in questo secondo caso, in termini di veri e propri «regimi patrimoniali della
famiglia di fatto»: «regimi» che vanno dall’obbligazione naturale, all’arricchimento
ingiustificato, al riconoscimento di una sicura meritevolezza di tutela nella
costellazione dei contratti di convivenza [466]
.
Del tutto isolata, del resto, è
rimasta la posizione [467]
secondo cui alle convivenze non
fondate sul matrimonio sarebbe addirittura inapplicabile l’art. 2645-ter c.c., a causa della peculiarità
dell’interesse familiare che escluderebbe il suo soddisfacimento attraverso lo
strumento destinatorio, posto che quest’ultimo prescinderebbe
dall’inquadramento del fine all’interno dell’ambito familiare. Secondo tale
singolare prospettazione, ciò deriverebbe dal fatto che la maggior parte degli
interessi familiari non sarebbe suscettibile di soddisfazione mediante la
destinazione di un bene «perché il programma di attuazione di interessi che
costituiscono il profilo funzionale di inderogabili doveri familiari non appare
determinabile mediante la destinazione al relativo soddisfacimento di un fondo
agricolo, di un trattore, ovvero di una nave, manifestandosi come il prodotto
della ponderazione degli interessi coinvolti nella reale vicenda e delle
relazioni correnti tra essi che, soltanto dopo l’individuazione della sua
dimensione nel caso concreto, ne consente, essenzialmente ad opera dei coniugi
mediante i c.dd. negozi di negozi di indirizzo della vita familiare, la
concreta determinazione delle modalità attuative, sia pure per un tempo
estremamente limitato» [468]
. Inoltre, l’atto di destinazione mirante alla soddisfazione di un
interesse già tutelato dall’ordinamento mediante l’attribuzione di un diritto
soggettivo, non presenterebbe «il proprium
della destinazione, vale a dire la funzionalizzazione della situazione
giuridica soggettiva che riscontra il suo punto di riferimento oggettivo nel
bene destinato tale da esigere la riformulazione dei poteri, doveri, facoltà,
in essa contenuti fino a determinare anche l’ingresso nella situazione
giuridica soggettiva di nuovi obblighi finalizzati all’attuazione dello scopo
di destinazione» [469]
.
Ora, a parte il fatto che nella
convivenza more uxorio non esistono,
tra i partners, rapporti
giuridicamente vincolanti derivanti dal fatto stesso dell’esistenza di un ménage [470]
e che la previsione di un vincolo,
così come la stipula di un contratto di convivenza, mirano a fornire al
convivente debole proprio quella tutela che la legge gli rifiuta, resta la
considerazione che nel concetto stesso di destinazione ben può rientrare la
messa disposizione diretta di uno o più beni per il soddisfacimento delle
necessità della famiglia (fondata o meno che sia sul matrimonio), fin tanto che
il nucleo familiare esiste, laddove la stipula di un atto del genere di quelli
in esame ben potrebbe rientrare nel programma di un «negozio di indirizzo della
vita familiare», anche se si «limitasse» (si fa per dire) a prevedere, ad
esempio, il necessario utilizzo dei canoni di locazione dei beni vincolati al
procacciamento dei beni e servizi che servono al regolare (e dai coniugi, o dai
partners, come sopra «indirizzato»)
svolgimento della vita familiare.
Nei limiti e con le precisazioni di cui sopra, va dunque
ribadito che il vincolo di cui all’art. 2645-ter c.c. potrà essere costituito in favore della famiglia di fatto,
ad instar di quanto accade per la
famiglia fondata sul matrimonio per il fondo patrimoniale [471] .
La conclusione, già più volte affermata dallo scrivente,
va ulteriormente ribadita pur dopo l’introduzione della riforma del 2016 sulle
convivenze di fatto che, tanto per semplificare la vita dell’interprete tace
nel modo più assoluto sul punto. Peraltro, il carattere non tassativo dei
contenuti del contratto di convivenza di cui al comma
Ciò detto, si stagliano però nette diverse differenze
rispetto all’istituto di cui agli artt. 167 ss. c.c.
Cominciando dalla ragione principale per la quale il
fondo viene costituito, vale a dire la costituzione di una situazione d’insaisissabilité [472] di uno o più beni, va subito ricordato che il
vincolo ex art. 2645-ter c.c. è più «forte» [473] di quello da fondo patrimoniale, per via
dell’opponibilità nei confronti di tutti i creditori dei coniugi, anche a
prescindere dalla ricorrenza delle condizioni, per così dire, «soggettive»
descritte dall’art. 170 c.c., nonché per la diversa ripartizione dell’onus probandi
delle condizioni «oggettive» [474] .
Altro effetto – già ricordato con riguardo alla famiglia
fondata sul matrimonio – appare essere quello dell’esclusione dei beni
vincolati dalla eventuale massa fallimentare, se non in relazione a quei debiti
contratti «per la realizzazione del fine di destinazione» [475] .
Anche qui, poi, vale il rilievo per cui, per ciò che
attiene agli eventuali atti dispositivi, se il vincolo ai sensi dell’art. 2645-ter c.c. può sembrare a tutta prima più
«debole» di quello da fondo patrimoniale, avuto riguardo alla non necessità di
autorizzazione giudiziale per gli atti ex
art. 169 c.c. in presenza di figli minorenni, è anche vero che la regola appena
citata risulta, quanto meno secondo l’opinione dominante, derogabile. Inoltre,
l’effettuazione della pubblicità rende comunque il vincolo di destinazione ex art. 2645-ter c.c. opponibile verso ogni subacquirente, a differenza di
quello che accade allorquando i coniugi si siano riservati la facoltà di
alienazione dei beni del fondo patrimoniale senza autorizzazione (ovvero
quando, in presenza della necessità di autorizzazione, quest’ultima sia stata
rilasciata), posto che, in tal caso, il terzo acquista il bene certamente
libero dal vincolo.
Il ricorso all’art. 2645-ter c.c. permette poi anche la costituzione di un vincolo temporale
nell’interesse della famiglia di fatto al di là delle ipotesi in cui l’istituto
ex artt. 167 ss. c.c. è consentito
per la famiglia fondata sul matrimonio. I costituenti, per esempio, potranno
derogare a quanto stabilito dall’art. 171 c.c., stabilendo, sempre a titolo
d’esempio, che il vincolo non cessi (ed anzi, questa sarà la regola, atteso il
principio che autorizza una durata dello stesso per novanta anni o per tutta la
vita della persona fisica beneficiaria) in caso di scioglimento del ménage (e, dunque, di una situazione
speculare rispetto al divorzio), pur in assenza di figli minori.
In quest’ottica il vincolo ex art. 2645-ter c.c. può
prestarsi a fornire garanzie per le prestazioni a favore della prole, una volta
intervenuta la crisi del ménage, in
maniera esattamente speculare rispetto a quanto già consentito da una decisione
di merito in relazione alla separazione personale dei coniugi [476] .
Venendo poi a trattare del profilo soggettivo, va subito
posto in evidenza che l’art. 167 c.c., in materia di fondo patrimoniale,
individua genericamente «la famiglia» come beneficiaria dell’istituto. Ora,
secondo la dottrina, la famiglia cui la norma fa richiamo possiede
un’estensione che non va oltre la famiglia nucleare, atteso l’evidente
collegamento del fondo con l’obbligo di contribuzione dei coniugi (art. 143
c.c.) e dei figli (art. 315 c.c.), nonché con quello di mantenimento della
prole (artt. 147 e 148 c.c.). Per quanto attiene a quest’ultima, fermo restando
che in tale concetto si debbono far rientrare i figli (legittimi, legittimati,
adottivi, nonché i minori in affido temporaneo) della coppia a prescindere
dalla loro nascita rispetto al momento di costituzione del fondo, si discute
sulla possibilità di riferire il fondo anche ai figli (legittimi, naturali o
adottivi) di un solo coniuge.
La tesi preferibile valorizza l’indispensabilità
dell’elemento matrimoniale per la costituzione del fondo, al fine di ricavarne
l’impossibilità di pervenire alla ventilata estensione. Non manca però chi
ritiene di valorizzare il ruolo dell’eventuale introduzione del minore
unilaterale nella famiglia legittima del proprio genitore. Si discute infine
sulla riferibilità dell’istituto ai figli maggiorenni, pervenendo la tesi
prevalente e preferibile alla soluzione di ritenere compresi i figli
maggiorenni non ancora autosufficienti [477] .
Ora, a differenza dell’art. 167 c.c. («… bisogni della
famiglia»), l’art. 2645-ter c.c.
sembra presupporre invece l’esatta individuazione di uno o più soggetti
determinati («… altri enti o persone fisiche»).
Ad avviso di chi scrive, peraltro, la meritevolezza
dell’interesse, per le ragioni solidaristiche che ispirano la norma, è di tale
evidenza da consentire anche di collocare la famiglia nel suo complesso (vuoi
legittima, vuoi di fatto) tra uno di quegli «altri enti» cui fa richiamo la
disposizione, magari valorizzando quell’indirizzo che ormai unanimemente
considera tanto la famiglia fondata sul matrimonio, come il ménage di fatto, quali «formazioni sociali»
riconosciute dall’art. 2 Cost. [478] . È chiaro che la soluzione, la quale individua come
beneficiario del vincolo di destinazione la famiglia nel suo complesso
eviterebbe la necessità di un riferimento specifico ai membri attuali del
nucleo in considerazione, e, conseguentemente, il ricorso a non agevolmente
ipotizzabili atti di revoca e/o modifica, qualora il nucleo medesimo avesse ad
ampliarsi o ridursi.
Non
vi è dubbio che, dal punto di vista fattuale, tale soluzione appaia, almeno a
prima vista, più problematica per la convivenza more uxorio rispetto all’unione matrimoniale. Si è infatti rilevato
[479] che manca un elemento che consenta
d’individuarne i componenti, come componenti di un gruppo. E ciò in quanto il
rapporto tra i conviventi non è desumibile da un atto formale, così come il
rapporto tra i conviventi ed i figli non è un rapporto collettivo che riguarda
tutti, ma è rapporto che lega individualmente ciascuno di essi (ad eccezione –
solo ad alcuni fini – per i fratelli naturali riconosciuti dal medesimo
genitore).
Si
è così ulteriormente sottolineato che «mentre la famiglia legittima contiene in
sé l’elemento formale ed unificante che consente l’immediato riconoscimento di
tutti i suoi componenti presenti e futuri rispetto al momento genetico di un
qualunque atto d’autonomia che possa riguardarli (tali, infatti, sono i coniugi
uniti in matrimonio, o i loro figli legittimi), la famiglia di fatto non
consente un’identificazione collettiva dei suoi componenti: i conviventi
possono nel tempo cambiare senza alcuna ripercussione giuridica, e gli stessi
figli sono tali, sul piano giuridico, in relazione a ciascun genitore che
effettua il riconoscimento» [480] .
Peraltro,
come sopra chiarito, neppure nella famiglia legittima i confini soggettivi
appaiono sempre così chiaramente delineati, se è vero che non manca chi ha
inteso fondare proprio sulla convivenza il tratto identificativo della
«famiglia» rilevante ex artt. 167 ss.
c.c. [481] ,
mentre diversi Autori non esitano a riferire il fondo patrimoniale, come si è
visto, anche ai minori in affidamento, ai figli (legittimi, naturali, adottivi)
di uno solo dei coniugi, purché inseriti nel nucleo familiare, e agli stessi
figli maggiorenni della coppia coniugata, purché ancora non autosufficienti e
conviventi con i genitori [482] .
Del
resto, non è escluso che, nella famiglia di fatto, l’identificazione dei
componenti possa avvenire anche solo per
relationem. Una volta individuati
nell’atto costitutivo i due soggetti del cui ménage si tratta, sarà sufficiente indicare, genericamente, la
prole che da tale unione nascerà (e – perché no? – aggiungervi l’astratta
possibilità che il nucleo si estenda, con l’inserimento di fatto di eventuali
figli unilaterali o minori in affido). Quanto all’ulteriore possibile
presupposto, costituito dalla previsione che il rapporto di filiazione sia
legalmente accertato mercé riconoscimento o dichiarazione giudiziale, atteso il
carattere meramente dichiarativo di siffatti atti e la presenza di
un’obbligazione naturale per ciò che attiene al mantenimento di figli naturali
eventualmente non riconosciuti né dichiarati, non sembra possa predicarsi
l’assoluta indispensabilità di tale elemento (ancorché dal punto di vista
pratico il suo inserimento appaia raccomandabile, così come consigliabile comunque
appare la nominativa menzione dei soggetti beneficiari già in vita) [483] .
Se è vero che, come sopra illustrato, la
tutela dell’interesse della famiglia, e, all’interno di questa, delle posizioni
più deboli costituisce precipuo campo di applicazione dell’istituto ex art. 2645-ter c.c., va aggiunto che proprio il perseguimento di tale scopo
potrebbe incontrare un imprevisto ostacolo «burocratico», qualora si dovesse
ritenere l’atto in questione, in quanto diretto a costituire un vincolo in
favore di uno o più soggetti incapaci o semi-incapaci, soggetto al regime
autorizzativo previsto dal codice per i negozi relativi alla gestione dei
patrimoni di minori, interdetti, inabilitati, beneficiari di amministrazione di
sostegno.
Sul
punto potrà menzionarsi un provvedimento del 2012 [484] ,
che ha escluso che l’atto di destinazione ex
art. 2645-ter c.c. a favore di minori
d’età necessiti di autorizzazione ex
art. 320 c.c., sia per il conseguimento, sia per il consolidamento della
posizione beneficiaria.
Nella
specie, il padre e la nonna di due minorenni intendevano destinare, senza
effetti traslativi, la dimora avita, di loro proprietà, a favore di se
medesimi, del coniuge del primo e dei figli minorenni di entrambi i coniugi. Lo
scopo era evidentemente quello di provvedere ai bisogni fondamentali della loro
persona: al bisogno di un’abitazione gratuita e consona allo status familiare, ai bisogni sanitari di
tutti i beneficiari e alle spese di educazione, istruzione e formazione
professionale dei figli. L’attuazione della destinazione era riservata, quali
primi gestori, ai costituenti con poteri disgiunti di ordinaria amministrazione
e congiunti di straordinaria amministrazione.
Come
osservato in dottrina [485] ,
si trattava di un atto di destinazione in parte autodestinato, in parte
eterodestinato. Esso imprimeva sui beni una specifica destinazione allo scopo,
dando vita a una relazione fiduciaria, al cui fascio di poteri e obblighi
faceva pendant una conformazione
della proprietà. Il ricorso era stato proposto per ottenere l’autorizzazione a
rendere la dichiarazione di voler profittare dell’effetto incrementativo della
sfera patrimoniale dei minorenni. Il giudice adito, peraltro, ha correttamente
escluso che vi fosse luogo a provvedere su tale istanza.
Ed
invero, nella fattispecie, quel tipo di atto destinazione, oltre a non
determinare (in quanto tale) trasferimenti di diritti (come, appunto, nel fondo
patrimoniale non traslativo), non involge alcun preesistente diritto dei
minori, posto che il compendio immobiliare in relazione al quale si prevede di
imprimere la destinazione è oggetto della esclusiva proprietà dei costituenti,
maggiorenni e capaci. È poi anche vero che, come osservato dal citato
provvedimento di merito, l’adesione al negozio (in nome e per conto dei minori)
non può (neanche) essere identificata alla stregua di atto eccedente
l’ordinaria amministrazione, non comportando, per gli stessi minori, alcuna
diminuzione patrimoniale, od anche il mero rischio di diminuzione patrimoniale.
Va
poi escluso che, in una situazione del genere, possa darsi alcun conflitto di
interessi tra i minori ed i genitori per conto dei quali è proposta richiesta
di autorizzazione, poiché vi è convergenza di interessi e vantaggio comune (genitori
e figli, pur portatori di interessi distinti, beneficeranno tutti della
destinazione).
Ad
avviso dello scrivente, poi, non potrebbe pervenirsi a conseguenze diverse neppure
volendo riconoscere nella situazione del beneficiario gli estremi della
posizione del terzo di un contratto ex
art. 1411 c.c. [486] .
Ed invero, come illustrato da chi scrive in altra sede, in relazione ai
contratti della crisi coniugale, non essendo richiesta alcuna dichiarazione
d’accettazione da parte del terzo beneficiario, nessuna autorizzazione ai sensi
dell’art. 320 c.c. dovrà ritenersi necessaria [487] .
In
quest’ottica, incomprensibile, prima ancora che non condivisibile, appare
un’altra decisione [488] ,
di segno opposto rispetto a quella appena citata, la quale non solo ha ritenuto
applicabile nella specie l’art. 320 c.c., ma ha addirittura negato
l’autorizzazione, sulla base del discutibile assunto secondo il quale, pur
essendo l’atto nell’interesse del minore, esso sarebbe stato contrario ai
principi dell’ordinamento, poiché in violazione della riserva di legge di cui
all’art. 2740 c.c., quasi che l’art. 2645-ter
c.c. fosse principio tratto da una raccolta di regole prive del valore di legge
(oltre che, ovviamente, successiva e speciale rispetto alla norma generale in
tema di garanzia patrimoniale generica).
[1]
Per i richiami e le relative critiche si
rinvia ad Oberto, I contratti
della crisi coniugale, I, Milano, 1999, p. 129 ss. Per successive prese di
posizione in senso contrario (o comunque cariche di perplessità) rispetto alla
piena esplicazione dell’autonomia contrattuale dei coniugi cfr. ad es. Bargelli, L’autonomia privata nella
famiglia legittima: il caso degli accordi in occasione o in vista del divorzio,
in Riv. crit. dir. priv., 2001, p. 303 ss.;
Auletta, Gli accordi sulla crisi coniugale, in Familia,
2003, p. 43 ss.; E. Russo, Le convenzioni matrimoniali, Artt. 159-166-bis, in Il codice civile, commentario diretto da
Schlesinger, Milano, 2004, p. 31 s., 95 ss., 288 ss., 324 ss.; Id., Gli
«effetti inderogabili del matrimonio» (contributo allo studio dell’art. 160
c.c.), in Riv. dir. civ., 2004,
I, p. 569 ss.; E. Quadri, Autonomia dei coniugi e intervento
giudiziale nella disciplina della crisi familiare, in Familia, 2005, p. 1 ss., 14 ss. (per ragguagli sulle posizioni di
tali Autori e per le relative, ulteriori, critiche cfr. Oberto, Contratto e
famiglia, in Aa. Vv., Trattato del contratto, a cura di Roppo,
VI, Interferenze, a cura di Roppo,
Milano, 2006, p. 127 ss., 147 ss., 242 ss.).
[3]
Sul tema e sull’impatto della sentenza n. 11504/2017 della Cassazione,
v. ex multis E. Quadri, I coniugi e l’assegno di divorzio tra conservazione del “tenore di
vita” e “autoresponsabilità”: “persone singole” senza passato?, in Corr. giur., 2017, p. 885 ss.; Danovi, La Cassazione e l’assegno di divorzio: en attendant Godot (ovvero le Sezioni Unite), in Fam. e dir., 2018, p. 51 ss. Per una
recente presa di posizione favorevole alla tesi dello scrivente sulla
disponibilità dell’assegno di divorzio cfr. Danovi,
Inammissibilità del giuramento decisorio
per la determinazione dell’assegno di mantenimento (o di divorzio), Nota a
Trib. Palermo, 23 dicembre
[4] Cfr. per tutti Oberto, La comunione legale tra coniugi, nel Trattato di diritto civile e commerciale, già diretto da Cicu, Messineo e Mengoni, continuato da Schlesinger, Milano, 2010, I, p. 1058 ss.
[6] Sul tema v. per tutti Oberto, I contratti della crisi coniugale, I, cit., p. 483 ss.; Id., «Prenuptial agreements in contemplation of divorce» e disponibilità in via preventiva dei diritti connessi alla crisi coniugale, in Riv. dir. civ., 1999, II, p. 171 ss.; Id., Contratto e famiglia, cit., p. 251 ss.; Id., Prenuptial Agreements in Contemplation of Divorce: European and Italian Perspectives, in Contratto e impresa/Europa, 2016, p. 135 ss.; Id., Per un intervento normativo in tema di accordi preventivi sulla crisi della famiglia, in corso di stampa, passim.
[7] Sul punto
cfr. per tutti H., L. e J. Mazeaud,
Leçons de droit civil, I, 2, Paris, 1967, p. 49 s.; Hauser e Huet-Weiller, Traité de droit civil, La
famille, Fondation et vie de la famille, Paris, 1993, p. 13 s.; Benabent, Droit civil, La
famille, Paris, 1994, p. 53; Gaudemet,
Le mariage, un contrat ?, in Rev. sc. mor. et pol., 1995, p. 161
ss.
[8] Rilevava già il Venzi, Manuale di diritto civile italiano, Torino,
1933, p. 557: «Si discute tra gli scrittori se il matrimonio sia un contratto.
Non pare che la questione sia seria: se si ha riguardo al concetto del
contratto qual è presupposto e disciplinato nel codice, solo la concezione più
materialista del matrimonio può indurre a considerarlo alla stessa stregua di
una compra‑vendita o di una locazione; se invece si ha riguardo a un
concetto più vasto del contratto, comprendente qualsiasi atto formato col
consenso di due persone, allora può anche dirsi che il matrimonio sia un
contratto. Ma, intesa in tal senso, l’affermazione che il matrimonio è un
contratto ha scarsa, se non nulla, importanza giuridica». Cfr.
anche Benabent, Droit civil,
La famille, cit., p. 53, secondo cui «Le mariage apparaît ainsi comme un
accord de volontés en vue d’adhérer à un modèle légal. Un débat s’est alors
instauré sur sa nature juridique, contrat ou institution : un peu vain, ce
débat est resté en suspens, bien que la récente admission du divorce par
consentement mutuel ait rapproché le mariage du contrat. En réalité, tout comme
le mariage catholique est indivisiblement contrat et sacrement, le mariage
civil participe à la fois du contrat et de l’institution».
[9]
Sul punto cfr. per tutti Jemolo, Il matrimonio, in Trattato
di diritto civile, diretto da
Vassalli, Torino, 1950, p. 35 ss.; Gangi,
Il matrimonio, Torino, 1969, p. 27 ss. Per un richiamo ai precedenti
storici del dibattito in Francia e in Germania cfr. Oberto, La promessa di matrimonio tra passato e presente,
Padova, 1996, p. 185 ss.
[10] Per tutti si veda Ferrando, Il matrimonio, in Trattato di diritto
civile e commerciale, già diretto
da Cicu, Messineo e Mengoni, continuato
da Schlesinger, Milano, 2002, p. 175 ss.; Ead., Matrimonio e famiglia, in Trattato di
diritto di famiglia, diretto da Zatti, I, Famiglia e matrimonio, 1,
Milano, 2002, p. 161 ss.
[11]
V. sul punto Rescigno,
Consenso, accordo, convenzione, patto (la terminologia legislativa nella
materia dei contratti), in Riv. dir. comm., 1988, I, p. 7.
[12] Cfr. Messineo,
Dottrina generale del contratto, Milano, 1952, p. 30; Id., Convenzione (dir. priv.), in
Enc. dir., X, Milano, 1962, p. 510 ss.; v. inoltre Carresi, Gli effetti del contratto,
in Riv. trim. dir. proc. civ., 1958, p. 490; Pugliatti, I fatti giuridici, Revisione e
aggiornamento di Falzea, Milano, 1996, p. 138 s.; tutti questi Autori avvertono
peraltro che l’impiego del termine «convenzione» in relazione alle convenzioni
matrimoniali andrebbe inteso in senso «improprio» o «non tecnico». Nel senso
che il termine «convenzione» acquista all’interno della materia del diritto di
famiglia una precisa accentuazione di ordine patrimoniale e si contrappone a
quello di «accordo», privilegiato dalla legge in tutti i casi in cui i riflessi
d’indole patrimoniale (ad es. a seguito della fissazione dell’indirizzo della
vita familiare) non sono apparsi al Legislatore suscettibili di tradursi in
essenziale connotazione dell’accordo cfr. Rescigno,
Consenso, accordo, convenzione, patto (la terminologia legislativa nella
materia dei contratti), cit., p. 7; S. Patti,
Regime patrimoniale della famiglia e autonomia privata, in Familia,
2002, p. 285 ss.
[13]
Cfr. per esempio il sito web seguente:
http://www.infoleges.it/service1/scheda.aspx?id=32807&service=1&ordinal=&fulltext=&sommario=true
[14] Più esattamente si tratta degli artt. 90, 159,
162, 163, 164, 165, 166-bis, 193, 210, 211, 388, 458, 534, 792, 886,
1049, 1123, 1138, 1182, 1273, 1283, 1522, 1658, 1740, 1774, 1826, 1838, 1865,
2102, 2143, 2146, 2147, 2151, 2152, 2153, 2163, 2164, 2172, 2178, 2184, 2187,
2240, 2352, 2647, 2655, 2745, 2820, 2873 c.c.
[15] Per le ragioni prettamente ideologiche illustrate altrove: cfr. Oberto, I rapporti patrimoniali nelle unioni civili e nelle convivenze di fatto, in Blasi, Campione, Figone, Mecenate e Oberto, La nuova regolamentazione delle unioni civili e delle convivenze – Legge 20 maggio 2016, n. 76, Torino, 2016, p. 39 ss.
[17]
Cfr. D., 2. 14. 1. Secondo Bartolo da Sassoferrato, In primam
ff. Veteris partem, Venetiis,
[18]
Cfr.
Oberto, I precedenti storici del principio di libertà contrattuale
nelle convenzioni matrimoniali, in Dir. fam. pers., 2003, p. 535 ss.
[19]
Il richiamo legislativo, ad avviso dello
scrivente, deve intendersi effettuato tanto alle convenzioni matrimoniali,
quanto ai contratti della crisi coniugale che, come dimostrato in altra sede,
rinvengono il loro fondamento causale in specifiche disposizioni giusfamiliari.
[20]
Su cui cfr. Roppo,
Il contratto, in Trattato di diritto privato, a cura di Iudica e Zatti, Milano,
2001, p. 60 s.
[21] Nel senso che, a fronte di accordi stipulati
in occasione della crisi familiare, della separazione, del divorzio, il termine
contratto possa ritenersi «congruo e conveniente, per situazioni in cui si
regolano rapporti di carattere patrimoniale, per modificarli o estinguerli o
costituirli» cfr. Rescigno, Il
diritto di famiglia a un ventennio dalla riforma, in Riv. dir. civ.,
1998, I, p. 112.
[23]
Cfr. per es. Devoto
e Oli, Il dizionario
della lingua italiana, Edizione per CD-ROM, Firenze, 1992.
[24]
Cass., 4 febbraio 1993, n. 2270; Cass., 22
gennaio 1994, n. 657. Successivamente v. anche Cass. 20 novembre 2003, n. 7607,
che espressamente richiama i due precedenti; Cass., 20 ottobre 2005, n.
[25]
Il riferimento è a Zatti, I diritti e i doveri che nascono dal matrimonio e
la separazione dei coniugi, in Trattato di diritto privato diretto da Rescigno, 3, Torino, 1982,
p. 125 s., da cui l’estensore della motivazione delle due sentenze citate ha
tratto la frase testé riportata; v. inoltre, per un impiego del termine
«negozialità» nel senso qui indicato, Zatti
e Mantovani, La
separazione personale dei coniugi (artt. 150-158), Padova, 1983, p. 382; Galgano, Il negozio giuridico,
Milano, 1988, p. 491; Mantovani, Separazione
personale dei coniugi. I) Disciplina sostanziale, in Enc. Giur.
Treccani, XXVIII, Roma, 1992, ad vocem, p. 28; Zatti, I diritti e i doveri che
nascono dal matrimonio e la separazione dei coniugi, in Trattato
di diritto privato diretto da
Rescigno, 3, Torino, 1996, p. 135, 137, 138, nota 12; Oberto, I contratti della crisi
coniugale, I, cit., p. 38 s.; Bocchini,
Autonomia negoziale e regimi patrimoniali familiari, in Riv. dir. civ.,
2001, I, p. 434.
[26]
Betti, Teoria
generale del negozio giuridico, in Trattato di diritto civile diretto da
Vassalli, Torino, 1950, p. 38 ss., 41; sull’autonomia privata v.
inoltre, tra i tanti, Santi Romano, Frammenti
di un dizionario giuridico, Milano, 1947, p. 14 ss.; Pugliatti, Autonomia privata, in Enc.
dir., IV, Milano, 1959, p. 366 ss.; Rescigno,
Manuale del diritto privato italiano, Napoli, 1975, p. 267 ss.; Mirabelli, Dei contratti in generale
(Artt. 1321-1469), in Commentario del codice civile a cura di magistrati e docenti,
Torino, 1980, p. 27 ss.; Carresi, Il
contratto, I, 1987, p. 97 ss., 321 ss.; Sacco,
Autonomia nel diritto privato, in Dig. disc. priv., sez. civ.,
II, Torino, 1987, p. 517 ss.; Galgano, Il
negozio giuridico, cit., p. 43 ss.; Barcellona,
Libertà contrattuale, in Enc. dir., XXIV, Milano, 1974, p.
487 ss.; sul carattere non «proprio» degli interessi qui in gioco cfr. Donisi, Limiti
all’autoregolamentazione degli interessi nel diritto di famiglia, in Famiglia
e circolazione giuridica, a cura di Fuccillo, Milano, 1997, p. 7 e la
relativa critica in Oberto, I
contratti della crisi coniugale, I, cit., p. 129 ss.
[27]
Per l’equivalenza tra le espressioni
«autonomia privata» e «autonomia contrattuale» v. già la Relazione ministeriale
sul testo definitivo del codice [n. 603], che parla di «autonomia privata»
proprio con riferimento all’art. 1322; per una distinzione, dal sapore però
meramente terminologico, tra «libertà» e «autonomia» contrattuale v. Carresi, Il contratto, cit., p.
98.
[28]
Per una esposizione dei dati di tipo
sociologico sulla negozialità relativa al fenomeno della crisi coniugale cfr. Oberto, I contratti della crisi
coniugale, I, cit., p. 38 ss.
[29]
Per riferimenti storici alla negozialità tra
coniugi in crisi nel diritto romano e intermedio cfr. Oberto, I contratti della crisi coniugale, I, cit.,
p. 66 ss.; Id., Gli accordi
sulle conseguenze patrimoniali della crisi coniugale e dello scioglimento del
matrimonio nella prospettiva storica, Nota a Cass., 20 marzo 1998, n.
[30] Su tale concezione v., anche per gli ulteriori
rinvii, Sesta, Il diritto di
famiglia tra le due guerre e la dottrina di Antonio Cicu, in Cicu, Il diritto di famiglia. Teoria
generale, Lettura di Michele Sesta, Momenti del pensiero giuridico
moderno. Testi scelti a cura di Pietro Rescigno. Redattore Enrico Marmocchi,
Sala Bolognese, 1978, p. 1 ss., 47 ss.; cfr. inoltre, per ulteriori richiami
alle opere del Cicu e agli Autori intervenuti nel dibattito sulla «concezione
istituzionale» della famiglia, Oberto,
I contratti della crisi coniugale, I, cit., p. 103 ss.
[31]
Sul tema cfr. Oberto,
I contratti della crisi coniugale, I, cit., p. 116 ss. Ora v. anche Bocchini, Autonomia negoziale e
regimi patrimoniali familiari, cit., p. 437 ss.
[32]
Santoro-Passarelli,
L’autonomia privata nel diritto di famiglia, in Saggi di diritto
civile, I, Napoli, 1961, p. 381 ss. (già in Dir. giur., 1945, p. 3
ss.). Per un’illustrazione del pensiero di tale Autore cfr. Oberto, I contratti della crisi
coniugale, I, cit., p. 113 ss.; per una successiva riscoperta dello scritto
di Santoro-Passarelli cfr. anche Zoppini,
L’autonomia privata nel diritto di famiglia, sessant’anni dopo, in Riv.
dir. civ., 2001, I, p. 213 ss.
[33] Cfr. Santoro-Passarelli,
L’autonomia privata nel diritto di famiglia, cit., p. 381 ss.
Tenta invece di sminuire l’importanza e l’innovatività del contributo di
Santoro-Passarelli E. Russo, Le convenzioni matrimoniali, cit., p. 31
s., il quale asserisce che la proposta applicazione ai negozi giuridici
familiari delle disposizioni codicistiche di cui alla parte generale del contratto
non implicherebbe un superamento delle posizioni di Cicu, ma si limiterebbe ad
indicare l’ «adozione di una nozione più ampia di negozio giuridico». Peraltro,
per confutare tali osservazioni, sarà sufficiente pensare al carattere
sicuramente rivoluzionario della (da Santoro-Passarelli) proposta tendenziale
applicazione al negozio giuridico familiare della disciplina generale del
contratto. E tanto basta per segnare un decisivo «salto di qualità», una netta
rottura rispetto al passato, che avrebbe generato negli anni a seguire una
sterminata messe di frutti nel campo della negozialità tra coniugi, come
dimostrato nel testo.
[34]
Cfr. Santoro-Passarelli,
Il governo della famiglia, in Saggi di diritto civile, I, cit., p.
400 (lo scritto in questione venne per la prima volta pubblicato in Iustitia,
1953, p. 377 ss.).
[35] Kelsen, La
dottrina pura del diritto, Traduzione di Treves, s.l., 1956, p. 57. Si deve
però registrare al riguardo la persistenza di una larga convergenza dottrinale
e giurisprudenziale sull’ammissibilità di tale figura: cfr. – tra i contributi
comparsi, o ricomparsi, più di recente – oltre agli Autori che verranno citati
in questo §, G.B. Ferri, Negozio
giuridico, in Dig. disc. priv., sez. civ., XII, Torino, 1995, p. 74
ss., duramente critico nei confronti della «moda» che «alla fine degli anni
‘70» negava con «spensierata sicurezza» la valenza ricostruttiva della
categoria concettuale del negozio giuridico; Pugliatti,
I fatti giuridici, cit., p. 55 ss. Per una sintesi in chiave
critica delle varie posizioni cfr. Galgano,
Negozio giuridico (dottrine generali), in Enc. dir.,
XXVII, Milano, 1977, p. 932 ss.; Mirabelli,
Negozio giuridico (teoria), in Enc. dir., XXVIII, Milano,
1978, p. 1 ss.; Bianca, Diritto
civile, III, Il contratto, Milano, 1987, p. 8 ss.; Galgano, Il negozio giuridico,
cit., p. 27 ss.; per un’eco della disputa tra le varie concezioni in materia,
con i suoi risvolti sulle voci in tema di negozio giuridico dell’Enciclopedia
del diritto, v. anche Lipari,
Presentazione del volume di Giuseppe Mirabelli «L’atto non negoziale nel
diritto privato italiano», in Corr. giur., 1998, p. 595 s.; per
ulteriori richiami v. Donisi, Limiti
all’autoregolamentazione degli interessi nel diritto di famiglia, cit., p.
23 s.; G.B. Ferri, Il negozio
giuridico tra ordinamento e autonomia, in Aa.
Vv., Autonomia negoziale tra libertà e controlli, Bari, 2001, p.
25 ss.
[36]
E. Russo,
Negozio giuridico e dichiarazioni di volontà relative ai procedimenti
«matrimoniali» di separazione, di divorzio, di nullità (a proposito del disegno
di legge n. 1831/1987 per l’applicazione dell’Accordo 18.2.1984 tra l’Italia e
la S. Sede nella parte concernente il matrimonio), in Dir. fam. pers.,
1989, p. 1084.
[37] Si noti poi ancora che la figura in esame – e
sia consentito qui ribadirlo (cfr. Oberto,
Le cause in materia di obbligazioni, Milano, 1994, p. 215) – è
stata presa espressamente in considerazione anche dal nostro Legislatore. Non
ci si intende qui riferire, ovviamente, al richiamo di cui all’art. 1324 c.c.,
richiamo implicito, e per questo contestato, sebbene inequivocabile (cfr. per
esempio la Relazione ministeriale sul testo definitivo del codice, n. 602). Si
vuole invece ricordare l’esplicita menzione del negozio giuridico contenuta
nell’art.
[38]
Cfr. per es. Pacchioni,
Delle leggi in generale e della loro retroattività e teoria generale
delle persone, cose e atti giuridici, Padova, 1937, p. 403; Messineo, Manuale di diritto civile e
commerciale, I, Milano, 1946, p. 270; De
Ruggiero e Maroi, Istituzioni
di diritto civile, I, Messina, 1965, p. 100; Cariota Ferrara, Il
negozio giuridico nel diritto privato italiano, Napoli, s.d., p. 181 s.
[39]
Così Scognamiglio,
Dei contratti in generale, in Commentario del codice civile a cura di
Scialoja e Branca, Bologna-Roma, 1970, p. 16 s.; contra Gangi, Il matrimonio, cit., p. 29
ss., che riconduce i negozi giuridici familiari ad «un concetto più ampio e
generale di contratto, conforme al concetto tradizionale», da cui sarebbe
assente il requisito della patrimonialità.
[41]
Cfr. Santoro-Passarelli,
L’autonomia privata nel diritto di famiglia, cit., p. 382 s.; v.
inoltre Gangi, Il matrimonio,
cit., p. 28 s.; contra Scognamiglio,
Dei contratti in generale, cit., p. 16 s.; Cariota Ferrara, Il
negozio giuridico nel diritto privato italiano, cit., p. 182; per l’applicabilità,
di volta in volta, ai negozi giuridici familiari dei principi contrattuali
«congrui con l’atto di autonomia familiare posto in essere» v. Bianca, Diritto civile, II, Famiglia
e successioni, Milano, 1981, p. 18.
[42]
Fondamentale al riguardo per i particolari
profili dei rapporti patrimoniali tra coniugi lo studio di Bin, Rapporti patrimoniali tra
coniugi e principio di uguaglianza, Torino, 1971. L’argomento è stato
sviluppato in Oberto, I
contratti della crisi coniugale, I, cit., p. 121 ss. ed è ripreso anche da Bocchini, Autonomia negoziale e
regimi patrimoniali familiari, cit., p. 432 ss.
[43]
Sulla funzione della famiglia nel quadro
istituzionale v. per tutti Rescigno, Persona
e comunità, Il Mulino, 1966, p. 3 ss.; Bessone,
Rapporti etico-sociali (artt. 29-31), in Commentario della
Costituzione, a cura di Branca, Bologna-Roma, 1976, p. 1 ss.; con specifico
riguardo ai rapporti patrimoniali tra coniugi cfr. Bin, Rapporti patrimoniali tra coniugi e principio di
uguaglianza, cit., p. 318 ss.; Furgiuele,
Libertà e famiglia, Milano, 1979, p. 140 ss.; Alagna, Famiglia e rapporti tra
coniugi nel nuovo diritto di famiglia, Milano, 1983, p. 150 ss.; Paradiso, La comunità familiare,
Milano, 1984, p. 168 ss.; Quadri, Famiglia
e ordinamento civile, Torino, 1997, p. 153 ss.; per i riflessi in tema di
rapporti patrimoniali nella famiglia di fatto e per ulteriori richiami cfr. Oberto, I regimi patrimoniali della
famiglia di fatto, Milano, 1991, p. 53 ss.; per una panoramica più recente
circa l’evoluzione dei principi fondamentali del diritto di famiglia cfr. Bonilini, Il matrimonio - La nozione,
in Il diritto di famiglia, Trattato diretto da Bonilini e Cattaneo, I, Famiglia e
matrimonio, Torino, 1997, p. 63 ss.; Cattaneo,
Introduzione, in Il diritto di famiglia, Trattato diretto
da Bonilini e Cattaneo, I, cit.,
p. 8 ss., 16 ss.; Bonilini, Manuale
di diritto di famiglia, Torino, 1998, p. 28 s.
[44]
Sottolinea il rilievo che la l.div. ha avuto
in relazione al tramonto della concezione istituzionale del matrimonio anche Lipari, Il matrimonio, in Famiglia
e diritto a vent’anni dalla riforma, a cura di Belvedere e Granelli,
Padova, 1996, p. 8; per un’illustrazione dell’evoluzione che ha portato
l’autonomia negoziale a divenire un «criterio determinante nell’àmbito della
famiglia» cfr. Rescigno, I
rapporti personali fra coniugi, in Famiglia e diritto a vent’anni dalla
riforma, a cura di Belvedere e Granelli, Padova, 1996, p. 25 ss., 34 ss.;
sul tema cfr. anche Quadri, Autonomia
negoziale e regolamento tipico nei rapporti patrimoniali tra coniugi, in Giur.
it., 1997, IV, c. 229 ss.; per i richiami alla dottrina che, sia prima che
dopo la riforma ha espressamente aderito all’orientamento che nega l’esistenza
di un interesse superiore della famiglia, esaltando il ruolo dell’autonomia dei
coniugi v. per tutti Sala, La
rilevanza del consenso dei coniugi nella separazione consensuale e nella
separazione di fatto, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1996, p. 1037,
nota 18; per una persuasiva confutazione della tesi della soggettività
giuridica della famiglia e dell’esistenza in questa di interessi
«superindividuali» cfr. Barcellona, Famiglia
(dir. civ.), in Enc. dir., XVI, Milano, 1967, p. 782 ss.; contra,
per una riaffermazione dell’esistenza di un interesse, nella famiglia, trascendente
quello dei singoli componenti e dunque – in buona sostanza – «superiore», Donisi, Limiti
all’autoregolamentazione degli interessi nel diritto di famiglia, cit., p.
7 ss., secondo cui persino l’uso dell’espressione «autonomia privata» sarebbe
inaccettabile nel campo familiare.
[45]
Corte cost., 27 giugno 1973, n. 91.
L’argomento è giustamente enfatizzato anche da Doria,
Autonomia privata e «causa» familiare. Gli accordi traslativi tra i
coniugi in occasione della separazione personale e del divorzio, Milano,
1996, p. 12, 182 s., nonché da Angeloni, Autonomia
privata e potere di disposizione nei rapporti familiari, Padova, 1997, p.
215.
[46]
Doria, Autonomia
privata e «causa» familiare. Gli accordi traslativi tra i coniugi in occasione
della separazione personale e del divorzio, cit., p. 182 s. Prima ancora v.
Sacco, Regime patrimoniale e
convenzioni, in Commentario alla riforma del diritto di famiglia a
cura di Carraro, Oppo e Trabucchi, I, 1, Padova, 1977, p. 334.
[48] Cfr. in particolare Corte cost., 31 maggio
1983, n. 144; Corte cost., 19 gennaio 1987, n. 5; Corte cost., 18 febbraio
1988, n. 186; Corte cost., 6 luglio 1994, n. 278.
[49] «Io non vedo come possa parlarsi di
un’autonomia della volontà riconosciuta dalla legge nel matrimonio, di fronte
al principio dell’indissolubilità che con quell’autonomia e con l’interesse
individuale degli sposi è assolutamente inconciliabile» (Cicu, Il diritto di famiglia nello
stato fascista, in Scritti minori di Antonio Cicu, I, 1, Milano,
1965, p. 165; Id., Matrimonium
seminarium rei publicae, Prolusione al corso di diritto civile nella R.
Università di Bologna, tenutavi il giorno 6 dicembre
[50]
Così Doria,
Autonomia privata e «causa» familiare. Gli accordi traslativi tra i
coniugi in occasione della separazione personale e del divorzio, cit., p.
70.
[52]
Oberto,
I contratti della crisi coniugale, I, cit., p. 483 ss.; Id., «Prenuptial agreements in
contemplation of divorce» e disponibilità in via preventiva dei diritti
connessi alla crisi coniugale, cit., p. 171 ss.; Id., Contratto e
famiglia, cit., p. 251 ss.
[53] Oberto,
Gli accordi sulle conseguenze
patrimoniali della crisi coniugale e dello scioglimento del matrimonio nella
prospettiva storica, cit., c. 1306 ss.; Id.,
I precedenti storici del principio di
libertà contrattuale nelle convenzioni matrimoniali, cit., p. 535 ss.
[54] «Die Ehegatten können ihre
güterrechtlichen Verhältnisse durch Vertrag (Ehevertrag) regeln, insbesondere
auch nach der Eingehung der Ehe den Güterstand aufheben oder ändern».
[55] Cfr. Planck, Entwurf eines Familienrechts für das deutsche Reich, Berlin,
[56] Cfr. Mugdan, Die gesammten Materialien zum Bürgerlichen Gesetzbuch für das Deutsche
Reich, IV, Goldbach (rist. dell’ediz. di Berlino, 1899), 2004, p. 796.
[57] Théry, Le démariage. Justice et vie
privée, Paris, 1993, p. 69, che riprende sul punto una definizione di
Gérard Cornu.
[58] La legge n° 2004-439 del 26 maggio
[59] Hauser e Huet-Weiller, Traité de droit civil,
La famille. Fondation et vie de la famille, cit., p. 30.
[60] Cfr. la
riforma di cui alla Ley 15/2005, de 8 de
julio, por la que se modifican el Código Civil y la Ley de Enjuiciamiento Civil
en materia de separación y divorcio.
[61] «Esta ley
persigue ampliar el ámbito de libertad de los cónyuges en lo relativo al
ejercicio de la facultad de solicitar la disolución de la relación matrimonial.
(…)
No obstante, y de conformidad con el artículo 32 de la Constitución, se
mantiene la separación judicial como figura autónoma, para aquellos casos en
los que los cónyuges, por las razones que les asistan, decidan no optar por la
disolución de su matrimonio. En suma, la separación y el divorcio se concibe como
dos opciones, a las que las partes pueden acudir para solucionar las
vicisitudes de su vida en común. De este modo, se pretende reforzar el
principio de libertad de los cónyuges en el matrimonio, pues tanto la
continuación de su convivencia como su vigencia depende de la voluntad
constante de ambos» (testo disponibile al sito web seguente: http://civil.udg.es/normacivil/estatal/familia/L15-05.htm).
[62]
Così, tra i tanti, Cian, Sui presupposti storici e sui caratteri generali
del diritto di famiglia riformato, in Commentario alla riforma del
diritto di famiglia, a cura di Carraro, Oppo e Trabucchi, I, 1, Padova,
1977, p. 47 ss.; Santoro-Passarelli, Libertà
e autorità nel diritto civile, Padova, 1977, p. 221 ss.; Zatti e Mantovani,
La separazione personale dei coniugi (artt. 150-158), cit., p.
382; E. Russo, Gli atti
determinativi di obblighi legali nel diritto di famiglia, in Le
convenzioni matrimoniali ed altri saggi sul nuovo diritto di famiglia,
Milano, 1983, p. 221 ss.; D’Anna, Note
in tema di autonomia negoziale e poteri del giudice in materia di separazione
dei coniugi, Nota a Cass., 5 gennaio 1984, n.
[63]
Così E. Russo,
Le idee della riforma del diritto di famiglia, in Le
convenzioni matrimoniali ed altri saggi sul nuovo diritto di famiglia,
Milano, 1983, p. 45 ss.; Id., Negozio
giuridico e dichiarazioni di volontà relative ai procedimenti «matrimoniali» di
separazione, di divorzio, di nullità (a proposito del disegno di legge n.
1831/1987 per l’applicazione dell’Accordo 18.2.1984 tra l’Italia e la S. Sede
nella parte concernente il matrimonio), cit., p. 1081; Id., Negozi familiari e procedimenti
giudiziali attributivi di efficacia, cit., p. 1056; nota la «tendenza ad
una maggiore valorizzazione dell’autonomia negoziale dei coniugi» anche Briganti, Crisi della famiglia e
attribuzioni patrimoniali, in Riv. notar., 1997, I, p. 2 (anche in Famiglia
e circolazione giuridica, a cura di G. Fuccillo, cit., p. 33 ss.); sul tema
della «privatizzazione del diritto di famiglia» cfr. anche Quadri, Autonomia negoziale e
regolamento tipico nei rapporti patrimoniali tra coniugi, cit., p. 229 ss.;
Zatti, Familia, familiae –
Declinazione di un’idea. I. La privatizzazione del diritto di famiglia, in Familia,
2002, p. 9 ss., 28 ss.
[64]
Alpa e
Ferrando, Se siano efficaci –
in assenza di omologazione – gli accordi tra i coniugi separati con i quali
vengono modificate le condizioni stabilite nella sentenza di separazione
relative al mantenimento dei figli, in Questioni di diritto patrimoniale
della famiglia discusse da vari giuristi e dedicate ad Alberto Trabucchi,
Padova, 1989, p. 505 s.
[66]
Cfr. Bianca,
Commento all’art.
[67] Sul carattere negoziale di tale intesa cfr.
per tutti Santoro-Passarelli, Note
introduttive agli articoli 24-28 Nov., in Commentario alla riforma del
diritto di famiglia, a cura di Carraro, Oppo e Trabucchi, I, 1, Padova,
1977, p. 241; Zatti e Mantovani, La separazione personale
dei coniugi (artt. 150-158), cit., p. 380; Paradiso,
La comunità familiare, cit., p. 177 ss.; Galgano, Il negozio giuridico, cit., p. 491; Mantovani, Separazione personale dei
coniugi. I) Disciplina sostanziale, cit., p. 28; Doria, Autonomia dei coniugi in
occasione della separazione consensuale ed efficacia degli accordi non
omologati, Nota a Cass., 24 febbraio 1993, n.
[69] Così Falzea,
Il dovere di contribuzione nel regime patrimoniale della famiglia,
in Riv. dir. civ., 1977, I, p. 614.
[70]
Doria, Autonomia
privata e «causa» familiare. Gli accordi traslativi tra i coniugi in occasione
della separazione personale e del divorzio, cit., p. 76 ss.; cfr. anche F. Finocchiaro, Del matrimonio, II,
in Commentario del codice civile,
a cura di Scialoja e Branca, Bologna-Roma, 1993, p. 464; Sala, La rilevanza del consenso dei
coniugi nella separazione consensuale e nella separazione di fatto, cit.,
p. 1105.
[71] Cfr. l’articolo dal titolo Grandi spese? La
scelta si fa in coppia, in La Stampa, 10 aprile 2003, p. 18.
[72]
Cfr. per tutti Moscarini,
Convenzioni matrimoniali in generale, in Aa. Vv., La
comunione legale, a cura di Bianca, II, Padova, 1989, p. 1012 s.; sul tema
v. anche Falzea, Il dovere di
contribuzione nel regime patrimoniale della famiglia, cit., 609 ss., p. 614
ss.
[75]
A titolo d’esempio potranno qui ricordarsi un
paio di decisioni (Cass.. 24 febbraio 1993, n. 2270; Cass., 22 gennaio 1994, n.
657, su cui cfr. Oberto, Contratto e famiglia, cit., p. 236 ss.),
nelle quali la Corte Suprema rende omaggio al principio in esame,
riconoscendone espressamente il peso nella materia dei rapporti tra coniugi in
crisi (nella stessa ottica cfr. anche, ad es., la motivazione di Cass., 5 marzo
2001, n.
[76]
Jemolo, La
famiglia e il diritto, 1957, riportato in Aa.
Vv., «Verso la terra dei figli»,
Milano, 1994, p. 69.
[77] Jemolo,
Convenzioni in vista di annullamento di matrimonio, in Riv. dir. civ.,
1967, II, p. 530.
[79]
Rescigno,
Manuale del diritto privato italiano, cit., p. 274: «Ma negozi
atipici sembrano ammissibili anche nell’area degli interessi non patrimoniali,
se pensiamo ai patti che possono accompagnare il divorzio o la separazione (per
quest’ultima come negozi autonomi, o incorporati nell’accordo che viene
omologato dal tribunale in sede di separazione consensuale): ad esempio, patti
relativi all’educazione dei figli, o alle modalità di visita o di soggiorno col
genitore che non li ha in affidamento, o all’uso del nome maritale (v. gli
artt. 155, c. 7, per la separazione giudiziale, e 158, secondo comma per la
separazione consensuale, e quanto al nome, arg. dall’art. 156 bis).
Patti del genere sono possibili anche all’inizio del matrimonio e durante la
piena persistenza del vincolo. Nel nostro ambiente sociale sono un fenomeno
raro, mentre sono noti ed usati con risultati positivi in paesi dove le
differenze di religione o di costume consigliano agli sposi di affidare allo
strumento contrattuale la definizione di futuri problemi o di conflitti già
insorti circa l’educazione dei figli o su altre materie di comune interesse».
[81] Rescigno,
Contratto in generale, in Enc. Giur. Treccani, IX, Roma,
1988, ad vocem, 10; per analoghe considerazioni cfr.
E. Russo, Negozio giuridico e
dichiarazioni di volontà relative ai procedimenti «matrimoniali» di
separazione, di divorzio, di nullità (a proposito del disegno di legge n.
1831/1987 per l’applicazione dell’Accordo 18.2.1984 tra l’Italia e la S. Sede
nella parte concernente il matrimonio), cit., p. 1092; Zoppini, Contratto, autonomia
contrattuale, ordine pubblico familiare nella separazione personale dei coniugi,
Nota a Cass., 23 dicembre 1988, n.
[82] Cass., 13 gennaio 1993, n.
[83] Per constatazioni analoghe a quelle di cui al
testo v. anche G. Ceccherini, Separazione
consensuale e contratti tra coniugi, cit., p. 378 s.; Longo, Trasferimenti immobiliari a
scopo di mantenimento del figlio nel verbale di separazione: causa,
qualificazione, problematiche, Nota a App. Genova, 27 maggio
[84] Cass., 25 ottobre 1972, n.
[85] Cfr. Liserre, Autonomia negoziale e obbligazione
di mantenimento del coniuge separato, in Riv. trim. dir. proc. civ.,
1975, p. 475 ss.
[86] Cfr. Cass., 5 luglio 1984, n.
[87]
Cfr. Oberto,
I trasferimenti mobiliari e immobiliari in occasione di separazione e
divorzio, in Fam. dir., 1995, p. 155 ss.; Id., Prestazioni «una tantum» e trasferimenti tra coniugi
in occasione di separazione e divorzio, cit., p. 85 ss.
[89] Su questo concetto cfr. per tutti Oberto, I contratti della crisi
coniugale, I, cit., p. 215 ss.
[90] Nello stesso senso cfr. anche Barbiera, Disciplina dei casi di
scioglimento del matrimonio, in Commentario del codice civile, a cura di Scialoja e Branca,
Bologna-Roma, 1971, p. 147 s.; A. Finocchiaro,
Sulla pretesa inefficacia di accordi non omologati diretti a modificare il
regime della separazione consensuale, in Giust. civ., 1985,
I, p. 1659 s.; Alpa e Ferrando, Se siano efficaci – in
assenza di omologazione – gli accordi tra i coniugi separati con i quali
vengono modificate le condizioni stabilite nella sentenza di separazione
relative al mantenimento dei figli, cit., p. 505 s.; Metitieri, La funzione notarile nei
trasferimenti di beni tra coniugi in occasione di separazione e divorzio,
in Riv. notar., 1995, I, p. 1177; G.
Ceccherini, Separazione consensuale e contratti tra coniugi,
cit., p. 407; Figone, Sull’annullamento
del verbale di separazione consensuale per incapacità naturale, Nota a App.
Milano, 18 febbraio
[91] Sul punto cfr., anche per i rinvii, Oberto, I contratti della crisi
coniugale, I, cit., p. 215 ss.
[92]
Cass., 15 marzo 1991, n.
[93]
Cass., 12 maggio 1994, n.
[97]
Cfr. Cass., 6 febbraio 2009, n. 2997. Nella
specie la Corte ha rilevato che lo scopo dell’accordo era quello di regolare i
rapporti economici più importanti della coppia, prima di rivolgersi al giudice
della separazione, eliminando così le controversie su questioni non
strettamente attinenti alla fine dell’unione, ivi compresa la definizione dei
rapporti economici con i figli maggiorenni. La Corte, in breve, ha escluso che
la separazione consensuale costituisse condizione esplicita o implicita della
scrittura privata.
[98] Cfr. Cass., 1° ottobre 2012, n. 16664, sull’utilizzo dei criteri ex artt. 1362 ss. c.c. per l’interpretazione di una clausola dell’accordo di separazione consensuale. Nella specie, la S.C. ha affermato che debbono ritenersi spese prevedibili e ordinarie, e, quindi, comprese nell’assegno di mantenimento la spesa per l’acquisto libri scolastici e di farmaci «da banco», nonché la spesa per l’acquisto di occhiali (non riconducibile neppure a spesa medica, a fronte della mancata produzione della correlata certificazione specialistica, la sola in grado di rivelarne la natura medica e straordinaria). Per spese straordinarie devono intendersi tutte le spese non ragionevolmente prevedibili e preventivabili. Nel caso di specie il Tribunale di Massa aveva revocato il decreto ingiuntivo con quale era stato ordinato al marito di rimborsare alla moglie separata la somma di € 397,05 quale quota pari al 50% delle spese straordinarie da questa sostenute per la figlia. La domanda di rimborso fatta dalla moglie si basava sulla clausola della separazione consensuale omologata secondo la quale «il padre dovrà contribuire alle spese straordinarie, scolastiche e mediche per la figlia, previa comunicazione da parte della madre, nella misura del 50%». La signora aveva interpretato tale clausola nel senso che il rimborso comprendesse tutte le spese straordinarie, oltre quelle mediche e scolastiche. Di avviso contrario invece, era stato il giudice di merito, il quale aveva qualificato «spese straordinarie» solo quelle di natura medica e scolastica, non includendo anche i vari esborsi che erano di esiguo importo e che non erano dettati da eventi eccezionali, ma che rientravano nell’ordinaria vita della figlia. La Suprema Corte ha confermato la decisione di merito, ritenendo che per spese straordinarie debbano intendersi tutte quelle spese che non rientrano nelle ordinarie esigenze di vita della prole e che non possono considerarsi di importo esiguo in relazione al tenore di vita della famiglia e alle capacità economiche dei genitori. Facendo applicazione dei citati criteri ermeneutici, la Cassazione ha così ritenuto che «l’interpretazione della clausola offerta dal giudice a quo si rivela immune da vizi giuridici o logici e sorretta da motivazione adeguata e coerente con il suo tenore, sicché resiste alla censure mossele dalla ricorrente, la quale inammissibilmente contrappone proprie alternative interpretazioni della medesima clausola, peraltro non altrettanto plausibili. Anche alla luce dell’attuata ed ineccepibile ripartizione in ordinarie e straordinarie delle spese di mantenimento in questione, la conclusione del giudice di merito circa la limitazione dell’apporto paterno al 50% delle sole spese straordinarie d’indole medica e scolastica di pertinenza della figlia, appare, infatti, piana, scevra da forzature, aderente al testo della clausola, non solo privo di aggettivazioni totalizzanti che giustifichino la prospettata estensione dell’obbligo di contribuzione pro quota assunto dal … , a qualsiasi tipologia di spese straordinarie, in aggiunta alle spese ordinarie e straordinarie di natura scolastica e medica, ma anche inidoneo a consentire l’interpretazione, invocata in via alternativa e subordinata dalla medesima …, dell’estensione del medesimo obbligo a tutte le spese mediche e scolastiche, da intendersi, peraltro apoditticamente ed illogicamente, ricondotte dalle stesse parti all’ambito di quelle straordinarie, pure se prive di tale connotato. L’interpretazione doppiamente limitativa seguita dal tribunale si rivela, invece, del tutto plausibile in rapporto alla prevista progressiva integrazione del genere (spese straordinarie) con la specie (spese mediche e scolastiche), confortata dall’apposta punteggiatura e non superflua ma finalizzata a delimitare l’ambito delle spese straordinarie ripartibili, con espunzione delle possibili altre di analogo ambito. L’esposta conclusione assorbe l’esame delle residue censure involte dai medesimi tre motivi di ricorso. Anche il terzo ed il quinto motivo di ricorso devono essere disattesi».
[99] Cass., 5 marzo 2001, n. 3149, cit. Sul tema
cfr. amplius Oberto, Simulazioni
e frodi nella crisi coniugale (con qualche accenno storico ad altri ordinamenti
europei), Nota a Cass., 5 marzo 2001, n.
Per la critica cfr. Oberto,
Simulazione della separazione
consensuale: la Cassazione cambia parere (ma non lo vuole ammettere), Nota
a Cass., 20 novembre 2003, n.
[100]
Cass., 4 settembre 2004, n.
[101]
Così Cass., 23 luglio 1987, n.
[102]
Sui timori di un ritorno «dal contratto allo status» v. anche Oberto, Contratto e
famiglia, cit., p. 265 ss.
[103] V. supra,
§ 1.
[105]
Doria, Autonomia
privata e «causa» familiare. Gli accordi traslativi tra i coniugi in occasione
della separazione personale e del divorzio, cit.; cfr. anche Palmeri, Il contenuto atipico dei negozi familiari, Milano, 2001, passim, p. 30 ss.
[107]
Oberto,
I contratti della crisi coniugale, I e II, Milano, 1999; Auletta, Gli accordi sulla crisi
coniugale, cit., p. 43 ss.
[108] Comporti,
Autonomia privata e convenzioni preventive di separazione, di
divorzio e di annullamento del matrimonio, in Foro it., 1995, I, c.
105 ss. (e sul tema v. anche gli Autori citati in Oberto, Contratto e
famiglia, cit., p. 251 ss.).
[109]
V. Carbone,
Autonomia privata e rapporti patrimoniali tra coniugi (in crisi),
Nota a Cass., 22 gennaio 1994, n.
[110]
Oberto,
I trasferimenti mobiliari e immobiliari in occasione di separazione e
divorzio, cit., p. 155 ss.; Id.,
Prestazioni «una tantum» e trasferimenti tra coniugi in occasione di separazione
e divorzio, cit.; T.V. Russo, I
trasferimenti patrimoniali tra coniugi nella separazione e nel divorzio,
Napoli, 2001.
[111]
Sala, La
rilevanza del consenso dei coniugi nella separazione consensuale e nella
separazione di fatto, cit.
[113]
Ovviamente le indicazioni testé effettuate
hanno carattere assolutamente parziale e vanno integrate con i rinvii contenuti
nella monografia più volte citata dello scrivente su I contratti della crisi
coniugale, nonché, per i lavori successivi, con le citazioni relative agli
specifici aspetti trattati nei vari capitoli in cui si articola il presente
lavoro. In questa sede potranno segnalarsi, a livello bibliografico, in vario
senso, sul tema specifico dell’autonomia dei coniugi nella fase della crisi
coniugale, i seguenti contributi (oltre a quelli già citati): per il periodo
anteriore alla riforma del
[113]
Trabucchi,
Matrimonio (diritto civile), cit., p. 510 ss.; Marti, Accordi non omologati tra coniugi separati, in
Nuova giur. civ. comm., 1989, II, p. 71; Zoppini,
Contratto, autonomia contrattuale, ordine pubblico familiare nella
separazione personale dei coniugi, cit., p. 1319 ss.; L. Giorgianni, Sui patti aggiunti alla
separazione consensuale e sulla famiglia di fatto, Nota a Trib. Genova, 2
giugno
[114]
cfr. Roppo,
Per una riforma del divieto dei patti successori, in Riv. dir.
priv., 1997, p. 5 ss.; per un interessante studio in quest’ottica, nonché
per gli ulteriori richiami, si fa rinvio a Caccavale
e Tassinari, Il divieto
dei patti successori tra diritto positivo e prospettive di riforma, in Riv.
dir. priv., 1997, p. 74; sul tema v. inoltre Ieva, Il trasferimento dei beni produttivi in funzione
successoria: patto di famiglia e patto d’impresa. Profili generali di revisione
del divieto dei patti successori, in Riv. notar., 1997, p. 1371 ss.;
Dogliotti, Rapporti
patrimoniali tra coniugi e patti successori, in Fam. dir., 1998, p.
293 ss. Giudica «inevitabile alla luce del quadro europeo» l’abolizione del
divieto dei patti successori anche S. Patti,
Regime patrimoniale della famiglia e autonomia privata, cit., p. 312.
[115]
Sul patto di famiglia v., ex multis, Amadio, Divieto dei patti successori e attualità
degli interessi tutelati, in Aa. Vv.,
I patti di famiglia per l’impresa,
Fondazione italiana per il Notariato (a cura di), Milano, 2006; Id.,
Patto di famiglia e funzione
divisionale, in Riv. notar.,
2006; Andrini, Il patto di famiglia: tipo contrattuale e
forma negoziale, in http://www.filodiritto.com/;
Angeloni, Nuove cautele per rendere
sicura la circolazione dei beni di provenienza donativa nel terzo millennio, in Contratto
e impresa, 2007; Balestra, Attività d’impresa e rapporti familiari,
Padova, 2009, p. 461 ss.; Baralis,
L’attribuzione ai legittimari non
assegnatari dell’azienda o delle partecipazioni sociali, in Aa. Vv., I patti di famiglia per l’impresa, cit.; Bolano, I patti
successori e l’impresa alla luce di una recente proposta di legge, in Contratti, 2006; Bonilini, Manuale di
diritto ereditario e delle donazioni, Torino, 2006; Id., Manuale di
diritto di famiglia, Torino, 2006; Id.,
Patto
di famiglia e diritto delle successioni mortis causa, in Fam. pers. succ., 2007; Busani e Lucchini
Guastalla, Imprese di famiglia:
dal 16 marzo più facili i passaggi generazionali, in Guida al dir., n. 13 del 1 aprile 2006; Busani e Lucchini
Guastalla, La portata degli effetti
del patto di famiglia inducono a ritenere che l’atto vada inquadrato tra quelli
di straordinaria amministrazione e che sia necessaria l’autorizzazione per gli
incapaci, in Guida al dir., 2006,
n. 13 del 1 aprile 2006; Buffone, Patto di famiglia: le modifiche al codice
civile, in http://www.altalex.com/; Caccavale, Divieto dei patti successori e attualità degli interessi tutelati,
in Aa. Vv., I patti di famiglia per l’impresa, cit.; Id., Il patto di
famiglia, in Contratto e successioni,
in Aa. Vv., Trattato del contratto, a cura di Vincenzo Roppo, VI, Interferenze, a cura di Vincenzo Roppo,
Milano, 2006; Calò, Patto
di famiglia e norme di conflitto, in Fam. pers. succ., 2006; Casu,
I patti successori, in Aa. Vv., Testamento e patti successori, Torino, 2006; De Marzo, Patti di famiglia,
trasferimento di partecipazioni societarie e legge finanziaria, in Fam. e dir., 2007; De Nova, Delfini, Rampolla e Venditti, Il patto di famiglia: legge 14 febbraio 2006 n. 55, Milano, 2006; Delle Monache, Spunti ricostruttivi e
qualche spigolatura in tema di patto di famiglia, in Riv. notar., 2006; Delfini,
Il patto di famiglia introdotto dalla
legge n. 55/2006, in Contratti,
2006; Di Sapio, Osservazioni sul patto di famiglia (brogliaccio
per una lettura disincantata), in Dir.
fam. pers., 2006; Id., Costruzione, decostruzione e ricostruzione
del patto di famiglia dalla prospettiva notarile, in Vita notar., 2008, p. 1633 ss.; Fietta,
Divieto dei patti successori e attualità
degli interessi tutelati, in Aa. Vv., I patti di famiglia per l’impresa,
cit.; Gazzoni, Appunti e spunti in tema di patto di
famiglia, in http://www.judicium.it/;
Id., Competitività e dannosità della successione necessaria, in http://www.judicium.it/; Inzitari, Il patto di famiglia: negoziabilità del diritto successorio con la L.
14 febbraio 2006 n. 55, Torino, 2006; Livini,
Mai più liti sulle dinastie aziendali. Il
provvedimento bipartisan facilita i passaggi generazionali nelle imprese
italiane, consentendo in anticipo di designare il successore, in http://www.repubblica.it/2006/b/sezioni/economia/dinastie/dinastie/dinastie.html;
Lupetti, Patti di famiglia: note a prima lettura, in CNN notizie. Notiziario di informazione del Consiglio Nazionale del
Notariato, febbraio 2006; Lupoi,
L’atto istitutivo di trust, Milano,
2006; Manes, Prime considerazioni nella
gestione del passaggio generazionale della ricchezza familiare, in Contratto e impresa, 2006; Mascheroni, Divieto dei patti successori e attualità degli interessi tutelati,
in Aa. Vv., I patti di famiglia per l’impresa, cit.; Merlo, Divieto dei patti
successori e attualità degli interessi tutelati, in Aa. Vv., I patti di
famiglia per l’impresa, cit.; Oberto,
Il patto di famiglia, Padova, 2006; Id., Lineamenti
essenziali del patto di famiglia, in Fam.
e dir., 2007; Oppo, Patto
di famiglia e «diritti della famiglia», in Riv. dir. civ., 2006; Petrelli, La nuova disciplina del patto di famiglia, in Riv. notar., 2006; Salomone,
I patti di famiglia, in Il quotidiano giuridico, Ipsoa.it, marzo 2006; Salvatore, Il trapasso generazionale
nell’impresa tra patto di famiglia e trust, in Notariato, 2007; Tassinari, Il patto di famiglia: presupposti soggettivi, oggettivi e requisiti
formali, in Aa. Vv., I patti di famiglia per l’impresa,
cit.; Tomaselli, Il patto di famiglia quale strumento per la
gestione del rapporto famiglia-impresa, Milano, 2006; Vitucci, Ipotesi sul patto di famiglia,
in Riv. dir. civ., 2006; Zoppini, Il patto di famiglia (linee per la riforma dei patti sulle successioni
future), in Riv. dir. priv., 1998; Id.,
Profili sistematici della successione
anticipata (note sul patto di famiglia), in Aa.
Vv., Scritti in onore di Giorgio
Cian (in corso di pubblicazione).
[116] Sarà bene chiarire sul punto che, nelle pagine seguenti, non si fornirà certo una trattazione completa di tutte le questioni che si pongono in questa sterminata materia, ma si cercherà di cogliere, in relazione ai suoi vari aspetti, quei soli spunti che meglio evidenzino i rapporti con l’autonomia negoziale dei coniugi nella fase «fisiologica» del loro rapporto.
[117] Rimane così superata l’impostazione – per così dire, più «largheggiante» – consentita dalla formulazione precedente della disposizione testé citata («I rapporti patrimoniali tra coniugi sono regolati dalle convenzioni delle parti e dalla legge»), che induceva la dottrina a qualificare alla stregua di convenzione matrimoniale ogni accordo contenuto in un contratto di matrimonio, in connessione diretta con la relativa situazione patrimoniale, e non altrimenti disciplinato dalla legge (cfr. Busnelli, voce Convenzione matrimoniale, in Enc. dir., X, Milano, 1962, p. 514; v. inoltre Tedeschi, Il regime patrimoniale della famiglia, Torino, 1950, p. 469 ss.). Per la definizione del concetto di convenzione matrimoniale dopo la riforma del 1975 cfr. Oberto, Le convenzioni matrimoniali: lineamenti della parte generale, in Fam. dir., 1995, p. 596 ss.; Bargelli e Busnelli, voce Convenzione matrimoniale, in Enc. dir., Aggiornamento, IV, Milano, 2000, p. 436 ss., 442 ss.; Ieva, Le convenzioni matrimoniali, in Trattato di diritto di famiglia, diretto da P. Zatti, III, Milano, 2002, p. 27 ss., nonché gli autori citati alle note seguenti.
[118] Cfr., tra gli altri, Messineo, voce Convenzione (dir. priv.), in Enc. dir., X, Milano, 1962, p. 512, secondo cui l’uso del termine «convenzione» è qui improprio; Santosuosso, Il regime patrimoniale della famiglia, in Commentario del codice civile a cura di magistrati e docenti, Torino, 1983, p. 55; Cattaneo, Corso di diritto civile. Effetti del matrimonio, regime patrimoniale, separazione e divorzio, Milano, 1988, p. 52; Oberto, Le convenzioni matrimoniali: lineamenti della parte generale, cit., p. 597; Sesta, Diritto di famiglia, Padova, 2003, p. 185.
[119] Moscarini, Convenzioni matrimoniali in genere, in La comunione legale, a cura di C.M. Bianca, II, Milano, 1989, p. 1004 ss., p. 1007.
[120] Russo, L’autonomia privata nella stipulazione di convenzioni matrimoniali, in Le convenzioni matrimoniali ed altri saggi sul nuovo diritto di famiglia, Milano, 1983, p. 155 s.; Bocchini, Rapporto coniugale e circolazione dei beni, Napoli, 1989, p. 182, 185; Galasso e Tamburello, Del regime patrimoniale della famiglia, t. I, in Commentario Scialoja-Branca, I, Bologna-Roma, 1999, p 54. Anche Gabrielli, Acquisto in proprietà esclusiva di beni immobili e mobili registrati da parte di persona coniugata, in Vita not., 1984, p. 658 rileva che le convenzioni sono negozi regolatori in astratto del regime patrimoniale e non già dispositivi, in concreto, di singoli beni determinati.
[121]
Si pensi per esempio alla
convenzione costitutiva di un fondo patrimoniale o a quella avente ad oggetto
una comunione convenzionale comprendente beni di cui uno dei coniugi o entrambi
siano già titolari: sul punto cfr. Oberto,
Le convenzioni matrimoniali: lineamenti della parte generale, cit., p.
597; in senso conforme v., anche per ulteriori rinvii, Bargelli
e Busnelli, voce Convenzione matrimoniale, cit.,
p. 444 ss.
[122] Tanto per fare un esempio, come si è dimostrato in altra sede (cfr. Oberto, I regimi patrimoniali della famiglia di fatto, Milano, 1991, p. 262 ss.), i contratti di convivenza ben possono programmaticamente prevedere la caduta in comunione (ordinaria) di determinati diritti al momento dell’acquisto dei medesimi da parte dell’uno o dell’altro dei partners.
[124] V. supra, § 1.
[125] Cfr. la Relazione della Commissione parlamentare, p. 761; analogamente la Relazione del Guardasigilli al progetto definitivo, p. 169.
[126] Così Bocchini, Autonomia negoziale e regimi patrimoniali familiari, in Riv. dir. civ., 2001, I, p. 433.
[127] V. supra, § 1.
[128]
Santoro-Passarelli,
Dottrine generali del diritto civile, Napoli, 1978, p. 276; Mazzocca, I rapporti patrimoniali tra
i coniugi nel nuovo diritto di famiglia, Milano, 1977, p. 37; Oberto, Le convenzioni matrimoniali:
lineamenti della parte generale, cit., p. 597; Ieva, Le convenzioni
matrimoniali, cit., p. 46 s.
[129] Santarcangelo, La volontaria giurisdizione nell’attività negoziale, IV, Milano, 1989, p. 29; De Paola, op. cit., p. 34 s.
[130] Grasso, Il regime patrimoniale delle famiglia in generale, in Trattato di diritto privato diretto da Rescigno, III, Torino, 1982, p. 384; Jannuzzi, Manuale della volontaria giurisdizione, Milano, 1990, p. 281; Cannizzo, Le convenzioni matrimoniali e gli incapaci, in Vita not., 1993, p. 1007.
[131]
Cfr., anche per i necessari rinvii, Oberto,
Del regime patrimoniale della famiglia.
Disposizioni generali, Commento agli artt. 159, 160 e
[132] Su cui v. però infra, § 12.
[133] In questo senso v. De Paola, op. cit., p. 45, che giunge però a tale conclusione non in forza di applicazione diretta delle regole codicistiche, ma invocando l’analogia; sullo specifico aspetto dell’applicabilità degli artt. 1339 e 1419 c.c. cfr. Donisi, Convenzioni modificative del regime della comunione legale tra coniugi e nullità parziale, in Rass. dir. civ., 1992, p. 515 ss.
[134] Come rilevato da Sacco, Regime patrimoniale e convenzioni, nel Commentario alla riforma del diritto di famiglia a cura di Carraro, Oppo e Trabucchi, I, 1, Padova, 1977, p. 316 s.
[137]
«E’ consentita ai terzi la prova della
simulazione delle convenzioni matrimoniali.
Le controdichiarazioni scritte possono aver effetto nei confronti di coloro tra i quali sono intervenute, solo se fatte con la presenza ed il simultaneo consenso di tutte le persone che sono state parti nelle convenzioni matrimoniali».
[138] Sulla questione v., tra gli altri, Perego, I terzi e la simulazione delle convenzioni matrimoniali, in Giur. it., 1981, IV, c. 11 s.; Corsi, Il regime patrimoniale della famiglia, II, Le convenzioni matrimoniali. Famiglia e impresa, in Trattato di diritto civile e commerciale, già diretto da Cicu e Messineo e continuato da Mengoni, Milano, 1984, p. 54.
[139] Corsi, op. cit., II, p. 54 ss.; Grasso, Il regime patrimoniale delle famiglia in generale, cit., p. 388; De Paola, op. cit., p. 203 ss.; posizione più articolata, ma sostanzialmente coincidente con quella illustrata è espressa da Moscarini, Convenzioni matrimoniali in genere, cit., p. 1027; per la giurisprudenza anteriore alla riforma cfr. Cass., 15 gennaio 1973, n. 135; Cass., 11 gennaio 1974, n. 96.
[140] Moscarini, Convenzioni matrimoniali in genere, cit., p. 1026, secondo cui La disposizione si giustifica in base alla constatazione della prevalente rilevanza degli interessi del gruppo familiare rispetto a quelli individuali dei singoli contraenti.
[141] Favorevole a questa seconda possibilità è, tra gli altri, Russo, L’autonomia privata nella stipulazione di convenzioni matrimoniali, op. ult. cit., p. 207 s.; perplesso appare invece Corsi, op. cit., II, cit., p. 55 s.; sull’argomento, in relazione però all’art. 164 previgente, cfr. anche Cass., 11 dicembre 1971, n. 3605, secondo cui «Le controdichiarazioni relative alle convenzioni matrimoniali (...) per raggiungere gli effetti che sono loro propri, non richiedono la forma dell’atto pubblico, necessaria invece per il mutamento dei patti matrimoniali. Le controdichiarazioni, infatti, hanno una obbiettività giuridica diversa dalle mutazioni dei patti, giacché, mentre queste ultime implicano un nuovo accordo, modificativo del precedente, realmente voluto e concluso, ed esigono pertanto, ad substantiam, l’atto pubblico al pari dell’atto modificato, le controdichiarazioni rappresentano invece il documento atto a constatare e a dare la prova della simulazione di un patto, e sono, quindi, destinate a rimanere segrete tra le parti».
[142] La dottrina sembra propendere per la negativa, facendo prevalere la disposizione speciale del capoverso dell’articolo in commento, anche in considerazione della già citata rispondenza dell’art. 164 «ad un interesse sovraordinato rispetto agli interessi individuali dei contraenti» (Moscarini, Convenzioni matrimoniali in genere, cit., p. 1027 s.).
[143]
Sul tema cfr. per tutti Bargelli e Busnelli, voce Convenzione
matrimoniale, cit., p. 439,
455 ss.
[144]
Sacco,
Regime patrimoniale e convenzioni,
nel Commentario alla riforma del diritto
di famiglia a cura di Carraro, Oppo e Trabucchi, cit., p. 341; A. e M.
Finocchiaro, Diritto di famiglia,
I, Milano, 1984, p. 783. Cfr. anche Oberto,
Le convenzioni matrimoniali: lineamenti della parte generale, cit., p.
605 s.; Ieva, Le convenzioni matrimoniali, cit., p. 43 ss.
[147] Sul punto cfr. Oberto, Le convenzioni matrimoniali: lineamenti della parte generale, cit., p. 608.
[148]
Si argomenta altresì a contrariis dalla disposizione citata
l’impossibilità per il minore non autorizzato ex art. 84 c.c. di stipulare convenzioni matrimoniali, neppure con
l’osservanza delle forme abilitative disposte dalla legge per il compimento
degli atti di straordinaria amministrazione: sussisterebbe, in altri termini,
al riguardo una vera e propria inidoneità assoluta del minore a divenire
titolare dei rapporti giuridici in questione (Cannizzo,
op. cit., p. 1008). Del resto trattasi di atti
personalissimi, che, di conseguenza, non potrebbero essere compiuti né dal
genitore, né dal tutore (De
Rubertis, Le convenzioni
matrimoniali nel nuovo diritto di famiglia, in Dir. fam. pers., 1976, p. 1294; Sacco,
Regime patrimoniale e convenzioni,
nel Commentario alla riforma del diritto
di famiglia a cura di Carraro, Oppo e Trabucchi, cit., p. 341; Grasso, Il regime patrimoniale delle famiglia in generale, cit., p. 384; Moscarini, Convenzioni matrimoniali in genere, cit., p. 1008; De Paola, op. cit., p. 81).
[149] Peraltro, nel caso di specie, si tratterà per lo più di un curatore speciale nominato ai sensi dell’art. 394, quarto comma, c.c., trovandosi il coniuge – curatore ordinario ex art. 392 c.c. – in evidente conflitto d’interessi.
[152] Busnelli, voce Convenzione matrimoniale, cit., p. 525. Per quanto riguarda la stipula di convenzioni successivamente alla celebrazione delle nozze, è evidente che, nell’ipotesi in cui curatore dell’inabilitato sia il coniuge, il giudice istruttore o, in difetto, il presidente del tribunale, provvederà alla nomina di un curatore speciale; in caso di rifiuto del consenso l’inabilitato potrà ricorrere per la nomina di un curatore speciale ai sensi dell’art. 395 c.c., come previsto per l’emancipato (De Paola, op. cit., p. 87 s.).
[153] Grasso, Il regime patrimoniale delle famiglia in generale, cit., p. 385; Santosuosso, Il regime patrimoniale della famiglia, cit., p. 109; A. e M. Finocchiaro, op. cit., p. 786; Roppo, voce Convenzioni matrimoniali, in Enc. giur. Treccani, Roma, 1988, p. 4; Jannuzzi, op. cit., p. 286; Cannizzo, op. cit., p. 1009.
[155] Gabrielli, Infermità mentale e rapporti patrimoniali familiari, in Riv. dir. civ., 1986, I, p. 529.
[156] Sull’argomento cfr. Gabrielli, Infermità mentale e rapporti patrimoniali familiari, cit., p. 531 e, in relazione alle donazioni, Torrente, La donazione, in Trattato di diritto civile e commerciale, diretto da Cicu e Messineo, Milano, 1956, p. 322.
[158] Santosuosso, op. loc. ultt. citt.; Corsi, op. cit., II, cit., p. 15; A. e M. Finocchiaro, op. cit., p. 787.
[161] Cannizzo, op. loc. ultt. citt.; secondo De Paola, op. cit., p. 96 s. sarebbe preclusa la stipula di convenzioni dispositive – vale a dire di quelle che incidono su di un regime mediante apporto o esclusione di determinati beni – mentre sarebbe ammessa quella di convenzioni programmatiche, che non rientrerebbero nel disposto dell’art. 32 c.p. e che al pari degli altri atti di natura personale e familiare l’interdetto legale potrebbe stipulare di persona.
[162] Cfr. Busnelli, voce Convenzione matrimoniale, cit., p. 512 s.; D’Antonio, Convenzioni matrimoniali, donazioni e capacità del minore nel disposto dell’art. 165 c.c., in Riv. dir. civ., 1989, I, p. 658, nota 2; De Paola, op. cit., p. 48.
[163] Pothier, Traité du Contrat de Mariage,
in Pothier, Traités sur différentes matières de droit civil, appliquées à l’usage
du barreau et de jurisprudence françoise, Paris - Orléans, 1781, p. 145 s.;
nel medesimo senso, già prima di lui, v. [Du
Perray], Traité des contrats de mariage, Paris, 1741, p. 117; per
Denisart, Collection de
décisions nouvelles et de notions relatives à la jurisprudence actuelle, I,
Paris, 1763, p. 591, il contrat de mariage è l’ «acte qui régle les
conditions de la société qui se forme entre les futurs époux»; per de Ferriere, Dictionnaire de droit et
de pratique, I, Paris, 1769, p. 369 si tratta dell’ «acte ou contrat qui
précéde la bénédiction nuptiale, et qui contient les clauses et conventions
faites par rapport au mariage»; per Poullain
du Parc, Principes du droit françois, suivant les maximes de Bretagne,
V, Rennes, 1769, p. 5, si tratta del «traité par lequel sont réglées toutes les
conventions concernant les droits respectifs des futurs époux».
[164] Cfr.
art. 202: «En traité de mariage, et avant la foy baillée, et benediction
nuptiale, homme et femme pevent faire et apposer telles conditions, doüaires,
donations, et autres conventions, que bon leur semblera».
[165] Grasso, Il regime patrimoniale delle famiglia in generale, cit., p. 378; Santosuosso, Il regime patrimoniale della famiglia, cit., p. 55 ss.; Spinelli e Parente, Le convenzioni matrimoniali, in I rapporti patrimoniali della famiglia - Saggi dai corsi di lezioni di diritto civile tenute dai proff. Spinelli e Panza, Bari, 1987, p. 43 ss.; Bocchini, Rapporto coniugale e circolazione dei beni, cit., p. 185; Galletta, I regolamenti patrimoniali tra coniugi, Napoli, 1990, p. 7; De Paola, op. cit., p. 29 ss.; Oberto, Le convenzioni matrimoniali: lineamenti della parte generale, cit., p. 597 s. ; Bocchini, Autonomia negoziale e regimi patrimoniali familiari, cit., p. 447 s.
[166]
Sul tema v. infra,
§§ 21 s.
[167]
Sul punto si rinvia
ancora, a Oberto, Le convenzioni matrimoniali: lineamenti
della parte generale, cit., p. 598 s. In senso contrario Bocchini, Autonomia negoziale e
regimi patrimoniali familiari, cit., p.
448, secondo cui sarebbero ascrivibili al novero delle convenzioni matrimoniali
anche quegli accordi «che orientano le appartenenze e le destinazioni di
singoli beni da acquisire o (che) incidono sullo statuto (titolarità e/o
destinazione) di singoli beni attuali»; nello stesso ordine di idee cfr. Parente, Il preteso rifiuto del
coacquisto ex lege da parte di coniuge in comunione legale,
Nota a Cass., 2 giugno 1989, n.
[168]
Cfr. A. e M.
Finocchiaro, op. cit., p. 1153; Gabrielli, Scioglimento
parziale della comunione legale fra coniugi. Esclusione dalla comunione di
singoli beni e rifiuto preventivo del coacquisto, in Riv. dir. civ., 1988, I, p. 347; Roppo,
voce Coniugi I) Rapporti personali e
patrimoniali tra coniugi, in Enc.
giur. Treccani, VIII, Roma, 1988, p. 2.
[169] Cfr. infra, § 21.
[170] Sul tema v., anche per gli ulteriori rinvii, Bargelli e Busnelli, voce Convenzione matrimoniale, cit., p. 447 ss.
[171] Il secondo verrà meglio analizzato infra, §§ 24 ss.
[172] Convention de La Haye du 1er
juillet 1985 relative à la loi applicable au trust et à sa reconnaissance (il relativo testo è disponibile in www.hcch.e-vision.nl).
[173]
Su cui
cfr., ex multis, Piccoli,
L’avanprogetto di convenzione sul ‘trust’ nei lavori della Conferenza di diritto
internazionale privato de L’Aja ed i riflessi di interesse notarile, in Riv. notariato, 1984, p. 844 ss.; Lupoi,
Introduzione ai trusts. Diritto inglese, Convenzione dell’Aja, Diritto italiano, Milano,
[174]
Sul rapporto tra trusts e patti successori, cfr. Rescigno, Trasmissione della ricchezza e divieto dei patti successori, in Vita notarile, 1993, p. 1281; Calò, Dal probate al family
trust, riflessi ed ipotesi applicative in
diritto italiano, Milano, 1996, p. 101 ss.; Miranda, Trust e patti
successori: variazioni sul tema, in Vita
notarile, 1997, p. 1578 ss.; Gambaro, Trusts, in Digesto
civ., XIX, Torino, 1999, p. 459 ss.; Pene Vidari, Trust e divieto dei patti successori, in Riv. dir. civ., 2000, p. 851 ss.; Lupoi, Trusts, Milano, 2001, p. 663; Bartoli, Il trust, Milano, 2001, p. 667 ss.
[175]
Sul rapporto tra trusts e sostituzione fedecommissaria,
cfr., fra gli altri, Palazzo, I trusts in materia
successoria, in Vita notarile,
1996, p. 671 ss.; Lupoi, Trusts, cit., p. 553 ss.; Amenta, Trusts a protezione di disabile, in Trusts
att. fid., 2000, p. 618 ss.; Bartoli e Muritano, Le clausole dei trusts interni, cit., p. 177 ss.
[176]
Sul tema cfr., anche per i
richiami dottrinali e giurisprudenziali, Di Landro, Trusts per disabili. Prospettive applicative, in Dir. famiglia, 2003, p. 166 ss.; Bartoli e Muritano, Le clausole dei trusts interni, cit., p. 119 ss.; in
giurisprudenza v. Trib. Udine, 18 agosto
[177]
Rileva
Lupoi,
Perché i trust
in Italia,
in Dogliotti
e Braun
(a cura di), Il
trust nel
diritto delle persone e della famiglia. Atti del convegno. Genova, 15 febbraio
2003, Milano, 2003, p. 19 che «La produzione
della letteratura italiana al riguardo non ha l’eguale in alcun altro Paese di
diritto civile, mentre il numero delle pronunce giurisprudenziali italiane in
materia negli ultimi tre anni è probabilmente maggiore della somma delle
sentenze emesse nel medesimo periodo in tutti gli altri paesi di tradizione
civilistica del mondo».
[178]
Sul
tema cfr. ex multis Lupoi,
Il trust
nell’ordinamento
giuridico italiano dopo la convenzione dell’Aja del 10 luglio
[179]
Il
dubbio è posto e superato da Calvo, La tutela dei beneficiari nel ‘trust’ interno, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 1998, p. 51 ss., cui si fa
rinvio anche per ulteriori richiami.
[180]
Cfr. ad es. Trib. Bologna, 1
ottobre
[181] Cfr. il rapport explicatif (cfr. Von Overbeck, Rapport explicatif sur la Convention de La Haye du premier juillet 1985
relative à la loi applicable au trust et à sa reconnaissance, n.
[182] Così alle obiezioni sollevabili da
parte di quegli ordinamenti nei quali si potrebbe temere «que les principes de
leur système juridique ne soient ébranlés par l’intrusion d’une institution
étrangère quelque peu inquiétante» risponde esplicitamente il rapport explicatif lapidariamente
chiarendo «qu’il n’a jamais été question d’introduire le trust dans les pays de
civil law, mais simplement de fournir à leurs juges les instruments propres à
appréhender cette figure juridique». Ed è proprio qui, continua il rapport explicatif, che risiede
l’interesse della Convenzione per gli Stati che non conoscono il trust: «L’institution n’étant pas prévue
par leur droit matériel, ils ne possèdent pas non plus de règles de droit
international privé qui puissent la régir et ils en sont réduits à chercher
laborieusement à faire entrer les éléments du trust dans leurs propres concepts.
Au contraire, la Convention met à disposition des règles de conflit de lois
relatives au trust; puis elle indique en quoi doit consister la reconnaissance
du trust, mais aussi les limites de cette reconnaissance» (cfr., testualmente, Von Overbeck, Rapport
explicatif sur la Convention de La Haye du premier juillet 1985 relative à la
loi applicable au trust et à sa reconnaissance, cit., n. 14). Del
resto, proprio dall’ambito del diritto internazionale privato, da cui la
Convenzione dell’Aja proviene, sembra potersi estrapolare la regola generale
che fa divieto ai privati di scegliere a loro arbitrio la legge che
disciplinerà i loro rapporti, in assenza di un elemento di estraneità, che
pertanto non può essere costituito dalla sola legge dalle stesse parti indicata.
Come rilevato in dottrina, l’ambito di applicazione del diritto internazionale
privato va circoscritto alle fattispecie che presentino elementi di
internazionalità sulla base di un giudizio ex
ante, soltanto a seguito del quale, accertata la ricorrenza del carattere
internazionale della fattispecie, può applicarsi la normativa di diritto
internazionale privato e, quindi la norma che legittima la facoltà di scelta di
una legge straniera. Ritenere, invece, che la legge straniera scelta dalle
parti possa da sola fungere da elemento di internazionalità che giustifica
l’applicazione della normativa di diritto internazionale privato significa
operare una inversione concettuale contraria ai principi della logica (così Santoro,
op. cit., p. 54). Al riguardo va
detto che, se è vero che la Convenzione di Roma del 19 giugno 1980 sulla legge
applicabile alle obbligazioni contrattuali stabilisce, all’art. 3, che «il
contratto è regolato dalla legge scelta dalle parti», è altrettanto vero che
l’art. 1 della citata Convenzione delimita espressamente il campo
d’applicazione della medesima alle sole «obbligazioni contrattuali nelle
situazioni che implicano un conflitto di leggi», mentre il 3°
co. dell’art. 3 cit. impedisce espressamente alle parti di
derogare alle disposizioni imperative dell’ordinamento cui «nel momento della
scelta tutti gli altri dati di fatto si riferiscano». La scelta non potrà
dunque sortire l’effetto di eludere l’applicazione delle norme cogenti (si
badi: quelle cogenti e non solo quelle di ordine pubblico) del Paese con cui il
contratto è collegato in via esclusiva, proprio al fine di evitare che i
soggetti di un rapporto giuridico privo di elementi di estraneità possano
sfuggire all’applicazione delle norme imperative attraverso la designazione di
una legge straniera.
[183]
Su cui cfr. Calvo, op. cit., p. 51 ss.; cfr. inoltre Lipari, Fiducia
statica e trusts, in Beneventi (a cura di), I trusts in Italia oggi, cit., p. 75; Lupoi, Legittimità dei trusts interni,
ivi, p. 41; Calò, Dal probate al family
trust, riflessi ed ipotesi applicative in
diritto italiano, cit., p. 99, nt. 86.
[184]
Ugualmente non persuasivo, a
sommesso avviso dello scrivente, appare poi il tentativo di
fondare sulla normativa del codice civile la possibilità di dar luogo a fenomeni
di ‘segregazione’ patrimoniale al di là dei casi normativamente previsti. Si
sono citati al riguardo, per ricordare solo alcune fattispecie, i fenomeni
previsti in relazione agli acquisti del mandatario senza rappresentanza, alla
posizione del debitore che ha costituito in pegno uno o più beni, alla
situazione che si viene a produrre nella c.d. ‘fiducia statica’ (che altro non
è se non il mandato senza rappresentanza fiduciae
causa) o nel sequestro convenzionale (i rilievi sono stati presentati da
Lupoi nel corso del convegno dal titolo «Autonomia patrimoniale e segregazione
patrimoniale nel trust», organizzato
dall’Associazione Avvocati del Distretto di Torino e dall’Associazione «Il trust in Italia», svoltosi a Torino il
24 gennaio 2004; per un approccio riconducibile alla stessa ratio cfr. anche Lupoi,
Trusts, cit., p. 551 ss.). In tutti questi casi (e fermo restando,
naturalmente, che la questione meriterebbe ben altro approfondimento,
impossibile nella presente sede), l’effetto ‘segregativo’, in deroga al
disposto di cui all’art. 2740 c.c., sembra invero porsi quale esclusiva
conseguenza di precise disposizioni di legge, in fattispecie che la legge
stessa tassativamente descrive, ricollegandole a ben precise dichiarazioni
negoziali (bilaterali, tra l’altro), inestensibili analogicamente. In altre
parole, sembra a chi scrive che l’art. 2740 c.c. non possa subire deroghe se
non nei casi tassativamente previsti dalla legge. Ciò sembra valere anche in
relazione al tema (che non è possibile sviluppare nella presente sede) del
contratto di affidamento fiduciario.
[185]
Sul
tema cfr. Oberto,
Trust e autonomia negoziale nella
famiglia, cit., p. 201 ss., 310 ss.; Id., Il trust familiare, cit.,
§§ 15 ss.; v. inoltre Dogliotti
e Piccaluga,
I trust nella crisi della famiglia, in Aa.Vv., Il
trust nel diritto delle persone e
della famiglia. Atti del convegno. Genova, 15 febbraio
[186]
Cfr. ad es. Bartoli e Muritano, Le clausole dei trusts interni,
cit.; v. inoltre Petrelli, La trascrizione degli atti di destinazione, in Riv. dir. civ., 2006, II, p. 161 ss.
[187] Per alcuni recenti pregevoli studi sul tema
cfr. Petrelli, Trust interno, art. 2645-ter c.c. e “trust italiano”, in Riv. dir. civ.,
2016, p. 167 ss.; Reali, I trusts, gli atti di assegnazione di beni in trust e la convenzione dell’Aja. Parte prima: i princìpi generali, in Riv. dir. civ., 2017, p. 398 ss.; Id., I
trusts, gli atti di assegnazione di
beni in trust e la convenzione
dell’Aja. Parte seconda: le regole giuridiche operative, ibidem, p. 608 ss. Per una recente
pronuncia di legittimità in tema di trust
cfr. Cass., 27 gennaio 2017, n.
[188] Cfr. ad es. le sentenze di merito colpite
dagli strali polemici di Lupoi, Il dovere professionale di conoscere la
giurisprudenza e il trust interno,
in Trusts att. fid., 2016, p. 113 ss. e di Tonelli, I nuovi
negazionisti, ivi, 2016, p. 250
ss.
[189] Sul contratto di affidamento fiduciario v. per
tutti Lupoi, Il contratto di affidamento fiduciario, Milano, 2014, passim; Mazzone,
La funzionalità del contratto di affidamento fiduciario, in Trusts
att. fid., 2016, p. 351 ss.
[190]
Per un significativo caso in
proposito v. Trib. Milano, 21 novembre
[191]
Cfr. Oberto, Trust e autonomia negoziale nella famiglia, cit.; Id., Il trust familiare, cit.;
Id., Il regime di separazione dei beni tra coniugi. Artt. 215-219, cit.,
p. 183 ss.
[192]
Come
si è visto: v. infra § 13.
[193]
Sul tema v. infra, §§ 24 ss.;
cfr. inoltre, anche per gli ulteriori necessari richiami, Oberto, Atti di destinazione (art. 2645 ter c.c.) e trust: analogie e
differenze, in Contratto impr./Europa,
2007, p. 351 ss.; Id., Vincoli di destinazione ex art.
2645 ter c.c. e rapporti patrimoniali
tra coniugi, in Famiglia e dir.,
2007, p. 202 ss.; Id., Le destinazioni patrimoniali nell’intreccio
dei rapporti familiari, in Calvo
e Ciatti (a cura di), Trattato dei contratti, 19, I contratti di destinazione patrimoniale,
Torino, 2014, p. 140 ss.; Id., Atto
di destinazione e rapporti di famiglia, in Giur. it., 2016, p. 239 ss. Per un recente pregevole studio
sull’art. 2645-ter c.c. cfr. Galluzzo, Gli atti di disposizione e di amministrazione dei beni destinati,
in Contratto impr., 2016, p. 205 ss.
[195] In questo senso cfr. invece App. Catania, 16 aprile 1981, cit.; in dottrina sembra orientato in tale senso anche F. Finocchiaro, Del matrimonio, artt. 79-83, nel Commentario del codice civile a cura di Scialoja e Branca, Bologna-Roma, 1971, p. 147.
[196] Cfr., con riferimento alla prassi notarile nell’Italia preunitaria, Ungari, Il diritto di famiglia in Italia dalle Costituzioni «giacobine» al Codice civile del 1942, Bologna, 1970, Appendici, p. 211 ss., 217, 277, 281, 309, 311.
[199] V. per tutti De Paola, op. cit., p. 187 ss.; Carnevali, Le convenzioni matrimoniali, in Il diritto di famiglia, Trattato diretto da G. Bonilini e G. Cattaneo, II, Il regime patrimoniale della famiglia, Torino, 1997, p. 20; dubbi sono invece espressi da Corsi, op. cit., II, cit., p. 23. Per la dottrina anteriore alla riforma cfr. Tedeschi, op. cit., p. 474.
[202] Cfr. per tutti Oberto, Comunione legale, regimi convenzionali e pubblicità immobiliare, in Riv. dir. civ., 1988, II, p. 224.
[204] Russo, L’autonomia privata nella stipulazione di convenzioni matrimoniali, op. ult. cit., p. 217 s.; Corsi, op. cit., II, cit., p. 21 s.
[207]
Cass., 11 maggio 1984, n.
2887; Cass., 11 novembre 1992, n. 12110; Cass.,
12 settembre 1997, n. 9034; per la giurisprudenza di merito v. App. Bologna, 29
gennaio
[208]
Su questo concetto v. Oberto, I contratti della crisi
coniugale, I e II, Milano, 1999, passim.
[209]
Condivide la conclusione
(già prospettata ed argomentata in Oberto,
I contratti della crisi coniugale, I, cit., p. 683 ss.) Ieva, Le convenzioni matrimoniali, cit., p. 30.
[210]
Questa è anche l’opinione
di Morelli, Il nuovo regime patrimoniale della famiglia, Padova, 1996, p. 61.
[211]
La conclusione sembra
potersi argomentare a contrariis dal
primo comma dell’art 171 c.c. e a
fortiori dal capoverso del medesimo articolo; nel senso che l’utilità del
fondo permane anche in presenza di una crisi coniugale v. anche Auletta, Il fondo patrimoniale, Milano, 1990, p. 337 s.; contra Oppo,
Tizio e Mevia, che hanno costituito,
all’atto del loro matrimonio, un fondo patrimoniale in «comproprietà», attendono
un figlio quando Tizio fallisce nell’esercizio di impresa commerciale iniziata
dopo il matrimonio. Quale la sorte del fondo?, in Questioni di diritto patrimoniale della famiglia discusse da vari
giuristi e dedicate ad Alberto Trabucchi, Padova, 1989, p. 126.
[212]
Sul tema delle convenzioni
matrimoniali con «motivo postmatrimoniale» si fa rinvio, per ulteriori
approfondimenti, a Oberto, I contratti della crisi coniugale, II,
cit., p. 1037 ss.
[213]
Sul tema v., in senso
favorevole alla regola dell’atipicità, Gangi,
Il matrimonio, Milano, 1953, p. 317 ss.; Busnelli,
voce Convenzione matrimoniale, cit.,
p. 514; contra Ferrara, Diritto
delle persone e della famiglia, Napoli, 1941, p. 297; Tedeschi, op. cit., p. 477 s.;
sostiene che, prima della riforma, «era opinione diffusa che la libertà
convenzionale potesse solo scegliere tra i regimi tipici adottati dalla legge» Bocchini, Autonomia negoziale e
regimi patrimoniali familiari, cit., p.
436 s. Per la dottrina sul c.c. 1865 cfr. E. Bianchi,
Del contratto di matrimonio, Napoli, 1907, p. 30 ss. (secondo cui il
contratto di matrimonio «si ispira al concetto della più sconfinata libertà
(…). La libertà è la regola, il divieto è l’eccezione»); contra Stolfi, Diritto civile, V, Diritto
di famiglia, Torino, 1921, p. 285 (secondo cui nelle convenzioni
matrimoniali «l’autonomia individuale ha un campo non molto esteso»).
[214]
Cfr. Cass., 16 settembre
1969, n.
[215] Cfr. Sacco, Regime patrimoniale e convenzioni, nel Commentario alla riforma del diritto di famiglia a cura di Carraro, Oppo e Trabucchi, cit., p. 325, nota 6.
[216] Cfr. il resoconto della seduta in data 6 luglio 1971, della IV Commissione, c. 777; in dottrina v. Sacco, Regime patrimoniale e convenzioni, nel Commentario alla riforma del diritto di famiglia a cura di Carraro, Oppo e Trabucchi, cit., p. 325, nota 6; A. e M. Finocchiaro, op. cit., p. 196 s.; Morelli, Autonomia negoziale e limiti legali nel regime patrimoniale della famiglia, in Fam. dir., 1994, p. 105 s.
[217]
In questo senso cfr. Pino, Diritto di famiglia,
Padova, 1975, p. 99 s.; Tamburrino,
Lineamenti del nuovo di famiglia italiano, Torino, 1976, p. 210 s.; Russo, L’autonomia privata nella stipulazione di convenzioni matrimoniali,
op. ult. cit.., p. 154 ss.; Maiorca, voce Regime patrimoniale
della famiglia (disposizioni generali), in Noviss. Dig. it.,
Appendice, VI, Torino, 1986, p. 472 ss.; De
Rubertis, La comunione convenzionale tra coniugi, in Riv.
notar., 1989, p. 42 ss.; Moscarini,
Convenzioni matrimoniali in genere,
cit., p. 1103; Trimarchi, Istituzioni
di diritto privato, Milano, 2000, p. 726 s.; Zatti e Colussi,
Lineamenti di diritto privato, Padova, 2001, p. 876 s. Contra, per
la atipicità, v. Irti, della
comunione convenzionale, in Commentario alla riforma del diritto di
famiglia, a cura di Carraro, Oppo e Trabucchi, I, 1, Padova, 1977, p. 459
ss.; De Paola e Macrì, Il nuovo regime patrimoniale
della famiglia, Milano, 1978, p. 219 ss.; Grasso,
La comunione convenzionale, in Trattato Rescigno, III, Torino, 1982, p.
535 s.; Santosuosso, Il regime patrimoniale della famiglia,
cit., p. 329 ss.; Morelli, Autonomia negoziale e limiti legali nel
regime patrimoniale della famiglia, cit., p. 105 s.; Id., Il
nuovo regime patrimoniale della famiglia, cit., p. 16 ss.; Oberto, Le convenzioni matrimoniali:
lineamenti della parte generale, cit., p. 604 s.; Quadri, Autonomia negoziale e regolamento tipico nei
rapporti patrimoniali tra coniugi, in Giur. it., 1997, IV, c. 235
ss.; Bocchini, Autonomia negoziale e regimi
patrimoniali familiari, cit., p. 453; Zaccaria, Possono i coniugi optare per un regime
patrimoniale «atipico»?, in Studium iuris, 2000, p. 947 ss.; Patti, Regime patrimoniale della
famiglia e autonomia privata, cit., p. 291 ss. Sul tema cfr. inoltre, in
vario senso, Marti, Il problema
delle convenzioni atipiche nel diritto di famiglia, in Aa. Vv., Tipicità e atipicità nei
contratti, in Quaderni di Giurisprudenza Commerciale, 53, Milano, 1983, p.
89 ss.; Galletta, I regolamenti
patrimoniali tra coniugi, cit., p. 9 ss., 36 ss.; Fusaro, Il regime
patrimoniale della famiglia, Padova, 1990, p. 21 ss.; Bocchini, Rapporto coniugale e circolazione dei beni, Napoli, 1995, p. 5 ss.;
Doria, Autonomia privata e «causa» familiare. Gli accordi traslativi tra i
coniugi in occasione della separazione personale e del divorzio, Milano,
1996, p. 156 s.; Carnevali, Le convenzioni matrimoniali, cit., p. 18
ss.; Gabrielli, voce Regime
patrimoniale della famiglia, in Digesto
disc. priv., Sez. civile, XVI, Torino, 1997, p. 382 ss.; Gabrielli e Cubeddu, Il regime
patrimoniale dei coniugi, Milano, 1997, p. 236 s.; Montecchiari, In tema
di forma e contenuto delle convenzioni matrimoniali modificative, nota a
Cass., 11 novembre 1996, n.
[218] Donisi, Limiti all’autoregolamentazione degli interessi nel diritto di famiglia, in Aa. Vv., Famiglia e circolazione giuridica, a cura di G. Fuccillo, Milano, 1997, p. 17.
[219] Oberto, I contratti della crisi coniugale, I, cit., p. 146 s.; riprende ora di peso tale conclusione (insieme ad interi passi dell’opera…) Verde, Le convenzioni matrimoniali, Torino, 2003, p. 39.
[221] Rescigno, Manuale del diritto privato italiano, Napoli, 1975, p. 274; per considerazioni analoghe cfr. Doria, op. cit., p. 183 s.
[222] Sul punto v. Oberto, I contratti della crisi coniugale, I, cit., p. 121 ss. e da ultimo anche Bocchini, Autonomia negoziale e regimi patrimoniali familiari, cit., p. 432, 440; Patti, Regime patrimoniale della famiglia e autonomia privata, cit., p. 292, nota 18.
[223]
Cfr. Oberto, I contratti della crisi
coniugale, I, cit., p. 66 ss.; Id.,
Gli accordi sulle conseguenze patrimoniali della crisi coniugale e dello
scioglimento del matrimonio nella prospettiva storica, nota a Cass., 20
marzo 1998, n.
[224]
Per la comparazione con il
sistema tedesco e con quello francese contemporanei, nei quali vige il
principio della libertà contrattuale ed è ritenuta come preferibile la regola
della atipicità dei regimi patrimoniali cfr. Patti,
Regime patrimoniale della famiglia e autonomia privata, cit., p. 297 s.
[225] Sacco, Se tra i coniugi l’attuazione di fatto di un regime patrimoniale diverso da quello corrispondente a diritto dia luogo a restituzioni, in Aa. Vv., Questioni di diritto patrimoniale della famiglia dedicate a Trabucchi, Padova, 1989, p. 91.
[226]
Busnelli, voce Convenzione
matrimoniale, cit., p. 514; in questo senso cfr. inoltre Cattaneo, Note introduttive agli
artt. 82-88 Nov.,
in Commentario alla riforma del diritto italiano della famiglia, a
cura di Cian, Oppo e Trabucchi, III, Padova, 1992, p. 396 s.; Santosuosso, Il regime patrimoniale della famiglia, cit., p. 12, 18; Corsi, op. cit., II, cit., p. 8 ss.; Gabrielli,
Scioglimento parziale della
comunione legale fra coniugi. Esclusione dalla comunione di singoli beni e
rifiuto preventivo del coacquisto, cit., p. 349; Sacco, Del regime patrimoniale della famiglia, in Commentario
al diritto italiano della famiglia a cura di Cian, Oppo e Trabucchi, cit.,
p. 17 s.; Morelli, Autonomia negoziale e limiti legali nel
regime patrimoniale della famiglia, cit., p. 105 s.; Oberto, Le convenzioni matrimoniali:
lineamenti della parte generale, cit., p. 604 s.; Angeloni, Autonomia privata e potere di disposizione nei
rapporti familiari, Padova, 1997, p. 270 s.; Carnevali, Le
convenzioni matrimoniali, cit., p. 19; Confortini,
La comunione convenzionale tra coniugi, in Il diritto di famiglia,
II, Il regime patrimoniale della famiglia, Trattato diretto da Bonilini
e Cattaneo, Torino, 1997, p. 297; Montecchiari,
op. cit., p. 1333; Gabrielli
e Cubeddu, Il regime patrimoniale dei coniugi, cit., pp. 8 ss., 294 s.; Bargelli e Busnelli, voce Convenzione
matrimoniale, cit., p. 436
ss., spec. p. 443 ss.; Valignani, I
limiti dell’autonomia dei coniugi nell’assetto dei loro rapporti patrimoniali,
in Familia, 2001, p. 381 ss., 384; Zoppini,
L’autonomia privata nel diritto di famiglia, sessant’anni dopo, in Riv.
dir. civ., 2001, I, p. 218; patti,
Regime patrimoniale della famiglia e autonomia privata, cit., p. 291 ss.
Una parte della dottrina individua peraltro una possibile atipicità di
contenuto all’interno degli schemi prefigurati dal legislatore (in argomento,
tra gli altri, Russo, L’autonomia privata nella stipulazione di
convenzioni matrimoniali, op. ult. cit., p. 154 ss.; Galletta, I regolamenti patrimoniali
tra coniugi, cit., p. 36 ss.; Barchiesi,
Il sistema della pubblicità nel regime patrimoniale della famiglia,
Milano, 1995, p. 110), mentre altri preferiscono indicare un limite per ogni possibile
regime atipico nel principio di «non contraddittorietà legato all’esigenza cioè
di coerenza tra le regole volte nel loro complesso a realizzare il programma
(obbligato) di equilibrio degli interessi in gioco» (Morelli, Autonomia
negoziale e limiti legali nel regime patrimoniale della famiglia, cit., p.
107). Sull’ampiezza dei margini di autonomia lasciati dal legislatore dei ‘75
v. infine la riflessione di De Nova, Disciplina inderogabile
dei rapporti patrimoniali e autonomia negoziale, in Studi in onore di P. Rescigno,
Milano, 1998, p. 259 ss.
[227] Sui limiti all’autonomia privata nelle convenzioni matrimoniali v. anche Russo, L’autonomia privata nella stipulazione di convenzioni matrimoniali, in Vita notar., 1982, p. 488 ss.; Maiorca, voce Regime patrimoniale della famiglia (disposizioni generali), cit., p. 469 ss.; per uno studio comparatistico sull’autonomia privata nelle convenzioni matrimoniali in Italia e in Francia cfr. Dassio, Autonomia privata e convenzioni matrimoniali: l’esperienza francese a confronto con quella italiana, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1996, p. 837 ss., il quale giunge alle non condivisibili conclusioni – cfr. in partic. p. 875 ss. – secondo cui i coniugi italiani fruirebbero, rispetto ai loro omologhi francesi, di un assai minore grado d’autonomia, trascurando peraltro di attribuire il giusto rilievo, da un lato, al carattere essenzialmente atipico delle convenzioni in diritto italiano e, dall’altro, alla persistenza di gravi limitazioni alla modifica delle convenzioni matrimoniali nel diritto transalpino: cfr. artt. 1396 s. Code Civil; nel senso che la possibilità di stipula e modifica in ogni tempo delle convenzioni costituisce un aspetto dell’autonomia dei coniugi cfr. anche Carnevali, Le convenzioni matrimoniali, cit., p. 19.
[228]
Russo,
L’autonomia privata nella stipulazione di
convenzioni matrimoniali, in Le
convenzioni matrimoniali ed altri saggi sul nuovo diritto di famiglia,
cit., p. 166; Corsi, op. cit.,
II, cit., 9; Carnevali, Le convenzioni matrimoniali, cit., p.
19; per quanto concerne l’autonomia privata nella convenzione costitutiva del
regime di comunione convenzionale (con particolare riguardo ai limiti fissati
dall’art. 210 c.c.) cfr. anche Lo Sardo,
La comunione convenzionale nel regime
patrimoniale della famiglia, in Riv.
notar., 1991, p. 1229 ss.
[229]
Quadri, Autonomia negoziale e regolamento tipico nei
rapporti patrimoniali tra coniugi, cit., c. 235 s., il quale parla al
riguardo di una «libertà virtuale» di creazione di nuovi tipi di convenzione
matrimoniale, consentita dal legislatore «proprio in considerazione di un
simile prevalente e spontaneo adeguamento degli interessati».
[231] Su cui v. per tutti Oberto, Le convenzioni matrimoniali: lineamenti della parte generale, cit., p. 608 ss.; per una rassegna di giurisprudenza al riguardo v. anche Pepe, op. cit., p. 237 ss. In senso contrario rispetto al segnalato trend giurisprudenziale si pongono i rilievi di quella dottrina che mira a proporre o ad estendere tecniche di controllo legate all’irrigidimento formale della fattispecie (cfr. Bargelli e Busnelli, voce Convenzione matrimoniale, cit., p. 449 ss. e, per una critica a tale posizione, Zoppini, L’autonomia privata nel diritto di famiglia, sessant’anni dopo, cit., p. 230).
[232] V. infra, § 17.
[233] Cfr. Oberto, I contratti della crisi coniugale, II, cit., p. 1199 ss.; Id., Prestazioni «una tantum» e trasferimenti tra coniugi in occasione di separazione e divorzio, Milano, 2000, passim. Per una successiva, sintetica, analisi del tema, cfr. anche T.V. Russo, I trasferimenti patrimoniali tra coniugi nella separazione e nel divorzio, Napoli, 2001.
[234]
Cass., 18 agosto 1993, n.
8758: «L’accordo intercorso, prima della riforma del diritto di famiglia del
1975, tra coniugi in regime di separazione dei beni, con il quale questi si
obbligavano a versare in un unico conto corrente i proventi delle rispettive
attività professionali, costituendo esercizio della privata autonomia, è
soggetto alle norme ordinarie e non costituisce convenzione matrimoniale da
stipularsi con atto pubblico a pena di nullità, con la conseguenza che tale
accordo può essere provato anche a mezzo di testimoni».
[235]
Cass., 11 novembre 1996,
n. 9846, cit, con nota di Montecchiari;
in Giust. civ., 1997, I, p. 2220; la stessa pronuncia risulta peraltro
pubblicata anche come Cass., 28 novembre 1996, n.
[238] Sul punto, che non può essere approfondito in questa sede, si fa rinvio per tutti a Oberto, Le convenzioni matrimoniali: lineamenti della parte generale, cit., p. 608 ss.
[239]
Oberto, I regimi patrimoniali della famiglia di fatto,
cit., p. 169 ss.; Id., I
contratti della crisi coniugale, I, cit., p. 66 ss.; Id., Gli accordi sulle conseguenze patrimoniali
della crisi coniugale e dello scioglimento del matrimonio nella prospettiva
storica,
cit., c. 1306 ss. Per un accenno al
riguardo cfr. anche Bargelli e Busnelli, voce Convenzione matrimoniale, cit.,
p. 438; Bocchini, Autonomia negoziale e regimi patrimoniali
familiari, cit., p. 435; Patti, Regime patrimoniale della
famiglia e autonomia privata, cit., p. 305 s.
[240] Per alcune considerazioni al riguardo e per un’illustrazione del collegamento tra la regola dell’immodificabilità dei patti nuziali e il divieto di donazioni tra coniugi cfr. Sacco, Del regime patrimoniale della famiglia, in Commentario al diritto italiano della famiglia a cura di Cian, Oppo e Trabucchi, cit., p. 24 s. Questo collegamento del resto era molto chiaro già agli autori dell’epoca anteriore alle moderne codificazioni: cfr. per esempio Prevôt de la Jannes, Les principes de la jurisprudence françoise, II, Paris, 1770, p. 26, il quale rilevava che «si ces changemens étoient permis, ils troubleroient la paix des mariages, le repos des familles qui prennent leur assurance sur les contrats de mariage, et ouvriroient la porte aux avantages indirects, si contraires à la conservation des biens dans les familles»; il medesimo collegamento era posto in luce con estrema chiarezza anche dai primi commentatori del Code Napoléon (cfr. per tutti le illuminanti pagine di Toullier, Il diritto civile francese secondo l’ordine del codice, ed. italiana, VI, Palermo, 1855, p. 185 ss.; sui rapporti tra il divieto delle donazioni tra coniugi, immutabilità dei regimi matrimoniali e donazioni tra concubini v. Oberto, I regimi patrimoniali della famiglia di fatto, cit., p. 169 ss.).
[243] Sul rapporto tra questi due fenomeni e sui possibili tipi di modifica, rilevante ex art. 163 c.c. cfr. Maiorca, voce Regime patrimoniale della famiglia (disposizioni generali), cit., p. 486; De Paola, op. cit., p. 177.
[246] Corsi, op. cit., II, cit., p. 37. L’omologazione prevista dall’art. 163 c.c. dovrebbe servire a tutelare gli interessi degli eredi del coniuge defunto, vincolati dalla sua proposta (Corsi, op. cit., II, cit., p 34.); conseguentemente si afferma il carattere contenzioso del relativo procedimento e la necessaria partecipazione al medesimo degli eredi del coniuge defunto, che potrebbero essere i maggiormente interessati ad eventualmente contrastare la progettata modifica (Corsi, op. cit., II, cit., p. 37). Di contro, la dottrina prevalente richiama il procedimento camerale ex artt. 737 ss. c.p.c. (cfr. per tutti A. e M. Finocchiaro, op. cit., p. 776; De Paola, op. cit., p. 182 s.). In effetti, anche a volere procedere dal presupposto secondo cui il giudice dovrebbe qui tutelare la posizione degli eredi, occorrerebbe pur sempre riconoscere che, non venendo in gioco un contrasto su diritti (né, tanto meno, su status), bensì mere valutazioni di interessi rimesse alla discrezionale valutazione del tribunale, sarebbe più logico inquadrare il procedimento tra quelli di volontaria giurisdizione. Ma il legislatore fornisce un elemento ulteriore, espressamente qualificando la procedura come di «omologazione», concetto che notoriamente (si pensi alla separazione consensuale o a quella che era un tempo l’omologazione degli atti societari) induce a pensare ad un controllo preventivo di mera legalità sul contenuto di un accordo negoziale. Il tribunale dovrà pertanto vegliare a che le parti non violino alcune delle disposizioni inderogabili fissate dal legislatore, sia in relazione alla disciplina generale dei contratti, che con riguardo a quella specifica delle convenzioni matrimoniali (artt. 160, 161, 162, comma terzo, 166-bis c.c.).
[247] Sacco, Del regime patrimoniale della famiglia, in Commentario al diritto italiano della famiglia a cura di Cian, Oppo e Trabucchi, cit., p. 26.
[248] Per i richiami si fa rinvio a Oberto, Le convenzioni matrimoniali: lineamenti della parte generale, cit., p. 610 ss.
[249] Sul punto cfr. Pacia Depinguente, Autonomia dei coniugi e mutamento del regime patrimoniale legale, in Riv. dir. civ., 1980, II, p. 574 ss.
[250]
Più esattamente, per la
modifica delle convenzioni stipulate per atto pubblico prima dell’entrata in
vigore della legge citata cfr. art.
[251] Legge tale riforma nel senso di un’esaltazione del campo di azione dell’autonomia privata anche Valignani, op. cit., p. 381.
[252]
Cfr. Boero,
op. cit., c. 126; A. e M.
Finocchiaro, op. cit., p. 742; nello stesso senso v.
anche, in giurisprudenza, Trib. Udine, 22 maggio
[253]
Così Trib. Torino, 16
settembre 1993, inedita; contra Trib.
Roma, 10 marzo
[254]
Il ricorso potrà essere
presentato dai coniugi personalmente se si accede alla tesi secondo cui le
procedure camerali di volontaria giurisdizione non costituiscono «giudizio» ai
sensi dell’art. 82 c.p.c. (sull’argomento si fa rinvio per
tutti a Oberto, Rifiuto di trascrizione e trascrizione con
riserva nel sistema della l. 27 febbraio 1985, n.
[255]
Trib. Arezzo, 13 marzo
[257]
Cfr. per esempio App.
Firenze, 15 ottobre
[262] Cfr. art. 1321 c.c.: sul punto v. Sacco, Del regime patrimoniale della famiglia, nel Commentario al diritto italiano della famiglia, a cura di Cian, Oppo e Trabucchi, cit., p. 16 ss.; cfr. inoltre Pacia Depinguente, Autonomia dei coniugi e mutamento del regime legale, cit., p. 573; Santosuosso, Il regime patrimoniale della famiglia, cit., p. 44; Moscarini, Convenzioni matrimoniali in genere, cit., p. 1010 ss.; Fusaro, op. cit., p. 21 ss.; Bargelli e Busnelli, voce Convenzione matrimoniale, cit., p. 457.
Riferisce invece (anche) ai doveri personali
l’art. 160 c.c. Bocchini, Autonomia negoziale e regimi
patrimoniali familiari, cit., p. 442. Per una pronunzia di
legittimità che ammette la derogabilità del dovere di coabitazione tra coniugi,
senza neppure citare l’art. 160 c.c. cfr. Cass., 11 aprile 2000, n.
[263]
Cattaneo,
Corso di diritto civile. Effetti del
matrimonio, regime patrimoniale, separazione e divorzio, cit., p. 58; De Paola, op. cit., p. 51; Oberto, Le convenzioni matrimoniali:
lineamenti della parte generale, cit., p. 600 s.; Bargelli e Busnelli, voce
Convenzione matrimoniale, cit., p. 457; Zaccaria, Possono i coniugi optare
per un regime patrimoniale «atipico»?, cit., p. 947 s.; Patti, Regime patrimoniale della
famiglia e autonomia privata, cit., p. 285 ss.; Valignani, op. cit., p. 382; Ieva, Le convenzioni
matrimoniali, cit., p. 33.
[264]
Sacco,
Del regime patrimoniale della famiglia, in Commentario al diritto
italiano della famiglia a cura di Cian, Oppo e Trabucchi, cit., p. 16 ss.; Maiorca, voce Regime patrimoniale
della famiglia (disposizioni generali), cit., p. 463; De Paola, op. cit., p. 52; Oberto, Le convenzioni matrimoniali:
lineamenti della parte generale, cit, p. 600 s.; Zaccaria, Possono i coniugi optare per un regime
patrimoniale «atipico»?, cit., p. 947 s.; Valignani,
op. cit., p. 382; Patti, Regime
patrimoniale della famiglia e autonomia privata, cit., p. 285 ss.
[265] A. e M. Finocchiaro, op. cit., p. 723; Maiorca, voce Separazione dei beni tra coniugi, in Noviss. dig. it., Appendice, VII, Torino, 1987, p. 116.
[266] Sacco, Del regime patrimoniale della famiglia, nel Commentario al diritto italiano della famiglia, a cura di Cian, Oppo e Trabucchi, cit., p. 17.
[268] Cfr. Oberto, Le convenzioni matrimoniali: lineamenti della parte generale, cit., p. 601 s.; Id., I contratti della crisi coniugale, I, cit., p. 377 ss., 452 ss.
[269] Cfr. Sacco, Del regime patrimoniale della famiglia, nel Commentario al diritto italiano della famiglia, a cura di Cian, Oppo e Trabucchi, cit., p. 20.
[270] Sacco, Del regime patrimoniale della famiglia, nel Commentario al diritto italiano della famiglia, a cura di Cian, Oppo e Trabucchi, cit., p. 20.
[272] Cfr. ex multis Oberto, Le convenzioni matrimoniali: lineamenti della parte generale, cit., p. 603; conforme Bocchini, Autonomia negoziale e regimi patrimoniali familiari, cit., p. 443.
[273]
Moscarini,
Convenzioni matrimoniali in genere,
cit., p. 1017; analoghe
considerazioni erano già state espresse in precedenza da Sacco, Regime patrimoniale e convenzioni, nel Commentario alla riforma del diritto di famiglia a cura di Carraro,
Oppo e Trabucchi, cit., p. 324. Cfr. inoltre nello stesso senso Roppo, voce Convenzioni matrimoniali,
cit., p. 3; Galgano, Diritto
civile e commerciale, IV, Padova, 1993, p. 112; Auletta, Il diritto di famiglia, Torino, 1997, p. 114
s.; Carnevali, Il diritto di
famiglia, II, Il regime patrimoniale della famiglia, in Trattato
diretto da G. Bonilini e G. Cattaneo, Torino, 1997, p. 18 s.; Quadri, Autonomia negoziale e
regolamento tipico nei rapporti patrimoniali tra coniugi, cit., c. 229 ss.;
Galasso e Tamburello, op. cit., p. 52 s.; Gabrielli e Cubeddu,
Il regime patrimoniale dei coniugi, cit., p. 7; Patti, Regime patrimoniale della famiglia e autonomia
privata, cit., p. 299 s.
[274] Cfr. Oberto, Del regime patrimoniale della famiglia, Commento agli artt. 159-166-bis c.c., in Aa. Vv., Codice della famiglia, a cura di M. Sesta, Milano, 2015, p. 668 ss.
[277] Sacco, Del regime patrimoniale della famiglia, nel Commentario al diritto italiano della famiglia, a cura di Cian, Oppo e Trabucchi, cit., p. 42.
[278] Sacco, Regime patrimoniale e convenzioni, nel Commentario alla riforma del diritto di famiglia a cura di Carraro, Oppo e Trabucchi, cit., p. 342; Id., Del regime patrimoniale della famiglia, nel Commentario al diritto italiano della famiglia, a cura di Cian, Oppo e Trabucchi, cit., p. 42; Grasso, Il regime patrimoniale delle famiglia in generale, cit., p. 378; Moscarini, Convenzioni matrimoniali in genere, cit., p. 1014; Morelli, Autonomia negoziale e limiti legali nel regime patrimoniale della famiglia, cit., p. 107.
[279] Corsi, Il regime patrimoniale della famiglia, I, I rapporti patrimoniali tra coniugi in generale. La comunione legale, Milano, 1979, p. 15.
[281] Sacco, Del regime patrimoniale della famiglia, nel Commentario al diritto italiano della famiglia, a cura di Cian, Oppo e Trabucchi, cit., p. 42; Morelli, Autonomia negoziale e limiti legali nel regime patrimoniale della famiglia, cit., p. 107.
[282] Sul punto v. Morelli, Autonomia negoziale e limiti legali nel regime patrimoniale della famiglia, cit., p. 107.
[288] V. supra, § 13.
[289] Sul tema cfr. supra, § 10 ss.
[290] Cfr. Oppo, Autonomia negoziale e regolamento tipico nei rapporti patrimoniali tra coniugi, in Riv. dir. civ., 1997, I, p. 21 (sulla legittimità costituzionale delle norme che consentono ai coniugi di derogare in tutto o in parte al regime legale v. per tutti Gabrielli, voce Regime patrimoniale della famiglia, cit., p. 336). L’attribuzione di un carattere meramente suppletivo alla comunione è vista anche da Morelli, Autonomia negoziale e limiti legali nel regime patrimoniale della famiglia, cit., p. 105 come sintomo di un maggior spazio aperto all’autonomia negoziale; nel medesimo senso v. anche Carnevali, Le convenzioni matrimoniali, cit., p. 18; Oberto, I contratti della crisi coniugale, I, cit., p. 155 s.; Patti, Regime patrimoniale della famiglia e autonomia privata, cit., p. 290 s.
[291]
Per un’analisi delle considerazioni fiscali
che possono spingere alla adozione di un regime piuttosto che dell’altro Ieva, Le convenzioni matrimoniali, cit., p. 31 ss.
[292]
Per un uso della scelta in favore del regime
di separazione in contemplation of divorce cfr. Oberto, I contratti della crisi coniugale, I, cit.,
p. 558 ss.; per analoghe considerazioni v. Sesta,
Titolarità e prova della proprietà nel regime di separazione dei beni,
in Familia, 2001, p. 871 ss.
[294]
Di contrario avviso sono,
Trib. Piacenza, 9 aprile
[295]
Cfr. Cass., 2 giugno 1989,
n.
[296]
Gabrielli,
Scioglimento parziale della comunione
legale fra coniugi. Esclusione dalla comunione di singoli beni e rifiuto
preventivo del coacquisto, cit., p. 341 ss., spec. 356 ss.; nello stesso
senso v. anche Id., voce Regime patrimoniale della famiglia,
cit., p. 356; Gabrielli e Cubeddu, Il regime patrimoniale dei coniugi, cit., p. 95 ss.; cfr. inoltre,
sempre in senso favorevole alla tesi di Gabrielli e della Cassazione, Montesano, Rifiuto del coacquisto. Altre ipotesi di esclusione di un bene dalla
comunione legale e riconoscimento dell’autonomia negoziale nei rapporti
patrimoniali familiari, in Vita
not., 1991, p. LXXVIII ss.;
Lamberti, Ipotesi di riducibilità convenzionale della comunione legale, ivi, 1992, p. 384 ss.; Lo Sardo, Il rifiuto preventivo del coacquisto, ivi, p. 395 ss., e Id., Ma
la comunione legale non è una prigione!, in Riv. not., 1993, p. 124 ss.; Oberto, I contratti della crisi
coniugale, I, cit., p. 156 s.; Id., La comunione legale tra coniugi, I, cit., p. 1102 ss.; Valignani, I limiti all’autonomia dei coniugi nell’assetto
dei loro rapporti patrimoniali, in Familia, 2001, p. 391 ss. De Falco, Separazione dei beni,
comunione convenzionale e fondo patrimoniale, relazione presentata
all’incontro di studio sul tema «I rapporti patrimoniali della famiglia»
organizzato dal Consiglio Superiore della Magistratura, Nona commissione –
tirocinio e formazione professionale, svoltosi a Roma nei giorni 14 – 16 aprile
2003 (testo dattiloscritto), p. 7 ss. Anche Patti,
Regime patrimoniale della famiglia e autonomia privata, cit., p. 291
cita quale esempio di manifestazione dell’autonomia privata la possibilità per
i coniugi di escludere alcuni beni dal regime di comunione. Per converso, la
citata decisione della Cassazione ha attirato recise critiche di altra parte della
dottrina: v. Galletta, Estromissione
dei beni dalla comunione legale e consenso del coniuge, nota a Cass., 2
giugno 1989, n.
[297] Cfr. Gabrielli, Scioglimento parziale della comunione legale fra coniugi. Esclusione dalla comunione di singoli beni e rifiuto preventivo del coacquisto, loc. ultt. citt.
[298] Sempre sul piano della lettera della legge, poi, si è osservato che è lo stesso uso del condizionale da parte dell’art. 210, terzo comma, c.c. («beni che formerebbero oggetto della comunione»), al posto dell’indicativo dell’art. 177, primo comma, c.c. («costituiscono oggetto della comunione»), ad esprimere l’eventualità che singoli beni siano esclusi dalla comunione (Bocchini, Autonomia negoziale e regimi patrimoniali familiari, cit., p. 501).
[299]
Si tenga presente, con riferimento a questo
particolare aspetto, che i coniugi ben potrebbero comunque raggiungere lo scopo
dell’estromissione di beni o categorie di beni donandosi le rispettive quote,
ovvero donando entrambi i predetti beni ad un terzo, con obbligo di
ritrasferirli a sua volta a titolo gratuito ad uno dei coniugi, che ne
diverrebbe così esclusivo proprietario (art. 179, lett. b), c.c.).
[300] Gabrielli, Scioglimento parziale della comunione legale fra coniugi. Esclusione dalla comunione di singoli beni e rifiuto preventivo del coacquisto, cit., p. 356 s., 362 s.; cfr. inoltre, anche per ulteriori richiami, Cavallaro, Il regime di separazione dei beni fra coniugi, Milano, 1997, p. 35 ss.; Radice, La comunione legale tra coniugi: i beni personali, in Il diritto di famiglia, Trattato diretto da G. Bonilini e G. Cattaneo, II, Il regime patrimoniale della famiglia, Torino, 1997, p. 162.
[304] Gabrielli, Scioglimento parziale della comunione legale fra coniugi. Esclusione dalla comunione di singoli beni e rifiuto preventivo del coacquisto, cit., p. 348 s.
[305] Così ancora Gabrielli, Scioglimento parziale della comunione legale fra coniugi. Esclusione dalla comunione di singoli beni e rifiuto preventivo del coacquisto, cit., p. 358.
[306]
Sacco,
Regime patrimoniale e convenzioni,
nel Commentario alla riforma del diritto
di famiglia a cura di Carraro, Oppo e Trabucchi, cit., p. 334.
[310] Per una critica a tale ricostruzione cfr. Oberto, La comunione legale tra coniugi, I, cit., p. 261 ss.
[312] Di «inceppo che il moltiplicarsi delle contitolarità provoca nella gestione dei patrimoni» parla significativamente anche Gabrielli, I rapporti patrimoniali e successori nell’ambito della famiglia, in Famiglia e diritto a vent’anni dalla riforma, a cura di Belvedere e Granelli, Padova, 1996, p. 48.
[313] Per i richiami si fa rinvio a Caravaglios, op. cit., p. 683 ss.; sul tema dell’amministrazione della comunione legale in generale si richiama inoltre l’interessante monografia di Giusti, L’amministrazione dei beni della comunione legale, Milano, 1989.
[314] Corsi, op. cit., I, cit., p. 17; per analoghe considerazioni cfr. Di Martino e Rovera, La comunione legale tra coniugi: l’amministrazione dei beni, in Il diritto di famiglia, Trattato diretto da G. Bonilini e G. Cattaneo, II, Il regime patrimoniale della famiglia, Torino, 1997, p. 165 ss.
[315]
Corte cost., 17 marzo
[317] Sul tema, che non può essere affrontato in questa sede, cfr. per tutti Schlesinger, Note introduttive agli articoli 177-197 e Della comunione legale, in Commentario al diritto italiano della famiglia, a cura di Cian, Oppo e Trabucchi, III, Padova, 1992, p. 84 s.; Morelli, Autonomia negoziale e limiti legali nel regime patrimoniale della famiglia, cit., p. 109 s.; Caravaglios, op. cit., p. 41 s.; Di Martino, La comunione legale tra coniugi: l’oggetto, in Il diritto di famiglia, Trattato diretto da G. Bonilini e G. Cattaneo, II, Il regime patrimoniale della famiglia, Torino, 1997, p. 52 ss.; Auletta, La comunione legale, in Aa. Vv., Il diritto di famiglia, II, in Aa. Vv., Trattato di diritto privato, diretto da M. Bessone, Torino, 1999, p. 23 ss.
[318] In questo senso cfr. Sacco, Regime patrimoniale e convenzioni, nel Commentario alla riforma del diritto di famiglia a cura di Carraro, Oppo e Trabucchi, cit., p. 335 s.; Corsi, op. cit., I, cit., p. 146 ss.; Santosuosso, Il regime patrimoniale della famiglia, cit., p. 263.
[319]
Per una panoramica delle
varie opinioni sul punto cfr. per tutti Mastropaolo,
Commento agli artt. 184-185 c.c., in Commentario al diritto
italiano della famiglia, a cura di Cian, Oppo e Trabucchi, III, Padova,
1992, p. 202 ss.; Di Martino e Rovera, La comunione legale tra coniugi: l’amministrazione dei beni, cit.,
p. 195 ss.; si noti che l’interpretazione «restrittiva» dell’art. 184 c.c. era
già stata persuasivamente respinta da Cass., 2 febbraio 1995, n.
[320]
Cass., 18 maggio 1994, n.
4887, cit.; sul regime transitorio delle disposizioni concernenti l’oggetto
della comunione legale cfr. Di Martino,
La comunione legale tra coniugi: l’oggetto, cit., p. 50 ss.;
sull’autonomia negoziale dei coniugi nelle prime interpretazioni
giurisprudenziali dell’art. 228 cit. v. Andrini,
L’autonomia negoziale dei coniugi nelle prime interpretazioni
giurisprudenziali dell’art.
[323]
Cass., 3 agosto 1994, n.
[324]
La dottrina (cfr. per tutti Quadri, Della comunione convenzionale, nel Commentario al diritto
italiano della famiglia, a
cura di Cian, Oppo e Trabucchi, III, Padova, 1992, p. 393 s.; Confortini, op. cit., p. 285 s.; Gabrielli, voce Regime patrimoniale della famiglia, cit., p.
L’acuto contrasto di cui sopra aiuta a capire perché non
siano mancate posizioni, per così dire, intermedie, quali quelle di chi,
sottolineando, in particolare, il carattere negativo della disciplina in
questione, ne ha desunto la possibilità dell’introduzione di regole pattizie
tali da delineare un tipo di comunione profondamente svincolata dallo schema di
quella legale, quale potrebbe essere quella eventualmente ispirata al modello
scandinavo o germanico della comunione a partecipazione differita, o quella
che, rovesciando l’archetipo legale, abbracciasse i frutti e i proventi
lasciandone fuori gli acquisti (Corsi,
Il regime patrimoniale della famiglia,
II, Le convenzioni matrimoniali. Famiglia
e impresa, in Trattato di diritto
civile e commerciale, già diretto da Cicu e Messineo e continuato da
Mengoni, Milano, 1984, p. 10). O, ancora, come quella secondo cui gli interessati
potrebbero tanto apportare semplici modifiche al regime legale, quanto adottare
un regime di comunione che si sostituisca globalmente a quello legale, sia pure
nei limiti fissati dagli artt. 160, 161 e 210 c.c. (Grasso, La comunione
convenzionale, cit., p. 536; Santosuosso,
Il regime patrimoniale della famiglia,
cit., p. 331; Spinelli e Parente, op. cit., p. 65 e 76). In
questa scia si colloca chi avverte la necessità di prestare attenzione alla
concreta considerazione dell’intento delle parti, tenendo distinti i casi in
cui i coniugi avessero inteso apportare semplici modifiche al regime legale, da
quelli in cui essi avessero invece voluto adottare un regime di comunione che
si sostituisse globalmente a quello ex
artt. 177 s. c.c., attesa l’indiscussa libertà dei contraenti di dare vita a
regimi atipici, purché non intimamente contraddittori (Quadri, Della
comunione convenzionale, cit., p. 394 s.).
La disputa sulla natura della comunione convenzionale non sembra comunque rivestire grande rilevanza pratica (v. A. e M. Finocchiaro, op. loc. ultt. citt.), atteso che è fuori discussione – per effetto del richiamo all’art. 162 c.c. – che le modifiche al regime di comunione richiedano comunque il rispetto delle disposizioni formali imposte per la stipula delle convenzioni matrimoniali ed avuto altresì riguardo al fatto (da un punto di vista più concreto, ma non meno rilevante ai fini dell’indagine) che la comunione convenzionale non ha, praticamente, ricevuto attuazione (per questa constatazione, v. Bocchini, La comunione legale: un istituto da incentivare, in Fam. dir., 1995, p. 501). Del resto, appare quanto mai significativo che le più importanti pronunzie in materia di art. 210 c.c. riguardino, in realtà, situazioni in cui le parti avevano tentato – per motivi di carattere fiscale – di avvalersi della convenzione disciplinata dall’art. 228 cpv. l. 19 maggio 1975, n. 151 per dar vita ad una convenzione di comunione convenzionale comprendente anche i beni di cui ciascuno dei coniugi era titolare prima della celebrazione delle nozze. Di contro, non si è mancato di rilevare che il dibattito sulla natura dell’istituto in esame non avrebbe carattere meramente classificatorio, avuto riguardo alle conseguenze in tema di integrazione del contratto, sotto il duplice profilo della tecnica per colmare le eventuali lacune del regolamento convenzionale e della nullità parziale. Quanto al primo aspetto, se la comunione convenzionale viene configurata come regime autonomo, sembrerebbe doversi escludere la possibilità che le lacune della disciplina negoziale possano essere colmate avendo riguardo alle disposizioni che regolano la comunione legale. Sempre nella prospettiva dell’autonomia, la nullità parziale della convenzione o la nullità di singoli patti importerebbe la nullità dell’intera convenzione, se risultasse che i coniugi non l’avrebbero posta in essere senza quella parte del suo contenuto colpita da nullità; muovendo invece dalla diversa prospettiva della comunione convenzionale come semplice deformazione del regime legale, dovrebbe, invece, reputarsi che la nullità dei patti derogatori determinerebbe l’automatica reviviscenza della regola derogata (Confortini, op. cit., p. 291 s.).
[325] A. e M. Finocchiaro, op. cit., p. 1197; Quadri, Della comunione convenzionale, cit., p. 398; sul tema v. anche Russo, L’autonomia privata nella stipulazione di convenzioni matrimoniali, op. ult. cit., p. 505 s.
[326] Oberto, Della comunione convenzionale, cit., p. 485 s.; contra, per l’immodificabilità delle disposizioni in materia di amministrazione – artt. 180 ss. c.c. – per tutti i beni in comunione convenzionale cfr. Cian e Villani, op. cit., p. 189, ma la conclusione pare in contrasto con la lettera della legge.
[327] Così, sostanzialmente, Cian e Villani, op. cit., p. 189; A. e M. Finocchiaro, op. cit., p. 1202; Santosuosso, Il regime patrimoniale della famiglia, cit., p. 331; Corsi, op. cit., II, cit., p. 74; Lo Sardo, La comunione convenzionale nel regime patrimoniale della famiglia, cit., p. 1245; Quadri, Della comunione convenzionale, cit., p. 405.
[329] Sulla possibilità di ampliare o restringere il novero delle cause di scioglimento del regime di comunione ex art. 191 c.c. v. Barbiera, La comunione legale, in Trattato di diritto privato, diretto da Rescigno, III, Torino, 1982, p. 507 s.; Santosuosso, Il regime patrimoniale della famiglia, cit., p. 336; Quadri, Della comunione convenzionale, cit., p. 407; Morelli, Autonomia negoziale e limiti legali nel regime patrimoniale della famiglia, cit., p. 107 s.
[330] Cfr. Duranton, Corso di diritto civile secondo il codice francese, VIII, ed. italiana, Torino, 1845, p. 55; Toullier, Il diritto civile francese secondo l’ordine del codice, ed. italiana, VI, Palermo, 1855, p. 219.
[331]
Favorevole
all’apponibilità di termini (quanto meno iniziali) e condizioni (quanto meno
sospensive): cfr. Pothier, Traité de la communauté, in Pothier, Traités sur différentes matières de droit civil, III,
Paris-Orléans, 1781, p. 615. Per un precedente che ammetteva la validità di una
clausola di un contratto di matrimonio che condizionava sospensivamente
l’applicazione del regime di comunione alla nascita di figli v. la decisione
del Parlamento di Parigi in data 22 maggio 1759 riportata da Denisart, Collection de décisions
nouvelles et de notions relatives à la jurisprudence actuelle, I, cit., p.
456.
[332] Cfr. al riguardo Baudry-Lacantinerie, Le Courtois e Surville, Del contratto di matrimonio, in Trattato teorico-pratico di diritto civile, diretto da G. Baudry-Lacantinerie, ed. italiana, I, Milano, s.d. ma 1909, p. 73 ss.
[335] Come già suggerito con riguardo ai rapporti tra conviventi more uxorio: cfr. Oberto, I regimi patrimoniali della famiglia di fatto, cit., p. 271.
[336] Cfr. Oberto, Comunione legale, regimi convenzionali e pubblicità immobiliare, cit., p. 190 ss.; Id., I contratti della crisi coniugale, II, cit., p. 1047 ss.
[339] Russo, L’autonomia privata nella stipulazione di convenzioni matrimoniali, op. ult. cit., p. 505; Gabrielli, I rapporti patrimoniali tra coniugi, cit., p. 25; sul tema delle convenzioni ampliative, v. anche Venditti, Comunione tra coniugi e convenzioni ampliative, in Dir. fam. pers., 1995, p. 273 s.; Confortini, op. cit., p. 303 s.
[340] Cian e Villani, op. cit., p. 189; Russo, L’autonomia privata nella stipulazione di convenzioni matrimoniali, op. ult. cit., p. 505
[341]
Cfr. Capozzi, Comunione convenzionale e acquisti a causa di morte, in Vita not., 1989, III, p. CXVII s.; Galletta, La comunione convenzionale, cit., p. 1059; cfr. inoltre Confortini, op. cit., p. 307 e Valignani,
op. cit., p. 389 (quest’ultima per quanto attiene agli acquisti mortis causa).
[343] Si noti, per incidens, che nel precedente regime comunitario non era prevista la possibilità di immettere in comunione i beni acquistati per successione o per donazione (cfr. l’abrogato art. 217 c.c.).
[344] Si noti che anche Confortini, op. cit., p. 306 s. e Valignani, op. cit., p. 389 rimarcano che il carattere futuro riguarda qui la donazione (futura rispetto alla convenzione) e non il bene, così che non si ravvisa un contrasto con l’art. 771 c.c.
[345]
Sui rapporti tra donazione di cosa futura e
donazione di cosa altrui cfr. da ultimo Cass., 5 febbraio 2001, n. 1596: «La
donazione di beni altrui non può essere ricompresa nella donazione di beni
futuri, nulla ex art. 771 cod. civ., ma è semplicemente inefficace e,
tuttavia, idonea ai fini dell’usucapione abbreviata ex art. 1159 cod.
civ., in quanto il requisito, richiesto dalla predetta disposizione
codicistica, della esistenza di un titolo che sia idoneo a far acquistare la
proprietà o altro diritto reale di godimento, che sia stato debitamente
trascritto, va inteso nel senso che il titolo, tenuto conto della sostanza e
della forma del negozio, deve essere idoneo in astratto, e non in concreto, a
determinare il trasferimento del diritto reale, ossia tale che l’acquisto del
diritto si sarebbe senz’altro verificato se l’alienante ne fosse stato
titolare».
[346] Per un approfondimento della questione si fa rinvio a Oberto, I regimi patrimoniali della famiglia di fatto, cit., p. 267 s.
[348] Cfr. Russo, L’autonomia privata nella stipulazione di convenzioni matrimoniali, op. ult. cit., p. 505; Gabrielli, I rapporti patrimoniali tra coniugi, cit., p. 514.
[349]
Cfr. Fragali, op. cit., p. 26; Barbiera,
op. cit., p. 438; Santosuosso, Il regime patrimoniale della famiglia, cit., p. 331; A. e M. Finocchiaro, op. cit., p. 1198; Lo Sardo,
La comunione convenzionale nel regime
patrimoniale della famiglia, cit., p. 1265 s.; Quadri, Della
comunione convenzionale, cit., p. 400; De
Paola, op. cit., p. 722; Santosuosso, Beni ed attività economica della famiglia, cit., p. 311 s.; Gabrielli e Cubeddu, Il regime
patrimoniale dei coniugi, cit., p. 296 s.; Oberto,
Della comunione convenzionale, cit.,
p. 491 ss.; Valignani, op. cit.,
p. 390; Sesta, Diritto di
famiglia, cit., p. 190; Trib. Udine, 23 dicembre
[351]
Sempre rimanendo in tema
di convenzioni «ampliative» del contenuto del regime legale andrà infine
osservato che, secondo la giurisprudenza, a tale novero non va ascritta la costituzione di società in nome collettivo
tra coniugi in regime patrimoniale di comunione legale, con conferimento
di beni personali ed attività, ed eventualmente anche con la partecipazione di
un terzo (Trib. Reggio Emilia, 2 marzo
[352]
Estremamente chiara sul
punto la giurisprudenza tedesca: cfr. per esempio BGH, 27 novembre
[353]
Cfr. per esempio Lo Sardo, La comunione convenzionale nel regime patrimoniale della famiglia,
cit., p. 1254 s.; si noti che in punto forma soccorre comunque il disposto
dell’art.
[354] A. e M. Finocchiaro, op. cit., p. 1202 s.; Galletta, La comunione convenzionale, cit., p. 1056 s.; secondo Bianca, Comunione legale e collazione, in Vita not., 1981, p. 805 s. la regola varrebbe addirittura anche per i beni caduti in comunione legale, purché acquistati con denaro personale o con il prezzo del trasferimento di beni personali o con il loro scambio.
[355] Moscarini, Struttura e funzioni nelle convenzioni matrimoniali, in Riv. notar., 1976, p. 164; Irti, op. cit., p. 458; Cian e Villani, op. cit., p. 189; Russo, L’autonomia privata nella stipulazione di convenzioni matrimoniali, op. ult. cit., p. 506 s.; Santosuosso, Il regime patrimoniale della famiglia, cit., p. 331; Corsi, op. cit., II, cit., p. 77 s.; A. e M. Finocchiaro, op. cit., p. 1199 s.; Laurini, L’esclusione parziale dalla comunione legale, in Riv. notar., 1985, p. 1072 s.; Spinelli e Parente op. cit., p. 70; Gabrielli, Scioglimento parziale della comunione legale fra coniugi, esclusione dalla comunione di singoli beni e rifiuto preventivo del coacquisto, cit., p. 343 s.; Lo Sardo, La comunione convenzionale nel regime patrimoniale della famiglia, cit., p. 1273; Quadri, Della comunione convenzionale, cit., p. 402; De Paola, op. cit., p. 723 s.; Confortini, op. cit., p. 303, 308 s.; Gabrielli, voce Regime patrimoniale della famiglia, cit., p. 393; Oberto, Della comunione convenzionale, cit., p. 494 s.; Valignani, op. cit., p. 391 ss.
[356]
In senso favorevole a tale conclusione v. Oppo, Responsabilità patrimoniale e
nuovo diritto di famiglia, in Riv. dir. civ., 1976, I, p. 108 ss.; Gabrielli e Cubeddu, Il regime
patrimoniale dei coniugi, cit., p. 296 s.; Confortini,
op. cit., p. 309; Paladini,
La comunione convenzionale, cit., p. 468; Valignani, op. cit., p. 394. Contra Galletta, I regolamenti patrimoniali
tra coniugi, cit., p. 77.
[357]
Cfr. per esempio Zaccaria, Possono i coniugi optare per un regime
patrimoniale «atipico»?, cit., p. 947 ss.
[358] De Rubertis, Pubblicità immobiliare e rapporti patrimoniali tra coniugi, in Vita not., 1984, p. 128 s.
[359] Su cui v. per tutti Grasso, La comunione convenzionale, cit., p. 541 ss.; Russo, L’autonomia privata nella stipulazione di convenzioni matrimoniali, op. ult. cit., p. 498 ss.; Corsi, op. cit., II, cit., p. 59 ss.; A. e M. Finocchiaro, op. cit., p. 1207 ss.; Maiorca, voce Separazione dei beni tra coniugi, cit., p. 77 ss.; Giusti, voce Separazione dei beni tra coniugi, in Enc. dir., XLI, Milano, 1989, p. 1435 ss.; Cattaneo, Del regime di separazione dei beni, in Commentario al diritto italiano della famiglia a cura di Cian, Oppo e Trabucchi, III, Padova, 1992, p. 419 ss.; De Paola, Il diritto patrimoniale della famiglia coniugale, III, Milano, 1996, p. 1 ss.; Morelli, Il nuovo regime patrimoniale della famiglia, cit., p. 143 ss.; Oberto, Del regime di separazione dei beni, in Aa. Vv., Codice della famiglia, rapporti personali e patrimoniali tra coniugi, commentato con la dottrina e la giurisprudenza, a cura di M. Dogliotti, I, Milano, 1999, p. 503 ss.; Cavallaro, op. cit., passim; Gabrielli e Cubeddu, Il regime patrimoniale dei coniugi, cit., p. 307 ss.; Bruscuglia e Gorgoni, La separazione dei beni, in Aa. Vv., Trattato di diritto privato, diretto da M. Bessone, Torino, 1999, p. 477 ss.; Sesta, Titolarità e prova della proprietà nel regime di separazione dei beni, cit.; Id., Diritto di famiglia, cit., p. 190 ss.
[360] Sul tema v. per tutti Corsi, op. cit., I, cit., p. 17 ss.; v. inoltre i richiami in Cavallaro, op. cit., p. 4; Sesta, Titolarità e prova della proprietà nel regime di separazione dei beni, cit., p. 873 ss.
[361] V. in generale Corsi, op. cit., I, cit., p. 17 ss.; Id., op. cit., II, cit., p. 59 ss.; Morelli, Il nuovo regime patrimoniale della famiglia, cit., p. 18; Oberto, Le convenzioni matrimoniali: lineamenti della parte generale, cit., p. 608 s.
[363] Cfr. Donisi, Limiti all’autoregolamentazione degli interessi nel diritto di famiglia, cit., p. 17.
[366] Su tutti questi argomenti visti nell’ambito dei rapporti patrimoniali tra conviventi more uxorio e per i necessari approfondimenti, anche con riguardo ai profili comparatistici, si fa rinvio a Oberto, I regimi patrimoniali della famiglia di fatto, cit., p. 130 s.
[367]
Cfr. Cass., sez. un., 23
aprile 1982, n.
[369]
Cfr. Cass., 31 gennaio
1989, n.
[370]
Cfr. Cass.1 luglio 1966,
n. 1697 («Se un coniuge fornisce danaro all’altro coniuge al preciso scopo di
fargli acquistare un bene immobile si ha donazione indiretta»); più di recente,
v. Cass., 23 dicembre 1992, n.
[371]
Cass., 19 novembre 1971, n. 3346 («Nel caso di
donazione di somme di denaro tra coniugi, l’ipotesi in cui l’elargizione sia
fatta senza alcuna particolare destinazione, e rimanga perciò nell’ambito di
una vera e propria donazione di denaro, deve mantenersi ben distinta dall’altra
ipotesi in cui l’elargizione stessa abbia lo scopo, preciso e specifico, di
fare acquistare al coniuge beneficiato un bene, giacché, nel primo caso,
essendosi in presenza di una vera e propria donazione di somma, il
riconoscimento della nullità della donazione medesima produrrà l’effetto dell’obbligo,
per il donatario, di restituire la somma stessa, mentre, nel secondo,
constatandosi l’esistenza di un procedimento indiretto, tendente, attraverso la
donazione di denaro, a fare acquistare al donatario il bene, la nullità
dichiarata della donazione dovrà produrre i suoi effetti in guisa da eliminare
integralmente il vantaggio del donatario, cosicché gli effetti restitutori
verso il donante devono incidere sul bene acquistato, e non sulla somma
fornita»); Cass., 14 maggio 1973, n. 1351 (negli stessi termini di cui alla
precedente).
[372] Cfr., da ultimo, Cass., 23 dicembre 1992, n. 13630, cit., proprio in relazione ad una controversia tra coniugi.
[373]
Oberto, I regimi
patrimoniali della famiglia di fatto, loc.
ult. cit.; Id., Le prestazioni lavorative del
convivente more uxorio, Padova, 2003, p. 81 ss.
[374]
Su questa linea si è
posta, ma in maniera ancora assai timida, una parte della giurisprudenza
chiamata a pronunziarsi in materia di attribuzioni tra coniugi effettuate tanto
durante il periodo della convivenza, che in vista (o in sede) di una
regolamentazione pattizia della crisi coniugale: sul primo aspetto, cfr. Cass.,
13 maggio 1980, n.
[375] Cfr. Oberto, I regimi patrimoniali della famiglia di fatto, cit., p. 145 s. In giurisprudenza, un’apertura verso tale soluzione sembra rinvenibile in Cass., 5 dicembre 1970, n. 2565: «Nel caso di mandato senza rappresentanza ad acquistare beni immobili nullo per mancanza della forma scritta richiesta ad substantiam, colui che ha conferito l’incarico non può rivendicare il bene acquistato dal mandatario e neppure può agire contro di questi per il risarcimento dei danni conseguenti al mancato ritrasferimento, in quanto non è sorto l’obbligo alla prestazione sostitutiva di quella dedotta in contratto. Compete al mandante, in tal caso, solo il diritto di ripetere dal mandatario ciò che gli ha prestato per la esecuzione del mandato, in base alle norme sul pagamento dell’indebito».
[376] Morelli, Autonomia negoziale e limiti legali nel regime patrimoniale della famiglia, cit., p. 105.
[377] In questo senso cfr. anche Auletta, Il fondo patrimoniale, in Aa. Vv., Il diritto di famiglia, Trattato diretto da G. Bonilini e G. Cattaneo, II, Il regime patrimoniale della famiglia, Torino, 1997, p. 359.
[379] Gabrielli, voce Regime patrimoniale della famiglia, cit., p. 304; Santosuosso, Il regime patrimoniale della famiglia, cit., p. 139 ss.; A. e M. Finocchiaro, op. cit., p. 825 s.; Corsi, op. cit., II, cit., p. 103; Auletta, Il fondo patrimoniale, Milano, 1990, p. 237 ss., 246 s.; Carresi, Del fondo patrimoniale, in Commentario al diritto italiano della famiglia a cura di Cian, Oppo e Trabucchi, III, Padova 1992, p. 356; Auletta, Il fondo patrimoniale, cit., 1997, p. 385 ss.; De Falco, Separazione dei beni, comunione convenzionale e fondo patrimoniale, cit., p. 12 (il quale rileva che la soluzione appare in linea non solo con la lettera della legge, bensì anche con il principio dell’autonomia negoziale, atteso che nella specie i coniugi dispongono di beni propri e non dei figli minori, a differenza delle ipotesi di cui all’art. 320 c.c.).
[380]
Trib. Roma, 27 giugno
[381] Così Cian e Casarotto, voce Fondo patrimoniale della famiglia, in Noviss. dig. it., Appendice, III, Torino, 1982, p. 834.
[383]
Gabrielli, voce Patrimonio
familiare e fondo patrimoniale, in Enc dir., XXXII, Milano, 1982, p.
316 s.; Carresi, Del fondo patrimoniale, cit., p. 66; Gabrielli, voce Regime patrimoniale
della famiglia, cit., p. 391; Gabrielli
e Cubeddu, Il regime patrimoniale dei coniugi, cit., p. 288; Di Sapio, Lo scioglimento
(volontario) del fondo patrimoniale in presenza di figli minori e l’immortalità
di Socrate, nota a Trib. Roma, 14 giugno
[384]
In questo senso v. anche Zoppini, L’autonomia privata nel
diritto di famiglia, sessant’anni dopo, cit., p. 218.
[385] Sul tema per tutti v. Colussi, voce Impresa familiare, in Noviss. dig. it., Appendice, IV, Torino, 1983, p. 61 e nota 71; P. Carbone, Per un fondamento contrattuale dell’impresa familiare, in Rass. dir. civ., 1981, p. 1039; A. e M. Finocchiaro, op. cit., p. 1380; Cagnasso, Impresa familiare e società, in Giur. it., 1989, IV, c. 133; Nuzzo, L’impresa familiare, in Il diritto di famiglia, Trattato diretto da G. Bonilini e G. Cattaneo, II, Il regime patrimoniale della famiglia, Torino, 1997, p. 437 ss.; Balestra, L’impresa familiare, in Trattato di diritto di famiglia, diretto da P. Zatti, III, Milano, p. 665 ss.
[386] Per un accenno alla questione cfr. Oberto, I regimi patrimoniali della famiglia di fatto, cit., p. 225 s., nota 14.
[388] Sull’istituto, in generale, cfr. Bartoli, Prime riflessioni sull’art. 2645 ter c.c. e sul rapporto fra negozio di destinazione di diritto interno e
trust, in Corr. merito, 2006, p. 697
ss.; Id., Riflessioni sul «nuovo» art. 2645 ter c. c. e sul rapporto fra negozio di destinazione di diritto interno e
trust, in Giur. it., 2007, p. 5 ss.; Id., Mandato
e trust, in Aa. Vv., Il
mandato, opera diretta da Cuffaro, Bologna, 2011, p. 455 ss.; Id., Trust e
atto di destinazione nel diritto di famiglia e delle persone, Milano, 2011,
p. 5 ss.; Mirzia Bianca, D’Errico, De Donato, Priore,
L’atto notarile di destinazione. L’art.
2645-ter del codice civile,
Milano, 2006; Mirzia Bianca, Il nuovo art. 2645-ter c.c. Notazioni a margine di un provvedimento
del Giudice Tutelare di Trieste, in Giust.
civ., 2006, II, p. 187 e ss; Ead.,
Atto negoziale di destinazione e
separazione, in Riv. dir. civ.,
2007, I, p. 197 ss.; Ead., La categoria dell’atto negoziale di
destinazione: vecchie e nuove prospettive, in Aa. Vv., Negozi di destinazione: percorsi verso
un’espressione sicura dell’autonomia privata, Quaderni della Fondazione Italiana per il Notariato, Milano, 2007,
p. 177 ss.; Ead., L’atto di destinazione: problemi applicativi,
testo dattiloscritto agli atti del Convegno sul tema «Atti notarili di
destinazione dei beni: Articolo 2645 ter c.c.», organizzato dal Consiglio
Notarile di Milano il 19 giugno 2006; Ead.,
Il negozio di destinazione e il principio
della responsabilità patrimoniale, relazione al Convegno «Le sistemazioni
patrimoniali “dedicate” tra negozi di destinazione e organizzazione
dell’impresa» organizzato dall’Università degli Studi di Foggia Facoltà di
Giurisprudenza svoltosi a Lucera (30-31 marzo 2007); Ead., Novità e
continuità dell’atto negoziale di destinazione, in Aa. Vv., La trascrizione dell’atto negoziale di
destinazione. L’art. 2645-ter del
codice civile, a cura di M. Bianca (atti della Tavola Rotonda che ha avuto
luogo il 17 marzo 2006 presso la Facoltà di Scienze Statistiche dell’Università
di Roma «La Sapienza»), Milano, 2007, p. 29 ss.; De Nova, Esegesi
dell’art. 2645 ter cod. civ.,
testo dattiloscritto agli atti del Convegno sul tema «Atti notarili di
destinazione dei beni: Articolo 2645 ter
c.c.», cit.; D’Errico, Trascrizione del vincolo di destinazione,
testo dattiloscritto agli atti del Convegno sul tema «Atti notarili di
destinazione dei beni: Articolo 2645 ter
c.c.», cit.; Fanticini, L’articolo 2645-ter del codice civile: “Trascrizione di atti di destinazione per la
realizzazione di interessi meritevoli di tutela riferibili a persone a persone
con disabilità, a pubbliche amministrazioni, o ad altri enti o persone
fisiche”, in Aa. Vv., La
tutela dei patrimoni, a cura di Montefameglio, Santarcangelo di Romagna,
2006, p. 327 ss.; Franco, Il nuovo art. 2645-ter cod. civ., in Notariato, 2006, p. 315 ss.; Gazzoni,
Osservazioni sull’art. 2645 ter, già
disponibile alla pagina web seguente:
http://judicium.it/news/ins_08_04_06/Gazzoni,%20nuovi%20saggi.html
(l’articolo, ora
cancellato dal sito predetto, è pubblicato anche in Giust. civ., 2006, II, p. 165 ss.; le citazioni di questo lavoro
nel presente scritto si riferiscono al testo che già fu online, ma il cui contenuto è comunque fedelmente riprodotto nella
rivista citata); M. Lupoi, Gli “atti di destinazione” nel nuovo art.
2645-ter cod. civ. quale frammento di
trust, in Trusts att. fid., 2006, p.
169 ss.; in Riv. notar., 2006, p. 467
ss.; Manes, La norma sulla trascrizione degli atti di destinazione è dunque norma
sugli effetti, in Contratto e impresa,
2006, p. 626 ss.; Petrelli, La trascrizione degli atti destinazione,
dattiloscritto agli atti del Convegno organizzato a Firenze dalla Associazione
Italiana Giovani Notai il 24 giugno 2006 sul tema «Gli atti di destinazione e
la trascrizione dopo la novella» (l’articolo è pubblicato anche in Riv. dir. civ., 2006, II, p. 161 ss.; le
citazioni di questo lavoro nel presente scritto si riferiscono al
dattiloscritto); Picciotto, Brevi note sull’art. 2645-ter: il trust e l’araba fenice, in Contratto
e impresa, 2006, p. 1314 ss.; R. Quadri,
L’art. 2645-ter e la nuova disciplina degli atti di destinazione, in Contratto e impresa, 2006, p. 1717 ss.; Vecchio, Il nuovo articolo 2645-ter cod.
civ. Gli atti di destinazione di cui al novellato art. 2645-ter: profili
applicativi, in Quotidiano giuridico,
18 dicembre 2006; Id., Profili applicativi dell’art. 2645-ter c.c. in ambito familiare, in Dir. fam. pers., 2009, II, p. 795 ss.; Baralis, Prime riflessioni in tema di art. 2645-ter c.c., in Aa. Vv., Negozi
di destinazione: percorsi verso un’espressione sicura dell’autonomia privata,
cit., p. 131 e ss.; Anzani, Atti di destinazione patrimoniale: qualche
riflessione alla luce dell’art. 2645 ter
cod. civ., in Nuova giur. civ. comm.,
2007, II, p. 398 ss.; Cinque,
L’interprete e le sabbie mobili dell’art. 2645-ter c.c.: qualche
riflessione a margine di una prima (non) applicazione giurisprudenziale, in Nuova giur. civ. comm.,
2007, p. 526 ss.; D’Agostino,
Il negozio di destinazione nel nuovo art.
2645-ter c.c., in Riv. notar., 2007, p. 1517 ss.; Di Profio, Vincoli
di destinazione e crisi coniugale: la nuova disciplina dell’art. 2645-ter c.c., nota a Trib. Reggio Emilia, 26
[erroneamente indicata come 23] marzo
[389] Su cui
v. per tutti Oberto, Atti di destinazione (art. 2645-ter c.c.) e trust: analogie e differenze, loc. cit.; Id.,
Le destinazioni patrimoniali
nell’intreccio dei rapporti familiari, loc. cit.
[390] Nel primo senso indicato nel testo cfr. Trib.
Trieste – Uff. giud. tavolare, 7 aprile
Contra, nel senso che l’art. 2645-ter c.c., pur collocato nella disciplina
della trascrizione, non contiene solo una norma sulla pubblicità, ma anche una
norma sulla fattispecie, v., fra gli altri, Mirzia Bianca, Il nuovo art.
2645 ter c.c. Notazioni a margine di
un provvedimento del giudice tavolare di Trieste, cit., p. 187 ss.; Gazzoni, Osservazioni sull’art. 2645-ter
c.c., cit., p. 166; M. Lupoi, Gli “atti di destinazione” nel nuovo art. 2645-ter c.c. quale frammento di trust, cit., p.
169 ss.; Petrelli, La trascrizione degli atti di destinazione,
loc. cit.; R. Quadri, L’art. 2645 ter e la nuova disciplina degli atti di destinazione, cit., p. 162; Cian, Riflessioni intorno a un nuovo istituto del diritto civile: per una
lettura analitica dell’art. 2645 ter
c.c., in Aa.Vv., Studi in onore di L. Mazzarolli, I,
Padova, 2007, p. 83; Di Majo, Il vincolo di destinazione tra atto ed
effetto, in Aa.Vv., La
trascrizione dell’atto negoziale di destinazione. L’art. 2645-ter del codice civile, a cura di M. Bianca,
Milano, 2007, p. 111; Oberto, Atti di destinazione (art. 2645-ter c.c.) e trust: analogie e differenze, cit., p. 351 ss.; Id., Le destinazioni
patrimoniali nell’intreccio dei rapporti familiari, cit., p. 140 ss.; Luminoso, Contratto fiduciario, trust e
atti di destinazione ex art. 2645 ter c.c., cit., p. 998; Ceolin, Destinazione e vincoli di destinazione nel diritto privato, cit.,
p. 149 ss.; Stefini, Destinazione patrimoniale ed autonomia negoziale:
l’art 2645-ter c.c., cit., p. 1
ss.; Bartoli, Trust e atto di destinazione nel diritto di
famiglia e delle persone, Milano, 2011, p. 24 ss.; Troiano, Gli atti di
destinazione, in Aa.Vv., Diritto
della famiglia, a cura di S. Patti e M.G. Cubeddu, Milano, 2011, p.
[391] Su cui
si veda l’interessante studio monografico di Galluzzo, L’amministrazione
dei beni destinati, cit., passim.
[392] Su cui
v. per tutti Oberto, La revocatoria degli atti a titolo gratuito ex art. 2929-bis c.c. Dalla pauliana alla « renziana »?, Torino, 2015, p. 124 ss.
[393] Cfr.
Oberto, Atti di destinazione (art. 2645-ter c.c.) e trust:
analogie e differenze, cit., p. 391 ss.
[394] Per comodità del lettore si pongono qui a
raffronto le due disposizioni:
Art. 2645-ter
c.c. |
Art. 170 c.c. |
«(…) I beni conferiti e i loro frutti possono
essere impiegati solo per la realizzazione del fine di destinazione e possono
costituire oggetto di esecuzione, salvo quanto previsto dall’articolo 2915,
primo comma, solo per debiti contratti per tale scopo». |
«L’esecuzione sui beni del
fondo e sui frutti di essi non può avere luogo per debiti che il creditore
conosceva essere stati contratti per scopi estranei ai bisogni della
famiglia». |
[395] Cfr. da ultimo Cass., 15 marzo 2006, n. 5684;
Cass., 30 maggio 2007, n. 12730. V. inoltre, per la giurisprudenza di merito,
Trib. Parma, 7 gennaio
[396] Anche Di Sapio, Patrimoni segregati ed evoluzione
normativa: dal fondo patrimoniale all’atto di destinazione, cit., p.
31, rileva che «L’art. 2645-ter è una disposizione scritta “in positivo”
(ci dice chi può rivalersi su quei beni). L’art. 170 è invece una
disposizione scritta “in negativo” (ci dice chi non può rivalersi su
quei beni). C’è una bella differenza. Manca inoltre ogni riferimento allo stato
soggettivo del creditore la cui tutela risulta, dunque, affievolita. Anche il
tema dell’onere della prova andrà rivisitato: non si chiede più una prova
negativa (non essere stato a conoscenza dell’estraneità del credito rispetto
allo scopo: art. 170), ma una prova positiva (l’attinenza del debito rispetto
allo scopo). Se non ho preso un abbaglio, mi pare ci siano ampi margini per
argomentare che il creditore, prima di contrarre, deve accertarsi se
l’obbligazione risponda allo scopo: in sede esecutiva l’onere della prova
graverà sul medesimo (art. 2697)». V. anche Oberto,
Vincoli di destinazione ex art. 2645-ter cc. e rapporti patrimoniali tra coniugi, cit., p. 203; Id, Le destinazioni patrimoniali
nell’intreccio dei rapporti familiari, cit., p. 208 ss.
Considerazioni analoghe in Bellomia,
op. cit., p. 727 s.
[397] Introdotto dall’art. 12, d.l. 27 giugno 2015,
n. 83, «Recante misure urgenti in materia fallimentare, civile e processuale
civile e di organizzazione e funzionamento dell’amministrazione giudiziaria»,
conv. in l. 6 agosto 2015, n. 132, senza alcuna modifica, per ciò che attiene
alla norma predetta.
[398] Sui rapporti tra onere della prova e onere di
iniziativa processuale, nonché sul tipo di eccezioni e difese che il debitore
può sollevare in sede d’opposizione ex
art. 2929-bis, ult. cpv., c.c. si fa
rinvio a Oberto, La
revocatoria degli atti a titolo gratuito ex art. 2929-bis c.c. Dalla
pauliana alla « renziana »?, cit.,
spec. p. 9 ss., 28 ss., 124 ss., ove si prendono in considerazione le
opposizioni attinenti all’azione esecutiva in generale e alle novità introdotte
dall’azione ai sensi dell’art. 2929-bis
c.c. (che lo scrivente, in contrapposizione alla pauliana, ha battezzato
«renziana»), ma anche quelle relative ai limiti già presenti per i creditori
per effetto dell’art. 2645-ter c.c.
[400] Cfr. Di Sapio, Patrimoni segregati ed evoluzione
normativa: dal fondo patrimoniale all’atto di destinazione, cit., p.
14 s.
[401] Come
osserva Di Sapio, op. loc. ultt. citt., «Il
creditore non sceglie nulla. Subisce un danno ingiusto. Se potesse scegliere,
ragionevolmente sceglierebbe dell’altro: che il fatto illecito non si verifichi».
Sul tema dei rapporti tra separazione patrimoniale e creditori c.d. involontari
cfr. Antinolfi, Separazione patrimoniale e tutela dei
creditori «involontari», in Riv.
notar., 2010, p. 1281 ss.
[402] Cfr. Cass., 5 luglio 2003, n.
[403] Cfr. Gazzoni,
Osservazioni sull’art. 2645 ter,
cit., § 9, secondo cui «la limitazione della responsabilità [non] opererà, in
caso bene destinato, in favore dei soli crediti risarcitori sorti, ad esempio,
da circolazione dell’autoveicolo adibito a trasporto del disabile o da rovina
dell’edificio o, sempre nel quadro della destinazione, da uso di un bene mobile
registrato di natura pericolosa».
[404] Secondo cui i beni oggetto degli atti di cui
al primo comma – vale a dire gli atti a titolo gratuito (esclusi i regali d’uso
e gli atti compiuti in adempimento di un dovere morale o a scopo di pubblica
utilità, in quanto la liberalità sia proporzionata al patrimonio del donante),
compiuti dal fallito nei due anni anteriori alla dichiarazione di fallimento, «sono
acquisiti al patrimonio del fallimento mediante trascrizione della sentenza
dichiarativa di fallimento. Nel caso di cui al presente articolo ogni
interessato può proporre reclamo avverso la trascrizione a norma dell’articolo
36». L’inserimento del citato secondo comma è frutto della legge di conversione
del d.l. 27 giugno 2015, n. 83 (l. 6 agosto 2015, n.
[405] Cfr. per tutti Oberto,
Contratto e famiglia, in Aa. Vv.,
Trattato del contratto, a cura di V.
Roppo, VI, Interferenze, a cura di V.
Roppo, Milano, 2006, p. 217 ss.
[406] Così Ceolin,
Il punto sull’art. 2645 ter a cinque anni dalla sua introduzione,
cit., p. 376, secondo cui «l’interesse della famiglia a vedere destinati
determinati beni per il sostenimento della stessa troveranno tutela
nell’istituto del fondo patrimoniale e una fattispecie che perfettamente sia in
grado di rientrare nella disciplina di quest’ultimo non potrà essere regolata
per mezzo dell’art. 2645 ter, magari
con la speranza di ovviare alla limitazione inerente l’elemento soggettivo
concernente l’esecuzione sui beni del fondo». V. anche Anzani, Atti di
destinazione patrimoniale: qualche riflessione alla luce dell’art. 2645 ter cod. civ., cit., p. 413, secondo cui la
costituzione di un patrimonio di destinazione «sarebbe probabilmente
inammissibile – non già in sé e per sé, bensì in concreto – se fosse stipulato
nel contesto di una famiglia legittima e finisse oggettivamente per eludere
quelle norme inderogabili della disciplina del fondo patrimoniale che
assicurano l’equilibrio degli interessi in gioco». T. Auletta, Riflessioni
sul fondo patrimoniale, in Fam. pers.
succ., 2012, p. 334 s., ammonisce dal farsi prendere, sul punto, da «un
eccessivo entusiasmo» e sottolinea la necessità di chiedersi con rigore quando
sia possibile ricorrere ad un trust o
ad un patrimonio dedicato «in presenza di uno schema legale, per lo più
inderogabile, qual è appunto il fondo patrimoniale costituito proprio per
soddisfare i bisogni della famiglia». Pure ad avviso di G.A.M. Trimarchi, Negozio di destinazione nell’ambito familiare e nella famiglia di fatto,
cit., p. 438 s., mentre «la famiglia non fondata sul matrimonio ricorrerà, ove
ritenuto opportuno (...), alla destinazione in vincolo di beni immobili e
mobili registrati ad sustinenda onera
familiae (…), godendo perciò dell’intera disciplina dell’art. 2645-ter c.c., la famiglia legittima, al fine
del soddisfacimento dei suoi bisogni, potrà ricorrere al fondo patrimoniale,
beneficiando dell’intera disciplina con esclusione della possibilità di fare
uso del vincolo ex art. 2645-ter c.c.». In questo senso (con
l’evidente «ritorno» del tema della disparità di trattamento tra i due tipi di
famiglia) cfr. anche il parere di G. Gabrielli, di cui si tratta infra, nel contesto del § 25.
[407] Così Ceolin,
op. ult. cit., p. 377; secondo Lenzi, Le destinazioni atipiche e
l’art. 2645 ter c.c., loc. cit., «In via
esemplificativa dovrebbe (…) ritenersi che l’attribuzione a terzi, o ad uno
solo dei coniugi, del potere di attuazione della destinazione ai bisogni della
famiglia rende la fattispecie non conforme ai parametri richiesti all’art. 2645
ter c.c.»; sempre ad avviso di tale
Autore «La relazione tra le fattispecie speciali e la fattispecie generale non
deve essere costruita in termini rigidi, ma costituisce un fondamentale
parametro valutativo della rispondenza delle varie ipotesi di atti di
destinazione espressione dell’autonomia privata, al criterio richiesto
dall’art. 2645 ter c.c. La disciplina
delle figure speciali, quale il fondo patrimoniale, costituisce quindi un
limite alla piena esplicazione dell’autonomia privata nella configurazione del
modello atipico di atto di destinazione, costituendo un parametro valutativo
della conformità al criterio richiesto dalla nuova disposizione».
[408] Così G. Perlingieri,
op. cit., p. 26 s.; nello stesso
ordine d’idee v. anche R. Quadri, op. cit., p. 1756 ss.; Federico, Atti di destinazione del patrimonio e rapporti familiari, in Rass. dir. civ., 2007, p. 622 s.
[411] Su cui v. invece per tutti Oberto, Contratto e famiglia, cit., p. 147 ss. Si noti poi che,
curiosamente, l’argomento criticato nel testo non risulta essere mai stato
addotto per contrastare l’ammissibilità di un trust familiare, laddove è chiaro che le stesse (non condivisibili)
affermazioni che osterebbero alla configurabilità di vincoli di destinazione inter coniuges, in considerazione di una
supposta «esclusività» del fondo patrimoniale, dovrebbero pure rappresentare un
invalicabile ostacolo all’ipotizzabilità di un trust costituito ad onera
matrimonii ferenda.
[412] Su cui v. infra,
§§ 29 s.
[413] Per i richiami cfr. Bellinvia, Destinazione
non traslativa e meritevolezza dell’interesse familiare: nota a Trib. Reggio
Emilia, ord. 12 maggio
[414] In senso conforme v. anche Bartoli, Trust e atto di destinazione nel diritto di famiglia e delle persone,
cit., p. 527; Bellinvia, op. cit., p. 1274.
[415] Aderiscono alla tesi, già espressa in Oberto, Vincoli di destinazione ex
art. 2645-ter c.c. e rapporti
patrimoniali tra coniugi, cit., cit., p. 208 e in Id., Le destinazioni patrimoniali
nell’intreccio dei rapporti familiari, cit., p. 223 ss.; Bartoli, Trust e atto di destinazione nel diritto di famiglia e delle persone,
cit., p. 527; Pezzano e Sebastiani, Vincoli di destinazione ex art. 2645-ter c.c. e accordo di separazione
tra i coniugi, in Fam. e dir.,
2008, p. 1177 ss.; Meucci, L’atto di destinazione trascrivibile ex art. 2645-ter c.c. Analisi di alcune fattispecie, in Aa. Vv., Atti di destinazione e trust (art. 2645 ter
cod. civ.), a cura di Vettori, cit., p. 381 ss.; Raggi, I vincoli di destinazione di cui all’art. 2645 ter c.c., in Aa. Vv.,
Il regime patrimoniale della famiglia,
a cura di A. Arceri e M. Bernardini, Santarcangelo di Romagna, 2009, p. 375
ss.; G.A.M. Trimarchi, Negozio di destinazione nell’ambito
familiare e nella famiglia di fatto, cit., p. 441; Bellinvia, op. cit.,
p. 1274.
[416] Su quest’ultima possibilità v. infra, § 29.
[417] Sul punto cfr. per tutti Oberto, L’autonomia negoziale nei
rapporti patrimoniali tra coniugi (non in crisi), in Familia, 2003, p. 636 ss.; Id.,
Contratto e famiglia, cit., p. 167
ss.
[419] Cfr. per tutti M. Lupoi, Trusts,
Milano, 2001, p. 155 ss., 161 ss., 164 s. (l’Autore mette tra l’altro in
evidenza come la mancata indicazione del trustee
nelle disposizioni inter vivos sia
causa di nullità del trust).
[421] Questa, in pratica, è la tesi di E. Russo, Le convenzioni matrimoniali, in Il
codice civile. Commentario, fondato e già diretto da Schlesinger,
continuato da Busnelli, Milano, 2004, p. 172 ss.; per una critica al riguardo
v. Oberto, Contratto e famiglia, cit., p. 147 ss.
[422] L’assunto è sviluppato da E. Russo, Le convenzioni matrimoniali, cit., p. 77, 124 ss., 136 ss.
essenzialmente sulla base del rilievo secondo cui il codice non qualifica expressis verbis il negozio costitutivo
del fondo patrimoniale alla stregua di una convenzione matrimoniale.
[423] Il fondo patrimoniale si trova collocato nel
codice tra la parte generale delle convenzioni matrimoniali e la comunione
legale, all’interno di una sezione posta sullo stesso piano di quelle dedicate
alla comunione legale, alla comunione convenzionale, alla separazione dei beni
e all’impresa familiare.
[424] Gli artt. 167 ss. fanno pur sempre parte del
capo sesto (del titolo sesto del libro primo del codice), intitolato «del
regime patrimoniale della famiglia», dopo una parte generale che, come si è
appena detto, è interamente dedicata alle convenzioni matrimoniali.
[425] Per uno sviluppo dell’argomento cfr. Oberto, La comunione legale tra coniugi, I, cit., p. 332 ss. Sulla
definizione di convenzione matrimoniale e sull’inscindibile legame tra i
concetti di convenzione matrimoniale e di regime patrimoniale della famiglia
cfr. per tutti Id.,
Le convenzioni matrimoniali: lineamenti della parte generale, in Fam.
e dir., 1995, p. 596 ss.; Id.,
L’autonomia negoziale nei rapporti patrimoniali tra coniugi (non in crisi),
in Familia, 2003, p. 617 ss.; Id., Contratto
e famiglia, cit., p. 147 ss.; Bargelli
e Busnelli, voce Convenzione matrimoniale,
in Enc. Dir.,
Agg., IV, Milano, 2000, p.
436 ss., 442 ss.; Ieva, Le convenzioni matrimoniali, in Trattato
di diritto di famiglia, diretto da Zatti, III, Regime patrimoniale della
famiglia, Milano, 2002, p. 27 ss.
[428] Per non
dire poi che una conferma della natura di convenzione matrimoniale propria del
negozio inter vivos costitutivo del
fondo patrimoniale sembra venire dalla riforma dell’art.
[430] Con particolare riferimento all’applicazione
al trust familiare di siffatte
disposizioni cfr. Oberto, Trust e autonomia negoziale nella famiglia,
cit., p. 201 ss., 310 ss.
[431] Su cui v., ex
multis e per ulteriori richiami, Oberto,
Annotazione e trascrizione delle
convenzioni matrimoniali: una difficile coesistenza, in Riv. dir. ipotecario, 1982, p. 127 ss., 148 ss.; v. inoltre Id., Comunione
legale, regimi convenzionali e pubblicità immobiliare, in Riv. dir. civ., 1988, II, p. 187 ss.,
206 ss.; Id., Pubblicità dei regimi matrimoniali, in Riv. dir. civ., 1990, II, p. 236 ss.; Id., La pubblicità dei
regimi patrimoniali della famiglia (1991-1995), ivi, 1996, II, p. 229 ss.; Id.,
La comunione legale tra coniugi, II,
cit., p. 2169 ss.; cfr. inoltre, per ulteriori approfondimenti, Barchiesi, Il sistema della pubblicità nel regime patrimoniale della famiglia,
Milano, 1995, p. 25 ss.; Bocchini,
Rapporto coniugale e circolazione dei
beni, Napoli, 1995, p. 193 ss.; De
Paola, Il diritto patrimoniale
della famiglia coniugale, II, Milano, 1995, p. 108 ss.; Santosuosso, Beni ed attività economica della famiglia, Torino, 1995, p. 216
ss.; Ieva, La pubblicità dei regimi patrimoniali della famiglia, in Riv. notar., 1996, p. 413 ss.; Id., Le convenzioni matrimoniali e la
pubblicità dei regimi patrimoniali della famiglia, in Riv. notar.,
2001, I, p. 1259 ss.; Feola, La pubblicità del regime patrimoniale dei
coniugi, in, Aa. Vv., Il
diritto di famiglia, Trattato diretto da Bonilini e Cattaneo, II, Il regime patrimoniale della famiglia,
Torino, 1997, p. 411 ss.; G. Gabrielli,
voce Regime patrimoniale della famiglia,
in Digesto disc. priv., Sez. civile,
XVI, Torino, 1997, p. 396 ss.; G. Gabrielli
e Cubeddu, Il regime patrimoniale dei coniugi,
Milano, 1997, p. 321 ss.; Bocchini,
La pubblicità delle convenzioni matrimoniali, in Riv. dir. civ.,
1999, I, p. 439 ss.
[432] Cfr. Vecchio,
Profili applicativi dell’art. 2645- ter c.c. in ambito familiare, in Dir. fam. pers., 2009, p. 795 ss., spec.
nota 54.
[433] Cfr., anche per i richiami agli scritti
precedenti, Oberto, La comunione legale tra coniugi, cit.,
II, p. 2169 ss., 2180 ss., 2201 ss. (per una proposta in termini di
coordinamento tra pubblicità sugli atti di matrimonio e sui pubblici registri
immobiliari).
[434] Per un’applicazione della disposizione citata
al caso del trust costituito da un solo coniuge su beni comuni cfr.
Trib. Bologna, 1 ottobre
[435] Contra
(in relazione alla costituzione di beni in trust)
Trib. Bologna, 1° ottobre 2003, cit., che afferma l’applicabilità dell’art. 184
c.c. non solo nel caso in cui un coniuge alieni diritti su beni della
comunione, bensì anche qualora si limiti ad alienare la propria quota in
comunione legale su beni di quest’ultima, rilevando in proposito che «sarebbe illogico
ritenere che – mentre l’alienazione di un intero bene, da parte di uno solo dei
coniugi, è valida ed efficace (salve, in ipotesi, le conseguenze dell’art. 184
c.c.) – l’alienazione di una quota di quello stesso bene sia, al contrario,
assolutamente inefficace; peraltro, nulla impedisce ai coniugi di essere
comproprietari di beni insieme a terzi, salva l’applicazione del regime di
comunione legale relativamente alla quota posseduta». La questione è stata
trattata in Oberto, La comunione legale tra coniugi, I,
cit., p. 315 ss.; in questo senso (e cioè per la nullità dell’alienazione della
quota su singoli beni in comunione legale) viene da chi scrive rivista
l’opinione espressa (per l’applicabilità dell’art. 184 c.c.), in Oberto, Trust e autonomia negoziale nella famiglia, cit., p. 313, nota 105.
[439] Su cui v. supra,
§ 17; cfr. inoltre Oberto,
La comunione legale tra coniugi, I,
cit., p. 1102 ss.
[441] Lo stesso discorso dovrebbe valere anche in relazione
alla comunione convenzionale, per lo meno con riguardo ai beni che formerebbero
comunque oggetto della comunione legale. Con riferimento a questi ultimi,
infatti, l’art. 210 c.c. vieta che si predispongano norme d’amministrazione
difformi da quelle ex artt. 180 ss.
c.c. Il risultato sarebbe quindi ottenibile solo mediante estromissione di tali
beni dalla comunione. Per questo motivo sarebbe con ogni probabilità nulla una
convenzione che volesse sottoporre al vincolo ex art. 2645-ter
c.c. i beni (immobili o mobili registrati) di futura acquisizione destinati a
ricadere in comunione legale o convenzionale (per ulteriori richiami e
approfondimenti cfr. Oberto, Trust
e autonomia negoziale nella famiglia,
cit., p. 207). Per quanto riguarda invece i beni già caduti in comunione
convenzionale, ma non interessati dal limite posto dall’art. 210 c.c. (si pensi
a quelli, per esempio, di cui all’art. 179, lett. a), c.c.), non dovrebbero
sussistere problemi di sorta, non potendosi paventare qui la possibilità – prospettata
in relazione al trust familiare – di
una violazione dell’art. 166-bis c.c.
per la convenzione che, ampliando l’oggetto della comunione convenzionale,
attribuisca, in relazione a beni diversi da quelli che avrebbero formato
oggetto di comunione legale, il potere di amministrazione al coniuge che non
sia il proprietario del bene conferito nella comunione convenzionale. La
costituzione di un vincolo ex art.
2645-ter c.c. su beni già costituiti
in fondo patrimoniale presuppone la previa estinzione del vincolo ex artt. 167 ss. c.c. L’operazione
necessita dell’autorizzazione ex art.
169 c.c., qualora essa non sia stata esclusa dal titolo costitutivo (cfr. per
tutti Oberto, Contratto e famiglia, cit., p. 217 ss.). Al riguardo potrà
soccorrere la giurisprudenza in tema di trust,
con particolare riferimento a quella decisione di merito (cfr. Trib. Firenze,
23 ottobre
[443] V., anche per gli ulteriori richiami, Oberto, La comunione legale tra coniugi, I, cit., p. 329 ss.
[444] Per un’analoga questione relativamente al
fondo patrimoniale cfr. Oberto, La comunione legale tra coniugi, II,
cit., p. 1681 ss. In senso contrario afferma Bartoli, Trust e atto di destinazione nel
diritto di famiglia e delle persone, cit., p. 543, che «Appare (…)
plausibile ritenere che beni in comunione legale possano essere oggetto,
altresì, di un siffatto trust o
negozio di destinazione autodichiarato, ferma la permanenza in vita della
comunione legale e della sua disciplina inderogabile: in questo caso, pertanto,
l’atto istitutivo non potrà prevedere regole gestorie divergenti da quelle
indicate dagli artt. 180 ss. c.c., né la futura amministrazione dei beni da
parte di un trustee e gestore diverso
dai coniugi, se non per il periodo successivo all’avvenuto scioglimento della
comunione legale». Ma il perseguimento degli scopi meritevoli di tutela ben
potrebbe postulare la previsione di regole di gestione diverse da quelle
delineate dagli artt. 180 ss. c.c. (che in ogni caso tutelano interessi non
necessariamente coincidenti – o non sempre perfettamente coincidenti – con lo
scopo per cui il vincolo è creato: si pensi alla protezione della posizione di
un figlio colpito da disabilità); non si dimentichi, poi, che come già posto in
luce dallo scrivente, la disciplina dei rapporti con i creditori scolpita
nell’art. 2645-ter c.c. è radicalmente diversa da quella prevista
dagli artt. 186-190 c.c.
[445] Cfr. Oberto,
Trust e autonomia negoziale nella
famiglia, cit., p. 420 ss.; Id., Vincoli di destinazione ex art. 2645-ter c.c. e rapporti patrimoniali tra coniugi, cit., p. 205 ss.;
Id., La comunione legale tra coniugi, I, cit., p. 329 ss., II, cit., p.
1131 ss., 1694 ss.
[446] E’ però vero che i sostenitori della tesi che
ritiene impossibile l’estromissione di beni dalla comunione se non tramite la
stipula di una convenzione di separazione dei beni potrebbero a loro volta
obiettare che l’art. 210 c.c. non permette comunque di derogare alle regole in
tema di amministrazione per i beni che farebbero parte della comunione legale
non solo nell’ambito di un regime comunitario, bensì con riguardo a qualsiasi
assetto patrimoniale che non sia quello della separazione dei beni, non essendo
concepibile la coesistenza di un perdurante regime di comunione e di regole
difformi sull’amministrazione di beni che già formavano oggetto della comunione
stessa, prima di venire sottoposte ad un regime «parziale» atipico. Ne
deriverebbe quindi, pur sempre, la necessità di una formale estromissione,
possibile solo mercé la stipula di una convenzione di separazione. Come detto
più volte, però, è proprio tale ultimo postulato che, a chi scrive, non pare
sostenibile, con la conseguenza che la sottoposizione a trust o a vincolo di destinazione, rilevando di per sé come causa
di applicazione di regole difformi a quelle di cui agli artt. 180 ss. c.c.,
causerà un’estromissione dei relativi beni dal regime legale, da ritenersi
senz’altro ammissibile (cfr. Oberto,
La comunione legale tra coniugi, I,
cit., p. 1102 ss., 1688 ss., 2159 ss., 2164 ss.), senza che la coppia debba
necessariamente e previamente optare per il regime di separazione
[449] Sul tema v. per tutti Oberto, Atti di destinazione (art. 2645-ter c.c.) e trust: analogie e differenze, cit., p. 403 ss.
[450] In questo senso cfr. Luminoso, Mandato,
commissione e spedizione, Milano, 1984, p. 322 ss.; Santosuosso, Delle
persone e della famiglia. Il regime patrimoniale della famiglia, Torino,
1983, p. 166; Galasso e Tamburello, Del regime patrimoniale
della famiglia, I, in Commentario
del codice civile, diretto da
Scialoja e Branca, Bologna‑Roma 1999, p. 376; Petrelli,
La trascrizione degli atti destinazione,
loc. ult. cit. Anche Barbiera, La comunione legale, 1996, p. 452 s.
esclude dalla comunione gli acquisti effettuati nell’interesse di terzi, come i
negozi fiduciari e simulati o le interposizioni fittizie o reali. Contra, in relazione agli acquisti del
mandatario senza rappresentanza di beni immobili o mobili registrati, cfr. Oberto, La comunione legale tra coniugi, I, cit., p. 812 ss.
[451] Cfr. Cass.,18 giugno 1992, n. 7524, su cui
cfr. Oberto, La comunione legale tra coniugi, I, cit., p. 461, nota 161, p. 776,
nota 175, p. 779, nota 224, p. 816, nota 265, p. 817, nota 268, II, cit., p.
1171, p. 148.
[452] Si noti poi che, che nei casi in esame, si può
vertere in tema di esercizio di attività separata (dell’interposto), per cui
l’acquisto andrebbe escluso dalla comunione immediata, ma ricompreso in quella de residuo, ai sensi dell’art. 177,
lett. c), c.c.
[454] Cfr. Trib. Firenze, 23 ottobre
[455] Cfr. Fanticini,
L’articolo 2645-ter del codice civile: “Trascrizione di atti di
destinazione per la realizzazione di interessi meritevoli di tutela riferibili
a persone a persone con disabilità, a pubbliche amministrazioni, o ad altri
enti o persone fisiche”, cit., p. 343; de Donato, Elementi dell’atto di
destinazione, cit., p. 6 s.; Oberto,
Famiglia di fatto e convivenze: tutela
dei soggetti interessati e regolamentazione dei rapporti patrimoniali in vista
della successione, in Fam. e dir.,
2006, p. 668 ss.; Id., Atti di
destinazione (art. 2645-ter c.c.)
e trust: analogie e differenze, cit., p. 351 ss.; Id., Vincoli
di destinazione ex art. 2645-ter c.c. e rapporti patrimoniali tra coniugi,
cit., p. 202 ss.; Id., I diritti dei conviventi. Realtà e
prospettive tra Italia ed Europa, Padova, 2012, p. 133 ss.; Muritano, Trust e atto di destinazione negli accordi fra conviventi more uxorio, in
Trusts e attività fiduciarie, 2007,
p. 199 ss.; Cinque, L’atto di destinazione per i bisogni della
famiglia di fatto: ancora sulla meritevolezza degli interessi ex art. 2645 ter cod. civ., nota a Trib. Trieste, 19 settembre
In giurisprudenza v. la prima decisione sul tema, che
ha affermato non doversi procedere in relazione all’istanza dei genitori
esercenti la responsabilità parentale su tre figli minori, diretta
all’emissione, ove ritenuta necessaria dal giudice tutelare, di autorizzazione
all’alienazione di beni sottoposti a vincolo ex art. 2645-ter c.c. in
favore del nucleo di fatto costituito dai genitori stessi, conviventi more uxorio, e dai tre predetti figli
minori della coppia. In motivazione il giudice tutelare, rilevato che l’atto
costitutivo del vincolo prevedeva la possibilità di libera alienazione pur in
presenza di figli minori senza autorizzazione giudiziale, ha ritenuto
l’applicabilità al caso di specie dell’art. 169 c.c. per «l’identità di ratio alla base dell’accordo di cui
all’atto Notaio (…) rispetto alla disciplina del fondo patrimoniale, per
l’estensione alla famiglia di fatto della tutela derivante dalla destinazione
di determinati beni per far fronte ai bisogni della famiglia». La predetta
clausola è stata reputata conforme al disposto dell’art. 169 cit., interpretato,
secondo la prevalente e preferibile giurisprudenza, come favorevole alla
possibilità di derogare al requisito dell’autorizzazione per il compimento di
atti di straordinaria amministrazione su beni del fondo patrimoniale (cfr.
Trib. Torino, 6 maggio 2011, decreto inedito, ma disponibile nell’appendice
giurisprudenziale di Oberto, I diritti dei conviventi. Realtà e
prospettive tra Italia ed Europa, cit., Appendice A, Cap. VI, p. 288 s.). Nel caso di specie, peraltro, senza
ricorrere ad improbabili estensioni analogiche, sarebbe stato sufficiente
considerare il rilievo da attribuire alla libertà negoziale, non prevedendo
l’art. 2645-ter c.c. in alcun modo
l’intervento del giudice tutelare, né trattandosi, a tacer d’altro, di gestire
beni ricadenti nella titolarità dei minori.
Come posto in luce in dottrina (cfr. Fusaro, Prospettive di impiego dell’atto di destinazione per i conviventi,
cit., p. 5) sulla destinazione per la famiglia di fatto è reperibile
un’ulteriore pronuncia, la quale ha valorizzato la protezione della prole, in
un caso dove essa era presente, ma – in via di obiter – ha escluso la rilevanza della convivenza tra i due partners come tale: «Si ritiene che
l’assenza di un vincolo parentale e di una situazione di certezza di rapporti
giuridici (…) non impediscano nel caso di specie di ritenere meritevole lo
strumento in questione al fine di concedere una tutela, altrimenti inesistente,
ai genitori ed ai figli, nati prima o in costanza di questo rapporto di fatto»
(cfr. Trib. Trieste, 19 settembre
[456] Sul profilo della meritevolezza di tutela cfr.
Oberto, Le
destinazioni patrimoniali nell’intreccio dei rapporti familiari, cit., p.
170 ss.; cfr. inoltre Oberto,
Atti di destinazione (art. 2645-ter c.c.) e trust: analogie e differenze, cit., p.
351 ss.; in giurisprudenza cfr. Trib. Vicenza, 31 marzo
[458] Per un
modello di atto istitutivo di vincolo di destinazione a beneficio di una
famiglia di fatto cfr. Oberto,
I diritti dei conviventi. Realtà e
prospettive tra Italia ed Europa, cit., p. 387 ss.
[459] Così ad esempio, in un modello inviato allo
scrivente, si stabilisce che, contestualmente alla donazione di un compendio
immobiliare da padre al figlio, si costituisca da parte del donatario un
vincolo di destinazione dei citati beni a beneficio dei bisogni del padre e
della madre (conviventi more uxorio)
e principalmente al soddisfacimento delle loro esigenze abitative. Ecco come
viene concretamente strutturato il vincolo. «ART. 8 - Il sig. C F [figlio
donatario del compendio immobiliare] destina, ai sensi e per gli effetti
dell’art. 2645 ter Cod. Civ. a favore
del padre sig. C V e della madre P R, che accettano e prendono atto della
destinazione a loro favore, allo scopo di realizzare l’interesse indicato in
premessa, e precisamente di assicurare ai genitori una esistenza decorosa,
garantendo loro una abitazione idonea alle necessità e ciò anche in
considerazione del rapporto di stabile convivenza fra di essi intercorrente,
interesse meritevole di tutela da parte dell’ordinamento in quanto rinviene la
sua ragione nella tutela e nel riconoscimento di tale rapporto, quale nucleo
portatore di valori di assistenza e sostegno reciproci, trovando il suo
fondamento nel principio di solidarietà dei rapporti affettivi e nel solenne
riconoscimento che a tale rapporto è dato, quale istituzione sociale, dall’art.
2 della Costituzione, la quota di comproprietà pari ad 1/2 (un mezzo) indiviso
dei beni immobili indicati al precedente art. 1, alle seguenti condizioni:
- la destinazione ha la durata
della vita dei benificiari, fermo rimanendo quanto più avanti specificato;
- i beni in oggetto restano
nella titolarità del conferente;
- a seguito della trascrizione
il vincolo è opponibile a terzi ex
art. 2645 ter Cod. Civ.;
- gli immobili in oggetto
costituiscono pertanto patrimonio separato dal residuo patrimonio di C F;
- per effetto della separazione
patrimoniale i beni in oggetto sono suscettibili di azioni esecutive solo per
debiti contratti per la destinazione, salvo quanto previsto dall’art. 2915
primo comma Cod. Civ.;
- l’immissione in possesso è
regolata in funzione della destinazione;
- i beni in oggetto sono
destinati alle esigenze abitative del nucleo familiare composto dai
beneficiari, in modo completo, senza limitazione alcuna;
ove l’esigenza abitativa di
tutti i beneficiari della destinazione non sia immediata, l’immobile potrà
essere locato a terzi o comunque concesso in altre forme di godimento con
corrispettivo; tuttavia i frutti e ogni altra utilità economica ritraibili dal
bene destinato, dedotto quanto appresso indicato, spettano ai Beneficiari della
destinazione per i loro bisogni di vita. In tal caso gli “Attuatori” del
vincolo, come sotto specificati, procederanno all’accensione di un conto
corrente, sul quale verranno fatti confluire frutti derivanti dalle locazioni
dei beni oggetto del vincolo.
Il conferente potrà procedere
all’alienazione degli immobili destinati solo per necessità relative allo stato
di conservazione degli stessi ed a un prezzo non inferiore da quello risultante
da una perizia giurata di stima che sarà redatta, almeno 120 (centoventi)
giorni prima della prospettata alienazione, da un esperto stimatore nominato
dal Presidente della Camera di commercio di … su istanza del conferente
medesimo; verificandosi tale ipotesi il vincolo ex art. 2645 ter Cod.
Civ. sull’immobile alienato verrà a cessare ed il conferente procederà
all’impiego delle somme riscosse nell’acquisto di un altro immobile da
vincolarsi al medesimo scopo. In caso di permuta s’intende che il vincolo si
trasferirà automaticamente sul bene ricevuto dal conferente, che dovrà
procedere alla relativa formalità pubblicitaria.
Il sig. C F nomina i beneficiari
sig.ri C V e P R “Attuatori” per la soddisfazione del suddetto interesse;
- l’amministrazione e la
gestione dei beni vincolati, in vista del soddisfacimento degli scopi di
destinazione, spetta disgiuntamente ad entrambi gli Attuatori per gli atti di
ordinaria amministrazione, mentre spetta congiuntamente per gli atti di
straordinaria amministrazione; l’alienazione del bene potrà essere compiuta
solo dal conferente, peraltro alle condizioni specificate in precedenza.
Gli Attuatori si obbligano:
- ad amministrare i beni
vincolati con la diligenza del buon padre di famiglia, nel rispetto degli scopi
di destinazione, come sopra specificati;
- al compimento di ogni attività
necessaria per tutelare la consistenza fisica, l’integrità materiale e il
valore dei beni vincolati, il titolo di appartenenza e, se del caso, il
possesso;
E’ consentita, altresì, agli
Attuatori la stipula di contratti che prevedano la costituzione di diritti
reali o personali di godimento, di ipoteca o di qualsiasi altro vincolo sopra i
beni in oggetto, ma solo in quanto si tratti di atti diretti al soddisfacimento
degli scopi di destinazione. In questo caso la direzione dell’atto
all’attuazione dello scopo di destinazione deve essere in esso espressamente
dichiarata;
- la destinazione cesserà al
verificarsi del primo dei seguenti eventi:
1. decorsi .... anni dalla
stipulazione del presente atto;
2. una volta defunti tutti i
Beneficiari della destinazione;
3. dichiarazione di cessazione
della destinazione, resa per atto pubblico o autenticato da notaio, da tutti i
Beneficiari della destinazione di età non inferiore ad anni diciotto e non
incapaci, esistenti in tale momento, con il necessario consenso, se in vita,
del conferente;
In caso di premorienza del
conferente rispetto ai Beneficiari della destinazione, gli immobili destinati
si devolvono agli eredi del conferente gravati dal vincolo di destinazione
costituito col presente atto, ove esso non sia ancora cessato.
In tale ipotesi l’attuazione della
destinazione continua con il soggetto che il conferente si riserva di indicare
in separato documento o testamento».
[460] Cfr. Consiglio
Nazionale del Notariato, Guida operativa in tema di convivenza.
Vademecum sulla tutela patrimoniale del
convivente more uxorio in sede di
esplicazione dell’autonomia negoziale. Contratti
di convivenza open day, 30 novembre 2013, Roma, 2013, p. 66 ss. (il testo è
disponibile, tra l’altro, al seguente sito web:
http://www.notaicomolecco.it/wwwnotaileccocomoit/Downloads/Guida%20operativa_Contratti%20di%20convivenza.pdf).
Come del resto illustrato da Fusaro, Prospettive di impiego dell’atto di destinazione per i conviventi,
cit., p. 7, ad un convegno organizzato nel 2009 dalla Fondazione italiana per
il notariato (Famiglia e impresa:
strumenti negoziali per la separazione patrimoniale, organizzato a Roma il
21 novembre 2009) vennero analizzate alcune ipotesi applicative dell’atto di
destinazione. Il primo caso frontalmente riguardante la famiglia, era così
formulato: «Tizio legalmente separato con un figlio avuto dalla convivente
Caia, casalinga, è proprietario di tre immobili di valore pressoché identico.
Intende destinare a Caia, vita natural durante, un immobile al fine di
assicurarle un’abitazione e i frutti in considerazione del suo apporto di
lavoro tra le mura domestiche. Inoltre, ove possibile, intende destinare a sé
stesso un altro immobile in considerazione dell’età avanzata e del fatto di non
aver maturato trattamenti pensionistici». Nell’analisi non si è dubitato della
meritevolezza dell’interesse della famiglia di fatto e sono state proposte due
soluzioni alternative, nella seconda delle quali l’atto di destinazione era
accompagnato dalla donazione. Più esattamente, nella prima soluzione il bene
resta nella titolarità del conferente, ma «destinato alle esigenze abitative di
Caia in modo completo, senza limitazione alcuna», precisandosi che «ove
l’esigenza abitativa della stessa non sia immediata, l’immobile potrà essere
locato a terzi o comunque concesso in altre forme di corrispettivo», ancora,
che «i frutti e ogni altra utilità economica ritraibili dal bene destinato,
dedotto quanto indicato infra,
spettano alla beneficiaria». Il conferente ne diviene gestore, impegnandosi:
(a) ad aprire apposito conto bancario ove far confluire le redditività e da cui
attingere l’occorrente per far fronte alle spese; (b) a redigere rendiconto
annuale; (c) ancora a procedere «all’alienazione del bene solo per necessità
relative allo stato di conservazione dello stesso» in tal caso reimpiegando la
somma riscossa nell’acquisto di altro immobile da vincolare. Si precisa che
mentre la morte della beneficiaria estingue la destinazione, quella del
conferente determina la devoluzione del bene gravato del vincolo di
destinazione, aggiungendosi che «in tale ipotesi l’attuazione della destinazione
continua con il soggetto che il conferente si riserva di indicare in separato
documento o testamento». Nella seconda soluzione proposta, si aggiunge la
donazione dell’immobile al figlio Tizietto, il quale contestualmente lo destina
al padre «allo scopo di assicurargli il reddito che gli consenta indipendenza
economica ed esistenza dignitosa», conservandone l’amministrazione, secondo i
medesimi criteri sopra indicati.
[461] Il dubbio è sollevato da G. Gabrielli, Vincoli di destinazione importanti separazione patrimoniale e
pubblicità nei registri immobiliari, in Riv.
dir. civ., 2007, p. 321 ss., secondo cui «Certamente lecita è la destinazione di beni a fare fronte esclusivamente
ai bisogni di una famiglia di fatto, non fondata sul matrimonio dell’autore
della destinazione stessa. La destinazione esclusiva ai bisogni di una famiglia
fondata sul matrimonio, che è per certo la sola contemplata dalle norme degli
artt. 167 ss. c.c., si configura come costituzione di un fondo patrimoniale;
ma, secondo la disciplina propria di quest’ultimo, la separazione dei beni
vincolati dal residuo patrimonio del proprietario di essi è regolata in modo
ben diverso – e, ben può dirsi, meno perfetto – di quello che risulta dalle
norme dell’art. 2645-ter c.c. in
relazione ai vincoli non direttamente individuati dalla legge, come potrebbe
essere, se bastasse la liceità del fine, quello comportato dalla destinazione
ai bisogni della famiglia di fatto. Invero, dei beni costituiti in fondo
patrimoniale si può efficacemente disporre, purché con il consenso di entrambi
i coniugi e con l’aggiuntiva autorizzazione giudiziale, necessaria peraltro nel
solo caso in cui vi siano figli minori (art. 169 c.c.): può efficacemente
disporsene, si noti, anche a fini diversi da quello cui sono destinati. Dalla
norma dell’art. 2645-ter risulta, per
contro, che i beni vincolati – per esempio, se lo si consentisse, anche al fine
di fare fronte ai bisogni della famiglia di fatto – “possono essere impiegati
solo per la realizzazione del fine di destinazione”: dal che si desume che
anche l’alienazione per un fine diverso sarebbe in ogni caso impossibile, e
quindi inefficace, sol che il vincolo sia stato reso opponibile a terzi in
forza della pubblicità. Ne conseguirebbe che l’interesse del terzo all’acquisto
non sarebbe mai tutelato, cedendo sempre di fronte a quello di rispetto del
vincolo di destinazione (atipico, perché non direttamente individuato dalla
legge), anche nei casi in cui l’interesse del terzo viene fatto salvo pur a
fronte del vincolo tipico, dato dalla destinazione ai bisogni della famiglia
fondata sul matrimonio: un atto dispositivo per fine estraneo ai bisogni della
famiglia di fatto sarebbe invero inefficace, anche se consentito da colui che è
in comunione di vita con il proprietario disponente; né sarebbe concepibile
un’autorizzazione giudiziale, pur in presenza di figli minori, giacché
l’eventuale istanza diretta ad ottenerla non potrebbe avere risposta diversa da
una dichiarazione di non luogo a provvedere. Sotto altro profilo, può osservarsi
che al creditore del proprietario di beni costituiti in fondo patrimoniale il
soddisfacimento coattivo su quei beni è precluso soltanto in relazione ad
obbligazioni assunte per scopi che egli sapeva estranei al fine di destinazione
(art. 170 c.c.), mentre al creditore del proprietario di beni destinati ai
bisogni della famiglia di fatto il soddisfacimento coattivo sarebbe precluso –
a norma dell’art. 2645-ter, se si
consentisse di farne applicazione per qualsivoglia finalità non illecita – in
forza del solo elemento oggettivo, dell’estraneità dell’obbligazione al fine di
destinazione, indipendentemente dallo stato soggettivo del creditore stesso.
L’illegittimità costituzionale di una così irragionevole disparità di
trattamento sembra, come si diceva, evidente. Il fine di destinazione ai
bisogni della famiglia fondata sul matrimonio non può avere trattamento meno
favorevole di quello della destinazione ai bisogni della famiglia di fatto».
[462] V. supra, § 25; cfr.
inoltre Oberto, Vincoli di destinazione ex art. 2645-ter c.c. e rapporti patrimoniali tra coniugi, cit., p. 202 ss.
[463] Per un
modello di atto istitutivo di vincolo di destinazione a beneficio di una
famiglia di fatto, contenente una clausola del genere, cfr. Oberto, I diritti dei conviventi. Realtà e prospettive tra Italia ed Europa,
cit., p. 387 ss.
[464] Cui
l’atto inter vivos costitutivo del
fondo va ascritto: cfr. Oberto, La comunione legale tra coniugi, I,
cit., p. 332 ss.
[470] Sul
tema v. per tutti Oberto, Id., I
diritti dei conviventi. Realtà e prospettive tra Italia ed Europa, cit., passim.
[471] Cfr. Oberto, I diritti dei conviventi. Realtà e prospettive tra Italia ed Europa,
cit., p. 133 ss.
[472] Con questa fondamentale differenza, peraltro,
rispetto al noto istituto introdotto in Francia da una legge del 2003, estesa
nel
[473] Cfr. Oberto,
Atti di destinazione (art. 2645-ter c.c.) e trust: analogie e differenze, cit., p.
351 ss., 424 s.; Id., I diritti dei conviventi. Realtà e
prospettive tra Italia ed Europa, cit., p. 145 s.; in senso conforme v.
anche G.A.M. Trimarchi, op. loc. ultt. citt. (il quale rileva,
per l’appunto, che «lo “stato” di separazione dei beni in vincolo di
destinazione è più “forte” di quelli in fondo patrimoniale»); cfr. inoltre Bullo, Sub
art. 2645-ter c.c., cit., p. 3330.
[474] Si badi, peraltro, che, per le ragioni cui si
è già fatto cenno (v. supra, § 24) fondo patrimoniale e vincolo di destinazione possono
essere (a determinate condizioni) in pari modo «travolti» dall’esperimento
dell’azione esecutiva ex art. 2929-bis c.c.
[475] E anche qui andrà tenuto conto di quanto già
accennato con riguardo al secondo comma dell’art.
[477] Per tutti i richiami si fa rinvio ad Auletta, Il fondo patrimoniale, Milano, 1990, p. 29 ss.; Id., Il
fondo patrimoniale, in Aa.Vv., Il diritto di famiglia,
Trattato diretto da Bonilini e Cattaneo, II, Il regime patrimoniale della
famiglia, Torino, 1997, p. 392 s.; Cenni,
Il fondo patrimoniale, in Aa. Vv.,
Trattato di diritto di famiglia, diretto da Zatti, III, Regime
patrimoniale della famiglia, Milano, 2002, p. p. 563; Fusaro, Del fondo patrimoniale, in Aa.
Vv., Commentario del codice civile, diretto da E. Gabrielli, Della Famiglia, a cura di Balestra,
Torino, 2010, p. 1048 s.; Demarchi
Albengo, Il fondo patrimoniale,
Milano, 2011, p. 95 ss.
[478] Sul punto Oberto,
Atti di destinazione (2645-ter c.c.) e trust: analogie e differenze, cit., p. 385 ss.; Id., I diritti dei conviventi.
Realtà e prospettive tra Italia ed Europa, cit., p. 149 ss.; anche per
G.A.M. Trimarchi, op. loc. ultt. citt., «Sul piano
generale non può certo escludersi che la famiglia non fondata sul matrimonio
possa considerarsi un “ente”, una formazione all’interno della quale le persone
che la compongono sviluppino la propria persona il cui valore è centrale nel
ragionamento sulla meritevolezza sopra esteso». Proprio per via delle ragioni
esposte nel testo (e già presentate nei lavori in questa nota citati) occorre
rassicurare chi teme che la tesi proposta dallo scrivente sottenda improbabili
ritorni alla concezione istituzionale della famiglia (così invece Bellomia, op. cit., p. 734, nota 113): «istituzione» e «formazione sociale»
sono e rimangono, per chi ha studiato a lungo l’argomento, concetti ben
differenti (per un’illustrazione, impossibile in questa sede, dei riflessi del
passaggio dalla «concezione istituzionale» alla «concezione costituzionale»
della famiglia sul tema dei rapporti patrimoniali tra coniugi e conviventi si
rinvia a Oberto, I contratti della crisi coniugale, I,
cit., p. 103 ss.).
[484] Cfr. Trib. Saluzzo, 19 luglio
[486] Per i richiami cfr. Di Sapio e Gianola,
op. loc. ultt. citt., i quali
rimarcano che alcuni interpreti fanno cenno all’articolo 1411 c.c. e, su questa
piattaforma, si è ammessa la revocabilità della destinazione fino a che non sia
resa la dichiarazione di volerne profittare. Altri interpreti, in applicazione
della più ampia regola sistematica ricavabile dagli artt. 1333, 1411, 1236, 649
e 785 c.c., ritengono invece che la dichiarazione di voler profittare è
necessaria esclusivamente per stabilizzare la posizione beneficiaria, non per
rendere irretrattabile l’impegno assunto dai costituenti, che, nel nostro caso,
è un tema differente, da verificare con riguardo allo specifico contenuto
dell’atto di destinazione (Bartoli, Trust e
atto di destinazione nel diritto di famiglia e delle persone, cit., p. 79
e, a proposito dei trust, Di Sapio, Gli strumenti contrattuali di cura e di protezione dei minori d’età
portatori di handicap: un’esposizione, cit., p. 626, con divergenze in
ordine ai negozi a causa familiare).
[487] Cfr. Oberto,
I contratti della crisi coniugale,
II, cit., p. 1160 s.; Id., Trasferimenti patrimoniali in favore della
prole operati in sede di crisi coniugale, cit., pag. 69 s.