26. La definizione convenzionale della "casa familiare": le clausole in tema di durata.
Per concludere sul tema delle intese tendenti a modellare e variamente integrare il contenuto del diritto di abitazione così come previsto dagli artt. 155, 4° co., c.c. e 6, 6° co., l.div., e prima di passare all’esame degli accordi rivolti a dar vita a diritti d’abitazione di tipo diverso, sarà opportuno soffermarsi brevemente sulla possibilità che le parti fissino una determinata durata del rapporto medesimo.
In linea generale l’ammissibilità di un simile patto dovrebbe discendere dalla validità di un’intesa svincolata dall’affidamento dell’eventuale prole minorenne. Invero, se si ritiene possibile che l’abitazione della casa familiare vada al genitore non affidatario (v. supra, §§ 21 ss., in questo cap.), a maggior ragione dovrebbe ritenersi consentito prevedere che ciò avvenga per un periodo predeterminato o, viceversa, che ciò avvenga dopo che per un periodo predeterminato l’abitazione è stata assegnata all’affidatario. Il tutto, naturalmente, deve intendersi come soggetto al solito limite del rispetto, nel caso concreto, dell’interesse dell’eventuale prole minorenne (in senso sostanzialmente conforme cfr. anche Gabrielli 1997, 1283 s.; si noti che le preoccupazioni sollevate da tale autore con riguardo al problema causale sono superabili, nell’ottica qui proposta, facendo richiamo alla già più volte prospettata tesi della causa postmatrimoniale tipica, su cui v. supra, cap. VI, § 15, mentre ai rilievi sull’impossibilità di prevedere, in sede di separazione, un’assegnazione con effetto anche successivo all’eventuale divorzio possono opporsi le argomentazioni sviluppate nel cap. V).
Ciò posto sembra dunque lecito (ed anzi, consigliabile, al fine di evitare prevedibili controversie) che si individui il dies ad quem dell’assegnazione, magari legandolo ad eventi quali il raggiungimento della maggiore età (o dell’autosufficienza economica) da parte del più giovane dei figli, o a condizioni quali l’ottenimento di un determinato posto di lavoro, o di una determinata qualifica, da parte dell’assegnatario (per il problema della validità di clausole che subordinano risolutivamente le attribuzioni patrimoniali al compimento di determinati comportamenti, quali l’instaurazione di una convivenza more uxorio cfr. infra, cap. XI, §§ 2 ss.).
In effetti, la lettura di numerosi verbali di separazione consensuale e di domande congiunte di divorzio evidenzia un frequente ricorso dei coniugi all’apposizione di termini finali per il diritto di abitazione, collegati normalmente al raggiungimento della maggiore età da parte dell’ultimo dei figli minorenni affidati all’assegnatario. D’altro canto non sono neppure infrequenti clausole legate a condizioni (a seconda dei casi potestative, casuali, o miste) di difficile accertamento, come ad esempio le seguenti: "l’alloggio (...) viene assegnato in uso esclusivo alla moglie ed ai figli fino a che questi ultimi non decidano, avendo raggiunto l’indipendenza economica, di stabilirsi altrove", oppure: "la casa coniugale resta assegnata alla moglie perché vi abiti con il figlio (e con la propria madre), finchè essa non reperisca altro adeguato alloggio di suo gradimento che, per collocazione e caratteristiche, consenta condizioni abitative analoghe alle presenti".
Ora, se il primo genere di pattuizioni appare non solo ammissibile, ma (come si diceva) addirittura consigliabile, non altrettanto è a dirsi del secondo, quanto meno sotto il profilo dell’opportunità: clausole tipo quelle sopra virgolettate (tratte da alcuni verbali sottoposti al vaglio dello scrivente) vanno in linea di massima evitate, rischiando le stesse di trasformarsi, per via della loro genericità, in vere e proprie ... bombe a orologeria. Ne consegue che, se l’interesse e le aspettative del proprietario sono nel senso di un recupero della disponibilità dell’immobile entro un determinato lasso di tempo, è assai più opportuno fissare comunque un preciso termine finale.
Per quanto attiene, invece, alla "casa in affitto", non dovrebbero sussistere problemi sull’opponibilità al terzo locatore di un patto del genere di quelli testè menzionati: ragionando anche qui a fortiori sembra di dover dire che, se l’art. 6, l. n. 392/78 consente tout court il subentro dell’assegnatario, esso deve ugualmente permettere che ciò avvenga per un determinato periodo, con successivo automatico subingresso del conduttore originario, ferma restando, naturalmente, la validità e l’opponibilità al conduttore – qualunque sia – delle vicende del rapporto locatizio nel frattempo intervenute (scadenza, risoluzione, rinnovazione, ecc.). La dottrina che ha affrontato il tema delle vicende dell’assegnazione della casa familiare appare, a dire il vero, assai più cauta, spingendosi addirittura a porre in dubbio la legittimità della fissazione di precisi limiti temporali all’assegnazione (così Quadri 1997, 301, che sembra però riferirsi solo all’assegnazione giudiziale). In ogni caso è chiaro che quanto sopra detto vale nei limiti in cui non si siano nel frattempo verificati mutamenti delle circostanze di fatto tali da determinare un provvedimento ex art. 710 c.p.c. ovvero ex art. 9, 1° co., l.div. L’esperibilità di tali rimedi è legata, come noto, al carattere intrinsecamente rebus sic stantibus di questi accordi, carattere che potrebbe peraltro essere convenzionalmente escluso (sul tema si rinvia a quanto illustrato supra, cap. IV, § 22).
Va da sè che la previsione di un termine certo di scadenza dell’assegnazione varrebbe altresì ad eliminare in nuce la necessità dell’instaurazione di un procedimento di modifica delle condizioni della separazione o del divorzio, necessità che viene invece sottolineata in relazione al caso in cui vengano meno le condizioni in considerazione delle quali l’assegnazione era stata giudizialmente operata: in questo senso cfr. Quadri 1997, 300, con ulteriori richiami, nonchè, in giurisprudenza, Cass. 28.8.1993, n. 9157, GC, 1993, I, 2884; DFP, 1994, 605.
Ove l’assegnazione della casa familiare al coniuge divorziato sia avvenuta in funzione dell’affidamento allo stesso del figlio minorenne e per soddisfare il bisogno di conservare la pregressa localizzazione della comunità domestica, la cessazione di tali condizioni, accertata dal giudice di merito, ha come effetto indiretto il ripristino delle facoltà e dei poteri inerenti al diritto di proprietà, per il naturale riespandersi del diritto dominicale una volta esclusa la suddetta destinazione, senza che sia necessaria un’apposita azione giudiziaria da parte del proprietario dell’immobile.
(Cass. 28.8.1993, n. 9157).
Si noti, per incidens, che la sopra riportata massima ufficiale, così come formulata, appare idonea ad ingenerare l’idea che il sopravvenuto raggiungimento della maggiore età da parte del figlio, in considerazione dell’affidamento del quale l’assegnazione era stata disposta, determinerebbe l’automatico "riespandersi del diritto dominicale", rendendo così superflua l’instaurazione di un procedimento di modifica delle condizioni della separazione o del divorzio.
La lettura della motivazione consente invece di comprendere che ciò che i Supremi Giudici ritengono superfluo è (non già la proposizione di un ricorso ex art. 710 c.p.c. o ex art. 9, 1° co., l.div., bensì) l’esperimento di un autonomo procedimento di rivendica (almeno così è da presumere, ancorchè la Cassazione non fornisca indicazioni più precise al riguardo), successivo alla determinazione di modifica delle condizioni della separazione o del divorzio, al fine di recuperare la disponibilità dell’unità immobiliare.
Il Tribunale di Roma, pronunciando con sentenza del 30 giugno 1984 la separazione personale dei coniugi Tullio Ascone e Margaret Anne Thorne, assegnò all’Ascone l’abitazione nella villa di cui i coniugi erano comproprietari e che era stata sede della comunità familiare, sul rilievo che egli era stato designato affidatario del figlio minore Riccardo (la figlia maggiorenne Cristina faceva invece capo alla madre). Tale assetto fu tenuto fermo dalla sentenza 23 gennaio 1986 dello stesso Tribunale, che pronunciò lo scioglimento del matrimonio. Con ricorso del 13 maggio 1989 Margaret Anne Thorne, ai sensi dell’art. 9 della legge 898-1970, chiese al Tribunale di Roma che venisse dichiarata cessata l’assegnazione dell’abitazione all’Ascone, in vista della divisione dell’immobile fra i due comproprietari. Il Tribunale rigettò il ricorso, osservando che con l’Ascone era andata a vivere la figlia Cristina, ancora priva di autonomia finanziaria, mentre il figlio Riccardo, ormai anch’egli maggiorenne, pur stabilitosi presso la madre, era saltuariamente presente nella villa.
Si gravò la Thorne alla Corte di appello di Roma, la quale, con provvedimento del 12 settembre 1991, accolse il reclamo e dichiarò cessata la predetta destinazione dell’immobile. Osservò la Corte che l’assegnazione della casa coniugale ad uno dei coniugi divorziati trova fondamento o nelle aspettative lato sensu assistenziali dell’assegnatario ovvero, anche cumulativamente, nell’esigenza dei figli, anche maggiorenni, di veder conservata, pur dopo la rottura fra i genitori, la localizzazione della comunità familiare; che l’assegnazione stessa non poteva comportare il sacrificio di diritti dominicali se non nella misura, e fino a quando, le accennate esigenze fossero riconoscibili; che nella specie non potevano ravvisarsi, né erano state peraltro dedotte, aspettative assistenziali dell’Ascone, persona benestante, così come non potevano riconoscersi esigenze dei figli nel senso sopra precisato, in quanto gli stessi erano ormai divenuti entrambi maggiorenni e si appoggiavano, ciascuno per suo conto, di volta in volta al padre o alla madre, secondo le convenienze del momento.
Contro tale sentenza l’Ascone ha proposto ricorso per cassazione sulla base di due motivi. La Thorne ha resistito con controricorso, formulando preliminarmente eccezione di inammissibilità del ricorso. Entrambe le parti hanno depositato memoria. Il P.G., in udienza, ha preliminarmente chiesto la integrazione del contraddittorio nei confronti del Procuratore Generale presso la Corte di appello di Roma.
Diritto
(...)
3. Con il primo motivo di ricorso l’Ascone deduce violazione degli art. 155 c.c. e 9 legge 898-1970, sostenendo che l’assegnazione della casa familiare ha lo scopo di assicurare l’alloggio al coniuge separato o divorziato che ne abbia maggior bisogno; e che nessuna conseguenza negativa è possibile trarre dal fatto che esso Ascone, nel presente procedimento, non abbia invocato "esigenze assistenziali", postochè la Thorne, in difetto di un proprio sopravvenuto (e accertato) bisogno prevalente in ordine alla casa, non può pretendere che l’assegnazione all’Ascone, effettuata alla stregua di precedenti accertamenti, venga a cessare. La doglianza è infondata. La impugnata decisione, interpretando le sentenze inter partes di separazione e di divorzio, ha ritenuto che né l’uno né l’altro coniuge accampassero necessità assistenziali e che perciò l’assegnazione della casa all’Ascone sia avvenuta in funzione dell’affidamento allo stesso del figlio (allora) minorenne e soprattutto per soddisfare il bisogno (d’ordine e essenzialmente morale) di conservare la pregressa localizzazione della comunità domestica. Stante tale interpretazione del giudicato esterno, compiuta dalla Corte del merito e non sindacabile in questa sede, correttamente non è stato dato rilievo alla circostanza che la richiesta della Thorne non si fondi su una sua sopravvenuta necessità di tipo assistenziale ed altrettanto correttamente è stata affermata l’esistenza di limiti, al di là dei quali i diritti dominicali della Thorne non possono essere sacrificati all’esigenza (avulsa, ripetesi, da profili di necessità economica) di conservazione della vecchia sede della famiglia.
Né è accettabile la tesi del ricorrente, secondo cui nel procedimento di revisione ex art. 9 della legge 898-1970 sarebbe possibile soltanto la modifica della precedente disposizione relativa alla casa, nel senso che questa, già assegnata ad un coniuge, venga assegnata all’altro, ma non la cessazione di tale regime, che dovrebbe essere richiesta in via ordinaria nell’esercizio del diritto di proprietà. In realtà, poiché tale regime è subordinato a condizioni riconosciute in sede di separazione o di divorzio, o di successivi procedimenti di revisione, è proprio su questo piano che va risolta anche la questione della cessazione (in assoluto) delle condizioni stesse, essendo il ripristino delle facoltà e dei poteri inerenti al diritto di proprietà non già l’oggetto della pronuncia camerale, ma un suo effetto indiretto, determinato dal naturale riespandersi del diritto dominicale, una volta esclusa la suddetta destinazione.
(Cass. 28.8.1993, n. 9157).