Sezione III
La prestazione una tantum nella separazione
(da G. OBERTO, I contratti della crisi coniugale, Giuffrè, Milano, 1999, Cap. X, Sez. III)
 

16. L'accordo per la corresponsione in unica soluzione dell'assegno di mantenimento al coniuge separato. Gli argomenti su cui poggia la tesi favorevole.

L'interrogativo circa la possibilità di liquidare una tantum il diritto che il coniuge ha, ex art. 156 c.c., di "ricevere dall'altro coniuge quanto è necessario al suo mantenimento, qualora egli non abbia adeguati redditi propri" risulta per svariati versi legato a quello dei trasferimenti mobiliari ed immobiliari in occasione della separazione personale dei coniugi, al punto da convincere taluno ad argomentare l'(asserita) inammissibilità di questi dall'(asserita) inconciliabilità con il nostro sistema dell'adempimento tramite un'unica prestazione dell'obbligazione in discorso (cfr. per esempio Brienza 1990, 1410). L'argomento verrà adeguatamente sviluppato nella sede appropriata (cfr. infra, cap. XII); per il momento sarà invece opportuno occuparsi della possibilità di attribuzioni una tantum in generale, tenendo presente, quale fattispecie paradigmatica, quella della corresponsione di una somma di denaro. Al riguardo, è evidente che, una volta superato l'ostacolo concernente l'asserita non disponibilità del diritto al mantenimento del coniuge separato (cfr. supra, cap. IV), e dimostrata l'inapplicabilità dell'art. 160 c.c. alla crisi coniugale, in qualunque forma essa si manifesti (cfr. supra, cap. IV, §§ 17 ss.), il quesito di cui sopra va risolto lasciando il massimo spazio all'autonomia delle parti.

In dottrina non è raro trovare voci che ammettono la possibilità di liquidare in unica soluzione il diritto al mantenimento del coniuge separato (cfr. Bergamini 1974, 173 ss.; Zoppini 1990, 1325; A. Ceccherini 1991, 129 ss.; De Paola 1991, 233 ss.; Grassetti 1992, 720; Mantovani 1992, 19; Metafora 1992, 286 ss.; M. Palazzo 1993, 833 ss.; Dogliotti 1995, 97; Oberto 1995 177; A. Ceccherini 1996, 202 ss.; G. Ceccherini 1996, 403; Angeloni 1997 356 ss.; Sesta 1997, 150; contra Punzi Nicolò 1972, 94; Morozzo della Rocca 1989, 1399; Scardulla 1996, 366 s.), sulla base, in particolare, della considerazione dell'assenza di disposizioni ostative (cfr. per esempio A. Ceccherini 1991, 129 ss.; A. Ceccherini 1996, 202 ss.), ancorché questi pareri appaiano influenzati, in qualche caso, dalla considerazione della "libera" rivedibilità dell'accordo sulla base tanto di circostanze sopravvenute che di impugnative fondate sulla mancata rispondenza della prestazione pattuita a quella che sarebbe spettata per legge, sempre in considerazione del carattere (ad avviso di quegli autori) inderogabile del relativo diritto (così per esempio A. Ceccherini 1991, 129 ss.; A. Ceccherini 1996, 202 ss.; su quest'ultimo tema cfr. infra, in questo §).

Si sottolinea anche, correttamente, che la possibilità di liquidazione una tantum discende logicamente dal principio giurisprudenziale secondo cui, nella valutazione delle "circostanze e dei redditi dell'obbligato" - costituenti il parametro di determinazione dell'assegno, secondo l'art. 156, cpv., c.c. - deve tenersi conto non solo dei redditi, ma anche del patrimonio, ciò che postula, sul piano logico e su quello strettamente economico, l'ammissione del pagamento in unica soluzione. L'assenza di una previsione normativa in questo senso avrebbe la sola conseguenza che, nella separazione giudiziale, il giudice che ne venisse richiesto non potrebbe disporre un tale regolamento patrimoniale, se non vi fosse il consenso (anche soltanto tacito) della parte obbligata (così A. Ceccherini 1991, 130; A. Ceccherini 1996, 203).

Diversamente che nel caso dell'assegno di divorzio, una tale forma di adempimento dell'obbligo in questione non è espressamente prevista nella separazione legale, e la differenza non può essere considerata casuale. Nella prospettiva in cui si muove il legislatore, l'adempimento in unica soluzione si giustifica meglio nel caso del divorzio, dove appare coerente con l'estinzione del rapporto, che rende sotto alcuni profili opportuno e desiderabile un regolamento economico destinato ad esaurirsi definitivamente; nel caso della separazione, invece, la persistenza del vincolo introduce una tensione tra il perdurante rapporto personale e la estinzione, con unica soluzione, di un contributo al mantenimento pur sempre dovuto.

Non pare tuttavia che la determinazione in parola sia contraria a norme imperative. La giurisprudenza ha costantemente ribadito il principio secondo cui, nella valutazione delle "circostanze e dei redditi dell'obbligato" - costituenti il parametro di determinazione dell'assegno, secondo l'art. 156, cpv., c.c. - deve tenersi conto non solo dei redditi, ma anche del patrimonio. Il principio è da condividere, data l'ampia formula usata dal legislatore, ma si deve ammettere che la quantificazione di un assegno periodico sulla base di dati attinenti al patrimonio - piuttosto che al reddito - non è affatto agevole, e presuppone implicitamente una liquidazione - parziale o totale - delle attività che non è sempre possibile, se non a prezzo di perdite. Proprio in questi casi, la valorizzazione del patrimonio ai fini del mantenimento postulerebbe, sul piano logico e su quello strettamente economico, l'ammissione del pagamento in unica soluzione. L'assenza di una previsione normativa in questo senso ha la sola conseguenza che, nella separazione giudiziale, il giudice che ne venisse richiesto non potrebbe disporre un tale regolamento patrimoniale, se non vi fosse il consenso (anche soltanto tacito) della parte obbligata.

(...)

La tutela economica del coniuge che non dispone di adeguati redditi propri si attua, dunque, solo normalmente - e non necessariamente - attraverso l'attribuzione di un assegno periodico di mantenimento. Soprattutto nel caso del trasferimento immobiliare, non si può escludere che la soluzione unica si riveli più vantaggiosa per lo stesso creditore; e neppure che essa, tenuto conto delle effettive possibilità dell'obbligato (i cui redditi non consentano il pagamento di un assegno periodico adeguato, ma il cui patrimonio offra la possibilità di un trasferimento immobiliare), sia l'unica forma di adempimento effettivamente possibile.

(A. Ceccherini 1991, 129 s.; A. Ceccherini 1996, 202 s.).

La Cassazione, dal canto suo, ha sempre ammesso tale possibilità, a partire quanto meno da una pronuncia del 1972 che verrà compiutamente analizzata nella parte del presente volume dedicata ai trasferimenti mobiliari ed immobiliari (Cass. 25.10.1972, n. 3299, citata e riportata supra, cap. VI, § 2 e infra, cap.XII, § 6).

Qualora tra i coniugi si convenga, con pattuizione facente parte dell'accordo di separazione consensuale, che l'obbligazione di mantenimento sia adempiuta, anziché a mezzo di una prestazione patrimoniale periodica, con l'attribuzione definitiva di beni, mobili o immobili, o di capitali in danaro, l'esecuzione di tale attribuzione estingue totalmente e definitivamente l'obbligazione.

Si tratta, infatti, di un assetto di interessi che rimane nell'ambito della discrezionale ed autonoma determinazione dei coniugi stessi, i quali entrambi, e non soltanto il conferente, come sembra ritenere la sentenza impugnata, assumono a proprio carico il rischio economico della sopravvenienza di situazioni che rendano l'attribuzione inadeguata, in difetto o in eccesso.

(Cass. 25.10.1972, n. 3299).

 

17. Le obiezioni sollevate da una parte della dottrina e la relativa confutazione: asserita indisponibilità del diritto; asserita incompatibilità della liquidazione una tantum con la permanenza dell'obbligo alimentare.

Non tutti sono però d'accordo sulla possibilità di liquidare una tantum l'assegno di mantenimento. Un primo gruppo di voci contrarie si fonda sull'asserito carattere indisponibile del diritto in discorso per via della ritenuta applicabilità alla fattispecie dell'art. 160 c.c. (cfr. per esempio Tondo 1990, 438 ss.; Angeloni 1991, 972; Scardulla 1996, 366 ss.). A questi argomenti si è già avuto modo di replicare ampiamente nel capitolo dedicato al tema della disponibilità degli assegni di separazione e di divorzio, cui non rimane che fare rinvio (cfr. supra, cap. IV, §§ 17 ss.).

Altri autori ritengono invece di potere desumere l'inammissibilità della liquidazione una tantum da una sua presunta incompatibilità con la permanenza dell'obbligo alimentare tra separati (così Scardulla 1996, 367 ss.).

Proprio la natura e la finalità dell'assegno a favore del coniuge separato rendono incompatibile il dovere di corresponsione dello stesso con una corresponsione una tantum che implica, come la stessa Cassazione precisa nella ricordata sentenza, il rischio economico della sopravvenienza di situazioni che rendano l'attribuzione inadeguata, in difetto o in eccesso, e si traduce in una rinuncia al diritto alla modifica delle condizioni della separazione. Aspetto questo del quale, nella più volte citata sentenza, la Cassazione pur si è preoccupata sostenendo, con una motivazione non convincente, che l'insorgenza dell'obbligazione di alimenti non genera alcun effetto sull'obbligazione di mantenimento se estinta.

Ma il punto non accettabile di tale argomentazione è proprio questo: come può un diritto agli alimenti essere invocato quando esso è stato già abbondantemente soddisfatto con la corresponsione convenzionale una tantum di un assegno di mantenimento che è da presumere abbia avuto una così vasta portata da soddisfare ogni eventuale futura pretesa alimentare che, come sappiamo, ha un contenuto più modesto che l'assegno di mantenimento? E come può la definizione convenzionale una tantum essere compatibile con il principio della non variabilità delle condizioni rebus sic stantibus che impone quindi la possibilità della modificazione delle condizioni anche riguardo al mantenimento?

(Scardulla 1996, 367 ss.).

L'obiezione è però agevolmente superabile sulla base della considerazione del carattere indisponibile del diritto agli alimenti, da un lato, e dei criteri da seguire per la determinazione dello stato di bisogno dell'alimentando, dall'altro. Così, è chiaro che l'effettuazione di una prestazione una tantum di consistente rilevanza andrà tenuta in conto nel caso essa abbia determinato un persistente incremento patrimoniale a beneficio dell'alimentando, a meno che i cespiti ricevuti non risultino inidonei a procurare un reddito sufficiente, ovvero appaiano insuscettibili di parziali alienazioni. La Cassazione ha del resto già stabilito (cfr. Cass. 16.1.1981, n. 51) che "Il diritto del coniuge separato agli alimenti, ai sensi degli artt 156, 3° co., 433 e 438 cod civ, postulando uno stato di bisogno che il coniuge medesimo non è in grado di rimuovere, non può essere escluso per il solo fatto che egli sia proprietario di immobili, ove questi non risultino, alla stregua di ogni concreta circostanza, idonei a procurare un reddito sufficiente, ovvero suscettibili di parziali alienazioni". In particolare, permarrà lo stato di bisogno quando l'alienazione dei beni in proprietà dell'alimentando si tradurrebbe in un espediente rovinoso e atto a soddisfare solo temporaneamente i bisogni dell'esistenza, dando luogo, successivamente, ad un vero e proprio stato di indigenza: Cass. 19.7.1965, n. 1614; Cass. 17.5.1968, n. 1557, FI, 1968, I, 1784; secondo Cass. 4.7.1983, n. 4468 lo stato di bisogno non è escluso dal semplice fatto di essere comproprietario di un bene (casa familiare) improduttivo di un reddito e fonte di spese di gestione.

 

17.1. Segue. Il richiamo all'art. 1879 c.c.

Altri autori ritengono invece di poter trovare un argomento per la tesi negativa nel silenzio del legislatore, silenzio che sarebbe tanto più significativo se comparato alle espresse previsioni di cui agli artt. 1879 c.c. (così Angeloni 1991, 972) o 5, 8° co., l.div. (sugli argomenti desumibili da tale disposizione v. il § seguente).

Ma, per quanto concerne il richiamo alla prima delle norme citate, va obiettato che è proprio la presenza di un espresso divieto normativo, per il debitore della rendita vitalizia, di liberarsi dal pagamento della rendita stessa offrendo il rimborso del capitale, a rendere necessaria l'esplicitazione della possibilità d'un "patto contrario"; eventualità, questa, resa invece superflua dal generale principio di autonomia contrattuale laddove difetti una norma del genere di quella che, nell'art. 1879 c.c., fa divieto al debitore di una prestazione periodica di liberarsi offrendo "il rimborso del capitale". Contrariamente rispetto a quanto affermato dalla tesi qui criticata, dunque, la mancanza di una norma che autorizzi expressis verbis un patto diretto alla liquidazione in unica soluzione dell'assegno di separazione non autorizza a concludere per la soluzione negativa, specie in difetto di una disposizione che, nella materia in esame, ponga (come stabilito invece dall'art. 1879 c.c.) la regola della necessaria periodicità della prestazione.

 

17.2. Segue. L'argomento a contrario riferito all'art. 5, 8° co., l.div. e la funzione "liquidatoria" della separazione.

Altri autori, si diceva nel § precedente, hanno fatto riferimento all'art. 5, 8° co., l.div.: così Liserre 1975, 493; Tondo 1990, 440 s.; Scardulla 1996, 366 ss.; sull'assenza di una norma ad hoc circa la corresponsione una tantum si fonda anche Trib. Catania 1.12.1990, DFP, 1991, 1010, che si riferisce però al solo caso dell'assegno per la prole minorenne; contra, sempre con riguardo all'assegno ex art. 155 c.c., cfr. App. Milano 6.5.1994, FD, 1994, 667 (entrambe le pronunzie sono riportate infra, cap. X, §§ 16 s.).

Abbiamo a suo luogo notato che, mentre a stregua dell'art. 5 (comma 4°) della legge 898/1970 la corresponsione dell'assegno di divorzio "può avvenire", "su accordo delle parti", "in una unica soluzione", una tale possibilità non è stata prevista dalla disciplina dell'art. 156 c.c. nov., ch'è pur posteriore (legge 19 maggio 1975 n. 151), per la configurazione dell'assegno di separazione. E un siffatto silenzio, seppur non determinante per far concludere a una volontà legislativa contraria, dovrebbe quanto meno indurre a una valutazione comparativa seriamente impegnata.

Torniamo così per un momento alla disciplina dell'assegno di divorzio. Dovrebbe risultare chiaro, in relazione a quanto a suo luogo esposto, che tale assegno, pur rispondendo a una funzione multipla (tra cui anche quella assistenziale), ha un senso complessivamente liquidatorio, ponendosi a espressione sì d'una perdurante esigenza di solidarietà (in corrispondenza di quello ch'era stato un progetto di comunanza di vita) ma non d'una pretesa sopravvivenza d'obblighi matrimoniali (stante il riconosciuto e definitivo naufragio del progetto stesso). Donde, in perfetta coerenza, la plausibilità che, in alternativa alla normale configurazione sotto specie di prestazione periodica (somministrazione), ne venisse prevista la configurabilità eccezionale (art. 5 comma 4° legge 898/1970 "Su accordo delle parti ..."), sotto specie di corresponsione "in una unica soluzione" (e, quindi, anche sotto specie di dazione di beni determinati).

E, d'altro canto, non difficile intendersi sulla plausibilità d'una diversa disciplina per l'assegno di separazione. Abbiamo qui a che fare con uno stato intrinsecamente provvisorio, cui i coniugi stessi possono porre liberamente fine, senza bisogno di formalità particolari, "con una espressa dichiarazione o con un comportamento non equivoco che sia incompatibile con lo stato di separazione" (art. 157 nov. cfr. art. 157 c.c. 1942). Donde, se non altro, la plausibilità che, a riguardo del corrispondente assegno, non sia stata prevista la configurabilità sotto specie di corresponsione unica, che abbiamo visto corrispondere, diversamente da quello che è il carattere della separazione stessa, a un significato essenzialmente liquidatorio.

Ed è appena necessario soggiungere che tale considerazione non potrebbe mai essere scossa dal fatto che la legge 898/1970 contemplava la separazione legale - in quanto protratta per un certo numero di anni (5 o 7 ex art. 3) - quale causa, che nella pratica era destinata a divenire assolutamente prevalente, dello scioglimento del matrimonio (divorzio). Va anzi tenuto conto che allora come ora, rispetto alla separazione stessa, il divorzio non viene affatto come conseguenza automatica e inevitabile, ma essa appare piuttosto voluta, nell'interesse della stessa serietà della propria determinazione, a stregua d'una congrua fase di riflessione, in vista di possibili ripensamenti.

Donde, a conti fatti, viene a emergere, insieme con la plausibilità della diversità delle rispettive discipline, anche la ragione specifica che sembra escludere per l'assegno di separazione, diversamente che per quello di divorzio, la eccezionale configurazione in corresponsione unica.

(Tondo 1990, 440 s.).

Al riguardo si avrà innanzi tutto modo di vedere, nella sede appropriata (cfr. infra, § 23, in questo cap.), come tale disposizione non concerna se non l'ipotesi della procedura ordinaria di scioglimento o cessazione degli effetti civili, trovando invece la liquidazione una tantum in sede di divorzio su domanda congiunta la propria giustificazione nel principio generale di libertà contrattuale, oltre che di libera rinunziabilità e determinabilità dell'assegno, principio che, per le ragioni più volte esposte, si esplica anche nel campo dei rapporti patrimoniali tra separati. Né sembra che l'esclusione della liquidabilità con un'unica prestazione dell'assegno di mantenimento possa ulteriormente argomentarsi dal "senso complessivamente liquidatorio" che l'assegno di divorzio avrebbe rispetto a quello di separazione (così invece Tondo 1990, 440 s.; di una funzione di "cristallizzazione" delle condizioni patrimoniali propria del solo divorzio parla Liserre 1975, 493 ss.; nello stesso senso cfr. anche Punzi Nicolò 1972, 90 ss.; in giurisprudenza v. Trib. Napoli 16.3.1990, DG, 1990, 483).

G. C. e R. S. si sono separati consensualmente e fra le convenzioni omologate hanno previsto la corresponsione di un assegno di mantenimento da parte del C. in favore della S. di lire 200.000 mensili; con scrittura privata del 17 novembre 1989 - constatata la raggiunta autosufficienza economica della S. nonché l'avvenuta corresponsione alla stessa "a titolo di liquidazione" della somma di lire 7.000.000 - hanno sancito la estinzione di qualsiasi obbligazione a contenuto patrimoniale da parte del C. nei confronti della S., connessa allo stato coniugale.

Con il ricorso chiedono al Tribunale di conformarsi a tali pattuizioni modificando, perciò, per l'obbligazione di mantenimento, le pattuizioni intervenute in sede separatoria.

Il Tribunale non può emettere il provvedimento richiestogli.

(...)

Né suggestioni interpretative possono derivare dalla regola sancita dal co. 8° a. 5 l. div. che consente soluzioni liquidatorie, attesa la sua specifica attinenza al terreno divorzile ove trovano giusta collocazione le opzioni per regolamentazioni definitive e finali fra gli ex-coniugi.

E deve aggiungersi che - nonostante l'innegabile tendenza legislativa a ricondurre il mantenimento del vincolo coniugale sino a quando esso sia frutto di una opzione bilateralmente responsabile con la possibilità di attivare meccanismi che congiunti ad automatismi temporali portano alla sua dissoluzione - non può ritenersi che il legislatore abbia degradato la vicenda separatoria ad un preliminare necessario per un approdo ineluttabile, con la possibilità di adottare regole e costumi di una fase già postconiugale.

Al contrario, la fase separatoria conserva - nell'attuale legislazione - ancora il suo effetto di rimedio sperimentale, non definitivo.

Con la sussistenza ancora delle dimensioni etico-giuridiche del vincolo permanente, compresa in esse la periodicità della prestazione patrimoniale intesa come comportamento ancora dirimente fra la fase separatoria e quella postconiugale.

Sicché, la soluzione liquidatoria in costanza del vincolo - che denuncia una tendenza alla omologazione fra profili lavoristici-imprenditoriali e doveri familiari (il C. versa L. 7.000.000, si legge nella predetta scrittura) - non può, per manifesta contrarietà ai predetti principi ordinamentali, esser ratificata dal Tribunale.

(Trib. Napoli 16.3.1990).

L'evoluzione sociale e legislativa di cui si è dato conto (cfr. supra, cap. I, §§ 15 ss.) ha fatto perdere alla separazione il suo carattere originario di situazione temporanea diretta alla riconciliazione, sostituendovi una valenza più marcatamente liquidatoria: vuoi perchè le parti intendono la separazione come una semplice Wartezeit (o ... Wartezimmer) in vista del divorzio, e dunque tendono ad anticipare in tale sede la soluzione di ogni questione legata alla dissoluzione del legame, vuoi perchè lo stato di coniugi separati "sta bene" ad entrambe le parti, che hanno nel frattempo trovato un'adeguata sistemazione sul piano personale e patrimoniale e non avvertono il bisogno di "consacrare" in altro modo la definitiva rottura del vincolo affettivo (sulla funzione autonoma della separazione rispetto al divorzio v. Perlingieri 1979, 771 ss.; Mantovani 1992, 13; Metafora 1992, 286 ss.; Lipari 1996, 12 s.; per i richiami alla dottrina in materia di funzione della separazione legale v. Angeloni 1997, 122 s., secondo cui possono ricorrere nella separazione personale svariate funzioni o finalità secondarie).

Tale argomento, come già detto, non sembra decisivo per escludere l'ammissibilità di un'attribuzione traslativa una tantum e ciò perché è contraddetto dalla più convincente osservazione di chi ha posto l'accento sulla circostanza che, per quanto la separazione possa rivestire il carattere di situazione ponte tra la ricostruzione della comunione di vita ovvero lo scioglimento definitivo della stessa, deve, del pari, riconoscersi che la stessa gode di una sua propria autonomia in relazione agli obblighi che gravano su entrambe le parti.

Si è avuto modo di chiarire che la separazione presenta i caratteri propri di una situazione ponte che può evolvere tanto nel senso della riconciliazione dei coniugi quanto del definitivo scioglimento del vincolo coniugale.

Da tale premessa, non può trarsi altro convincimento che, essendo la separazione funzionale ad esiti opposti, in realtà, la stessa è situazione giuridicamente rilevante in sé e per e, che prescinde, come dalla riconciliazione dei coniugi, così dallo scioglimento del vincolo coniugale.

A buon diritto, può, allora, configurarsi la separazione come rimedio alternativo al divorzio, atteso che nulla vieta ai coniugi di protrarsi, anche oltre il periodo funzionalmente idoneo per la riflessione circa le sorti del matrimonio, usque ad exitum vitae lo stato di separazione, tenendo in vita, per motivi che non è dato di sindacare, volontariamente il vincolo coniugale, così come scarnificato dalla cessazione della convivenza.

Queste argomentazioni consentono, perciò, di affermare che la periodicità non va considerata come un requisito imprescindibile dell'obbligo di mantenimento e ciò perché alla vicenda separatoria va riconosciuta una propria autonomia funzionale che fa escludere che essa sia strumentale alla riconciliazione dei coniugi.

(Metafora 1992, 287 s.).

Quanto sopra risulta del resto confermato, sul piano statistico, dal fatto che una quota rilevante delle separazioni legali, superiore al 40%, non viene affatto convertita in divorzio (v. Maggioni 1997, 234), così manifestando il ruolo di "surrogato" dello scioglimento del vincolo che l'istituto in questione è venuto ad assumere. Un "surrogato", si badi, che del proprio modello tende ad assumere un sempre maggior numero di caratteristiche (si veda al riguardo per tutti l'interessante analisi di V. Carbone 1994a, 267 ss. che attribuisce alla separazione la residua funzione di "elemento propedeutico o preliminare di una fattispecie a formazione successiva che porta alla definitiva dissoluzione del matrimonio"; in quest'ottica si colloca anche Lipari 1996, 13; contrario all'applicabilità alla separazione di regole ed istituti propri del divorzio si dichiara invece Perlingieri 1979, 771 ss.; per ulteriori richiami v. inoltre Larizza 1997, 711 ss.). L'evoluzione, anzi, è giunta a tal punto da indurre ormai la dottrina più sensibile ad interrogarsi - come si è già visto (cfr. supra, cap. IV, § 2) - sulla perdurante utilità della stessa esistenza (o, per lo meno, dell'esistenza quale presupposto indispensabile per lo scioglimento del vincolo matrimoniale) della separazione legale.

Non deve dunque stupire che la tendenza delle coppie in crisi sia quella di attribuire agli accordi di separazione valenza liquidatoria dell'unione coniugale, regolando in tale sede tutti i possibili punti di disaccordo ed espressamente estendendo l'efficacia dell'intesa al momento dello scioglimento del vincolo tramite pattuizioni cui - come si è cercato di dimostrare - va riconosciuta pieno diritto di cittadinanza nel nostro sistema (cfr. supra, cap. V).

Si noti poi che, se si volesse invece rifiutare la tesi qui esposta, continuando ad attribuire (erroneamente) alla separazione la normale funzione di una sorta di "terapia del matrimonio in crisi in funzione di un'ipotetica riconciliazione" (in questi termini v. criticamente Angeloni 1997, 360) in vista del pieno ristabilimento della comunione di vita e d'affetti propria del matrimonio, si potrebbe comunque sempre argomentare proprio dalla presenza di una norma come l'art. 5, 4° co., l.div., per dire che solo nel divorzio ha senso una disposizione diretta a risolvere in maniera definitiva i rapporti tra le parti (così Zatti 1982, 233). L'assenza di una siffatta previsione nel campo della separazione si giustificherebbe, dunque, anche se si volesse negare il carattere liquidatorio dell'istituto, ciò che non escluderebbe ancora la possibilità per le parti di operare diversamente usufruendo di quella libertà negoziale che anche nel campo della crisi coniugale deve trovare, come si è visto, il suo pieno svolgimento.

Circa le modalità di corresponsione, si può ammettere, a mio parere, la soluzione una tantum, prevista, per il divorzio, dall'art. 5, 4° comma, della legge 1-12-1970, n. 898. La circostanza che non sia stata disposta norma analoga per la separazione può far dubitare della ammissibilità, non tanto per un argomento a contrario del tipo ubi lex voluit, dixit, poco adeguato al tenore delle norme in tema di separazione, quanto perché si potrebbe dire che solo nel divorzio ha senso una disposizione diretta a "chiudere" i rapporti tra le parti.

(Zatti 1982, 233).

 

18. Attribuzioni una tantum e carattere rebus sic stantibus degli accordi di separazione.

Obiezioni sull'ammissibilità delle intese una tantum potrebbero, infine, essere sollevate avuto riguardo al carattere rebus sic stantibus che - come noto - viene concordemente attribuito agli accordi circa la determinazione dell'assegno di mantenimento tra separati: sul punto cfr. Cass. 13.4.1960, n. 860, GC, 1960, I, 1371; GI, 1961, I, 1, 843, con nota di Jemolo; FI, 1960, I, 951; Cass. 30.1.1961, n. 173, FI, 1961, I, 438; Cass. 21.3.1963, n. 690; Cass. 28.2.1966, n. 616, FI, 1966, I, 1841; Cass. 19.8.1969, n. 3006; Cass. 22.10.1969, n. 4025; Cass. 29.10.1971, n. 3046; Cass. 8.7.1983, n. 4612, GI, 1983, I, 1, 1795; DFP, 1983, 990; Cass. 7.3.1990, n. 1800; in dottrina v. per tutti Angeloni 1997, 318 ss.

Al riguardo andrà subito detto che questa caratteristica non sembra di per sé inconciliabile con la liquidazione in unica soluzione dell'assegno. Ben potrebbe, quanto meno in teoria, ammettersi il coniuge successivamente "svantaggiato" dal mutamento dei rapporti tra la sua situazione patrimoniale e quella dell'altro a richiedere un'integrazione (o una riduzione, se il mutamento in pejus concernesse l'autore dell'attribuzione) della prestazione sulla base della dimostrazione del mutamento delle circostanze ex artt. 158 c.c. e 710 c.p.c. (in questo senso sembrano orientati Liserre 1975, 492 ss.; Zatti 1982, 233; A. Finocchiaro, M. Finocchiaro 1984, 646 s.; A. Ceccherini 1991, 130 s.; Barbiera 1993, 60; A Ceccherini 1996, 207 ss.; Doria 1996, 257, nota 102), se non addirittura - secondo quanto ritenuto da taluno (cfr. per esempio Liserre 1975, 492 ss.; A. Ceccherini 1991, 130 s.; A Ceccherini 1996, 207 ss.) - sulla base della semplice dimostrazione della nullità dell'accordo per violazione delle disposizioni ritenute inderogabili (e segnatamente dell'art. 160 c.c.) circa la determinazione della misura dell'assegno di mantenimento.

Come si è però già visto (cfr. supra, cap. IV, § 22), è la stessa clausola rebus sic stantibus a trovarsi nel potere di libera determinazione delle parti ed anzi, l'eventuale liquidazione una tantum delle pretese di un coniuge appare a tal punto logicamente inconciliabile con essa da indurre a ritenere (salva, ovviamente, la possibilità di evincere la presenza di una volontà contraria ex artt. 1362 ss. c.c.) che i contraenti abbiano inteso escludere l'operatività dei rimedi legati alla sopravvenienza (esplicitamente in questo senso cfr. Cass. 25.10.1972, n. 3299, GC, 1973, I, 221; GC, 1974, I, 173, con nota di Bergamini; l'argomento sarà ripreso e sviluppato infra, cap. XII, § 6, 37, con riferimento alle attribuzioni consistenti nel trasferimento di uno o più beni).

Né infine sembra il caso di scomodare principi di carattere costituzionale per accertare se la prestazione di cui qui si discute debba necessariamente possedere il carattere della periodicità (così invece Liserre 1975, 492 s.).

Ben diversamente, constatato che il potere di autodeterminazione dei coniugi è fortemente limitato dalla necessità di assicurare, anche nei loro reciproci rapporti patrimoniali, il rispetto di vincolanti princìpi, si tratta di stabilire se il tradizionale carattere periodico della prestazione di mantenimento del coniuge separato possa eventualmente risultare, pure in difetto di specifiche e risolutrici indicazioni legislative, imprescindibilmente ordinato alla giusta attuazione di quei princìpi.

In questa prospettiva è certamente pertinente ricordare che, secondo quanto già per l'innanzi rilevato, (il momento del)la separazione non determina una "cristallizzazione" delle relazioni patrimoniali tra i coniugi: ed invero questi, benché separati, sono ugualmente tenuti a prestarsi una specifica solidarietà in attuazione della quale si giustifica ampiamente e viene (infatti) unanimemente condiviso il buon diritto del coniuge più debole ad una continua partecipazione all'evolversi delle fortune economiche dell'altro.

Se ciò è vero è altresì evidente che l'adempimento definitivo in un'unica soluzione della prestazione di mantenimento implica una difficile ed in ogni caso azzardata previsione delle future vicende economiche dei coniugi separati, prospettando così una difficoltà non secondaria e certamente non registrabile nel caso, invece, di una somministrazione periodica (e quindi rivedibile) della medesima prestazione.

(Liserre 1975, 492 s.).

Al contrario, proprio il criterio costituzionale della parità tra marito e moglie, lungi dall'imporre uno specifico mezzo di assolvimento delle prestazioni cui è soggetta una parte in caso di crisi coniugale (in questo senso sembra orientato anche Bin 1971, 317), comporta - anche alla luce dell'evoluzione sociale e giuridica di cui si è dato conto - la necessità del pieno rispetto dell'autonomia delle parti nella valutazione di quale sia la forma di liquidazione dell'assegno di separazione più consona alle rispettive esigenze, abbandonando ogni possibile mortificazione dell'autonoma iniziativa di due soggetti cui lo stato coniugale non può e non deve imporre alcuna forma di incapacità. 1