Sezione VII

L’assegnazione per via contrattuale dell’abitazione nella casa familiare:

i rapporti con la comunione legale tra coniugi

31. Attribuzione convenzionale dell’abitazione nella casa familiare e comunione legale tra coniugi. Le più risalenti pronunzie di merito.

In sede di accordi di separazione o divorzio i coniugi possono anche prevedere alcuni accorgimenti idonei ad evitare (o, per lo meno, a limitare) quelle interferenze tra l’assegnazione della casa coniugale e la divisione della medesima di cui ha già avuto modo di occuparsi la giurisprudenza. Sovente accade infatti che l’immobile, già caduto in comunione legale o convenzionale (artt. 177, 210 c.c.), si venga a trovare in una situazione di comunione ordinaria, a seguito del verificarsi di una causa di scioglimento del regime patrimoniale previgente: causa di scioglimento costituita, il più delle volte, proprio da quella separazione personale in seno alla quale è stata operata l’assegnazione (cfr. art. 191 c.c.; in generale sullo scioglimento del regime legale cfr. per tutti Corsi 1979, 171 ss.; Rossi Carleo 1989, 863 ss.; sui rapporti tra scioglimento del regime legale e i contratti della crisi coniugale v. inoltre le considerazioni che verranno svolte infra, cap. IX, § 1 ss.; per la prospettazione di un analogo problema con riguardo alla convivenza more uxorio v. Trib. Milano 23.1.1997, FD, 1997, 560, con nota di V. Carbone).

La compresenza di queste situazioni ha infatti dato luogo ad alcuni problemi che potranno essere qui di seguito brevemente illustrati.

Il primo ha formato oggetto di un obiter in cui la Cassazione (Cass. 9.12.1983, n. 7303, FI, 1984, I, 419) si è posta d’ufficio l’interrogativo se per caso lo scioglimento del regime legale conseguente alla separazione personale dei coniugi (art. 191 c.c.), con la successiva divisione della massa comune, potesse costituire un ostacolo all’assegnazione della casa familiare (intesa come comprensiva anche del relativo arredo). Il dubbio è stato superato sulla base dell’esatta considerazione per cui "la disciplina dell’assegnazione prescinde dall’appartenenza dei beni alla comunione; talché appare evidente che i due istituti operano su piani diversi".

Se ciò è vero la considerazione dovrebbe allora valere anche nell’ipotesi reciproca: in altri termini, l’intervenuta assegnazione in favore di un coniuge non dovrebbe essere d’ostacolo (non solo, come è ovvio, all’operatività di una causa di scioglimento del regime legale, ex art. 191 c.c., ma anche) alla divisione dell’alloggio comune, cioè già in comunione legale (o convenzionale) e ora in comunione ordinaria. La giurisprudenza di merito si è però orientata, nelle sue decisioni più risalenti, in senso diametralmente opposto. La ragione è stata il più delle volte individuata in una sorta di pactum de non petendo implicito nell’attribuzione convenzionale del diritto d’abitazione, in forza del quale il coniuge non assegnatario si impegnerebbe implicitamente a non compiere alcun atto limitativo del godimento assegnato all’altro. Ora, la richiesta di divisione in natura tenderebbe ad alterare, ridurre o comunque pregiudicare il diritto di godimento abitativo dell’assegnatario; d’altro canto, la domanda di divisione mediante alienazione del bene e ripartizione del ricavato potrebbe portare alla perdita della detenzione dell’immobile, "poiché il vincolo di destinazione, avente natura obbligatoria, non è pubblicizzato mediante trascrizione o annotazione, e non sarebbe per ciò opponibile ai terzi acquirenti" (cfr. Trib. Roma 4.4.1985, TR, 1985, 963; DFP, 1985, 629; analogamente cfr. Trib. Milano 25.5.1986, C.E.D. – Corte di cassazione, Arch. MERITO, pd. 880105; Trib. Genova 19.9.1986, C.E.D. – Corte di cassazione, Arch. MERITO, pd. 870011, secondo cui l’assegnazione imprimerebbe all’immobile una peculiare "destinazione d’uso", tale da impedirne la divisione, ex art. 1112 c.c.; Trib. Monza 21.4.1989, GC, 1989, I, 2199; Trib. Monza 24.10.1991, GC, 1992, I, 539; DFP, 1989, 173; FI, 1989, I, 542; per una panoramica cfr. anche Tafuro 1994, 704 ss.).

Molte domande giudiziali di divisione sono così state dichiarate inammissibili (cfr. Trib. Roma 4.4.1985, TR, 1985, 963; DFP, 1985, 629; Trib. Genova 19.9.1986, C.E.D. – Corte di cassazione, Arch. MERITO, pd. 870011; Trib. Monza, 21.4.1989; Trib. Monza 24.10.1991, GC, 1992, I, 539; DFP, 1989, 173; FI, 1989, I, 542), mentre in un caso si è concessa una dilazione della divisione per un quinquennio (Trib. Milano 25.5.1986, C.E.D. – Corte di cassazione, Arch. MERITO, pd. 880105).

La Corte di cassazione, per contro, non sembra essersi fatta carico delle predette considerazioni; essa, a quanto risulta, si è limitata ad oggi a dichiarare corretta la decisione di un giudice di merito che, richiesto della divisione di un immobile in comproprietà di due coniugi giudizialmente separati, aveva attribuito l’intera unità indivisibile alla moglie, alla quale il bene era stato assegnato in sede di separazione a titolo di parziale mantenimento suo e della figlia, in considerazione delle condizioni economiche della moglie stessa ritenute deteriori rispetto a quelle del marito (cfr. Cass. 18.8.1981, n. 4938). A ciò s’aggiunga che, prima della riforma del 1975, la stessa Corte aveva stabilito che la domanda di scioglimento della comunione esistente tra i coniugi in ordine ad un immobile non è incompatibile con il provvedimento emesso a norma dell’art. 708 c.p.c. in sede di separazione personale, con il quale lo stesso immobile sia stato assegnato per intero in godimento al marito, atteso il carattere temporaneo e provvisorio dei provvedimenti presidenziali (Cass. 24.5.1963, n. 1360, GC, 1963, I, 1516).

Il ricorso non merita accoglimento. Con il primo mezzo si ripropone la questione della incompatibilità tra la domanda di scioglimento della comunione esistente tra i coniugi in ordine all’immobile in oggetto ed il provvedimento emesso in sede di separazione personale tra i coniugi, con il quale l’immobile medesimo veniva per intero assegnato in godimento al marito: si sostiene dal ricorrente che la domanda di scioglimento della comunione verrebbe, se accolta, a rimuovere ed a disconoscere gli effetti del provvedimento suddetto, che solo il giudice della separazione può far cessare nei limiti di legge. Il che non pare esatto. Vero che il provvedimento provvisorio presidenziale che assegna la casa di abitazione in godimento ad uno solo dei coniugi può essere modificato soltanto nel corso del procedimento di separazione, nei casi previsti dalla legge, ma ciò non può avere influenza sulla decisione del caso di specie. Il provvedimento presidenziale e le sue eventuali modificazioni o precisazioni riguardano esclusivamente il regime temporaneo e provvisorio relativo alla convivenza dei coniugi sotto il medesimo tetto ed il godimento pure temporaneo e provvisorio della casa coniugale. Essi quindi non possono avere niuna influenza sulla determinazione definitiva della titolarità dell’immobile che potrà spettare all’uno o all’altro dei due coniugi o ad entrambi in comunione, senza che perciò possa esserne intaccato quel regime temporaneo che si inspira ad altri e diversi criteri, quali la possibilità o meno che entrambi i coniugi rimangano sotto lo stesso tetto durante il giudizio di separazione. La possibilità per essi di trovare altrove alloggio, l’affidamento temporaneo della prole e la necessità che questa rimanga nella stessa casa insieme al genitore cui è stata affidata. Il che nulla ha a che vedere in ordine alla proprietà dell’immobile medesimo. Onde esattamente il giudice del merito ha ritenuto che ben poteva essere richiesto lo scioglimento della comunione, cioè ben poteva decidersi sulla titolarità e sulla proprietà della casa, senza che ciò di per sé significasse revoca dei provvedimenti provvisori.

(Cass. 24.5.1963, n. 1360).

 

32. Considerazioni critiche sulla giurisprudenza di merito più risalente.

Le perplessità espresse dai giudici di merito nelle pronunce testé passate in rassegna non sembrano condivisibili. In primo luogo, infatti, occorre dire che la possibilità di una divisione in natura di un immobile è normalmente assai remota: per lo più la divisione si attuerà materialmente mediante assegnazione all’uno o all’altro, ovvero a mezzo vendita all’incanto del bene (artt. 1111 ss., 713 ss., 720 c.c., 788 ss. c.p.c.).

Ma anche in quest’ultimo caso l’opponibilità del diritto di abitazione, oggi garantita alle condizioni già più volte illustrate in ogni ipotesi di assegnazione (cfr. supra, §§ 11, 23, in questo cap.), dovrebbe fugare i timori espressi dalla giurisprudenza: in fin dei conti il meccanismo previsto dall’art. 1599 c.c. (opponibilità entro il novennio legata al mero requisito dell’atto avente data certa; opponibilità oltre il novennio legata al presupposto della trascrizione), anche se dettato in relazione al caso della vendita, dovrebbe sicuramente applicarsi all’acquisto operato a seguito di divisione (arg. ex art. 2646 c.c.).

D’altro canto è assolutamente pacifico che l’esistenza di un’assegnazione in capo al coniuge non proprietario non impedisce al proprietario di disporre del proprio diritto, procedendo, per esempio, all’alienazione del bene (se così non fosse, infatti, non avrebbe neppure avuto motivo di porsi il problema dell’opponibilità del diritto di abitazione nei confronti dei terzi aventi causa dal non assegnatario). A maggior ragione, dunque, non potrà ritenersi il coniuge comproprietario inibito nell’esercizio del suo diritto potestativo ex art. 1111 c.c. (per analoghe considerazioni cfr. M. Finocchiaro 1992, 544; A. Ceccherini 1996, 548 s.; Quadri 1997, 295; sul diverso problema dell’inammissibilità della divisione della comunione legale prima che si sia verificata una delle cause di scioglimento previste dall’art. 191 c.c. v. supra, cap VI, § 18.1).

Il regime di opponibilità ormai espressamente sancito dal legislatore consente di chiarire i dubbi esistenti relativamente alla circolazione dell’immobile: nessun ostacolo vi può essere ad atti di disposizione su di esso da parte del coniuge proprietario, semplicemente l’assegnazione risultando opponibile (nel senso dianzi chiarito) al terzo acquirente. La norma, infatti, mira a garantire la conservazione della peculiare destinazione del bene, col minore aggravio possibile per le ragioni del coniuge (proprietario) estromesso.

Ciò consente anche di superare le remore (e v., infatti, Trib. Monza 24 ottobre 1991) nei confronti della possibilità, in caso di comunione tra i coniugi della casa familiare, di chiedere, da parte del coniuge non assegnatario, la divisione dell’immobile assegnato all’altro. Sia che la divisione avvenga in natura (attribuendosi a ciascun comunista una parte dell’immobile), sia che (in caso di indivisibilità) si proceda ad assegnazione (e qui non si può nascondere che, se richiesta, l’attribuzione dell’intero immobile al coniuge cui sia stato assegnato in sede di separazione o divorzio può sembrare soluzione opportuna: Cass. 18 agosto 1981, n. 4938) o a vendita, la comunque sussistente opponibilità (al coniuge come ai terzi) del provvedimento di assegnazione (ex artt. 155, 4° comma, c.c. e 6, 6° comma, l.div.) sembra garantire la tutela dell’interesse dell’assegnatario, indipendentemente dalle successive eventuali vicende circolatorie del bene. Simili operazioni divisionali, infatti, non potranno mai, ovviamente, pregiudicare il diritto dell’assegnatario a continuare a godere dell’immobile (e di tutto l’immobile, così come individuato nel provvedimento di assegnazione), finché duri l’assegnazione.

(Quadri 1997, 295).

Sarà appena il caso di aggiungere che il regime dell’opponibilità del diritto di abitazione deve condurre ad escludere l’esistenza di quel "pregiudizio", ovvero il rischio di quella "cessazione dell’uso" cui la cosa è destinata, idonei a determinare, rispettivamente, una dilazione della divisione ex art. 1111, 1° co., u.p., c.c., o addirittura l’inammissibilità della domanda ai sensi dell’art. 1112 c.c.

 

33. Il revirement operato dalla giurisprudenza di merito più recente.

In effetti, nei primi anni Novanta, proprio in conseguenza dell’affermarsi della tesi favorevole all’opponibilità dell’assegnazione ai terzi aventi causa dal genitore non assegnatario, la giurisprudenza di merito sembra aver mutato indirizzo, approdando alla tesi dell’ammissibilità della domanda di divisione (cfr. App. Firenze 6.11.1992, DFP, 1993, 158; Trib. Bologna 21.1.1993, NGCC, 1994, I, 700, con nota di Tafuro; quest’ultima pronuncia è anche edita come Trib. Bologna 27.10.1992, VN, 1994, 1141, con nota di Catenacci).

Gli argomenti addotti a sostegno del gravame – con cui si rileva che qualora la casa familiare, di proprietà comune di coniugi, sia stata assegnata, in sede di separazione giudiziale, al coniuge affidatario della prole, è inammissibile la domanda di divisione dell’immobile proposta dall’altro coniuge, senza proporre una correlativa domanda di revisione delle condizioni della separazione – non hanno consistenza. E’ esatto che il provvedimento che assegna, al termine di un procedimento di separazione giudiziale, la casa di abitazione in godimento ad uno solo dei coniugi è strumentale alla conservazione della comunità domestica e può essere modificato soltanto attraverso la richiesta di revisione di cui agli artt. 155, ult. comma c.c. e 710 c.p.c.; ma ciò non può avere influenza sulla decisione del caso di specie.

Il giudice della separazione, assegnando l’abitazione della casa familiare al genitore affidatario della prole, secondo la ratio legis non crea tanto un titolo di legittimazione ad abitare per uno dei coniugi, quanto conserva la destinazione dell’immobile con il suo arredo nella funzione di residenza familiare. Tale provvedimento non ha tuttavia alcuna rilevanza sulla determinazione della titolarità dell’immobile; onde esattamente i primi giudici hanno ritenuto che ben poteva essere richiesto lo scioglimento della comunione, cioè ben poteva decidersi sulla titolarità e sulla proprietà della casa, senza che ciò, di per sé, significasse revoca dell’assegnazione giudiziale dell’abitazione nella casa familiare.

Né vale quindi richiamare, come si fa dall’appellante nel libello introduttivo, la disposizione dell’art. 1112 c.c.: il vincolo comunitario può infatti essere sciolto anche qualora il bene risulti materialmente indivisibile, in quanto, ove non sia possibile la divisione in natura, la casa potrà essere assegnata ad uno dei compartecipi, dietro pagamento di un compenso al non assegnatario, oppure essa potrà essere venduta ad un terzo con conseguente distribuzione del ricavato tra i comunisti. Al riguardo giova sottolineare che, in fattispecie analoga, i giudici di legittimità hanno ritenuto corretta la decisione di una Corte di merito che, richiesta della divisione di un immobile in comproprietà di due coniugi giudizialmente separati, aveva attribuito l’intero immobile indivisibile alla moglie, alla quale l’immobile era stato assegnato in sede di separazione a titolo di mantenimento suo e della figlia.

Né è fondato l’argomento che l’eventuale vendita ad un terzo in sede di divisione comporterebbe la privazione del godimento diretto – ed a titolo gratuito – dell’immobile alienato e, quindi, la vanificazione del vincolo di destinazione della "casa familiare": l’assegnazione dell’abitazione al coniuge affidatario della prole è immediatamente rilevante non solo rispetto al coniuge non affidatario (proprio perché escluso dall’abitazione nella casa familiare, ancorché ne sia comproprietario), ma anche – a seguito della sentenza della Corte Costituzionale n. 545 del 27 luglio 1989 – nei confronti dei terzi, cui è opponibile una volta che il relativo provvedimento sia stato trascritto.

L’appello deve, pertanto, essere rigettato. Ricorrono giustificati motivi per l’integrale compensazione tra le parti delle spese del presente grado.

(App. Firenze 6.11.1992).

Anche la seconda delle due decisioni di merito testé citate pone l’accento sul fatto che la divisione dell’immobile non può ritenersi impedita per effetto dell’intervenuta assegnazione ad uno dei coniugi (o ex tali), attesa l’opponibilità ai terzi del diritto di abitazione. All’uopo il tribunale incentra la parte iniziale della propria motivazione su di una rassegna delle varie tesi prospettate in giurisprudenza circa l’inammissibilità della divisione in presenza di una situazione di assegnazione della casa familiare. Messo l’accento sui timori espressi circa l’eventuale inopponibilità del diritto d’abitazione al terzo acquirente del bene, il collegio illustra l’intervenuto mutamento di situazione giuridica a seguito dell’intervento della Corte costituzionale.

La convenuta Balestri Lucia sostiene, in via principale, la inammissibilità della domanda di divisione della casa coniugale proposta dal coniuge Carlotti, sul presupposto della realità del diritto di abitazione attribuitole in sede di separazione consensuale, in qualità di affidataria della figlia Federica.

La tesi dell’inammissibilità della domanda di scioglimento della comunione relativa alla casa coniugale, variamente sostenuta dalla prevalente giurisprudenza di merito (Trib. Roma 4.4.1985; Trib. Bologna 20.10.1987; Trib. Monza 21.4.1989 e 24.10.1991), alla luce delle innovazioni introdotte dalla legge 74/1987 e, soprattutto, della sentenza della Corte Cost. 454/1989, necessita tuttavia di approfondimento ulteriore.

All’affermazione dell’inammissibilità della domanda di divisione la giurisprudenza era infatti pervenuta, mossa dalla esigenza di garantire, a fronte delle lacunosità della tutela offerta dall’art. 155, IV com., cod. civ., l’effettività del provvedimento giudiziale di assegnazione della casa familiare o degli accordi raggiunti in sede di separazione consensuale.

Si osserva al riguardo che, con la divisione dell’immobile in natura, il diritto dell’assegnatario avrebbe subito una modifica riduttiva, mentre, con la divisione mediante alienazione e ripartizione del ricavato, non essendo quel diritto opponibile ai terzi, esso sarebbe venuto del tutto a mancare.

La limitazione che il diritto di proprietà del genitore non affidatario veniva a subire per effetto della affermata inammissibilità della domanda di divisione, trovava poi giustificazione nella rilevanza costituzionale e nella preminenza dei diritti della famiglia (artt. 29, 30 e 31 Cost.) rispetto al diritto di proprietà.

L’art. 155 IV comma, cod. civ., nello stabilire che l’abitazione della casa familiare spetta, di preferenza al coniuge cui siano stati affidati i figli minori, strumentalizza il diritto di abitazione alla realizzazione dell’interesse morale e materiale della prole, affinché non le vengano a mancare, pur nella situazione di disagio conseguente alla crisi della coppia, alcuni stabili punti di riferimento indispensabili per uno sviluppo equilibrato e sereno. La norma attuerebbe pertanto, in una delle sue possibili manifestazioni, la "funzione sociale" del diritto di proprietà, offrendo adeguata giustificazione della temporanea compressione della facoltà del comproprietario non affidatario, destinata a riespandersi solo con il raggiungimento non già della maggiore età, ma della autosufficienza economica della prole (in questo senso: Cass. 584/1990). Infine, questa impostazione trovava supporto normativo nell’art. 1112 cod. civ. ai sensi del quale "lo scioglimento della comunione non può essere chiesto quando si tratta di cose che, se divise, cesserebbero di servire all’uso cui sono destinate".

Il legislatore del 1987, al fine di evitare che il provvedimento giudiziale di assegnazione della casa coniugale in sede di divorzio, potesse essere facilmente eluso con l’alienazione dell’immobile ad un terzo, ha previsto la opponibilità a terzi acquirenti dell’assegnazione "in quanto trascritta", ai sensi dell’art. 1599 cod. civ. La Corte Cost., con la sentenza n. 454/1989 ha esteso tale disciplina alla separazione personale, dichiarando la illegittimità costituzionale dell’art. 155, IV comma, cod. civ. nella parte in cui non prevede la trascrizione del provvedimento giudiziale di assegnazione ai fini dell’opponibilità ai terzi.

In quest’occasione la Corte ha anche affermato alcuni importanti principi.

In primo luogo, accogliendo la nozione di "casa familiare" elaborata dall’ormai consolidata giurisprudenza della Cassazione (v. ad es. Cass. 83/7303), ha ribadito che essa consiste non del solo immobile ma dell’insieme dei beni mobili e suppellettili, necessari al soddisfacimento dei bisogni quotidiani della comunità familiare. Ha precisato, in secondo luogo che, come la casa familiare non si identifica e non si esaurisce nell’immobile, così l’"abitazione" non è stata identificata dal legislatore in una figura giuridica formale, quale potrebbe essere un diritto reale o personale di godimento, da qualsiasi titolo giuridico sull’immobile, di proprietà, di comunione, di locazione.

Ne consegue che il provvedimento giudiziale di assegnazione "non crea tanto un titolo di legittimazione ad abitare" a favore di uno dei coniugi, ma conserva la destinazione dell’immobile nella funzione di residenza familiare, nell’esclusivo interesse della prole.

L’assegnazione è "immediatamente rilevante" nei confronti del coniuge non affidatario, proprio in quanto escluso dall’abitazione; lo diviene, nei confronti di terzi, per effetto della trascrizione.

(Trib. Bologna 21.1.1993).

Ciò premesso, il tribunale precisa che la domanda di divisione della casa familiare non può più ritenersi inammissibile. A differenza, però, della prima delle due pronunzie di merito qui riportate (e contrariamente all’opinione che, come si è visto – cfr. supra, §§ 9 s., in questo cap. – appare preferibile) il tribunale di Bologna afferma la necessità della trascrizione del provvedimento, ai fini dell’opponibilità del medesimo, anche nell’àmbito del novennio; trascrizione che potrebbe essere richiesta, nel caso di inerzia del genitore interessato, dal pubblico ministero.

Alla luce di queste affermazioni, non appare più sostenibile la tesi giurisprudenziale dell’inammissibilità della domanda di divisione della casa coniugale.

Ove questa fosse comodamente divisibile, nulla impedirebbe di assegnare a ciascun coniuge una quota determinata dell’immobile che, comunque, non potrebbe essere sottratto alla sua destinazione, essendo, come si è detto, l’attribuzione del diritto di abitazione immediatamente operante nei confronti del coniuge assegnatario senza necessità di trascrizione.

La soluzione non muta neppure nell’ipotesi di indivisibilità dell’immobile, nel qual caso la divisione potrebbe avvenire mediante vendita o mediante attribuzione dell’intero ad uno dei coniugi comproprietari.

Se mediante vendita, la destinazione del bene ad abitazione del nucleo familiare, è salvaguardato dalla trascrizione del provvedimento di assegnazione.

Infatti, il terzo acquirente, per effetto della trascrizione, viene a trovarsi nella medesima situazione in cui si trovava il coniuge comproprietario e ciò fino al momento della cessazione delle esigenze di tutela che sono alla base del provvedimento. Si osserva, al riguardo, che a dizione non chiara dell’art. 6, VI comma, legge 898/70 come modificato dalla legge 74/87, allorché rinvia all’art. 1599 cod. civ., potrebbe far sorgere qualche perplessità in ordine alla individuazione delle condizioni e dei limiti della opponibilità ai terzi della assegnazione. Se infatti il legislatore avesse inteso richiamare l’intero art. 1599 cod. civ., dovrebbe ritenersi opponibile al terzo acquirente anche il provvedimento non trascritto, nei limiti previsti dal III comma della norma in esame, con l’ulteriore difficoltà di individuare il termine iniziale del novennio. Il rinvio sarebbe invece superfluo ove l’intento del legislatore fosse stato quello di rendere opponibile il solo provvedimento trascritto.

Ritiene questo Tribunale che, alla stregua del tenore letterale dell’art. 6, comma 6 della legge 898/70, quest’ultima sia comunque l’interpretazione più convincente. L’inciso "in quanto trascritta", costituisce un argomento insuperabile a favore della tesi della necessità della trascrizione per l’opponibilità ai terzi, dovendo pertanto ritenersi richiamato il solo I comma dell’art. 1599 cod. civ.

Non vi è dubbio che, in questo modo, se ratio della norma era quella di rafforzare la posizione dell’assegnatario, omologandola – così come si legge nei lavori preparatori – a quella del conduttore di un immobile locato, tale esigenza è stata attuata solo parzialmente. Non solo. Il suo soddisfacimento, strumentale alla realizzazione dell’interesse morale e materiale della prole, finisce per essere esclusivamente rimesso alla diligenza del coniuge affidatario.

A tale proposito, anzi, vi è da chiedersi se, nell’ipotesi di omessa trascrizione da parte dell’assegnatario, non vi sia ancora spazio per una pronuncia di inammissibilità della domanda di divisione o se, piuttosto, non possa ipotizzarsi, in ragione della rilevanza pubblicistica che riveste l’interesse alla tutela dei minori, un obbligo del P.M., parte necessaria del giudizio di separazione, di provvedere, in luogo del genitore affidatario, alla trascrizione del provvedimento di assegnazione.

Allorché, invece il provvedimento sia stato tempestivamente trascritto, nulla osta alla divisione. Il terzo acquirente potrà far cessare l’occupazione dell’immobile da parte del coniuge affidatario solo allorché ricorrano quelle stesse condizioni che avrebbero legittimato a tale azione il proprio dante causa e cioè, allorché, a prescindere dal raggiungimento della maggiore età, i figli conviventi con il genitore affidatario conseguano la piena autosufficienza economica.

Meno problematica appare infine l’ipotesi in cui, sempre sul presupposto della non comoda divisibilità dell’alloggio, uno dei coniugi abbia domandato l’attribuzione dell’intero immobile, pagando all’altro la differenza. In nessun modo infatti, l’eventuale attribuzione della titolarità del tetto al coniuge non affidatario, potrà comportare la cessazione della destinazione dell’appartamento ad abitazione della comunità familiare e ciò a prescindere dall’avvenuta trascrizione.

Le esposte considerazioni portano a ritenere che la domanda di divisione proposta dal Carlotti, oggetto del presente giudizio, sia pienamente ammissibile.

(Trib. Bologna 21.1.1993).

Una volta superati i profili di ammissibilità, il tribunale di Bologna procede all’assegnazione (in proprietà) per l’intero della proprietà della casa familiare al coniuge assegnatario (in godimento) della medesima, asserendo che tale decisione appare opportuna, dal momento che essa consente, anche per il futuro e cioè dopo il raggiungimento dell’autosufficienza economica da parte della figlia, il protrarsi della convivenza tra la madre affidataria e la figlia, e perciò il consolidamento dell’unione familiare.

La c.t.u. espletata in corso di causa ha tuttavia accertato la non comoda divisibilità dell’appartamento di proprietà comune ai coniugi, ciascuno dei quali ne ha chiesto l’attribuzione per l’intero.

L’art. 720 cod. civ. attribuisce al giudice un potere discrezionale in ordine alla scelta del condividente cui assegnare il bene indivisibile, consentendogli perciò di porre a fondamento di tale scelta ogni ragione di convenienza ed opportunità che gli sia suggerita dal caso concreto (Cass. 5271/77, 6035/80, 3014/81).

Nella fattispecie in esame, si stima più opportuno che la proprietà dell’intero appartamento coniugale sia attribuita alla convenuta Balestri. In particolare, tale attribuzione alla convenuta appare suscettibile di consentire, anche per il futuro e cioè dopo il raggiungimento dell’autosufficienza economica da parte della figlia Federica, il protrarsi della convivenza tra madre e figlia, e perciò il consolidamento dell’unione familiare.

Infatti, il conseguimento dell’autosufficienza economica da parte della prole, se fa venir meno l’obbligo di mantenimento in capo ai genitori, non comporta però che i legami parentali si dissolvano e né la comunità familiare debba disgregarsi. Né, d’altra parte il Carlotti ha indicato, a fondamento della domanda di attribuzione, alcun motivo che possa indurre a preferirlo come assegnatario del bene.

Infine, da un punto di vista eminentemente pratico, l’attribuzione dell’immobile all’attore, al venir meno delle condizioni che costituiscono il presupposto del diritto di abitazione, comporterebbe, per la convenuta e la figlia Federica, la necessità di abbandonare l’attuale residenza e la difficoltà, per entrambe, di reperire un nuovo alloggio, esponendole perciò ad un disagio a cui non va invece incontro il Carlotti il quale, fin dal momento della separazione ha dovuto provvedere avendo ormai risolto le proprie esigenze di carattere abitativo.

Naturalmente, sulla Balestri incombe l’obbligo di pagamento della quota attribuitale.

Il consulente incaricato della stima del bene, [...] le rigorose conclusioni, accettate dalle parti, si intendono qui integralmente riportate, ne ha determinato il valore complessivo in lire 113.589.000 se considerato libero ed in lire 85.191.750 se considerato vincolato da conduzione.

L’immobile, attualmente abitato dalla Balestri che ne è comproprietaria e dalla figlia, non può che considerarsi, nei suoi confronti, libero da vincoli. Pertanto la somma che la convenuta dovrà versare al Carlotti, a conguaglio dell’eccedenza, è pari a lire 56.794.500. Su tale somma spettano gli interessi legali dalla data del deposito della consulenza.

(Trib. Bologna 21.1.1993).

In conclusione potrà ancora aggiungersi che, in forza delle considerazioni sopra svolte e del mutato indirizzo della giurisprudenza di merito, non paiono più giustificati i timori che avevano indotto il Tribunale per i minorenni di Roma a costituire, a "garanzia" del diritto di abitazione concesso sulla casa familiare (di proprietà comune dei coniugi) alla moglie affidataria del figlio minorenne, usufrutto in favore di quest’ultima ex art. 194, 2° co., c.c., sulla quota spettante al marito, dopo che questi aveva manifestato l’intenzione di alienare l’immobile (Trib. Min. Roma 25.6.1984, RN, 1986, 723; GM, 1985, 1082; GI, 1985, I, 2, 328; GC, 1985, I, 2648).

 

34. Il ruolo dell’autonomia contrattuale nell’assegnazione dell’immobile (già) in comunione legale.

Quale ruolo potrà dunque svolgere l’autonomia contrattuale di fronte alle problematiche qui illustrate? Non c’è dubbio che il primo punto da sottolineare concerne la necessità che i coniugi comproprietari della casa familiare affrontino la questione sin dal momento dell’assegnazione del diritto di abitazione. Ciò non significa naturalmente che essi debbano procedere immediatamente alla divisione o alla stesura di un accordo preventivo su tutte le modalità della medesima. Quello che sembra importante, per eliminare le incertezze di cui si è dato conto, è che si preveda da parte del non assegnatario – in alternativa – vuoi un’espressa rinunzia al diritto potestativo previsto dall’art. 1111 c.c., sin tanto che perduri il diritto di abitazione, vuoi – al contrario – un’espressa riserva di esercizio del medesimo in ogni momento.

Il problema è che il primo di tali patti, pur se contenente un impegno di carattere unilaterale, viene inevitabilmente a ricadere al di sotto della previsione di cui al capoverso dell’art. 1111 c.c. (sull’ammissibilità di un patto di indivisione vincolante taluni soltanto dei comunisti v. Fedele 1967, 351 s.; Branca 1982, 282 s.): ne consegue che, se stipulato per un periodo superiore al decennio (o senza determinazione di tempo: cfr. Fedele 1967, 353; Branca 1982, 282), esso sarà ex lege ridotto a dieci anni, salva un’eventuale proroga scaduto il decennio (Fedele 1967, 353; Branca 1982, 283). Sembra invece da escludere l’eventualità (su cui v. gli aa. appena citati) di una nullità del patto di indivisione conseguente ad un esclusivo interesse delle parti a rinviare la divisione oltre il decennio, posto che lo stesso patto decennale si prospetta comunque di una qualche utilità per il coniuge cui viene attribuito il diritto di abitazione.

Il patto andrà comunque redatto per iscritto, avendo ad oggetto un bene immobile e trascritto, ai fini dell’eventuale opponibilità ai terzi che vantino diritti in base ad atti soggetti a trascrizione.

Qualora i contraenti dovessero invece optare per la seconda ipotesi (espressa riserva di esercizio del diritto ex art. 1111 c.c. sin tanto che perduri il diritto di abitazione), sarebbe opportuno disciplinare le conseguenze di un’eventuale situazione di non opponibilità nei riguardi di terzi, prevedendo, per esempio, un aumento dell’assegno di mantenimento o comunque l’erogazione di una determinata somma (periodica o una tantum) destinata a coprire le spese derivanti dalla conduzione di un altro alloggio.

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