24. La definizione convenzionale della "casa familiare": gli arredi.

Il potere di assegnazione attribuito al giudice dagli artt. 155, 4° co. e 6, 6° co., l.div., investe, testualmente, la "casa familiare". L’interpretazione della portata di tale espressione ha sino ad oggi impegnato gli interpreti in due distinte direzioni.

In primo luogo sembra doversi riconoscere che, con il termine in esame, il legislatore abbia inteso attribuire al provvedimento di assegnazione l’effetto di determinare non soltanto un diritto di godimento sull’immobile, bensì anche una sorta di diritto d’uso sui mobili che l’arredano (cfr. Cass. 9.12.1983, n. 7303, FI, 1984, I, 419).

E’ senz’altro da escludere che per "casa familiare" debba intendersi il solo stabile, poiché esso non sarebbe certo idoneo a garantire alla prole la continuazione del tenore di vita realizzato nel periodo della convivenza dei genitori. Appare perciò più corretto accedere alla tesi dottrinale secondo cui oggetto della "casa familiare" non è soltanto l’immobile, bensì anche tutti i mobili che individuano lo standard di vita familiare oggettivato in quella organizzazione di beni (...) non vi è dubbio che per "casa familiare" debba intendersi quella che ha costituito il centro di aggregazione e di unificazione della famiglia durante la convivenza; di essa debbono, perciò fare parte anche i beni mobili, gli arredi, gli elettrodomestici ed i servizi, con l’ovvia eccezione dei beni strettamente personali o che soddisfino esigenze peculiari del coniuge privato del godimento della stessa.

(Cass. 9.12.1983, n. 7303).

Sul punto va anche segnalato un obiter della Corte costituzionale (sentenza 27.7.1989, n. 454), secondo cui il termine "abitazione" di cui all’art. 155 c.c. viene assunto "come voce sostantiva del transitivo verbale ‘abitare’ con oggetto la ‘casa familiare’, vale a dire quel complesso di beni funzionalmente attrezzato per assicurare la esistenza domestica della comunità familiare. Come dunque la ‘casa familiare’ non è esauribile nell’immobile, spoglio della normale dotazione di mobili e suppellettili per l’uso quotidiano della famiglia, così l’ ‘abitazione’ non è identificata dal legislatore in una figura giuridica formale, quale potrebbe essere un diritto reale o personale di godimento, ma nella concreta res facti che prescinde da qualsivoglia titolo giuridico sull’immobile, di proprietà, di comunione, di locazione. Il giudice della separazione, assegnando l’abitazione nella casa familiare affidatario della prole, secondo la ratio legis, non crea tanto un titolo di legittimazione ad abitare per uno dei coniugi quanto conserva la destinazione dell’immobile con il suo arredo nella funzione di residenza familiare".

Occorre quindi concludere nel senso che la "casa familiare" deve ritenersi comprensiva degli arredi, con esclusione dei mobili d’uso strettamente personale per il coniuge non assegnatario, nonché gli accessori e le pertinenze della casa stessa, conformemente del resto a quella definizione giurisprudenziale del concetto in esame, come di "quel complesso di beni funzionalmente attrezzato per assicurare l’esistenza domestica della comunità familiare" (Cass. 20.3.1993, n. 5793, GI, 1994, I, 1, 242).

Per quanto riguarda la dottrina v., in senso favorevole alla soluzione qui sostenuta, Giusti 1986, 777 s.; Di Nardo 1990, 295; De Paola 1991, 202; Dogliotti 1995, 88; Scardulla 1996, 329 s.; Basini 1997, 672; Dogliotti 1997b, 500; M. Finocchiaro 1997, 275; Quadri 1997, 297 s.; De Filippis, Casaburi 1998, 320 ss.; nel senso che l’attribuzione del godimento sui mobili costituenti l’arredo della casa familiare si giustificherebbe nel solo caso di assegnazione operata in favore del coniuge affidatario della prole v. L. Rubino 1989, 937; nel senso che la posizione giuridica in esame non darebbe invece in alcun modo diritto al coniuge assegnatario di continuare ad usare i mobili che l’arredano se non sono di sua proprietà v. A. Finocchiaro, M. Finocchiaro 1984, 582; A. Finocchiaro, M. Finocchiaro 1988, 508.

Un orientamento sostanzialmente unitario si è venuto a delineare, tanto nella giurisprudenza di merito (e v., ad es., già Trib. Milano 14 febbraio 1980), che in quella di legittimità (e v. Cass. 9 dicembre 1983, n. 7303, nonché Cass. 14 febbraio 1986, n. 878 e, da ultimo, Cass. 26 settembre 1994, n. 7865), a favore di una nozione di "casa familiare" tale da estendersi al di là del mero immobile. Contro talune perplessità di carattere sistematico, ha finito, insomma, col trionfare la tesi secondo cui per "casa familiare" deve intendersi non il singolo bene (immobile), bensì tutto quanto vale ad identificare "lo standard di vita familiare oggettivato in quella organizzazione di beni", come tale (quale, cioè, "centro di aggregazione e di unificazione della famiglia durante la convivenza") necessariamente comprendente anche "i beni mobili, gli arredi, gli elettrodomestici ed i servizi, con l’ovvia eccezione dei beni strettamente personali o che soddisfano esigenze particolari del coniuge privato del godimento stesso" (così Cass. 9 dicembre 1983, n. 7303).

Un simile indirizzo (conforme, del resto, alla nozione che di "casa familiare" offrono espressamente altri ordinamenti: cfr. art. 215 code civil e art. 96 c.c. spagnolo) attesta essersi fatta strada una visione dei beni costituenti la "casa familiare" come compendio di beni unificati, nella loro sorte, dal vincolo di destinazione ad essi impresso durante la fase fisiologica della convivenza (e in vista dell’effettivo funzionamento della comunità familiare: di "complesso di beni funzionalmente attrezzato per assicurare l’esistenza domestica della comunità familiare", parla Corte cost. 27 luglio 1989, n. 454). Visione, come tale, rifuggente dall’inquadramento, secondo quanto sottolineato (e dianzi già ricordato) dalla stessa Corte costituzionale, "in una figura giuridica formale", trattandosi, con l’assegnazione, non di creare "tanto un titolo di legittimazione ad abitare per uno dei coniugi, quanto" di conservare "la destinazione dell’immobile con il suo arredo nella funzione di residenza familiare", l’"abitazione" essendo da assumere, dunque, quale "concreta res facti che prescinde da qualsivoglia titolo giuridico sull’immobile", preesistendo all’assegnazione (...).

Alla luce di una simile ricostruzione funzionale, anche a prescindere dal nesso instaurato nell’attuale legislazione urbanistica tra unità abitativa e spazi destinati a parcheggio, non vi è dubbio che l’assegnazione estenda la propria portata pure all’autorimessa di pertinenza dell’appartamento: sicuramente essa, infatti, risponde "ad esigenze peculiari della famiglia pur dopo la separazione", in vista della conservazione dello standard di vita pregresso (e v. Pret. Firenze 14 luglio 1984).

Risponde, poi, ai principi generali in materia probatoria il ritenere che spetti al coniuge che invoca il provvedimento di assegnazione della casa familiare, ove "l’altro contesti tale qualità all’immobile, ovvero al complesso di beni funzionalmente attrezzato per assicurare l’esistenza domestica della comunità familiare ... dimostrare la sussistenza della contestata qualità" (Cass. 20 marzo 1993, n. 5793).

(Quadri 1997, 297 s.).

Ciò posto, non vi è dubbio che i coniugi, in sede di contratto della crisi coniugale, ben possano procedere di comune accordo all’identificazione degli arredi della casa familiare, magari procedendo alla redazione di una check list dei beni di maggior valore, con la specificazione della relativa titolarità, al fine di evitare successive dispute al riguardo. Per converso, dovrà ritenersi loro consentito di escludere taluni beni normalmente compresi nell’arredo della casa coniugale, come recentemente ammesso dalla giurisprudenza di legittimità (Cass. 25.5.1998, n. 5189).

In tema di separazione personale dei coniugi, se è vero che l’assegnazione della casa familiare si estende di norma anche a mobili ed arredi, nulla vieta ai coniugi di pattuire, anche al di fuori dei poi omologati accordi di separazione consensuale, che alcuni mobili, tanto più se di proprietà esclusiva di uno di loro, siano prelevati dalla casa familiare.

(Cass. 25.5.1998, n. 5189).

 

25. La definizione convenzionale della "casa familiare": le unità immobiliari diverse dalla residenza familiare.

Il secondo aspetto esaminato dagli autori e dalla giurisprudenza circa la definizione del concetto di "casa familiare" concerne l’interrogativo se esso possa estendersi a comprendere anche le case esistenti nelle località di villeggiatura o quelle usate per soggiorni temporanei o connessi ad esigenze stagionali, pur se effettuati con periodica ed abituale ripetizione, data la carenza di un rapporto di fatto permanente e corrispondente alle esigenze primarie dell’abitazione.

La Cassazione ha risposto negativamente al quesito (cfr. sentenza 23.6.1980, n. 3934, DFP, 1980, 1121; GI, 1981, I, 1, 544), respingendo la censura che la ricorrente muoveva ai giudici di merito di non averle assegnato, in quanto affidataria della prole, "l’abitazione per le vacanze estive sita in San Teodoro in Sardegna" (nello stesso senso, per la giurisprudenza di merito v. Trib. Palermo 25.8.1993, DFP, 1994, 246 e, per la dottrina, A. Finocchiaro, M. Finocchiaro 1988, 507; M. Finocchiaro 1997, 274 s.). L’indirizzo è stato confermato anche in tempi più recenti, ribadendosi che "L’assegnazione della casa familiare prevista dall’art. 155, quarto comma, cod. civ., rispondendo all’esigenza di conservare l’habitat domestico, inteso come il centro degli affetti, degli interessi e delle consuetudini in cui si esprime e si articola la vita familiare, è consentita unicamente con riguardo a quell’immobile che abbia costituito il centro di aggregazione della famiglia durante la convivenza, con esclusione di ogni altro immobile di cui i coniugi avessero la disponibilità e che comunque usassero in via temporanea o saltuaria" (Cass. 16.7.1992, n. 8667).

La dottrina approva tale indirizzo rilevando, in primo luogo, che, affinché possa parlarsi di casa familiare, occorre che i coniugi non abbiano residenze separate (cfr. Barbiera 1993, 46; v. inoltre Scardulla 1996, 326, che sottolinea la coincidenza tra "casa familiare" e "residenza familiare"; sull’individuazione del concetto di casa familiare cfr. anche De Paola 1991, 202; Tullio 1991, 1800 ss.; Dogliotti 1995, 88 s.; Dogliotti 1997b, 500; Dossetti 1997, 739; Quadri 1997, 296), ed escludendo che alla normativa in esame possano ricondursi le case destinate alla villeggiatura (cfr. per tutti Dogliotti 1995, 88 s.; Dogliotti 1997b, 500; Basini 1997, 672; Quadri 1997, 296).

La definizione prevalente, tanto in dottrina che in giurisprudenza, della casa familiare, può dunque dirsi "largheggiante" per quanto attiene al "contenuto" della casa familiare (v. il § precedente), mentre deve dirsi "restrittiva" in ordine alla possibilità di estendere a più di un immobile la qualifica di "familiare".

Ciò premesso, v’è da chiedersi se, nell’àmbito di un contratto della crisi coniugale, le parti possano definire il concetto di casa familiare, ampliandolo o restringendolo rispetto a quello che formerebbe oggetto di un’assegnazione giudiziale oppure costituendo il diritto su uno o più immobili diversi da quello già destinato a residenza della famiglia. Ora, se è vero che sul primo punto non sembrano sussistere dubbi di sorta (cfr. quanto detto in chiusura del § precedente), con particolare riguardo a quest’ultimo caso (cioè in quello di assegnazione di un immobile diverso da quello in cui aveva sede la residenza della famiglia), la possibilità di estendere a tale diritto la disciplina dettata per la "casa familiare" (si pensi in particolare al regime dell’opponibilità) si profila come assai dubbia.

Invero, anche a prescindere dalla disputa sul carattere eccezionale o meno degli artt. 155, 4° co., c.c. e 6, 6° co., l.div. (su cui v. supra, § 13, in questo cap.), sembra chiaro che l’unico possibile "ampliamento" della portata di queste norme sia quello che concerne le condizioni (presenza o meno di figli) in cui l’assegnazione può avvenire. Per quanto riguarda invece l’oggetto del diritto di abitazione, si deve sempre trattare della casa familiare: non pare infatti rispondere ad alcun principio di carattere generale (giusfamiliare o meno) la dilatazione di tale concetto al punto da comprendere immobili che, per usare il linguaggio della Cassazione, non hanno "costituito il centro di aggregazione e di unificazione della famiglia durante la convivenza" (cfr. Cass. 9.12.1983, n. 7303, FI, 1984, I, 419).

Ancora una volta pare dunque consigliabile a coloro che intendano costituire un diritto di abitazione su di un immobile diverso da quella che fu la casa coniugale ricorrere a figure tipiche, diverse da quelle disciplinate dagli artt. 155, 4° co. e 6, 6° co., l.div. (sul punto v. infra, §§ 27 ss., in questo cap.).

Un discorso diverso sembrerebbe, almeno a prima vista, doversi svolgere in relazione alla cessione della locazione, ove la lettera dell’art. 6, 3° co., l. n. 392/78 non limita all’ipotesi della casa familiare l’opponibilità della cessione stessa nei riguardi del locatore, prevedendo invece, in linea del tutto generale, una "successione" nel rapporto locatizio, senza apparenti limiti connessi alla funzione dell’immobile abitativo, così che il trasferimento del rapporto locatizio potrebbe valere anche in relazione all’eventuale "abitazione delle vacanze", purché tra i coniugi si fosse "così convenuto". In realtà il successivo art. 26, l. n. 392/78 esclude questa possibilità, limitando, secondo l’interpretazione preferibile, la portata delle norme di cui al relativo capo (ivi compreso dunque l’art. 6 cit.) alla locazione di quegli immobili destinati a soddisfare esigenze abitative connotate dai caratteri di stabilità e continuatività (cfr. Cass. 22.7.1981, n. 4712; Cass. 1.12.1983, n. 7200, che espressamente negano l’applicabilità delle disposizioni di cui alla l. n. 392/78 agli immobili "destinati a villeggiatura e soggiorni saltuari"). In definitiva, il rapporto locatizio relativo alla "casa per le vacanze" non potrà essere ceduto all’altro coniuge, se non con il consenso del locatore, secondo le comuni regole (art. 1594 c.c.).

 

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