LA
COMUNIONE LEGALE DI FONTE NEGOZIALE:
RIFLESSIONI
CIRCA I RAPPORTI TRA LEGGE E CONTRATTO
NEL
MOMENTO GENETICO
DEL REGIME
PATRIMONIALE TRA CONIUGI
Sommario: 1.
L’instaurazione del regime di comunione tra coniugi e l’antica teoria della
convenzione implicita. – 2. L’instaurazione del regime di
comunione tra coniugi e la moderna tesi dell’effetto legale. – 3.
L’opzione per il regime legale tra soggetti già coniugati e la convenzione
sottoposta a termine iniziale o a condizione sospensiva. – 4. Sulla possibilità che il regime legale
prenda vita tra coniugi in regime di separazione dei beni per effetto di un
comportamento concludente.
1. Il titolo di questo articolo ha il sapore d’un
ossimoro: la comunione «legale» si chiama così proprio perché non trova la sua
fonte in un negozio giuridico, ma nella stessa legge, quale effetto «legale»,
cioè normale, del matrimonio [1], laddove l’idea dell’origine negoziale di un regime
comunistico viene esclusivamente collegata alla comunione convenzionale (artt.
210 s. c.c.). Eppure basta porre mente al caso in cui due coniugi in regime di
separazione intendano – avvalendosi della facoltà loro concessa dagli artt. 159
e 162 c.c. – instaurare il regime ex
artt. 177 ss. c.c., per comprendere come anche il regime legale possa nascere
per effetto di negozio (oltre tutto formale).
Non appena, poi, si rifletta
un po’ più a fondo sulle concrete circostanze che possono caratterizzare il
venire in essere della comunione legale, ci si rende conto che quest’ultima
viene, a ben vedere, a confrontarsi con il principio di autonomia privata non
solo ogni volta in cui in cui i coniugi in comunione, per rispondere a questa o
a quella esigenza pratica, mostrino di voler, per così dire, «uscire dal
seminato», appoggiandosi ai principi della negozialità per (tentare, quanto
meno di) spezzare vincoli, lacci e lacciuoli (apparentemente, o realmente)
imposti dagli artt. 177 ss. c.c. La comunione, infatti, si vede costretta a
fare i conti con la libertà contrattuale già a partire dal suo stesso momento
genetico. Si è avuto modo in altra sede di ricordare [2] quale ruolo la regola scolpita nell’art. 159 c.c.
dispieghi su di una lettura del sistema della comunione in termini di un
complesso di norme derogabili, ove non espressamente disposto in senso
contrario dalla legge. In base all’opzione di politica legislativa volta a
consentire ai coniugi di derogare in tutto o in parte al regime legale viene
dunque consentito all’autonomia privata di valutare e sfruttare profili di
convenienza economica legati a ragioni, per esempio, d’ordine fiscale [3], ovvero a «timori» legati alle conseguenze di
un’eventuale crisi coniugale [4].
Non solo. Anche la
«semplice» scelta consapevolmente operata per il regime legale (senza pensare ad
ipotesi di comunione convenzionale dei beni, con conferimento di cespiti che
sarebbero altrimenti personali ex
art. 179, lett. a), c.c.) potrà caricarsi di una valenza, per così dire,
para-successoria. Si pensi al caso in cui esista uno squilibrio – magari
vistoso, come con non di rado accade – tra i redditi e le residue aspettative
di vita dell’uno e, rispettivamente, dell’altro coniuge (di solito, i primi in
relazione di proporzionalità inversa rispetto alle seconde…). L’instaurazione
del regime legale in una situazione del genere farà sì che gli acquisti
compiuti, manente communione, dal
coniuge più anziano con redditi e/o proventi destinati alla comunione de residuo, mentre, da un lato, saranno
sottratti ad ogni possibilità di confluire nel patrimonio personale
dell’acquirente, per impossibilità di applicarvi il meccanismo di surrogazione ex art. 179, lett. f), c.c. [5], dall’altro, non saranno mai qualificabili alla
stregua di donazioni indirette [6], con conseguente impossibilità per altri legittimari [7] di richiedere dopo la morte del coniuge acquirente,
nei confronti del superstite, la collazione e/o la riduzione dell’effetto
coacquisitivo ex art. 177, lett. a),
c.c.
Non vi è poi dubbio che dell’autonomia contrattuale i
coniugi fanno uso allorquando, anche senza optare per il regime di separazione,
decidono di allontanarsi (di poco o di molto, non rileva) dallo schema offerto
dagli artt. 177 ss. c.c.
Il problema è invece quello di comprendere se, nell’ipotesi
in cui i nubenti non operino alcuna scelta, la genesi del regime legale vada in
qualche modo comunque ricondotta ad un negozio giuridico, concluso in forma
tacita.
La questione del rapporto tra effetto ex lege e volontà dei coniugi nella instaurazione del regime legale
si pone da sempre, sin dai più remoti albori dell’istituto.
Si è avuto modo dire, approfondendo in altra sede i
profili storici del regime legale, che fu il Molineo ad avanzare per primo
l’idea, due secoli dopo ancora accanitamente difesa da Pothier, secondo la
quale (nei territori, ovviamente, di droit
coutumier) la comunione si costituiva «ex tacito & praesumpto contractu
a consuetudine locali introducto», o, se si preferisce, per via di una
convenzione «virtuelle et implicite» [8]. A ben vedere, come si è cercato di dimostrare altrove,
questa tesi aveva più che altro il sapore d’un astuto espediente volto – mercé
l’affermazione del carattere di statut personnel, e non già di statut
réel, del regime legale – a consentire ai soggetti coniugati senza
contratto di matrimonio sotto il vigore di una coutume che prevedeva come regime legale la comunione, di far
ricadere nel patrimonio comune anche gli immobili situati in regioni in cui
essa non era praticata, o addirittura nel ressort del parlamento di
Rouen, la cui coutume addirittura
vietava il regime comunitario. L’idea era quindi null’altro che l’espressione
di un favor communionis, o, se si
preferisce, di un favor per il
diritto della capitale (inteso, dunque, nei fatti, già da prima del Bourjon,
come paradigma del droit commun de la
France) rispetto a quello delle province.
Essa era però così radicata da influenzare anche il
profilo della successione delle leggi nel tempo. Ed in effetti [9] la scelta di ritenere il regime legale (di comunione
o separazione che fosse) come il frutto di un atto negoziale tornò molto utile
allorquando – posta la distinzione tra situazioni giuridiche legali,
soggette all’azione immediata della nuova legge, e situazioni giuridiche contrattuali, che continuavano ad essere disciplinate dalla legge sotto il
cui imperio sono sorte [10] – si ritenne, di fronte alla mancanza di specifiche
disposizioni transitorie sul punto nel Code
Napoléon [11], che non solo le convenzioni matrimoniali già
stipulate, in quanto contratti, avrebbero continuato a mantenere efficacia in
conformità alle disposizioni previgenti, ma che anche «le régime légal doit
être également immuable, et qu’il doit conserver son empire pour tous les
mariages qui se sont conclus sans contrat sous son empire» [12].
Sta comunque di fatto che il richiamo all’idea di un
contratto implicito rappresentò a lungo una costante del pensiero giuridico
transalpino, probabilmente anche alla luce del fatto che l’art. 1400 code civil, rimasto invariato ad oggi,
continua a porre espressamente sullo stesso piano «La communauté, qui s’établit
à défaut de contrat» e quella che s’instaura «par la simple déclaration qu’on
se marie sous le régime de la communauté». Per questo, ad esempio, ancora il
Laurent insisteva sull’idea per cui la «communauté légale est, en réalité, une
communauté conventionnelle, en ce sens qu’elle résulte d’un contrat soit
exprès, soit tacite» [13]. Va però aggiunto che
la dottrina successiva, a partire dai primi decenni del XX secolo, lasciato alle
speciali regole internazionalprivatistiche il tema della determinazione del
diritto applicabile ai regimi patrimoniali, sembra avere definitivamente
abbandonato l’idea del contratto tacito, preferendo ravvisare nell’operatività
del regime legale null’altro che «un effet légal du mariage» [14].
L’idea di cui si è sin qui trattato non era peraltro
confinata al di là delle Alpi.
Sempre in un’ottica storica si potrà citare in proposito il
pensiero del siciliano Mario Giurba, il quale, discutendo nel XVI secolo del
caso in cui la futura moglie «se verbis jactaverit divitem, cum non esset, uti
diviti nubat viro, cui secundum Messanae usum, exinde nupsit», concedeva al
marito il diritto di adire l’autorità giudiziaria per impugnare per dolo e
conseguentemente far dichiarare non operante il regime di comunione – che
secondo le consuetudini siciliane s’instaurava per legge [15] – pur rimanendo il
vincolo (personale) matrimoniale «inseparabile» [16]. Analoga possibilità
era prevista per la moglie, nel caso in cui fosse stato il marito a millantarsi
ricco «ut divitem, quam ambiebat uxorem secundum Messanae morem duceret, &
natis filiis opulentae illius dotis esse particeps» [17], così come nel caso in
cui la moglie fosse stata ingannata mercé la collusione d’un terzo [18]. Ora, la previsione di
rimedi contrattuali per questa costituzione «viziata» del regime legale
manifesta nel modo più evidente che, secondo questa concezione, la comunione
nasceva in forza di un contratto implicito. Ad analoghe conclusioni, sulle
stesse questioni, perveniva l’antica dottrina tedesca, che, nei territori in
cui la Gütergemeinschaft si
costituiva per legge, consentiva purtuttavia al coniuge deceptus (l’esempio portato era quello dell’uomo ingannato da una
cameriera che si fosse spacciata per donna possidente) di ottenere la restitutio in integrum ex capite doli mali
e dunque, in buona sostanza, l’instaurazione iussu iudicis di un regime di separazione dei beni [19].
2. La questione cui qui si accenna non risulta affrontata
dalla civilistica contemporanea nel nostro Paese [20]. Peraltro, ampliando
per un attimo la visuale, scopriamo che neppure all’odierna mentalità giuridica
italiana appare poi così del tutto estranea la possibilità di riconoscere
l’esistenza di un atto di autonomia laddove si ricolleghino ex lege determinati effetti all’assenza
di una dichiarazione negoziale: basti pensare in proposito all’atteggiamento
giurisprudenziale nei confronti del rinnovo ope
legis, per mancata comunicazione di disdetta in un termine fissato dalla
legge, di determinati contratti di cui sia parte una Pubblica Amministrazione.
Qui, invero, la circostanza che la rinnovazione del rapporto di durata sia di
fonte legale non impedisce alla Cassazione di ritenere che questa stessa rinnovazione
sia improduttiva d’effetti, per «incompatibilità con le regole dettate in tema
di forma per gli atti stipulati dagli enti pubblici» [21]. Prova, questa,
evidente, del fatto che gli effetti della rinnovazione non vengono collegati ad
un silenzio ritenuto dalla legge giuridicamente rilevante, ma ad un vero e
proprio contratto di rinnovazione, considerato come implicitamente concluso per
fatti concludenti e pertanto nullo per violazione delle regole in tema di forma
dei contratti della P.A.
Simili modo, la Cassazione richiede
che, per gli immobili sottoposti a pignoramento, l’efficacia della rinnovazione
tacita della locazione in corso sia sottoposta all’autorizzazione del giudice
dell’esecuzione, trattandosi di «nuovo negozio giuridico bilaterale» [22].
La dottrina ha posto in luce altri casi in cui si tende a
ridurre il c.d. «silenzio circostanziato» ad una vera e propria dichiarazione
tacita, consentendo l’impugnativa del silenzio stesso per qualsiasi vizio della
capacità o del volere [23]. Inoltre, e sempre ad
esempio, alcune decisioni di legittimità legano la vincolatività del progetto di divisione non contestato all’ «accordo di carattere
negoziale concluso dalle parti» tacitamente per effetto della mancata
contestazione del progetto predisposto dal giudice, ex art. 789, terzo comma, c.p.c., affermando la possibilità per le
parti stesse di far valere eventuali vizi del consenso «come nelle normali
ipotesi d’impugnativa di un negozio, in sede ordinaria di cognizione» [24].
Il problema è dato però dal fatto che, in tutte le ipotesi
solitamente individuate in relazione alla materia della conclusione del
contratto ed al tema della rilevanza a tali fini del silenzio circostanziato,
ci si trova di fronte alla necessità di comprendere se dal comportamento dei
soggetti sia desumibile la nascita di un rapporto giuridico, in possibile
alternativa rispetto all’assenza di un qualsiasi rapporto. Nel campo dei regimi
patrimoniali della famiglia, invece, proprio sulla base del presupposto
dell’esistenza di un matrimonio tra le parti, la nascita di un rapporto (cioè
di un regime patrimoniale, qualunque esso sia) è conseguenza ineludibile di
tale premessa. L’alternativa non si pone, dunque, tra esistenza o inesistenza
di un rapporto tra le parti, ma tra un rapporto (regime legale) o un altro
(regime convenzionale).
Ciò aiuta a comprendere perché nell’instaurazione del regime
legale quale conseguenza della mancata scelta (al momento della celebrazione
delle nozze) di un regime diverso non possano riconoscersi gli estremi di un negozio
giuridico concluso tacitamente. La riprova sta nel fatto che se la mancata
scelta di un regime alternativo fosse effetto di una concorde determinazione
delle parti raggiunta in presenza di un vizio del consenso o di simulazione [25] l’invalidità del negozio
non comporterebbe altro se non… l’applicazione del regime invalidamente
costituito, non potendo darsi un matrimonio senza regime patrimoniale: regime
che, per definizione, non potrebbe essere altro se non quello legale, in
difetto di convenzioni in deroga. Ciò, si badi, addirittura nel caso in cui lo
stesso negozio matrimoniale dovesse intendersi affetto da invalidità, posto che
la relativa declaratoria determinerebbe (ex
art. 191 c.c.) lo scioglimento della comunione, così supposta ex lege come esistente ed operativa sino
al momento della decisione giudiziale [26].
Quanto sopra rafforza l’idea per cui l’instaurazione del
regime legale è effetto, per l’appunto, e sotto tutti i profili, ex lege, come del resto si è in altra
sede dimostrato trattando della natura non negoziale del coacquisto automatico ex art. 177, lett. a), c.c. [27] ed appare ulteriormente
confermato dal carattere «suppletivo» del regime legale, destinato ad entrare
in vigore nel caso di stipula di convenzioni in deroga, che risultino invalide
per un qualsiasi motivo [28]. In questo caso,
quindi, è la volontà della legge che «fa premio» su quella delle parti,
«imponendo» a soggetti che abbiano celebrato un matrimonio non inesistente, in
assenza di convenzioni in deroga (o in presenza di convenzioni in deroga
invalide), il regime legale.
Anche per queste ragioni, dunque [29], non sembra possibile ritenere applicabile al caso in
esame la disposizione transitoria di cui all’art. 2, l. 10 aprile 1981, n. 142,
secondo cui l’autorizzazione giudiziale per la stipula di convenzioni
matrimoniali «è prevista soltanto per il mutamento, dopo la celebrazione del
matrimonio, di convenzioni matrimoniali stipulate per atto pubblico prima
dell’entrata in vigore della presente legge». Ne deriva che, per le coppie formatesi
dopo l’entrata in vigore della riforma del 1975 e prima della entrata in vigore
della citata novella del 1981, le quali non abbiano espresso all’atto della
celebrazione delle nozze l’opzione per alcun regime, non solo non sussiste
alcuna convenzione matrimoniale «per atto pubblico» da modificare, ma non
sussiste, prima ancora, alcuna convenzione tout
court.
3. Carattere negoziale e di convenzione
matrimoniale a tutti gli effetti andrà invece riconosciuto all’intesa con cui i
coniugi, già sottoposti a regime diverso da quello ex artt. 177 ss. c.c., decidessero di optare per quest’ultimo. E’
evidente che, a rigore, un regime legale non potrebbe costituirsi che ex lege. Peraltro, proprio in omaggio
alla libertà negoziale che caratterizza il regime patrimoniale della famiglia,
avuto altresì riguardo al principio di libera mutabilità delle convenzioni e
dei regimi, deve potersi consentire a chi avesse optato in origine per un
regime diverso, di «tornare alla regola» per mezzo di apposita convenzione, distinta
da quella che dà normalmente vita al sistema descritto dagli artt. 210 s. c.c.
Mentre in quest’ultimo caso, infatti, l’accordo tende (secondo le parole
dell’art. cit.) a «modificare il regime della comunione legale dei beni», la
convenzione qui in discorso è volta a sottoporre la coppia, puramente e
semplicemente, al regime legale, come se i coniugi celebrassero le nozze in
quel momento (ovviamente, senza opzione per un regime diverso).
L’unica particolarità da sottolineare al riguardo è che, nel
caso di successivi ed alternati passaggi dal regime legale, a quello
convenzionale e, ancora, a quello legale, i coniugi potrebbero decidere (in tal
caso operando con la convenzione ex art.
210 c.c.) di riestendere quest’ultimo anche a quei beni che, già oggetto di un
precedente regime legale inter partes,
erano poi transitati in comunione ordinaria.
Potrà aggiungersi che un accordo del genere di quello qui
descritto potrebbe anche essere previsto sotto condizione sospensiva o a
termine. Il tema è stato affrontato altrove, per cui non rimane che fare rinvio
alla relativa trattazione in cui, evidenziando argomenti anche di carattere
storico, si è affermato che, sulla scorta del principio di libertà
contrattuale, valevole per le convenzioni matrimoniali, le parti sono libere di
determinare cause di cessazione del regime diverse da quelle stabilite dalla
legge [30].
Naturalmente, anche in relazione al profilo (opposto
rispetto a quello appena visto) dell’inizio di operatività del regime,
occorrerà tenere conto dei principi inderogabili. Primo tra tutti quello
secondo il quale i regimi matrimoniali possono avere effetto solo si nuptiae sequantur, per effetto del
quale l’efficacia della convenzione prenuziale è naturalmente subordinata alla
celebrazione delle nozze, che ne viene così a costituire una condicio iuris [31], sebbene ad essa non
possa applicarsi il disposto dell’art. 1359 c.c., allorquando uno dei nubendi,
senza giusto motivo, rifiuti di ottemperare alla promessa di matrimonio, per il
riconoscimento che si deve alla libertà matrimoniale [32]. Da quanto sopra deriva
che non avrebbe valore un termine o una condizione iniziali fissate in modo
tale da rendere il regime di comunione operativo da un momento nel quale le
parti non sono ancora coniugate.
Pure sul tema dell’ammissibilità, in linea di massima, della
sottoponibilità della convenzione istitutiva del regime legale a termine e a
condizione esiste una tradizione storica che sembra deporre in senso positivo,
come si è avuto modo di dire in altra sede [33]. Riprova ne è il fatto
che, pur prevedendo in Francia l’art. 1395 del Code l’obbligo di stipula delle convenzioni «avant la célébration
du mariage», le quali «ne peuvent prendre effet qu’au jour de cette
célébration», si ammette pacificamente la validità di clausole che, come ad
esempio, quella definita come «alsaziana», consentono ai coniugi di prevedere,
in caso di divorzio, la ripresa degli apporti di ciascuno [34].
Ma la miglior prova del fatto che le possibili perplessità
sulla possibilità di legare l’efficacia di un regime patrimoniale ad un termine
o ad una condizione erano unicamente dipendenti dall’antica (e ormai
praticamente ovunque abbandonata) regola dell’immutabilità delle convenzioni matrimoniali
risiede nell’evoluzione che ha subito la dottrina spagnola sul punto. Così,
mentre prima della riforma del 1975 si tendeva a negare ogni possibilità di
esplicazione all’autonomia negoziale, successivamente a questa si ritiene
comunemente «que los novios o cónyuges puedan someter sus stipulaciones
capitulares a condición o término» [35], evidenziandosi così
che, ad esempio, il collegamento del régimen
de comunidad al nacimento de hijos
risponde anche ad alcune antiche consuetudini iberiche, nonché di altri Paesi,
compresa l’Italia [36]. Pure in Germania vale
la regola per cui «Das eheliche Güterrecht wird (…), vom Grundsatz der
Vertragsfreihet beherrscht», con la conseguenza che, valendo per la conclusione
dei contratti matrimoniali le regole generali vigenti per ogni tipo di
contratto, «können die Parteien unter einer Bedingung oder Zeibestimmung
kontrahieren, etwa für den Fall der Geburt eines Kindes Gütergemeinschaft
verabreden» [37].
Anche in Italia la dottrina ammette la possibilità di apporre alle convenzioni
matrimoniali condizioni sospensive e termini iniziali, anche in considerazione
della regola generale, adottata dalla riforma del 1975, della mutabilità delle
convenzioni medesime [38], nonché, se la convenzione contiene una
liberalità, la previsione di un modo [39], avuto altresì riguardo alla natura
contrattuale delle convezioni matrimoniali [40]. Sembra però evidente la necessità di accertare, caso per
caso, che la prefissione di un termine o di una condizione non venga a porsi in
contrasto con principi inderogabili: così non sarebbe possibile, come si è
appena visto, la previsione di un termine iniziale o di una condizione
sospensiva tali da rendere una convenzione prenuziale efficace prima della
celebrazione del matrimonio [41].
A quanto appena detto non ostano le osservazioni sopra
svolte sul carattere non negoziale dell’instaurazione del regime legale (tra
soggetti non ancora vincolati da matrimonio), perché, nel momento in cui le
parti decidono di sottoporre l’instaurazione del regime ex artt. 177 ss. c.c. a condizione o a termine esse danno vita ad
un regime di fonte convenzionale, per cui le regole in oggetto troveranno
applicazione non più per volontà di legge sul presupposto dell’assenza di una
determinazione convenzionale, ma, tutto al contrario, proprio per effetto di
una determinazione convenzionale in deroga, laddove la deroga rispetto alla
previsione legislativa è costituita proprio dalla decisione di non far
coincidere l’esordio del regime con il momento iniziale del rapporto coniugale.
I rapporti con i terzi saranno determinati sulla base delle
norme in tema di pubblicità. La comunione, qui sorta non già ex lege, ma per effetto di convenzione
delle parti, sarà opponibile all’esterno sulla base della effettuazione della
pubblicità della convenzione sull’atto di matrimonio o, se si segue la tesi
dello scrivente, in alternativa, mercé trascrizione sui registri immobiliari [42].
4. Un’ulteriore questione, legata alla
possibilità che il regime legale prenda vita non ex lege, ma per effetto della volontà delle parti, è quella
dell’eventuale rilievo di un comportamento concludente tenuto da coniugi che,
pur avendo optato per la separazione dei beni, attuino poi, di fatto, un regime
di tipo comunitario, con la confusione dei rispettivi patrimoni e la gestione
congiunta degli stessi. All’interrogativo, posto tempo addietro da un illustre
comparatista [43], va senz’altro data
risposta negativa.
Non è contestabile, certo, che qualche dubbio potesse porsi
al riguardo anteriormente all’entrata in vigore della Riforma del 1975, in
considerazione, da un lato, del fatto che il sistema di separazione in allora
vigente come legale non presupponeva, per definizione, la previa espressione di
alcuna convenzione matrimoniale in contrasto con il comportamento attuoso poi
tenuto dai coniugi, e, dall’altro, dell’esistenza di un dato positivo
rappresentato dalla disciplina della comunione tacita familiare, la quale,
sebbene tramite un semplice un rinvio agli usi e con letterale circoscrizione
al caso dell’ «esercizio dell’agricoltura», attribuiva comunque rilievo ad una
comunione realizzata dai coniugi rebus
ipsis et factis, complice anche una giurisprudenza incline ad ampliare il
contenuto del «vecchio» art. 2140 c.c. [44]. In aggiunta a ciò si sarebbe
potuto anche considerare il dato tratto dalla comparazione con quei sistemi
stranieri di comunione che, posti di fronte ad un’Italia «separatista», dovendo
far applicazione del regime in allora vigente nel nostro Paese alle coppie di
emigranti italiani, non avevano esitato a rivalutare in chiave comunitaria
l’istituto della (in allora vigente, ma oggidì non più disponibile) società
civile, così equitativamente pervenendo (in favore, soprattutto, del coniuge
superstite) a risultati assai vicini a quelli cui avrebbe dato luogo
l’esistenza di un regime legale comunistico, ad instar di quello proprio dell’ordinamento del Paese in cui
quegli italiani avevano, magari per lunghi anni, vissuto e lavorato [45].
Ora, come pure rilevato in dottrina [46], la Riforma del diritto
di famiglia del 1975 ha soppresso l’art. 2140 c.c., disciplinando gli apporti
di lavoro nell’impresa familiare e stabilendo, all’art. 230-bis, sesto comma, c.c., che spetta agli
usi il compito di disporre, in via residuale, delle comunioni tacite familiari
sorte nell’esercizio dell’agricoltura. Dunque, a parte la funzione residuale
del comma (all’interno, si badi, di una funzione residuale in linea generale
assegnata all’impresa familiare dalla prima parte del primo comma dell’art.
cit.), è difficile – di fronte all’insistenza del legislatore – continuare a
vedere nel riferimento all’agricoltura una menzione involontaria e, come
tale, aggirabile. Ma l’argomento più rilevante ha a che vedere con il carattere
(dal 1975) pattizio del regime di separazione, posto che, a partire dalla più
volte citata Riforma, il giudice provvede sulla domanda di un coniuge che a suo
tempo aveva dichiarato con chiarezza di volere escludere il regime comunistico.
Il fatto concludente cozza così contro la dichiarazione di volontà, a suo tempo
espressa nelle forme richieste dalla legge (art. 162 c.c.).
A fronte di questi rilievi non sembra possibile obiettare
che «il diritto romano, non derogato dalle norme di oggi, pratica la communio incidens che nasce dalla
confusione» [47]. Se questa affermazione
risponde sicuramente a verità, come attestato dalla solidissima tradizione del
nostro diritto comune, incline a riconoscere la presenza di una societas omnium bonorum tra fratelli o
comunque tra parenti conviventi, alle condizioni in altra sede illustrate [48], è altrettanto vero che
né il diritto italiano, né quello comune da cui deriva il nostro ordinamento
hanno mai attribuito rilievo a gestioni patrimoniali ed a comportamenti
concludenti in contrasto con quanto scolpito nei pacta nuptialia.
Inoltre, se è sicuramente innegabile che l’unione materiale,
come la gestione comune, crea irreversibili fenomeni di promiscuità, è
altrettanto vero che la solennità delle convenzioni matrimoniali sembra
esistere proprio per porre chiarezza in un settore nel quale la citata
promiscuità appare, per definizione, oltre che per la natura delle cose e dei
rapporti, sovente (per non dire sempre) inevitabile. Del resto, a ben vedere,
proprio il fatto che il nostro legislatore, pur facendo salva la facoltà per i
coniugi di liberamente mutare regime, sottoponga tali cambiamenti alle
prescrizioni rigidamente formali degli artt. 162 e 163 c.c. depone per un
chiaro intento volto ad impedire che i rapporti inter coniuges possano transitare da un regime all’altro sulla base
del solo comportamento tenuto dalle parti. Ulteriore e definitiva prova di ciò
è rinvenibile negli artt. 217, ult. cpv. e 218 c.c., da cui appare chiaramente
desumibile che comportamenti di gestione promiscua dei patrimoni dei coniugi in
regime di separazione non determinano in alcun modo la cessazione del regime
stesso ed il passaggio a quello antagonista.
Le conclusioni testé raggiunte ricevono conferma a livello
giurisprudenziale da una vicenda conclusasi con una decisione di legittimità
del 2009 [49]. Sebbene sul punto
specifico la Suprema Corte si sia limitata ad osservare incidentalmente che le
censure «attinenti alla dedotta instaurazione di un regime di comunione
convenzionale in virtù di una intesa tacita tra i coniugi» non potevano ritenersi
ammissibili, in quanto non dedotte in ricorso, ma (tardivamente) avanzate con
la memoria illustrativa, va tenuto conto che la relativa decisione d’appello,
sul punto passata in giudicato, aveva affrontato funditus la questione. Di fronte alla domanda della moglie diretta
al riconoscimento della comproprietà su di un immobile acquistato dal solo
marito in regime di separazione dei beni, la sentenza impugnata (e confermata)
aveva espressamente escluso che tra le parti si fosse instaurata una «comunione
di fatto»: una comunione che si sarebbe, cioè, creata, a dire della moglie, per
effetto del comune godimento della casa e del pagamento da parte sua delle
relative tasse [50].
[1] E’ impossibile in questa sede fornire un elenco
esauriente dei contributi dottrinali sulla comunione legale. Sia consentito per
tutti rinviare a Oberto, La comunione legale tra coniugi, I e II,
Milano, 2010, passim.
[2] Cfr. Oberto,
La comunione legale tra coniugi, II,
cit., p. 2135 ss.
[3] Per un’analisi delle considerazioni fiscali che
possono spingere alla adozione di un regime piuttosto che dell’altro Ieva, Le convenzioni matrimoniali, in Trattato di diritto di famiglia,
diretto da Zatti, III, Milano, 2002, p. 31 ss.
[4] Per un uso della scelta in favore del regime di separazione in contemplation of divorce cfr. Oberto, I contratti della crisi coniugale, I, Milano, 1999, p. 558 ss.; per analoghe considerazioni cfr. Sesta, Titolarità e prova della proprietà nel regime di separazione dei beni, in Familia, 2001, p. 871 ss.
[5] Cfr. Oberto,
La comunione legale tra coniugi, I,
cit., p. 859 ss.
[6] Sul tema cfr. Oberto,
La comunione legale tra coniugi, I,
cit., p. 799 ss.
[7] O, addirittura, per i legittimari tout court: si pensi all’ipotesi in cui
il coniuge anziano, che avesse contratto nuovo matrimonio in presenza di figli
di primo letto, abbia ancora il tempo, prima di morire, di divorziare dalla
(ex) nuova fiamma… In tal caso la seconda ex moglie potrebbe comunque fare
salva la sua quota in comunione sui beni medio
tempore acquisiti, pur non possedendo neppure più la veste di legittimario.
[8] Cfr. Oberto,
La comunione legale tra coniugi, I,
cit., p. 61 ss. (in partic. nota 197).
[9] Cfr. Oberto,
La comunione legale tra coniugi, I,
cit., p. 823 ss.
[10] V. per tutti Roubier,
Le Droit transitoire (Conflits des lois dans le temps), Paris, 1960, p. 293.
[11] Il codice civile francese, dopo aver solennemente
consacrato, all’art. 2, il principio fondamentale dell’irretroattività della
legge, conteneva pochissime disposizioni sparse sulla disciplina transitoria di
alcuni specifici rapporti (sul punto cfr. Roubier,
op. cit., p. 89 ss., 93 ss.). Per
questo la dottrina e la giurisprudenza si videro costrette ad elaborare alcune
teorie, tra le quali spicca quella dei droits
acquis (cfr. Roubier, op. loc. ultt. citt.).
[12] Cfr. Roubier,
op. cit., p. 394 (anche per i
richiami, in nota 1, alla giurisprudenza), il quale soggiunge che «On peut, en
effet, considérer que les parties ont pu ne pas passer de contrat particulier
parce qu’elles étaient satisfaites du régime légal, et on ne peut cependant les
obliger à reprendre dans un contrat toutes les dispositions de la loi en
vigueur. Il convient d’ailleurs de reconnaître que l’extrême complexité des
régimes matrimoniaux rend très difficile l’introduction de nouvelles règles
dans un bloc de clauses souvent indivisibles. Aussi voit-on assez peu souvent
de modification législative de ce genre ; ce qui, au contraire, arrive
quelquefois, notamment au moment d’une codification ou d’une annexion de
territoire, c’est la possibilité de la substitution d’un régime entier à un
autre, sous certaines conditions d’option et de délai ; tel fut le cas lors de
la réintroduction du droit civil français en Alsace-Lorraine (L. 1er
juin 1924, art. 127 et s.) le régime de la communauté réduite aux acquêts
devait remplacer, à l’expiration d’un délai d’une année pendant lequel les
intéressés pourraient faire une option contraire, le régime légal antérieur du
Code civil allemand». Sul tema v. anche Chabot
de L’allier, Questions
transitoires sur le Code Napoléon, relatives à son autorité sur les actes et
les droits antérieurs à sa promulgation. Et dont la discussion comprend 1°. le tableau
des diverses législations sur chacune des matières qui sont traités, 2°. des
explications sur les lois anciennes et sur le code, I, Paris, 1809, p. 79
ss.
[13] Laurent,
Principes de droit civil, XXI,
Bruxelles, 1878, p. 232; v. inoltre, ad es., Guillouard,
Traité du contrat de mariage, I,
Paris, 1885, p. 319: «la base des deux communautés, légale ou conventionnelle,
est la même, la volonté des parties, volonté expresse dans un cas, volonté
présumée dans l’autre».
[14] Cfr., già alla metà del secolo XIX, Odier, Traité du contrat de mariage ou du régime des biens entre époux, I,
Paris, 1847, p. 49: «Nous mettons la loi, expression de la volonté générale,
fort au-dessus de l’expression présumée de la volonté de deux particuliers ;
nous ne voyons aucune nécessité de justifier la première par la seconde, et de
recourir à la fiction intermédiaire d’une convention, là où le législateur a
prononcé directement». Per successive prese di posizione in favore della tesi
dell’effet légal v. ad es. Ponsard,
in Aubry e Rau, Droit civil
français, VIII, Paris, 1973, p. 117: «le régime matrimonial est trop lié
par sa nature à l’acte même de mariage pour ne pas être considéré comme un
effet légal du mariage». V. inoltre, ad es., Flour
e Champenois, Les régimes matrimoniaux, Paris, 1995, p. 136: «Sur le plan des
textes, il y a pétition de principe à affirmer que le régime légal est une
convention tacite, au motif qu’il ne s’applique qu’à défaut de conventions
spéciales (art. 1387). Il n’est pas plus probant de tirer argument du fait que
la matière est traitée parmi les autres contrats, alors que chacun sait que le
plan du code n’est guère scientifique. Sur le plan rationnel, il a fallu les
exagérations du “dogme” de l’autonomie de la volonté pour soutenir, au prix
d’une pure fiction, que les époux qui se marient sans contrat “veulent” un
régime légal sur les dispositions duquel la moindre expérience révèle qu’il
n’est pas usuel qu’ils se documentent. Ces arguments n’emportent plus la
conviction. La doctrine aujourd’hui dominante voit dans le régime légal un
effet du mariage. Sans aller jusqu’à les rendre impératives, le législateur
édicte les règles qu’il estime le mieux convenir à un aménagement équitable des
rapports pécuniaires entre époux. Certains considèrent en outre que, même dans
les régimes conventionnels, il existe une part irréductible de dispositions qui
constituent des effets légaux du mariage».
[15] Per approfondimenti storici sul punto cfr. Oberto, La comunione legale tra coniugi, I, cit., p. 17 ss.
[16] Cfr. Giurba,
Lucubrationum Pars Prima, in omne ius
municipale, quod statutum appellant, S.P.Q. Messanensis, suisque districtus,
& totius fere Siciliae, cit., p. 136 s.: «Si vero dolosam, &
fraudulentam sic contractam bonorum societatem dissolvere nolit mulier, quae
decepit, illam dirimere potest Iudex, impetrata a decepto viro in integrum
restitutione».
[17] Cfr. Giurba,
Lucubrationum Pars Prima, in omne ius
municipale, quod statutum appellant, S.P.Q. Messanensis, suisque districtus,
& totius fere Siciliae, cit., p. 137.
[18] Cfr. Giurba,
Lucubrationum Pars Prima, in omne ius
municipale, quod statutum appellant, S.P.Q. Messanensis, suisque districtus,
& totius fere Siciliae, Amstelodami, 1651, p. 138: «Finge Tititum Seiam
ambientem habere in uxorem, ab ea tamen recusatum, cum pauper esset, Caio
collusisse recipiendo aliquot bona sua sub conditione, ut si quam donationem in
eum conferret Cajus, infecta, & fimulata foret. Si Tiutius hoc modo dives
putativus factus, accepit Seiam in uxorem, secundum Messanensem hanc
consuetudinem, detecta exinde simulatae hujus donationis fraude; Nec posset,
Seia uxor, a Messanensi hoc vivendi more, quo contraxit, recedere; quia bona
antea a Cajo simulate data (pacto illo cum Titio inito non obstante) communia
sunt inter conjuges, & filio, Ut contra Cajum decipiendi animo donantem,
conditio ex lege, aut de dolo competat actio uxori, & filiis, pro eorum
tertia».
[19] Cfr. Lange,
Die Rechts-Lehre von der Gemeinschaft der
Güther unter denen teutschen Eheleuten, zu Latein Communio Bonorum
Conjugalis genannt, aus ihren ächten
Quellen und nach unverwerflichen Grundsätzen erläutert, Beyreuth, 1766, p.
143 ss.: «Gesetzt aber, es gäbe sich ein Frauenzimmer vor sehr reich aus, und inducierte eine Manns-Person betrüglich
zur Vereheligung mit ihr, quaeritur:
Ob hier auch die communion Platz
greiffen müsse? Ich antworte: allerdings (…). Weil sie aber vorsetzlich den
Mann betrogen hat, welches ich praesupponire;
so sehe ich keine Ursache ein, warum man dem Mann die restitutionem in integrum ex capite doli absprechen könne. Die Ehe
an und vor sich muss bestehen (…). Die communio
bonorum als ein effectus civilis
matrimonii aber kan propter dolum
uxoris aufgehoben, und von dem Mann coram
judicio gebeten werden». Analoghe considerazioni in Neuß, Theorie der
Lehre von der ehelichen Gütergemeinschaft sowohl im Allgemeinen als nach den
besonderen Gewohnheiten im Herzogthume Berg, Düsseldorf, 1808, p. 128.
[20] Lo scrivente l’ha trattata per la prima volta in Oberto, La comunione legale tra coniugi, II, cit., p. 2147 ss.
[21] Cfr. ad es. Cass., 12 luglio 2000, n. 9246; v.
inoltre Cass., 20 settembre 2000, n. 12429; Cass., 20 settembre 2000, n. 12432;
Cass., 22 novembre 2000, n. 15095; Cass., 3 gennaio 2001, n. 59. V. anche
Cass., Sez. Un., 6 luglio 1963, n. 1817, secondo cui «La volontà di obbligarsi
della pubblica amministrazione non può desumersi da facta concludentia, ma deve essere espressa nelle forme di legge,
tra cui la forma scritta, richiesta ad
substantiam. Pertanto, in caso di locazione di un immobile di proprietà della
pubblica amministrazione, non può trovare applicazione l’istituto della
rinnovazione tacita del contratto, che viene posto in essere con una
manifestazione tacita di volontà di entrambe le parti contraenti, desunta dal
fatto che il conduttore, alla scadenza del contratto, rimane nella detenzione
della cosa locata senza l’opposizione del locatore, e che dà luogo a un negozio
giuridico nuovo».
[22] Cfr. Cass., 5 dicembre 1970, n. 2576, secondo cui
«Anche per la rinnovazione tacita della locazione di immobile, successiva al
pignoramento ed anteriore alla vendita forzata, occorre l’autorizzazione del
giudice dell’esecuzione. Invero, la rinnovazione tacita della locazione integra
il perfezionarsi di un nuovo negozio giuridico bilaterale, sicché, ove trattisi
di immobile pignorato, non vi è ragione per far capo ad una disciplina diversa
da quella dettata genericamente per la locazione dall’art 560 cod. proc. civ.,
comma secondo». V. inoltre, nello stesso senso, Cass., 4 settembre 1998, n.
8800; Cass., 25 febbraio 1999, n. 1639; Cass., 30 ottobre 2002, n. 15297.
[23] Cfr. Sacco,
Il contratto, Torino, 1975, p. 65; v.
inoltre Betti, Teoria generale del negozio giuridico,
in Trattato di diritto civile,
diretto da Vassalli, Torino, 1950, p. 142: «se alcuno (…) sia stato indotto a
tacere per inganno o con minaccia può con azione d’annullamento eliminare le
conseguenze che il silenzio abbia prodotte a suo carico (…). Si richiede
inoltre la presenza dei presupposti di capacità e di legittimazione».
[24] Cfr. Cass., 17 giugno 1959, n. 1902; v. inoltre
Cass., n. 3276 del 1958.
[25] Si tratta, ovviamente, di ipotesi di scuola. Si
dovrebbe immaginare il caso di una coppia in cui ad es., sotto la minaccia di
un male ingiusto e notevole, un coniuge accetti la «proposta» dell’altro di non
pattuire un regime in deroga: il medesimo risultato sarebbe raggiunto anche in
presenza del semplice disaccordo tra le parti, per cui la minaccia finirebbe
con il pesare, con ogni probabilità, sul consenso matrimoniale stesso, con il
risultato di ottenere un matrimonio invalido, cui tuttavia sarebbe applicabile
il regime legale (art. 191 c.c.: cfr. Oberto,
La comunione legale tra coniugi, II,
cit., p. 1863 ss.). Per ciò che attiene alla simulazione, poi, può addirittura
porsene in discussione la stessa configurabilità in astratto, posto che essa
postulerebbe una controdichiarazione che per legge necessita di una forma
solenne (art. 162 c.c.), incompatibile con l’idea stessa di simulazione.
Inoltre, la stipula di una convenzione in deroga può essa, sì (cfr. art. 164
c.c.), risultare affetta da simulazione, ma non potrà mai porsi quale negozio
dissimulato se non rispetto ad una diversa simulata convenzione, la quale non
può consistere nel semplice accordo di non operare una scelta per un regime in
deroga.
[26] Su questo tema specifico cfr. Oberto, La comunione
legale tra coniugi, II, cit., p. 1863 ss.
[27] Cfr. Oberto,
La comunione legale tra coniugi, I,
cit., p. 711 ss., 732 ss.
[28] Il caso solitamente riportato è quello della nullità
per difetto di forma: sul punto v. già Marcadé,
Explication théorique et pratique du Code
Napoléon, V, Paris, 1866, p. 414, con ampi richiami alla giurisprudenza
francese dell’epoca (primi decenni d’applicazione del Code); cfr. inoltre L. e A. Mérignhac,
Traité du régime de communauté,
I, Paris, 1894, p. 18. Per un intervento più recente sul punto cfr. Cornu, Les régimes matrimoniaux, Paris, 1995, p. 188, che parla del regime
legale come di uno «statut de secours ou suppléance auquel il faut raccrocher,
au cours du mariage, le règlement des intérêts pécuniaires, en cas de
défaillance de la charte volontaire».
[29] Cfr. Oberto,
La comunione legale tra coniugi, II,
cit., p. 1702 ss.
[30] Cfr. Oberto,
La comunione legale tra coniugi, I,
cit., p. 1664 ss.
[31] Cfr. Busnelli,
voce Convenzione matrimoniale, in Enc.
dir., Aggiornamento, IV, Milano, 2000, p. 516; Oberto, Le convenzioni matrimoniali: lineamenti della parte generale, in Fam. dir., 1995, p. 599 s.
[32] Cfr. De Paola,
Il diritto patrimoniale della famiglia
coniugale, II, Il regime patrimoniale
della famiglia. Nozioni introduttive – Convenzioni matrimoniali – Comunione
legale dei beni – Comunione convenzionale, Milano, 1995, p. 185 s.
[33] Sull’ammissibilità, anche dal punto di vista
dell’interpretazione fondata sullo studio storico dell’istituto, della
pattuizione del regime di comunione sotto condizione sospensiva, cfr. Oberto, La comunione legale tra coniugi, I, cit., p. 43 s. (in partic. nota
141); II, cit., p. 1671 ss.
[34] Cfr., anche per i richiami, Malaurie e Aynès,
Les régimes matrimoniaux, Paris,
2007, p. 89.
[35] Lacruz Berdejo e
Sancho Rebullida, Derecho de
familia, Barcelona, 1982, p. 330 s.
[36] V. per la Francia Oberto,
La comunione legale tra coniugi, I,
cit., p. 33 ss. e per l’Italia p. 17 ss.
[37] Così Dölle,
Familienrecht, I, Karlsruhe, 1964, p.
662; nello stesso senso v. anche Meyer
e Weirich, Zum Ehevertrag während der Übergangszeit,
in FamRZ 1957, p. 401; Thiele e Rehme,
J. von Staudingers Kommentar zum
Bürgerlichen Gesetzbuch mit Einführungsgesetz und Nebengesetzen, Viertes Buch,
Familienrecht, §§ 1363-1563, Berlin, 2000,
p. 362 s. (con ulteriori richiami). Sul tema dei rapporti tra libertà
contrattuale e regimi patrimoniali in Germania v. per tutti Börger e Engelsing,
Eheliches Güterrecht, Baden-Baden,
2005, p. 28 ss. Sulla libertà contrattuale nella scelta e nella conformazione
del regime matrimoniale in Germania v. anche supra, Cap. I, 16.2. L’idea che oltre Reno i regimi patrimoniali
possano liberamente essere collegati a termini e condizioni è così diffusa da
generare anche una discreta quantità di materiale diffuso nei siti web di tipo divulgativo. Cfr. ad es. le
informazioni disponibili in Benz, Unterschiedliche Ehetypen und
interessengerechte Eheverträge, alla pagina web seguente: http://www.jurawelt.com/studenten/seminararbeiten/516:
«Eine Lösung wäre die grundsätzliche Vereinbarung von Gütertrennung (§ 1414
BGB) unter gleichzeitigem Ausschluß von Versorgungsausgleich und nachehelichem
Unterhalt und dies unter einer auflösenden Bedingung, unter Vereinbarung eines
Rücktrittsrecht oder unter einer Befristung». Cfr. inoltre Veit, Ehevertrag, alla pagina web seguente: http://www.notar-veit.de/die_urkunden/ehevertrag/ehevertrag.shtml:
«Der Versorgungsausgleich kann ehevertraglich vollständig ausgeschlossen werden. Der Ausschluss
kann aber auch unter einer Bedingung
oder Zeitbestimmung erfolgen, z.B. nur für den Fall, dass die Ehe kinderlos
bleiben sollte oder nicht länger als drei oder fünf Jahre dauern sollte». V.
poi anche l’anonimo scritto dal titolo Ehevertrag, al sito http://www.janolaw.de/export/sites/default/vorlagen/konfigurator/protokolle/P117001.pdf:
«Soll im Hinblick auf künftig möglicherweise veränderte Ehesituationen auf
einen Ehevertrag wieder ganz verzichtet
werden und es beim gesetzlichen Scheidungsfolgenrecht bleiben, bietet es sich
an, den Vertrag teilweise oder insgesamt auflösend bedingt zu schließen. In
diesem Fall wird der Ausschluss des Zugewinnausgleichs unter einer auflösenden
Bedingung geschlossen. Ab Eintritt dieser Bedingung wird dann der Zugewinn
berechnet. Sinn einer solchen Bedingung ist es, den Ehevertrag an
möglicherweise eintretende Veränderungen anzupassen, ohne dass es eines neuen
Vertrages bedarf. Soll die Gütertrennung nicht an eine auflösende Bedingung,
wie z.B. die Geburt eines Kindes oder den Verlust der Arbeitsmöglichkeit durch
Krankheit geknüpft sein, dann wird der Vertrag bis zu einer eventuellen
Eheaufhebung oder Scheidung vereinbart». Per i richiami su libertà negoziale
negli Eheverträge con riguardo alla
predeterminazione delle prestazioni divorzili v. per tutti Oberto, I contratti della crisi coniugale, I, cit., p. 242 ss.; Id., Gli
accordi preventivi sulla crisi coniugale, in Familia, 2008, p. 28 ss., 44 ss.; cfr. inoltre Aa. Vv.,
Vertragsfreiheit im Ehevertrag? Der
aktuelle Stand der Rechtsprechung zur Inhaltskontrolle von Eheverträgen, a
cura di Hager, Baden-Baden, 2007, passim
(cfr. in particolare i contributi di Münch,
Konsequenzen richterlicher
Inhaltskontrolle für die notarielle Vertragsgestaltung, p. 21 ss., 33 ss. e
di Popper, Die Inhaltskontrolle von
Eheverträgen aus anwaltlicher Sicht, p. 53 ss.).
[38] V. per tutti De
Paola, Il diritto patrimoniale della famiglia coniugale, II,
cit., p. 187 ss.; Oberto, Le convenzioni matrimoniali: lineamenti
della parte generale, cit., p. 599 ss. (con le limitazioni, peraltro, di
cui si dirà tra breve nel testo);
Carnevali, Le convenzioni matrimoniali, CARNEVALI, Le convenzioni matrimoniali, in Aa. Vv.,
Il diritto di famiglia, Trattato
diretto da Bonilini e Cattaneo, II, Il
regime patrimoniale della famiglia, Torino, 1997, p. 20; per la dottrina
anteriore alla riforma cfr. G. Tedeschi,
Il regime patrimoniale della famiglia,
in Jemolo, Il matrimonio, G. Tedeschi,
Il regime patrimoniale della famiglia,
in Trattato di diritto civile,
diretto da F. Vassalli, Torino, 1950, p. 474. Dubbi vengono invece espressi da
F. Corsi, Il regime patrimoniale della famiglia, II, in Trattato di diritto civile e commerciale, diretto da Cicu e Messineo,
continuato da Mengoni, Milano, 1984, p. 23. Cattaneo,
Note introduttive agli articoli 82-88
Nov., in Commentario alla riforma del
diritto di famiglia, a cura di Carraro, Oppo e Trabucchi, I, 1, Padova,
1977, p. 470, segnala poi esattamente che una difficoltà potrebbe sorgere per
via dell’impossibilità di procedere all’annotazione negli atti di stato civile
dell’avveramento della condizione. Peraltro il problema sembra superabile alla
luce della funzione integrativa svolta dalla pubblicità sui registri
immobiliari (i quali prevedono, invece, siffatta possibilità: cfr. art. 2655
c.c.), come illustrato altrove (cfr. Oberto,
La comunione legale tra coniugi, I,
cit., p. 2169 ss., 2236 ss.).
[39] Cfr. De Paola,
Il diritto patrimoniale della famiglia coniugale, II, cit., 1995, p. 187 ss.; Carnevali, Le convenzioni matrimoniali, cit., p. 20.
[40] Cfr. per i richiami Oberto,
La comunione legale tra coniugi, II,
cit., p. 1708, nota 78.
[41] Cfr. Oberto,
Le convenzioni matrimoniali: lineamenti
della parte generale, cit., p. 600.
[42] Sul tema cfr. Oberto, La comunione legale tra coniugi, II, cit., p. 2169 ss., 2236 ss. Ad
analoghe conclusioni perviene la dottrina spagnola: v. ad es. Lacruz Berdejo e Sancho Rebullida, op.
cit., p. 331: «El ùnico problema que plantean las capitulaciones bajo
condición (…) sobre todo desde el punto de vista de su publicidad y de su
eficacia respecto de terceros, es la constatación del cumplimiento o
incumplimiento de la condición y, especialmente, la cuestión de si, al suponer
el cumplimiento de la condición un complemento de la escritura pública, debe
también constar por documento público. Nos inclinamos a pensar que entre los
cónyuges y frente a ellos sera viable cualquier medio de prueba, pero que, en
cambio, para que opere en perjuicio de tercero de buena fe deberá el
cumplimiento de la condición constar por documento público y alcanzar la
necesaria publicidad».
[43] Sacco, Se tra i coniugi l’attuazione di fatto di un
regime patrimoniale diverso da quello corrispondente a diritto dia luogo a
restituzioni, in Aa.
Vv., Questioni di diritto patrimoniale
della famiglia discusse da vari giuristi e dedicate ad Alberto Trabucchi, Padova, 1989, p. 83 ss.
[44] Cfr. Cass., 20 settembre 1958, n. 3021, in Giur. it., 1959, I, 1, c. 797, che
poneva come requisiti della fattispecie l’appartenenza dei costituenti ad una
medesima famiglia, la comunione di vita, il conferimento di lavoro da parte di
tutti i membri, il conferimento di tutti gli acquisti. I beni potevano
appartenere ad ad un solo partecipante (Cass., 2 agosto 1956, n. 3034);
l’acquisto in nome proprio e con denaro proprio da parte di un partecipante non
ostacolava la comunione (Cass., 9 luglio 1951, n. 1835, in Giur. compl. Cass. civ., 1951, 3°, p. 196). V. inoltre Cass., 18
ottobre 1958, n. 3345. Per il richiamo ad un parere espresso in dottrina da
Rescigno cfr. Sacco, Se tra i coniugi l’attuazione di fatto di un
regime patrimoniale diverso da quello corrispondente a diritto dia luogo a
restituzioni, cit.,
p. 84.
[45] E’ il caso della giurisprudenza brasiliana dei primi
anni del XX secolo, di cui si riferisce in Oberto,
La comunione legale tra coniugi, I,
cit., p. 181 s. (nota 625).
[46] Cfr. Sacco,
Se tra i coniugi l’attuazione di fatto di
un regime patrimoniale diverso da quello corrispondente a diritto dia luogo a
restituzioni, cit.,
p. 87.
[47] Cfr. Sacco,
Se tra i coniugi l’attuazione di fatto di
un regime patrimoniale diverso da quello corrispondente a diritto dia luogo a
restituzioni, cit.,
p. 87 s.
[48] Cfr. Oberto,
La comunione legale tra coniugi, I,
cit., p. 16 s.
[49] Cfr. Cass., 12 ottobre 2009, n. 21637.
[50] Dalla motivazione della
decisione di legittimità si desume che la corte d’appello ha rigettato
l’impostazione di cui al testo per i motivi seguenti: «2.1. - A tale
conclusione la Corte territoriale è giunta sulla base delle seguenti
argomentazioni: certo ed incontestato che i coniugi ebbero a scegliere il
regime patrimoniale della separazione dei beni, la “comunione di fatto”
invocata dall’appellante non è circostanza che valga a mutare il regime degli
acquisti in costanza di matrimonio; il godimento della casa ed il pagamento di
tasse attengono al regime di vita dei coniugi, per cui la moglie poteva
sicuramente godere della casa e, nell’ambito del contributo economico alle
esigenze familiari, anche sostenere le spese, senza che ciò importasse
l’acquisto della proprietà in comunione».
La Cassazione ha inoltre rigettato (qui nel merito) il
motivo volto a contestare la decisione impugnata nella parte in cui essa aveva
affermato che l’attrice avrebbe dovuto dimostrare, con una convenzione scritta,
la simulazione o interposizione fittizia di persona all’atto di acquisto del
terreno su cui poi era stata realizzata la casa; atto d’acquisto che, come già
detto, era stato compiuto dal solo marito in regime di separazione dei beni.
Sul punto osservava ulteriormente la moglie che la dichiarazione resa dal
marito in forma scritta in sede di ricorso per separazione (in cui il marito
attestava e riconosceva il diritto di proprietà della moglie nella misura del
50% sulla casa) ed il contegno processuale (mancata risposta all’interrogatorio
formale) avrebbero consentito di affermare che vi era stato un riconoscimento
costitutivo del diritto di proprietà dell’immobile in questione in ragione
della metà. Su questo tema specifico la Cassazione ha stabilito che «Nel negare
l’idoneità, ai fini della dimostrazione della dissimulata cointestazione ad
entrambi i coniugi del terreno su cui è avvenuta la costruzione, della mancata
risposta del convenuto all’interrogatorio formale deferitogli, la Corte
territoriale si è attenuta al principio – costante nella giurisprudenza di
questa Corte (da ultimo, Sez. II, 19 febbraio 2008, n. 4071) – secondo cui, nel
caso di allegazione della simulazione relativa per interposizione fittizia di
persona di un contratto necessitante la forma scritta ad substantiam, la dimostrazione della volontà delle parti di
concludere un contratto diverso da quello apparente incontra non solo le
normali limitazioni legali all’ammissibilità della prova testimoniale e per
presunzioni, ma anche quella, più rigorosa, derivante dal disposto degli artt.
1414, secondo comma, e 2725 cod. civ., di provare la sussistenza dei requisiti
di sostanza e di forma del contratto diverso da quello apparentemente voluto e
l’esistenza, quindi, di una controdichiarazione, dalla quale risulti l’intento
comune dei contraenti di dare vita ad un contratto soggettivamente diverso da
quello apparente: di conseguenza, e con riferimento alla compravendita
immobiliare, la controversia tra il preteso acquirente effettivo e l’apparente
compratore non può essere risolta, fatta salva l’ipotesi dì smarrimento
incolpevole del relativo documento (art. 2724, numero 3, cod. civ.) con
l’interrogatorio formale, non potendo la mancata comparizione della parte
all’interrogatorio deferitole supplire alla mancanza dell’atto scritto».
Quanto, poi, alla doglianza secondo cui la decisione impugnata non si sarebbe
data carico dell’esistenza di un atto unilaterale – il ricorso per separazione
coniugale – nel quale il marito avrebbe attribuito alla moglie il diritto di
proprietà sul 50 per cento della casa, sulla base del contestuale
riconoscimento dell’averla costruita insieme, la Corte di legittimità ha
riconosciuto l’inammissibilità del relativo motivo, affermando che «la
ricorrente è venuta meno all’onere, imposto dal principio di autosufficienza
del ricorso per cassazione, di riportare specificamente nel motivo dell’atto di
impugnazione il contenuto della risultanza – il ricorso per separazione
contenente il dedotto atto negoziale a causa atipica, non liberale ma
corrispettiva, dall’effetto costitutivo – asserita come decisiva e non valutata
o insufficientemente valutata».
Sui complessi temi (non trattabili, neppure in modo
riassuntivo nella presente sede) della rivendica di quote di proprietà di beni
acquisiti in costanza di regime di separazione dei beni e della possibilità di
«recuperare» in qualche modo i contributi eventualmente forniti da un coniuge
per gli acquisti operati dall’altro si fa rinvio per tutti a Oberto, Il regime di separazione dei beni tra coniugi, Artt. 215-219, in
Il codice civile. Commentario fondato e già diretto da P. Schlesinger,
continuato da F.D. Busnelli, Milano, 2005, p. 336 ss., 347 ss.
Sull’altro profilo affrontato dalla Corte nella decisione
del 2009 sopra citata potrà ricordarsi una pronunzia di legittimità risalente
al 1966 (Cass., 7 giugno 1966, n. 1495, in Giust.
civ., 1966, I, p. 2220), nella quale la Cassazione decise una controversia
in cui, in un verbale di separazione consensuale, le parti si erano limitate a
qualificare la moglie «proprietaria» di un certo immobile e a stabilire che a
questa avrebbero fatto carico le imposte e le tasse relative allo stesso. I
giudici di merito avevano da tale accordo desunto «una volontà implicita di
trasferire», affermando che le parti avevano in tal modo posto in essere «un
negozio attributivo dell’immobile a titolo oneroso». Il S.C., pur senza
contestare, in linea di principio, l’ammissibilità di un siffatto
trasferimento, rilevò sul punto che nella pronunzia impugnata mancava
«l’accertamento della sussistenza di un atto scritto consacrante il negozio
attributivo che si sarebbe voluto porre in essere al momento della separazione»
e che «soprattutto manca l’accertamento della determinazione, attraverso l’atto
scritto, del negozio che si sarebbe voluto porre in essere, dei suoi elementi
essenziali, della sua causa, delle sue finalità». Così, dopo avere constatato
che la sentenza impugnata si era limitata ad affermare che con il verbale di
separazione era stato posto in essere un negozio attributivo dell’immobile a
titolo oneroso, senza spiegare se dall’atto scritto risultassero gli elementi
essenziali del negozio, la Cassazione rilevò che le parti nel verbale
separazione si erano limitate a qualificare la moglie «proprietaria»
dell’immobile ed a stabilire che a questa facevano carico le imposte e le tasse
relative allo stesso immobile. La Corte di legittimità criticò quindi la
valutazione della Corte territoriale, che aveva parlato solo della sussistenza
di «una volontà implicita di trasferire», desumendo quella volontà e
l’esistenza di un corrispettivo dalle risultanze della prova testimoniale.
Peraltro, ad avviso dei Supremi Giudici, mancava nella specie l’accertamento
della sussistenza di un atto scritto consacrante il negozio attributivo che si
sarebbe voluto porre in essere al momento della separazione e, soprattutto,
mancava l’accertamento della determinazione, attraverso l’atto scritto, del
negozio che si sarebbe voluto porre in essere, dei suoi elementi essenziali,
della sua causa, delle sue finalità. Accertamento che era tanto più necessario
nel caso in esame, in cui vi era stata una precedente attribuzione a titolo
gratuito nulla e si sarebbe dovuto chiarire, per non ingenerare equivoci, che
la volontà delle parti era quella di procedere ad una nuova attribuzione del
bene alla moglie, ad un nuovo trasferimento della proprietà, questa volta con
causa lecita e quindi con elementi ben precisi che lo differenziavano dalla
prima attribuzione o da un mero riconoscimento o richiamo di questa. Ciò
premesso la Cassazione, prendendo in esame la difesa della moglie, consistente
nel tentativo di rinvenire la causa dell’attribuzione in discorso nell’obbligo
di mantenimento, ammise che in sede di separazione consensuale i coniugi
potessero effettuarsi attribuzioni di diritti patrimoniali a titolo vuoi di datio in solutum, vuoi di contratto
atipico con causa onerosa. Essa respinse però l’assunto della stessa
resistente, ad avviso della quale una siffatta causa sarebbe resa manifesta
dalla dichiarazione con cui le parti – nella specie – si erano limitate a
qualificare la moglie «proprietaria» di un certo immobile e a stabilire che a
questa avrebbero fatto carico le imposte e le tasse relative allo stesso. In
considerazione di ciò la Corte cassò la pronunzia d’appello, con rinvio
precipuamente volto ad accertare «tenendo conto soprattutto del verbale di
separazione, (…) se effettivamente esso e le sue clausole possano essere
interpretati nel senso che effettivamente le parti vollero porre in essere una
convenzione nuova sostanzialmente e formalmente valida e completa, con la
quale, onerosamente, attribuivano la proprietà dell’immobile alla moglie».
Per una decisione di legittimità che ha affermato non solo
la validità, ma anche il carattere traslativo della clausola contenuta nel
verbale di separazione consensuale, del tenore seguente: [la moglie] «riconosce
l’esclusiva proprietà del marito» (relativamente ad un immobile) cfr. Cass., 11
novembre 1992, n. 12110, in Giur. it.,
1993, I, 1, c. 303, con nota di Morace
Pinelli. Al riguardo la Corte
Suprema ha rimarcato che «La Corte del merito ha qualificato l’atto come non
meramente ricognitivo (in tal senso si era invece espresso il giudice di primo
grado), in particolare rilevando che una semplice dichiarazione di scienza in
un contesto in cui si trattava di dare sistemazione ai rapporti personali ed
economici in conseguenza della separazione sarebbe stata priva di significato».
Tale natura «attributiva» del negozio è stata così confermata in sede di
legittimità, rilevandosi che, in ogni caso, nella specie risultava rispettata
la forma voluta dalla legge, non altro che l’atto scritto prevedendosi per le
divisioni immobiliari (art. 1350 n. 11, c.c.) e non essendo necessario l’atto
notarile per l’accennato negozio atipico, che non realizza, stante la causa, un
intento di liberalità, né configura una convenzione matrimoniale ex art. 162 c.c. (che postulerebbe il
normale svolgimento della convivenza coniugale). Sul tema v. inoltre Cass., 30
agosto 1999, n. 9117: «E’ valida ed efficace la clausola di accordo di
separazione sia che riconosca a uno o a entrambi i coniugi la proprietà
esclusiva di singoli beni mobili o immobili, sia che ne operi il trasferimento
in favore di uno di loro al fine di assicurarne il mantenimento, e sia, ancora,
che impegni uno dei coniugi a compiere quel trasferimento al fine di provvedere
al mantenimento della prole».
Nel senso che il riconoscimento della proprietà non
potrebbe produrre l’effetto contemplato dall’art. 1988 c.c., che la costante
giurisprudenza di legittimità applica ai soli rapporti di carattere
obbligatorio, cfr. Cass., Sez. Un., 31 marzo 1971, n. 936; Cass., Sez. Un., 6
aprile 1971, n. 1017; Cass., 24 maggio 1975, n. 2108; Cass., 17 gennaio 1978,
n. 202; Cass., 7 febbraio 1978, n. 569; Cass., 7 maggio 1980, n. 3019; Cass., 8
marzo 1984, n. 1621; Cass., 24 agosto 1990, n. 8660. Nel senso che l’atto
ricognitivo del diritto di proprietà o di altri diritti reali non può neppure
dispiegare l’efficacia di cui all’art. 2720 c.c., valendo tale disposizione
soltanto in ordine ai fatti produttivi di situazioni o rapporti giuridici
sfavorevoli al dichiarante, e non potendo esplicarsi al di fuori dei casi
espressamente previsti dalla legge, cfr. Cass., 20 febbraio 1992, n. 2088, in Giust. civ., 1993, I, p. 1302.