Sistemi
giudiziari europei a confronto: le criticità italiane
Testo riassuntivo della relazione
presentata al Convegno
«I valori della Magistratura e il valore
della Giustizia: prospettive di riforme efficaci e condivise»
organizzato da Autonomia e indipendenza
Roma - 25 settembre 2016
Sommario: 1. Il contributo dell’esperienza italiana all’elaborazione dei principi internazionali sull’indipendenza della magistratura. – 2. Il contributo fornito dai principi internazionali di soft law alla difesa dell’indipendenza e dell’autonomia del potere giudiziario. – 3. L’efficienza del sistema-giustizia e il ruolo del Consiglio d’Europa. L’attività della CEPEJ. – 4. I dati CEPEJ e la loro lettura alla luce della peculiarità della situazione italiana. – 5. Le lezioni che si possono trarre dalla comparazione nel settore civile. La «signoria del giudice sul processo». – 6. Le lezioni che si possono trarre dalla comparazione nel settore civile. Le limitazioni al dilagare dei mezzi di impugnazione. – 7. Le lezioni che si possono trarre dalla comparazione nel settore penale. Il problema della prescrizione. – 8. Le lezioni che si possono trarre dalla comparazione nei settori civile e penale. Il problema delle risorse. – 9. Un serio e nuovo problema di indipendenza e autonomia della magistratura: il rapporto sempre più conflittuale con la classe forense (e il Contempt of Court). |
Vorrei in primo luogo ringraziare gli amici di A&I per l’invito a questo importante
convegno e per il tema che mi hanno assegnato. Un tema nella trattazione del
quale posso avvalermi dell’esperienza acquisita nei lunghi anni di lavoro
presso il Segretariato Generale dell’Unione Internazionale dei Magistrati.
Mi sia consentito qui ricordare che l’International Association of Judges – Union
Internationale des Magistrats (IAJ-UIM) è un’associazione internazionale
professionale senza fini politici, fondata nel 1953 a Salisburgo, alla quale aderiscono non singoli magistrati, ma le
associazioni nazionali di magistrati, la cui ammissione è stabilita dal
Consiglio Centrale. Il fine principale dell’Unione è la salvaguardia dell’indipendenza
dell’ordine giudiziario, condizione essenziale della funzione giurisdizionale e
garanzia dei diritti umani e delle libertà. L’UIM, il cui Segretariato Generale
ha sede statutaria in Italia, comprende oggi 85 associazioni o gruppi
rappresentativi nazionali provenienti dai cinque continenti [1] .
Come è noto, la comparazione del sistema giudiziario
italiano con i principali ordinamenti europei ed extraeuropei fornisce un
quadro caratterizzato da luci ed ombre. Sul punto è importante tenere presenti
i due termini di riferimento essenziali, allorquando si discorre della
costituzione e dell’azione del potere giudiziario, vale a dire: (a) l’indipendenza
della magistratura e (b) l’efficienza del sistema-giustizia.
Per quanto attiene al primo profilo, cioè quello dell’indipendenza,
non v’è dubbio che la magistratura italiana occupi un posto di rilievo nel
panorama offerto dalla comparazione, come riconosciuto dal ruolo giocato da
numerosi esponenti del nostro ordine giudiziario nella redazione di quella
ormai fitta rete di principi di soft law
che governano la materia a livello internazionale.
Si pensi, a tacer d’altro, al contributo prestato da
Adolfo Beria d’Argentine nella stesura ed approvazione dei Basic Principles delle Nazioni Unite sull’indipendenza della
magistratura [2] ,
nell’ormai lontano 1985, o all’attiva e fattiva partecipazione dell’allora
Segretario Generale dell’UIM Massimo Bonomo nella preparazione della Carta
Europea sullo Statuto del Giudice del Consiglio d’Europa nel 1998 [3] o,
ancora, al determinante intervento del suo successore Antonio Mura nella
preparazione della Rome Charter del
2014 in materia di posizione istituzionale e statuto del pubblico ministero [4] .
Mi sia consentito poi menzionare il contributo offerto
dallo scrivente nel contesto dei lavori del comitato d’esperti incaricati dal
Consiglio d’Europa di procedere alla stesura della Raccomandazione R (12) 2010
sui Giudici: Recommendation
CM/Rec(2010)12 of the Committee of Ministers to member states on judges:
independence, efficiency and responsibilities [5] ,
nonché la rilevante opera prestata da Raffaele Sabato quale membro, prima,
Presidente e Past President, poi, del
Consiglio Consultivo dei Giudici Europei del Consiglio d’Europa (CCEJ), nella redazione di una notevole
serie di preziosi pareri su tutti i profili salienti dell’attività
giurisdizionale [6] .
Al riguardo non potrà tacersi che, specie in questi
ultimi anni, il CCEJ ha assunto un
ruolo crescente, non solo di «organo di studio» di questioni più o meno
astratte, bensì anche di vero e proprio «parlamento» dei giudici europei: un’assise
nella quale si discute sempre più di questioni molto concrete relative all’indipendenza
e all’azione della magistratura nel nostro continente. Basti considerare, ad
esempio, i rilevanti documenti sullo Status
and situation of judges in member States [7] ,
veri e propri cahiers de doléances
della magistratura europea nelle situazioni di maggior crisi, per non parlare
della redazione della «Magna Charta
of Judges», riassumente i punti più significativi delle opinions rese dal Consiglio Consultivo nel corso di questi anni [8] .
Anche sul (più ripido) versante della posizione
istituzionale del pubblico ministero la situazione appare in pieno movimento.
Basti pensare, tanto per citare un esempio, alla
distanza che corre tra, da un lato, la raccomandazione del Consiglio d’Europa
del 2000 sul tema «The Role of Public Prosecution in the Criminal Justice
System» [9] ,
laddove si afferma, con disarmante truismo, che laddove l’ordinamento prevede l’indipendenza
degli uffici di procura, tale indipendenza va effettivamente garantita [10] ,
e, dall’altro, la già ricordata Rome
Charter, approvata dal Consiglio Consultivo dei Pubblici Ministeri Europei
nel 2014, il cui punto IV statuisce, in maniera ben più incisiva, che «The
independence and autonomy of the prosecution services constitute an
indispensable corollary to the independence of the judiciary. Therefore, the
general tendency to enhance the independence and effective autonomy of the
prosecution services should be encouraged».
Anche qui, dunque, il modello italiano sembra essersi
affermato, per lo meno a livello di consapevolezza dei pubblici ministeri del
nostro continente.
2. Il contributo fornito dai principi internazionali
di soft law alla difesa dell’indipendenza e dell’autonomia del potere giudiziario.
In relazione a quanto sin qui esposto, non va
trascurato il rilievo che anche la «semplice» soft law può assumere nel quadro odierno.
Se è vero, infatti, che, ad esempio, nel 1989, la
nostra Corte costituzionale ebbe buon gioco a validare la palese violazione inferta
ai già citati Basic Principles delle
Nazioni Unite (a mente dei quali «judges should enjoy personal immunity from
civil suits for monetary damages for improper acts or omissions in the exercise
of their judicial functions»: cfr. art. 16) da parte della nostra legge sulla
responsabilità civile dei magistrati (l. 13 aprile 1988, n. 117), atteso il
carattere «non cogente» dei cennati principi [11] ,
è altrettanto vero che proprio l’esperienza di organismi quali l’UIM dimostra
che è su quegli stessi principi che vengono poggiate dichiarazioni,
risoluzioni, raccomandazioni, che, talora, sortiscono l’effetto di smuovere mass media e opinione pubblica,
determinando anche (pur se in casi certo non frequentissimi) risultati positivi.
Valga, a titolo di mero esempio, la recente mobilitazione internazionale sul
«caso Turchia», in conseguenza della svolta repressiva che ha fatto seguito al
fallito colpo di Stato del luglio 2016 [12] .
Non solo. Da un po’ di tempo a questa parte un altro
attore fondamentale sullo scenario internazionale, vale a dire la Corte Europea
dei diritti dell’uomo, ha iniziato ad utilizzare siffatti principi di soft law per arrivare a riconoscere la
violazione dell’art. 6 della CEDU, sotto il profilo della carenza del requisito
della presenza di un «tribunale indipendente e imparziale».
Posso citare qui, a mo’ di esempio, il caso Volkov vs Ukraine (2013), ove un
paragrafo intero della motivazione [13] è
dedicato ai documenti del Consiglio d’Europa sull’indipendenza della
magistratura, al fine di non dichiarare conforme al citato parametro dell’art.
6 la composizione dell’organo disciplinare che aveva sanzionato un magistrato
ucraino. E lo stesso è a dirsi per il caso Gerovska
Popčevska v. the former Yugoslav Republic of Macedonia (2016), nella
cui motivazione [14] si
riportano ampi brani di un parere della Venice
Commission del Consiglio d’Europa, oltre che di un’Opinion del Consiglio Consultivo dei Giudici Europei (CCEJ) in tema di organo di autogoverno e
della già ricordata Magna Charta del CCEJ, al fine di riconoscere come
presente una violazione del canone dell’indipendenza e imparzialità dell’organo
disciplinare, qualora di esso faccia parte il Ministro della Giustizia [15] .
3. L’efficienza del sistema-giustizia e il ruolo del
Consiglio d’Europa. L’attività della CEPEJ.
Passando invece al tema dell’efficienza del
sistema-giustizia, va detto che qui l’esperienza italiana risulta assai meno
soddisfacente. Su questo profilo, in particolare, si sono accesi i riflettori
soprattutto dopo la creazione della CEPEJ
del Consiglio d’Europa.
In proposito va detto che il Consiglio d’Europa svolge
da tempo un ruolo fondamentale in relazione ai temi della giustizia nei 47
Stati membri. La ragione per la quale questo organismo si occupa di tale
settore risiede in una delle disposizioni più importanti della Convenzione
Europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali.
Questa,
al già ricordato art. 6, prevede, come noto, che «In the determination of his
civil rights and obligations or of any criminal charge against him, everyone is
entitled to a fair and public hearing within a reasonable time by an
independent and impartial tribunal established by law» [16] .
E’ dunque sulle
espressioni «independent and impartial tribunal», da un lato, e «within a
reasonable time», dall’altro, che si fondano gli assi portanti dell’azione
sviluppata dal Consiglio d’Europa in questi ultimi decenni, in particolare a
partire dalla caduta del muro di Berlino.
In relazione al primo punto dovranno qui
menzionarsi le innumerevoli attività di supporto sviluppate, in specie dai
primi anni Novanta dello scorso secolo, per l’assistenza all’elaborazione di
una normativa, a livello sia costituzionale che ordinario, conforme ai principi
del rule of law nei Paesi già membri
del Patto di Varsavia, assieme ad una impressionante serie di iniziative nel
settore della formazione di magistrati, avvocati, personale di giustizia,
creazione di scuole, accademie, istituti di ricerca, etc. [17] .
Non potrà poi passarsi sotto silenzio,
sempre in relazione al tema dell’indipendenza ed imparzialità della
magistratura, la già sopra ricordata creazione, nei primi anni del nuovo
millennio, del Consiglio Consultivo dei Giudici Europei e del suo «parallelo»
Consiglio Consultivo dei Pubblici Ministeri Europei. Anche qui un rapido
sguardo alle pagine del sito ufficiale del Consiglio d’Europa (sempre nel
settore dedicato alla creazione dello «Stato di diritto») fornirà una
panoramica molto interessante sulle questioni (praticamente tutte quelle ad
oggi rilevanti per chi opera nel settore della giustizia) che hanno formato
oggetto dei pareri espressi tanto dal primo, che dal secondo dei due citati
Consigli Consultivi [18] .
Ma è nell’elaborazione degli
strumenti internazionali sul tema dell’indipendenza del potere giudiziario che
il Consiglio d’Europa ha raggiunto i risultati sicuramente più apprezzabili.
Tra i tanti, vorrei richiamare ancora una volta la Raccomandazione del 2010 sul
tema: «Indipendenza, efficienza e responsabilità dei giudici», cui ho già fatto
cenno.
L’altro grande settore di attività,
collegato in qualche modo al concetto del «délai raisonnable», è quello dell’efficienza
della giustizia. Comparto, quest’ultimo, che ha visto la creazione, a partire
dai primi anni di questo secolo, di un’apposita commissione (la CEPEJ), che è andata assumendo un ruolo
via via determinante.
La CEPEJ (Commission Européenne pour l’efficacité de
la justice/European Commission for the Efficiency of Justice) è, dunque,
una commissione costituita presso il Consiglio d’Europa, allo scopo di
migliorare l’efficienza ed il funzionamento della giustizia negli Stati membri,
così come di realizzare l’applicazione degli strumenti elaborati a tal fine dal
Consiglio d’Europa. I suoi compiti sono molteplici: analizzare i risultati dei
sistemi giudiziari; individuarne i problemi; definire mezzi concreti per
migliorare, da un lato, la valutazione dei risultati dei sistemi giudiziari e
dall’altro, il relativo funzionamento; indicare agli organi competenti del
Consiglio d’Europa quali siano i campi in cui l’elaborazione di uno strumento
giuridico sarebbe auspicabile.
A tal fine la CEPEJ
mette a punto degli indicatori, raccoglie ed analizza dati, definisce misure e
strumenti di valutazione, redige dei documenti (rapporti, pareri, linee guida,
piani d’azione, ecc.), intrattiene rapporti con istituti di ricerca e centri di
documentazione, invita esperti e ONG, procede ad audizioni, sviluppa reti di
professionisti della giustizia. Nel piano d’azione adottato a Varsavia il 16
maggio 2005, i Capi di Stato e di Governo degli Stati membri del Consiglio d’Europa
hanno deciso di sviluppare le funzioni di valutazione e d’assistenza della CEPEJ al fine di aiutare gli Stati
membri a rendere giustizia con equità e rapidità. Hanno altresì invitato il
Consiglio d’Europa a rafforzare la cooperazione con l’U.E. nel campo giuridico,
proprio per il tramite della cooperazione con la CEPEJ.
La CEPEJ è
stata creata il 18 settembre 2002 tramite la Risoluzione Res(2002)12 del
Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa. Essa riunisce esperti dei 47
Stati membri del Consiglio d’Europa ed è assistita da un Segretariato. I
principali suoi settori d’attività sono i seguenti: (a) Evaluation of Judicial Systems [19] ,
che dà luogo alla pubblicazione dell’ormai famoso rapporto biennale sulla
giustizia nel nostro continente; un rapporto oggi consultabile anche online, non solo nella «tradizionale»
versione .pdf., ma anche in modo interattivo, dinamico e comparativo [20] ;
(b) Judicial time management (ove
opera il SATURN Centre for Judicial Time
Management) [21] ;
(c) Quality of justice (ove opera il
gruppo di lavoro denominato CEPEJ-GT-QUAL)
[22] .
4. I dati CEPEJ e la loro lettura alla luce della
peculiarità della situazione italiana.
In
Italia la CEPEJ è nota soprattutto
per gli impietosi dati comparativi con le altre realtà europee (47 Paesi membri
del Consiglio d’Europa) sulla durata dei processo, ma anche perché, come correttamente
la nostra ANM ha già da tempo avvertito [23] ,
da quegli stessi dati emergono risultati più che lusinghieri sull’operosità dei
magistrati italiani, da sempre ai primissimi posti, pur collocandosi l’Italia tra
i Paesi con il minor numero di magistrati, rispetto alla popolazione, e,
soprattutto, rispetto agli avvocati.
Come pure noto, a singolare contrappunto della
ricordata presa di posizione dell’ANM, sono comparsi, specie negli ultimi
tempi, velenosi articoli su giornali prezzolati dai nemici della legalità, all’insegna
dello slogan per cui i dati della CEPEJ non sarebbero comparabili tra di
loro (tra l’altro: chissà perché quelli sui tempi della giustizia sì e quella
sulla produttività dei magistrati no…). Qui occorre tenere presente, però, che
stiamo pur sempre parlando di processi, sentenze e provvedimenti giurisdizionali:
dunque di dati che, pur nell’enorme varietà di riti, leggi e tradizioni del
nostro continente, alla fine della fiera svolgono lo stesso tipo di funzione.
In secondo luogo, se proprio vogliamo introdurre i relativi adattamenti, per
rendere più veritiera la comparazione, allora si dovrà considerare che questi adattamenti
risultano comunque a vantaggio della produttività dei magistrati italiani.
Basti tenere presente, tanto per iniziare, che i
colleghi francesi non trattano per nulla in primo grado il contenzioso
commerciale (riservato ai Tribunaux de
commerce, composti esclusivamente da rappresentanti delle associazioni
produttive), così come quello del lavoro (riservato ai Conseils de prud’hommes, composti esclusivamente dei rappresentanti
sindacali dei datori di lavoro e dei lavoratori). Inoltre (e trattasi di
questione certamente non trascurabile) le sentenze d’oltralpe, sostanzialmente,
non sono motivate [24] ,
mentre l’istruttoria delle cause civili procede pressoché esclusivamente in
base a documenti ed attestations, con
quasi totale esclusione delle quanto mai time
consuming escussioni testimoniali [25] .
I colleghi tedeschi, dal canto loro, vantano
una schiera di Rechtspfleger (una
sorta di super-cancellieri, estranei al ruolo della magistratura, collocata
idealmente e ordinamentalmente tra quest’ultima e il personale di cancelleria)
composta da un numero di unità pari, addirittura, alla metà di quello totale
dei giudici. Tali soggetti hanno competenze sostanzialmente esclusive in
materie quali la volontaria giurisdizione nei settori della famiglia, persone,
incapacità, successioni, registro di commercio, registro fondiario, procedure
esecutive, decreti ingiuntivi, ingiunzioni europee di pagamento, ecc.
I colleghi di common law, e segnatamente quelli d’oltre Manica, poi, sono
affiancati da vere e proprie legioni di magistrates,
cioè di giudici onorari non professionali. Dai dati del rapporto biennale CEPEJ 2014 (riferito al 2012) risulta
che in tutto il Regno Unito si contano 2.300 professional judges contro 9.500 part time non professional judges e 24.000 full time non professional judges, il che porta ad un risultato di
oltre 14 giudici non professionali per ogni magistrato di carriera!
A fronte di simili dati il vero problema
è costituito dal fatto che, in questo sistema politico-mediatico dominato dall’ignoranza
e dalla superficialità, in cui è sempre l’argomento ad effetto a prevalere sul
ragionamento pacato, il sacrosanto messaggio veicolato dall’ANM – puramente e
semplicemente – non riesce a passare. Nei nostri talk shows ormai dominati dalle scimmie urlatrici, l’unica «idea»
che sembra transitare è riassumibile nel seguente «sillogismo»: «Qual è lo
stato della giustizia? Comatoso. Chi fa i processi? I giudici. Ergo la responsabilità di tale stato di
cose è per forza dei giudici».
Detto altrimenti, sembra proprio che oggi occorra
abituarsi – piaccia o meno – ad operare per l’efficienza della giustizia quella
stessa distinzione che noi civilisti siamo soliti fare per le obbligazioni dei
professionisti: quella, cioè, tra efficienza «dei mezzi» ed efficienza «del
risultato». Sotto il profilo dei mezzi siamo efficientissimi, molto meno sotto
quello dei risultati.
Si tratta di vedere, allora, quali lezioni possiamo
trarre dalla comparazione con i sistemi stranieri e quali sono, per l’appunto,
le criticità nostre, messe in evidenza da tale comparazione.
Il primo dato ad emergere dalla comparazione, specie
per ciò che attiene alla procedura civile, è quella situazione che definirei di
«signoria sul processo», di cui dispongono i colleghi stranieri e che a noi
manca, nel modo più assoluto.
Intendo riferirmi con tale espressione non solo ai
poteri sul processo dei giudici di common
law, ma anche a quelli dei sistemi di rilevanti Paesi che si iscrivono nell’area
della famiglia romano-germanica. Basti pensare alla Francia, ove il giudice (e
non l’avvocato!) si trova, come dicono là, «au coeur du procès» ed ha poteri
istruttori e di assegnazione di termini per far marciare velocemente la
procedura secondo la tempistica che ritiene più opportuna. E ciò accade a
partire, quanto meno, da quello che si chiamava un tempo il nouveau code de procédure civile, in
vigore oltralpe dal lontano 1975; da noi, invece, come (poco) noto (se non agli
addetti ai lavori), si perdono per lo meno 7-8 mesi prima che la causa, già
pendente per la notifica della citazione e l’iscrizione a ruolo (con
conseguente inizio del «ticchettio» degli orologi «Strasburgo» e «Pinto»),
possa cominciare ad essere effettivamente trattata dal giudice! Né ai guasti
prodotti in questi anni dall’art. 183 c.p.c. può ritenersi ponga rimedio oggi l’art.
183-bis c.p.c. di nuovo conio: la
decisione del passaggio al rito semplificato dovrebbe essere rimessa al solo
giudice, senza alcuna trattazione della questione, sulla base della sola
lettura degli atti introduttivi, che andrebbero depositati senza il passaggio
attraverso l’ormai inutile (a maggior ragione oggi, con le innovazioni del
p.c.t.) rito della prima udienza di trattazione.
E’ dal lontano 1984 che il Consiglio d’Europa richiede
agli Stati membri la creazione di un giudice civile «intervenzionista».
Il Principio n. 3 dell’allegato
alla Raccomandazione n° R (84) 5 adottata dal Comitato dei Ministri il 28 febbraio
1984 (Principes de procédure civile propres à améliorer le fonctionnement de
la justice), stabilisce che «Le juge devrait, au moins lors de l’audience
préliminaire, mais si possible à tous les stades de la procédure, jouer un rôle
actif afin d’assurer, dans le respect des droits des parties et du principe de
leur égalité, un déroulement rapide des procédures. Notamment, il devrait
avoir, d’office, les pouvoirs de demander aux parties toutes clarifications
utiles, de les faire comparaître personnellement, de soulever des questions de
droit, de rechercher les preuves au moins dans les cas où le fond du litige n’est
pas à la disposition des parties, de diriger l’administration des preuves, d’exclure
des témoins si leur déposition éventuelle manque de pertinence par rapport à l’affaire,
de limiter le nombre, s’il est excessif, des témoins appelés à déposer sur les
mêmes faits. Ces pouvoirs devraient être exercés sans pour autant déborder l’objet
de l’action».
Eppure sappiamo che ancora oggi, da noi, eminenti
processualisti s’ostinano ad affermare che una norma che lasciasse (horribile dictu!) al giudice la definizione
anche solo di una parte delle regole procedurali violerebbe, addirittura, l’art.
111, primo comma, Cost., secondo cui «La giurisdizione si attua mediante il
giusto processo regolato dalla legge». Come se la legge non potesse «regolare
il processo» proprio demandando al giudice, di volta in volta, il concreto
svolgimento delle varie fasi, magari sulla base di alcuni (pochissimi) principi
generali (ad es.: rispetto del contraddittorio, la «parità di armi», etc.)
scolpiti nella legge stessa. Chiunque abbia un minimo di dimestichezza con la
pratica del processo civile sa bene che nella stragrande maggioranza dei casi
le difese delle parti si possono esplicare ed esplicitare in maniera
assolutamente semplice e piana, senza la necessità di sprecare mesi e mesi di
rinvii e di imbrattare centinaia di pagine.
Sempre l’esperienza straniera ci dimostra
che la signoria del giudice sul processo si esplica anche, in moltissimi
sistemi, tramite il c.d. leave to appeal,
cioè il permesso che lo stesso giudice che ha emesso il provvedimento (o,
eventualmente, un giudice superiore) può dare (o negare), oltre tutto sulla
base di sistemi di «filtro» che nulla hanno della complessità degli inutili,
bizantini e barocchi procedimenti che recenti riforme hanno voluto introdurre
anche da noi. Sul punto basterà rinviare all’analisi comparata redatta nel 2008
dalla Cassazione italiana, da cui emerge che le Corti Supreme dei principali
Paesi europei si debbono confrontare con un numero di ricorsi, in civile come
in penale, di gran lunga inferiore rispetto a quello che travolge la nostra Corte
Suprema [26] .
Se si pensa anche solo alla (geograficamente e culturalmente) vicina Francia,
non si può non restare sbigottiti nel considerare che la Cour de cassation ha, nel 2015, ricevuto in totale 28.232 affaires (decidendone 25.523), contro
gli oltre 83.000 della Cassazione italiana (che ne ha eliminati nello stesso
periodo un numero grosso modo analogo). Per non dire della Corte Suprema del
Regno Unito, che emette meno di cento sentenze l’anno [27] !
Un tema in qualche modo legato a questo è quello dell’eventuale
eliminazione di un grado di merito.
Ora, se è vero che l’appello è conosciuto e garantito
in tutti gli ordinamenti europei, è anche vero che esso riceve salvaguardia a livello
sovranazionale dal protocollo n. 7 CEDU, unicamente per le sentenze penali di condanna
(e, oltre tutto, con alcune limitazioni). Nel civile il doppio grado di
giurisdizione di merito non è prescritto da alcuna disposizione di livello costituzionale.
Questo, almeno, è il costante insegnamento non solo della giurisprudenza della
Corte di Cassazione civile [28] ,
ma anche della Corte costituzionale [29] .
Del resto, proprio dalla mancanza di una garanzia costituzionale del principio
del doppio grado di giurisdizione discende l’ammissibilità di eventuali deroghe
allo stesso, come la tassatività delle ipotesi di rimessione al primo giudice (ex artt. 353-354 c.p.c.) [30] .
Al di là di queste considerazioni, il vero problema è
dato dal fatto che, nel nostro ordinamento, il principio del doppio grado di
merito non riceve, sostanzialmente, alcuna limitazione, a differenza di ciò che
accade in molti sistemi europei. Così, ad esempio in Francia sono inappellabili
le sentenze di valore inferiore ai 4.000 euro [31] .
Di notevole interesse sono poi le norme che, sempre Oltralpe, permettono al
giudice d’appello (cfr. art. 526 del Code
de procédure civile) e di cassazione (cfr. art. 1009-1 del Code de procédure civile) di «radier une
affaire du rôle» quando la parte appellante o ricorrente non prova di aver dato
spontanea esecuzione alla decisione oggetto di gravame.
Ancora più sorprendenti sono i dati che ci pervengono dal
Regno Unito, dove ogni appeal è, come
già detto, soggetto ad una apposita e rigorosissima permission [32] .
Non stupisce, quindi, che i dati statistici denotino un limitatissimo ricorso
all’appello: «Only a small number of the millions of cases commenced each year
are subject to a successful appeal. For example, 1,553,983 civil (non-family) cases
started in 2011, whilst just 1,269 appeals were filed in the Court of Appeal
Civil Division in the same period» [33] .
Per quanto
attiene all’Italia, i dati statistici ministeriali (anno 2013) mostrano che, in
civile, «soltanto il 20% delle sentenze rese in primo grado sono impugnate e
che circa il 77% di queste ultime sono confermate»; ciò significa che, grazie
all’appello, viene riformato solo il 4,5% delle sentenze di primo grado.
Invertendo il punto d’osservazione, si può affermare che, in mancanza del
secondo grado di giudizio, il solo 4,5% delle controversie sarebbe definita da
una pronuncia «non corretta» o che comunque sarebbe stata riformata in appello.
Seppur non si volesse considerare che in tale percentuale confluiscono tutte le
sentenze «non confermate», e dunque anche quelle che modificano meramente la
ripartizione delle spese o che investono il solo quantum debeatur, senza ribaltare le posizioni sostanziali già
definite in primo grado, il 4,5% resterebbe comunque un dato troppo esiguo per
giustificare l’enorme dispendio di risorse ed energie impiegate per garantire
il grado d’appello. Il 4,5% di sentenze non riformate in assenza del secondo
grado di giudizio sarebbe un «costo» sostenibile per poter, non solo ridurre
drasticamente i tempi del processo e finalmente raggiungere una durata
ragionevole, ma anche riallocare in maniera intelligente le risorse economiche
ad oggi assorbite dalle corti d’appello [34] .
Passando a considerare ora il processo
penale, è fin troppo noto che uno degli ostacoli più gravi alla realizzazione
di un sistema efficiente in Italia è costituito dalle regole sulla
prescrizione.
Al riguardo da più parti si osserva che i
numerosi Stati con i quali dividiamo moneta e politica disciplinano la misura
del tempo con modalità diametralmente opposte a quelle da noi vigenti. E ciò
sotto distinti profili.
Così, per quanto attiene al dies a quo, in Francia, in Germania, o
in Gran Bretagna, ad esempio, il tempo inizia a cancellare la pretesa punitiva
dal momento in cui il reato viene scoperto e cessa di avere rilevanza nel
momento in cui lo Stato esercita l’azione penale; da quel momento in poi, il
tempo non gioca più a favore dell’imputato, che non avrà, quindi, alcun
interesse ad allungare i tempi del processo. In Italia il tempo inizia a
erodere la pretesa punitiva da quando il reato è stato commesso, ed è
insensibile all’esercizio, da parte dello Stato, della leva della azione
penale; da quel momento in poi, decorrenza del tempo e imputato diventano
alleati. Evidente la differenza, evidenti le conseguenze. In Italia, difatti,
una volta esercitata l’azione penale, l’imputato ha tutto l’interesse ad
allungare la durata del processo, nell’ottica di ottenere l’estinzione del
reato per intervenuta prescrizione. In Francia, in Germania o in Gran Bretagna,
attivata la leva dell’azione penale, l’imputato ha un unico interesse, la
celebrazione del processo, nella consapevolezza che la sua durata non
cancellerà, mai, il reato commesso. Esiste, quindi, un rapporto inversamente
proporzionale tra la misura del tempo che estingue il reato e la durata del
processo.
Rilevante è poi anche il profilo dell’interruzione.
In Francia, ad esempio, il termine per perseguire i reati più gravi (crimes) è di dieci anni, ma il decorso
della prescrizione può essere interrotto da qualsiasi atto di istruzione e di
azione giudiziaria. In Germania i tempi sono ancora più lunghi, ma, ad esempio,
nel caso di reati compiuti da membri del Parlamento federale o di un organo
legislativo di un Land, la
prescrizione viene computata non da quando è stato commesso il reato, ma a
partire dal momento in cui viene avviato il procedimento a carico del
parlamentare.
Sarà qui utile ricordare che il rapporto del GRECO (il
Gruppo di Stati del Consiglio d’Europa contro la corruzione) del 2 luglio 2009 sollecita
l’Italia «ad adottare misure tali che la pronunzia giudiziale di merito sui
reati contro la pubblica amministrazione pervenga in tempi ragionevoli,
sottolineando che l’estinzione dei reati per prescrizione, pur in presenza di
compendi probatori solidi e affidabili, costituisce motivo di sfiducia della
collettività nella giustizia».
Tale richiamo è stato rinnovato nel rapporto
anticorruzione della Commissione Europea del 3 febbraio 2014, che ha
sottolineato l’inadeguatezza della c.d. «legge Severino» del 2012 su questo
fronte. Il rapporto cita uno studio secondo il quale i procedimenti per
corruzione estinti nel nostro Paese per scadenza dei termini di prescrizione
sono intorno al 10% ogni anno, contro una media negli altri Stati UE dallo 0,1
al 2%. Nel 2012, per esempio, sono stati dichiarati prescritti 113.000
procedimenti penali, il 7% di tutti quelli giunti a una conclusione. Un dato in
calo (erano 207.000 nel 2003), ma pur sempre «un’intollerabile abdicazione»
dello Stato, secondo le parole dell’allora Presidente della Cassazione Giorgio
Santacroce all’inaugurazione dell’anno giudiziario 2014.
In Cassazione, sottolinea l’ufficio studi della
Camera, il 13,7% delle prescrizioni riguarda i reati contro la pubblica
amministrazione. I presunti tangentisti sono tra i principali beneficiati della
prescrizione all’italiana. I termini scattano dal momento in cui il reato viene
commesso, in genere molto prima che si apra la relativa indagine, e le pene
lievi (leggermente inasprite dal nuovo testo anticorruzione del 2012) comportano
altrettanto brevi tempi di scadenza. Il resto lo fanno i buoni avvocati che
spesso i colletti bianchi possono permettersi. Risultato: in un Paese sempre
punito dalle classifiche internazionali sulla trasparenza, tra i detenuti in
carcere «si contano soltanto 11 accusati per corruzione, 26 per concussione, 46
per peculato, 27 per abuso d’ufficio aggravato» [35] .
Da un punto di vista più generale (e comune ai settori
civile e penale), il raffronto con gli altri principali sistemi europei appare
desolante sotto il profilo delle risorse messe a disposizione dei magistrati.
Da tutti i rapporti CEPEJ sullo stato della giustizia in Europa emerge che, se è vero
che l’Italia figura tra i Paesi che spendono di più, in termini assoluti, per
la giustizia, essa ricade ampiamente sotto la media europea per le spese per
gli uffici giudiziari (cioè le precedenti depurate dalle prigioni, dal
patrocinio a spese dello Stato e dalle spese per le procure). Non solo: tale
dato appare in costante discesa negli ultimi anni.
Cosa ancora più preoccupante, l’Italia risulta agli
ultimissimi posti per quanto riguarda il numero di cancellieri o personale di
cancelleria per 100.000 abitanti (40, contro 66 della Germania, 58 del
Portogallo, 54 dell’Austria, 52 della Russia, ecc., con una media europea pari
a 62). La Germania, inoltre, ha, come già ricordato, 8.500 Rechtspfleger, ciò che rappresenta quasi la metà del numero totale
dei giudici!
E’ fin troppo noto che da noi si è ritenuto di
risolvere, come sempre, «a costo zero» i problemi della scarsità di personale
con l’introduzione del p.c.t., il che ha significato, in buona sostanza,
spostare sui giudici gran parte del lavoro del personale di cancelleria, così
evitando di assumere nuove unità.
Inutile stendere qui un cahier de doléances sui fin troppo noti guasti introdotti dal
p.c.t. nell’attività ordinaria del giudice, per non dire della vera e propria
«devastazione» di un bene come la qualità della vita e del lavoro del giudice,
così rilevante per una professione tanto delicata e pericolosa (in primis per chi la esercita!) come la
nostra. Continui guasti, interruzioni, estrema lentezza, farraginosità, inutile
ridondanza delle informazioni, continuo stress
determinato dalla necessità di tenere d’occhio svariate funzioni, al fine di
evitare che istanze, atti, documenti e provvedimenti vadano irrimediabilmente
persi (con conseguenze drammatiche, ovviamente, per il giudice) e via
discorrendo. Ma non basta ancora. E’ sin troppo noto che il p.c.t. ha dato
luogo ad un’intera branca autonoma della procedura civile, che si declina in
una quantità incredibile di contributi dottrinali e giurisprudenziali
esclusivamente dedicati agli infiniti problemi creati ex novo dalle procedure telematiche, che si è andato ad innestare
in un sistema come il nostro, caratterizzato dal trionfo dei bizantinismi e
delle trappole processuali d’ogni genere e qualità.
Il risultato è sotto gli occhi di tutti.
Il giudice civile italiano passa ormai una metà del
suo tempo a risolvere i problemi a lui direttamente creati dal p.c.t. e l’altra
metà… a risolvere quelli creati dal p.c.t. agli avvocati (istanze varie ed
incredibili: dalla richiesta di cancellazioni di iscrizioni telematiche
asseritamente errate, come se il giudice avesse un potere sull’organizzazione
dei registri telematici, alle inevitabili domande di rimessione in termini per
chi è atavicamente abituato a svegliarsi all’ultimo momento, salvo scoprire che
il sistema non funziona, a richieste di «forzature» telematiche del sistema,
come se il giudice fosse dotato di una sorta di magico e virtuale «pie’ di
porco», e via salmodiando…).
Appare quindi incredibile (e per molti aspetti persino
vergognoso) che la magistratura italiana abbia accettato e continui ad
accettare un simile svilimento delle sue funzioni, caricandosi di occupazioni e
preoccupazioni che distraggono inevitabilmente il giudice dal lavoro per il
quale è stato selezionato ed è (mal) pagato: vale a dire risolvere i problemi
di diritto, non quelli legati ad una tecnica che, per quanti sforzi possa fare,
un giurista non arriverà mai a padroneggiare del tutto (una tecnica che, comunque,
una volta eventualmente padroneggiata, assorbe il giurista in maniera pressoché
esclusiva, e, dopo averne esaurito forze e risorse, non lo aiuta certo a
risolvere i veri problemi che costituiscono l’intima essenza della sua
missione!).
Ora, in tutti i sistemi stranieri che ho avuto modo di
conoscere, nessun giudice: dico nessun giudice, accetterebbe di sottoporsi alle
torture che il p.c.t. quotidianamente ci infligge. Il rapporto con il fascicolo
(telematico o cartaceo che sia) passa attraverso una selva di cancellieri,
assistenti, segretari, che, giustamente, svolgono le funzioni per le quali sono
stati selezionati e vengono pagati.
9. Un serio e nuovo problema di indipendenza e
autonomia della magistratura: il rapporto sempre più conflittuale con la classe
forense (e il Contempt of
Court).
Il punto finale e veramente fondamentale su cui vorrei
attirare l’attenzione è dato oggi, in Italia, dal rapporto del giudice (in
particolare di quello civile, posto che, in penale, un certo rispetto per le
funzioni giurisdizionali forse ancora sussiste, non foss’altro per il timore
che naturaliter incute un giudice
ancora potenzialmente in grado di limitare la libertà personale degli individui)
con la classe forense. E qui va constatato, innanzi tutto, che la magistratura
italiana risulta particolarmente sfortunata.
In primis perché ci collochiamo in un sistema di civil law, nel quale, cioè, non appare
neppure pensabile che il giudice (a differenza di ciò che accade in moltissimi
sistemi di common law) possa egli
stesso esercitare un diretto potere disciplinare nei confronti degli avvocati.
Nei sistemi anglosassoni non è difficile trovare decisioni in cui si giustifica
il potere disciplinare del giudice sull’avvocato come segue: «The primary duty
of courts is the proper and efficient administration of justice. Attorneys are
officers of the court and the authorities holding them to be such are legion.
They are in effect an important part of the judicial system of this state. It
is their duty honestly and ably to aid the courts in securing an efficient
administration of justice. The practice of law is so intimately connected and
bound up with the exercise of judicial power and the administration of justice
that the right to define and regulate its practice naturally and logically
belongs in the judicial department of our state government» [36] .
A ciò s’aggiunga che in molti (e importanti) ordinamenti
europei, se la prima istanza disciplinare è nelle mani degli ordini
professionali (o di organismi ad essi collegati), il secondo grado è sempre di
competenza giurisdizionale (Francia, Germania, Paesi Bassi, Svezia, etc.), laddove
da noi giudice disciplinare d’appello è il CNF e solo per questioni di diritto è
possibile ricorrere in Cassazione, dopo il doppio passaggio tramite gli ampi «filtri»
corporativi generosamente applicati in primo e secondo grado.
In secondo luogo va rilevato che l’Italia è il Paese europeo
(e probabilmente mondiale) che annovera il più alto numero di avvocati per
abitante e per giudice.
Ora, pur non volendo entrare nella polemica sull’eccessivo
numero degli avvocati come causa di contenzioso inutile e di abusi nel processo
(ciò di cui sono, prima ancora che fermamente convinto, quotidiano ed impotente
testimone), non posso fare a meno di osservare che vi sono dati che dovrebbero
far meditare.
Gli avvocati sono oggi in Italia 240.000 (contro, ad
esempio, i 47.000 della Francia) ed aumentano al ritmo di 15.000 unità l’anno.
Un terzo degli avvocati di tutta la UE è italiano. Il 93% dei giovani laureati
in giurisprudenza finisce per fare l’avvocato, spesso come soluzione di
ripiego.
Una situazione di questo genere ha determinato quasi
inevitabilmente un’impennata nel tasso di aggressività di queste persone, tanto
nei confronti dei colleghi, che nei riguardi del giudice: con un «effetto
moltiplicatore» dovuto ad una campagna di quotidiana denigrazione della
magistratura da parte dello stesso capo del governo (e dei numerosi organi di
disinformazione in suo esclusivo possesso), ingaggiata a partire dalla metà
degli anni Novanta dello scorso secolo e proseguita, come fin troppo noto, per
un numero consistente di lustri.
Dopo quasi 33 anni di esercizio della professione,
posso assicurare che la situazione è radicalmente mutata rispetto a quella dei
miei esordi. Un tempo, la parte che perdeva la lite, al massimo, proponeva
appello. Oggi, sembra quasi che gli avvocati, prima ancora che i loro clienti,
non riescano (o non vogliano?) comprendere che il giudice – con tutta la buona
volontà – non può dar ragione, per forza di cose, ad entrambi i contendenti. L’appello
diviene così solo l’ultima risorsa. In
primis l’avvocato (o, per lui, il cliente) sporge nei confronti del
malcapitato magistrato – reo di avergli dato torto – denuncia, querela, esposto
al CSM, o, sempre più spesso, ai capi degli uffici (e, con un po’ di fortuna
per gli autori di siffatte bravate, se i destinatari delle missive appartengono
alla categoria di quelli che chiamo magistrati amanti del quieto vivere, l’avvocato
si vede pure data ragione, senza neanche che il capo si premuri di chiedere,
non dico il parere del malcapitato magistrato, ma, neppure, quello dell’altra
parte processuale!).
Molti, addirittura, si «portano avanti», minacciando velatamente
(a volte neanche troppo!) il giudice prima ancora che egli emetta la decisione.
Sempre più spesso, poi, quanto sopra è preceduto da quella che io chiamo le
«esercitazioni di tiro a segno» nei confronti del c.t.u., rispetto al quale
l’avvocato comincia, per così dire, ad allenarsi, per poi alzare il tiro verso
il giudice, se soltanto s’azzarderà a seguire la consulenza sgradita.
Ed è qui che il problema dell’efficienza (la necessità
di limitare drasticamente il numero spropositato di domande e, per converso, di
resistenze in giudizio infondate) viene a ricongiungersi inevitabilmente con
quello dell’indipendenza del giudice. Dell’indipendenza non tanto (e non solo) «esterna»
della magistratura nel suo complesso, bensì di quella, non meno importante, «interna»
del singolo magistrato, chiamato a prendere decisioni talora scomode, nella più
totale solitudine, sovente senza neppure l’appoggio morale di quei «superiori»,
che invece dovrebbero aiutarlo a tenere la schiena dritta di fronte a manovre
aggressive (e, in fin dei conti, estorsive ed aggressive).
Posto, dunque, che l’attacco al giudice è divenuto
ormai un modus operandi quasi
quotidiano di un numero ogni dì crescente di avvocati, vi è il serissimo
rischio che un numero crescente di colleghi e colleghe, per quieto vivere, finisca,
come dire, per «adattarsi». In fondo con un minimo di esperienza è facilissimo
capire quale, tra i due legali, potrà (per usare un eufemismo) «dare fastidio»:
basta vedere il piglio (e la scorrettezza) con cui taluni menano fendenti verso
l’avversario, attaccano i testi in udienza, o, addirittura, il c.t.u. (parlando
a nuora perché suocera intenda…). Paradossalmente posso dire che in quasi 33
anni di attività non ho mai sentito la mia indipendenza minacciata da colleghi,
dall’esecutivo, o dal legislativo. Da alcuni anni, invece, comincio a sentirmi
in taluni casi fortemente imbarazzato, minacciato dall’atteggiamento di certi
avvocati (e avvocatesse: almeno in questo settore, va detto che la parità di
genere è stata… veramente conquistata!).
Sovente mi è capitato di parlare di questi problemi
con colleghi di common law, ed anzi
ho avuto anche il privilegio di essere chiamato a presiedere con loro udienze,
ad esempio, in Australia, toccando con mano tremante e con mente sconcertata la
profondità dell’abisso che ci separa. Ora, in quei sistemi il problema cui ho
fatto riferimento non si pone nel modo più assoluto. E ciò per l’evidente
ragione che lì il giudice non ha il mero potere di segnalare eventuali
comportamenti scorretti ad un Consiglio dell’Ordine che, inevitabilmente (per
lo meno, così accade da noi), insabbierà il caso, ma può procedere direttamente
contro l’avvocato (o la parte, o un terzo) per Contempt of Court [37] .
Proprio per questa ragione posso vantare la piccola
soddisfazione di essere riuscito a far inserire nell’ Explanatory Memorandum della
già citata Raccomandazione R (12) 2010 la considerazione per cui (cfr. art. 21
del citato Memorandum) «The Recommendation calls for all necessary
measures to be taken to protect and promote the independence of judges. These measures could include laws such as the “contempt of court”
provisions that already exist in some member states (Recommendation, paragraph 13)».
In conclusione, non potendo certo sperare che i nostri
illuminati governanti traggano esempio da quei saggi principi normativi che
danno al giudice di common law il potere
di difendersi da sé contro gli attacchi alla sua indipendenza, non rimane che
augurarsi che, considerati i tempi bui in cui viviamo, il nostro organo di
autogoverno sappia, quanto meno, scegliere capi degli uffici che, lungi dal
rifugiarsi nel placido ruolo di «passacarte disciplinari», sappiano darsi la forza
e il coraggio necessari ad aiutare i loro giudici a tenere, come dico io, «la
schiena dritta» davanti alla crescente tracotanza del ceto forense, se vogliamo
continuare a contare su di una magistratura composta d’individui veramente
indipendenti ed autonomi.
[1] Per ulteriori
informazioni rinvio al sito web dell’UIM,
all’indirizzo http://www.iaj-uim.org.
[3] Cfr. https://wcd.coe.int/ViewDoc.jsp?p=&Ref=DAJ/DOC(98)23&Language=lanEnglish&Ver=original&BackColorInternet=DBDCF2&Back
ColorIntranet=FDC864&BackColorLogged=FDC864&direct=true.
[4] Cfr. https://wcd.coe.int/ViewDoc.jsp?p=&Ref=CCPE(2014)4&Language=lanEnglish&Ver=original&BackColorInternet=DBDCF2&Back
ColorIntranet=FDC864&BackColorLogged=FDC864&direct=true.
[5] Su cui cfr. Oberto, La raccomandazione del Consiglio d’Europa sul tema: «Indipendenza,
efficienza e responsabilità dei giudici», https://www.giacomooberto.com/coe_raccomandazione_2010/Oberto_raccomandazione_2010_CoE.htm.
[8] Cfr. https://wcd.coe.int/ViewDoc.jsp?p=&Ref=CCJE-MC(2010)3&Language=lanEnglish&Ver=original&BackColorInternet=
DBDCF2&BackColorIntranet=FDC864&BackColorLogged=FDC864&direct=true.
[9] Cfr. https://rm.coe.int/CoERMPublicCommonSearchServices/DisplayDCTMContent?documentId=09000016804be55a.
[10] Cfr. art. 14: «In countries where the public
prosecution is independent of the government, the state should take effective
measures to guarantee that the nature and the scope of the independence of the
public prosecution is established by law». Va
riconosciuto, in tutta onestà, che nemmeno Monsieur de la Palice avrebbe saputo
far di meglio!
[11] Cfr. Corte
cost., 18 gennaio 1989, n. 18. Sul tema si fa rinvio a Oberto, La responsabilité civile des magistrats en
Italie, https://www.giacomooberto.com/Oberto_La_responsabilite_civile_des_magistrats_en_Italie.htm.
[12] Per una
panoramica delle reazioni cfr. l’apposita pagina web predisposta dall’Unione Internazionale dei Magistrati: http://www.iaj-uim.org/solidarity-news-and-documents-about-yarsav/.
[13] Cfr. http://hudoc.echr.coe.int/eng?i=001-115871
(in partic. p. 21 della motivazione).
[14] Cfr. http://hudoc.echr.coe.int/eng?i=001-159769
(v. la parte della motivazione posta sotto il titolo «international
materials»).
[15] Sul ruolo della
Corte di Strasburgo nella tutela dell’indipendenza della magistratura prima dei
due arresti citati nel testo si fa rinvio a Oberto,
Judicial Independence and Judicial Impartiality: International Basic Principles
and the Case-Law of the European Court of Human Rights (Turin – 2012), https://www.giacomooberto.com/munich2012/independence.htm.
[16] Sul punto si fa
rinvio a Oberto, Judicial Independence in its Various
Aspects: International Basic Principles and the Italian Experience, dal 14
febbraio 2013 disponibile al seguente indirizzo web: http://giacomooberto.com/reportkiev2013.htm.
[17] Una semplice
occhiata alla pagina dedicata al tema «rule of law» nel sito web del Consiglio d’Europa – http://www.coe.int varrà a fornire una prima,
ancorché approssimativa, idea al riguardo.
[18] Cfr.,
rispettivamente, http://www.coe.int/t/dghl/cooperation/ccje/default_EN.asp e http://www.coe.int/t/DGHL/cooperation/ccpe/default
_en.asp.
[20] Cfr. la CEPEJ-STAT dynamic database, disponibile
al seguente sito web: http://www.coe.int/T/dghl/cooperation/cepej/evaluation/2016/STAT/default.asp.
[21] Cfr. http://www.coe.int/t/dghl/cooperation/cepej/Delais/default_en.asp. Sul tema v. anche Oberto,
Study on Measures Adopted in Turin’s
Court (“Strasbourg Programme”) along the lines of “SATURN Guidelines for
Judicial Time Management”, https://www.giacomooberto.com/study_on_Strasbourg_Programme.htm;
Id., La CEPEJ e il Tribunale di Torino (breve relazione sull’attivita svolta
dal Réseau des Tribunaux référents de la CEPEJ e dal Groupe de pilotage du Centre pour la gestion du temps
judiciaire « SATURN »), https://www.giacomooberto.com/cepej_per_sito.htm.
[22] Cfr. http://www.coe.int/t/dghl/cooperation/cepej/quality/default_en.asp.
Sul tema v. anche Oberto, Enquiry into the “Customer Satisfaction
Survey in Turin Courts” (2013 Edition), https://www.giacomooberto.com/Oberto_report_survey_satisfaction_2013.htm.
[23] Cfr. il
documento dell’ANM dal titolo Le verità
dell’Europa sui magistrati italiani, https://www.google.it/search?hl=it&as_q=&as_epq=Le+verit%C3%A0+dell%E2%80%99Europa+sui+magistrati+italiani&as_oq=&as_eq=&as_nlo=&as_nhi=&lr=&cr=&as_qdr=all&as_sitesearch=&as_occt=any&safe=images&as_filetype=&as_rights=.
[24] Sul tema sia
consentito rinviare a Oberto, La motivazione delle sentenze civili in
Europa: spunti storici e comparatistici, dal 17 gennaio 2009 disponibile al
seguente sito web: https://www.giacomooberto.com/milano2008/sommario.htm
(v. in particolare i §§ 6-16).
[25] Cfr. artt. 202 e 203 c.p.c. francese; sul
punto v. anche Oberto, Les
éléments de fait réunis par le juge : l’administration judiciaire de la preuve
dans le procès civil italien, in Revue internationale de droit comparé,
1998, p. 779 ss.
[26] Cfr. http://www.cortedicassazione.it/cassazione-resources/resources/cms/documents/Relazione_Corti_Supreme_08.pdf
(ricerca a cura dell’Ufficio Massimario della Suprema Corte di Cassazione).
[27] Cfr. https://www.supremecourt.uk/decided-cases/index.html.
Si noti che, per quel che riguarda la Corte suprema degli Stati Uniti, nel 2009
solo 8.159 casi (civili e penali) sono approdati all’esame della più alta
istanza giudiziaria americana con un aumento del 5,4% rispetto all’anno
precedente. Di questi, peraltro, solo una piccolissima parte viene esaminata,
essendo necessario che almeno 4 dei 9 giudici chiedano di esaminare il ricorso.
[31] Cfr. il nouvel article L. 331-2 del Code de l’organisation judiciaire;
informazioni al riguardo sono disponibili ad es. in https://www.dictionnaire-juridique.com/definition/dernier-ressort.php.
Da notare che il sistema francese, pur prevedendo dal 1° gennaio 2017
l’abolizione dei juges de proximité e
il trasferimento delle relative controversie ai Tribunaux d’instance, continua a stabilire (cfr. art. R223-1 del Code de l’organisation judiciaire, come
stabilito dal Décret n° 2008-522 del
2 giugno 2008 - art. (V), che «Le tribunal d’instance connaît des actions mentionnées au premier
alinéa de l’article L. 223-1 en dernier ressort jusqu’à la valeur de 4 000
euros et à charge d’appel jusqu’à celle de 10 000 euros. Il connaît à charge
d’appel des actions mentionnées au deuxième alinéa de cet article. Il connaît,
en dernier ressort jusqu’à la valeur de 4 000 euros et à charge d’appel jusqu’à
celle de 10 000 euros, des actions mentionnées au troisième alinéa du même
article».
[32] «There is a need for a permission from a
higher court in order to be able to appeal. There is a time limit of 21 days
within which a party can appeal. Time limitations relating to
appeals from Court of Appeal to House of Lords is 1 month from the date when
the order was made or 3 months if permission is granted form Court of Appeal.
The permission can be granted by a lower court or appeal court and
there are two grounds for the appeal to be granted. According to Civil
Procedure Rules CPR 52.3 the appeal must have a real prospect of success and
there is some other compelling reason why the appeal should be granted.
There are a few exceptions when there is no need for a permission to be
granted. If the lower court allows the appeal when it made the decision, the
application to appeal should be made orally, if the appeal was not granted, the
applicant should apply to appeal court in the form of appellant’s notice. The
appeal court will then consider the application, if this is refused the
appellant has the right for this application to be reconsidered orally however
if this is refused there is no further right to appeal against this decision»
(cfr. http://www.inbrief.co.uk/court-judgements/right-to-appeal/).
[33] Cfr. https://www.judiciary.gov.uk/about-the-judiciary/the-judiciary-the-government-and-the-constitution/jud-acc-ind/right-2-appeal/.
[34] Cfr. Di Monte,
Il “nuovo” filtro in appello e i persistenti dubbi sulla modifica
dell’art. 342 c.p.c., http://www.diritto.it/docs/36292-il-nuovo-filtro-in-appello-e-i-persistenti-dubbi-sulla-modifica-dell-art-342-c-p-c/download?header=true.
[35] Cfr. il Resoconto
stenografico dell’Assemblea della Camera dei Deputati, del giorno 24 marzo
2015 (seduta n. 398 – XVII Legislatura), in http://www.camera.it/leg17/410?idSeduta=0398&tipo=stenografico.
[37] Cfr. ad esempio
quanto stabilito nel Regno Unito dal Contempt
of court act del 1981:
«12
2 Offences of contempt
of magistrates’ courts.
(1)A magistrates’
court has jurisdiction under this section to deal with any person who—
(a)wilfully insults
the justice or justices, any witness before or officer of the court or any
solicitor or counsel having business in the court, during his or their sitting
or attendance in court or in going to or returning from the court; or
(b)wilfully
interrupts the proceedings of the court or otherwise misbehaves in court.
(2)In any such case
the court may order any officer of the court, or any constable, to take the
offender into custody and detain him until the rising of the court; and the
court may, if it thinks fit, commit the offender to custody for a specified
period not exceeding one month or impose on him a fine not exceeding
[F14£2,500], or both.
(…)
(4)A magistrates’
court may at any time revoke an order of committal made under subsection (2)
and, if the offender is in custody, order his discharge.
(…)
14. Proceedings in
England and Wales.
(1)In any case where
a court has power to commit a person to prison for contempt of court and (apart
from this provision) no limitation applies to the period of committal, the
committal shall (without prejudice to the power of the court to order his
earlier discharge) be for a fixed term, and that term shall not on any occasion
exceed two years in the case of committal by a superior court, or one month in
the case of committal by an inferior court.
(2)In any case where
an inferior court has power to fine a person for contempt of court and (apart
from this provision) no limit applies to the amount of the fine, the fine shall
not on any occasion exceed [F20£2,500]».