ESEMPIO DI MASSIMA "RIDUTTIVA" RISPETTO ALLE RATIONES DECIDENDI
DI UNA PRONUNZIA DELLA CASSAZIONE
(testo tratto da OBERTO, I contratti della crisi coniugale, II, Milano, 1999, p. 1249 ss.,
cui si fa rinvio anche per le citazioni)

Un esempio - tra i tanti - di massima "riduttiva" rispetto alle rationes decidendi di una pronunzia può essere costituito dal caso seguente.
Nel 1997 la Corte di cassazione, occupandosi di un accordo concernente il diritto di proprietà su di un immobile, inserito in un verbale di separazione consensuale, afferma la validità di tale negozio e riconosce la natura di atto pubblico proprio del verbale e la sua idoneità a costituire titolo per la trascrizione.
La pronunzia è Cass., 15 maggio 1997, n. 4306, in Fam. e dir., 1997, 417, con nota di Caravaglios; Riv. notar., 1998, II, 171, con nota di Gammone.
Dalla pronunzia è stata tratta la seguente massima:
 
Sono pienamente valide le clausole dell'accordo di separazione che riconoscano ad uno o ad entrambi i coniugi la proprietà esclusiva di beni mobili o immobili, ovvero ne operino il trasferimento a favore di uno di essi al fine di assicurarne il mantenimento. Il suddetto accordo di separazione, in quanto inserito nel verbale d'udienza (redatto da un ausiliario del giudice e destinato a far fede di ciò che in esso è attestato), assume forma di atto pubblico ai sensi e per gli effetti dell'art. 2699 cod. civ., e, ove implichi il trasferimento di diritti reali immobiliari, costituisce, dopo l'omologazione che lo rende efficace, titolo per la trascrizione a norma dell'art. 2657 cod. civ., senza che la validità di trasferimenti siffatti sia esclusa dal fatto che i relativi beni ricadono nella comunione legale tra coniugi.

La lettura della motivazione per esteso evidenzia che, in realtà, i temi affrontati dalla Corte Suprema vanno ben al di là di ciò che la massima lascia trasparire. Sintetizzando per sommi i capi i molteplici principi di diritto affrontati, la Cassazione, oltre ad affermare la natura di atto pubblico del verbale di separazione consensuale anche ai fini della trascrizione in merito agli atti di trasferimento di diritti immobiliari in esso eventualmente contenuti, afferma i seguenti «principi di diritto».

Ad esclusione del punto testè collocato sub h), tutte le altre statuizioni paiono costituire altrettante rationes decidendi, posto che si tratta di questioni indispensabili al fine di ricostruire l'iter argomentativo percorso dalla Corte al fine di pervenire alla soluzione del caso in concreto sottoposto alla sua attenzione. In particolare ciò vale per quanto attiene al profilo dell'idoneità del verbale a recepire atti concernenti beni immobili e a costituire titolo per la trascrizione, su cui nella specie era stato proposto uno specifico motivo di gravame contro la pronunzia d'appello.
Non è questo, invece, l'avviso di un autore (Angeloni 1997, 378 s., nota 11), secondo il quale gran parte delle affermazioni sopra evidenziate (se non addirittura ... tutta la sentenza) sarebbe costituita da meri obiter dicta.
 
Sembra invece essere favorevole alla tesi della documentabilità, nel verbale di se-parazione personale consensuale, con l'efficacia di atto pubblico, della costituzione o del trasferimento di diritti reali immobiliari, la decisione di Cass., 15 maggio 1997, n. 4306, in Mass. Foro it., 1997, nella cui motivazione (...) si afferma che nel contenuto eventuale del negozio di se-parazione (in senso ampio) andrebbero ricomprese le «pattuizioni necessarie ed op-portune, in relazione all'instaurazione di un regime di vita separata, a seconda della situazione familiare (affidamento dei figli; assegni di mantenimento; statuizioni econo-miche connesse)», ivi comprese le clausole «che riconoscano ad uno o ad entrambi i coniugi la proprietà esclusiva dei singoli beni mobili od immobili» (così Cass., n. 4306/ 97, cit.) ovvero comportino il trasferimento o l'impegno al trasferimento dei menzio-nati diritti «in favore di uno di essi al fine di assicurarne il mantenimento» (così Cass., n. 4306/97, cit.), poiché rientrerebbe «nel contenuto eventuale dell'accordo di separa-zione ogni statuizione finalizzata a regolare l'assetto economico dei rapporti tra i co-niugi in conseguenza della separazione, comprese quelle attinenti al godimento ed alla proprietà dei beni, il cui nuovo assetto sia ritenuto dai coniugi stessi necessario in re-lazione all'accordo di separazione e che il Tribunale con l'omologazione - non abbia considerato in contrasto con interessi familiari prevalenti rispetto a quelli disponibili di ciascuno di essi» (così Cass., n. 4306/97, cit.).
Sempre secondo la motivazione della citata decisione, l'inserimento, nel verbale di separazione personale consensuale, delle clausole costituenti il contenuto eventuale del negozio di separazione, attribuirebbe alle stesse la forma di atto pubblico, ai sensi dell'art. 2699 c.c., forma che sarebbe idonea a documentare anche delle donazioni di non modico valore, per le quali è prescritta la forma solenne dell'atto pubblico notarile con la presenza irrinunciabile dei testimoni (artt. 782, comma 1° c.c. e 48, comma 1° della 1. 16 febbraio 1913, n. 89), poiché, sotto il profilo formale, l'atto che documenta tali tra-sferimenti convenuti in sede di separazione personale consensuale è soggetto alla stessa forma prescritta dall'art. 711 c.p.c. per la documentazione del negozio di separazione (in senso stretto), forma che assorbe e sostituisce le altre forme eventualmente prescrit-te da altre disposizioni normative (in tale senso Cass., n. 4306/97, cit., secondo la quale tale atto è «disciplinato, in via esclusiva, dalla normativa speciale dell'art. 126 c.p.c.»). Una volta avvenuta l'omologazione che rende efficace il negozio di separazione (in sen-so stretto), tale atto pubblico costituirebbe anche titolo per la trascrizione, ai sensi dell'art. 2657 c.c., qualora documenti negozi che comportino il trasferimento o la costitu-zione di diritti reali immobiliari (in tale senso v. Cass., n. 4306/97, cit.).
Come risulta dal testo integrale della decisione (...) tutte le pre-dette affermazioni della S.C. costituiscono degli obiter dicta in quanto, nel caso di spe-cie, in cui si discuteva della validità della documentazione, in un verbale di separazio-ne personale consensuale, di un accordo che comportava il trasferimento da parte del-la moglie, cittadina italiana, a favore del marito, cittadino canadese al tempo del matrimonio, dei diritti che alla stessa spettavano su un immobile acquistato esclusivamente dal marito dopo la celebrazione del matrimonio, poiché, come esattamente os-servato dai giudici di prima istanza, in applicazione dell'art. 19 prel. c.c. 1942 (appli-cabile alla predetta fattispecie in quanto il giudizio era iniziato anteriormente al 1° set-tembre 1995, data di entrata in vigore della 1. 31 maggio 1995, n. 218 («Riforma del diritto internazionale privato»), che ha abrogato il previgente art. 19 prel. c.c. 1942 (in tale senso v. l'art. 72, comma 1° della 1. n. 218/95)), il cui primo comma disponeva che «i rapporti patrimoniali tra coniugi sono regolati dalla legge nazionale del marito al tempo della celebrazione del matrimonio» ed il cui secondo comma soggiungeva che «il cambiamento di cittadinanza dei coniugi non influisce sui rapporti patrimonia-li, salve le convenzioni tra i coniugi in base alla nuova legge nazionale comune», si sarebbe dovuta applicare la normativa dell'Ontario, che prevedeva il regime di sepa-razione dei beni, la moglie non aveva alcun diritto sul bene acquistato esclusivamente dal marito, che non poteva considerarsi caduto in comunione e, pertanto, non aveva senso disquisire della validità, sotto il profilo formale, di un negozio che sarebbe comunque da considerare inefficace, per difetto di legittimazione, in quanto la moglie aveva trasferito dei diritti di cui non era assolutamente titolare.
(Angeloni 1997, 378 s., nota 11).
 

La tesi riflette la prassi, assai diffusa in dottrina, di qualificare sistematicamente obiter dictum tutto ciò che d'una pronunzia non aggrada al commentatore.
Ora, se la Corte avesse veramente ritenuto inefficace il negozio concluso in sede di separazione, per avere la moglie disposto di diritti che non le spettavano (questa, se abbiamo bene inteso, è l'opinione dell'autore citato), lo avrebbe semplicemente detto in motivazione, o lo avrebbe comunque dato a intendere. In realtà il S.C. ha taciuto sul punto, e pour cause. Stando, invero, allo svolgimento del processo - almeno così come narrato dai Supremi Giudici - la questione della titolarità della quota sul bene che si sosteneva essere in comunione  era stata ritenuta assorbita in sede d'appello per effetto di quanto «dai coniugi stabilito in sede di separazione consensuale, dove era stata pattuita l'attribuzione al marito del diritto di proprietà sull'intero immobile in questione». In altri termini, i giudici di secondo grado, a torto o a ragione (ma in Cassazione l'argomento non poteva più interessare, essendosi formato il giudicato), avevano ritenuto la questione attinente all'operatività inter partes del regime patrimoniale della separazione dei beni vigente in Ontario (ed applicabile alla coppia in questione per effetto delle disposizioni allora in vigore di diritto internazionale privato) assorbita dal negozio dispositivo sui diritti in questione, negozio comunque compiuto dalla moglie in sede di separazione. Quest'ultima aveva quindi proposto ricorso contro la sentenza d'appello senza prospettare la questione della titolarità o meno della quota di comproprietà immobiliare e senza attaccare quel giudizio di assorbimento. Su tali temi, dunque, era inesorabilmente calato il sipario del giudicato allorquando la Cassazione s'accingeva ad esaminare i tre motivi di ricorso della moglie, esclusivamente incentrati sui temi dell'idoneità del verbale di separazione ad operare trasferimenti immobiliari e a costituire titolo per la trascrizione, della forma del verbale predetto e della relativa interpretazione, nonchè della disponibilità della quota in comunione legale.
La sopra riferita lettura della sentenza trascura dunque il fatto che, sul punto dell'esistenza o meno inter partes del regime di comunione legale, la Cassazione non aveva titolo ad intervenire. Essa trascura, soprattutto, di tenere in conto che la distinzione tra obiter dicta e rationes decidendi va impostata sulla base di quello che è stato - in concreto e volta per volta - il thema decidendum proposto al giudice. Come insegna, invero, autorevole dottrina (v. Galgano 1985, 701 ss., in partic. 717 s.), «la ratio decidendi va identificata alla stregua del caso deciso, ossia la lite come si presenta al giudice sulla base delle domande e delle eccezioni delle parti» (sul tema v., per analoghe osservazioni, Bin 1995, 141 ss., 148) e non già valutando la questione sostanziale in astratto, come se si dovesse emettere un parere pro veritate prima dell'inizio di una controversia.
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