FAMIGLIA DI
FATTO E CONVIVENZE:
TUTELA DEI
SOGGETTI INTERESSATI
E
REGOLAMENTAZIONE DEI RAPPORTI PATRIMONIALI
IN VISTA
DELLA SUCCESSIONE (*)
Sommario: 1. La tutela del convivente more uxorio superstite. Impostazione del problema. – 2. Caratteristiche dei negozi post mortem ed esigenze di tutela del convivente superstite. – 3. Negozi post mortem
tra conviventi more uxorio: il
contratto a favore di terzo. – 4. Negozi post mortem tra conviventi more uxorio: rendita vitalizia e
mantenimento vitalizio. – 5. Negozi post mortem diretti ad assicurare l’acquisto della proprietà su
beni o somme di denaro: acquisto en
tontine, acquisto «incrociato», riconoscimenti di debito. – 6. Famiglia di fatto
e trust. – 7. Famiglia di fatto e vincolo di destinazione ex art. 2645-ter c.c. Impostazione del problema. – 8. Art.
2645-ter c.c. ed effetti
traslativi. Critica dell’opinione dominante. – 9. Vicende
traslative disposte dall’autonomia delle parti in relazione all’art. 2645-ter c.c. – 10.
Conclusioni. |
1. La tutela
del convivente more uxorio superstite. Impostazione del problema.
«Concubina non succedit ab intestato ejus concubinario,
nec e contra, quia in ista successione requiritur justum matrimonium et hoc non
verificatur in concubina; legatum tamen concubinae fieri potest a privato».
Così, a cavallo tra XV e XVI secolo, Filippo Decio [1] riassumeva la tutela successoria dei soggetti
coinvolti in quella aggregazione sociale che oggi chiamiamo famiglia di fatto,
rispondendo negativamente alla questione se il passo del Codex di Giustiniano relativo ai (pur modestissimi, in allora)
diritti successori del coniuge superstite [2] fosse estensibile ai concubinarii. Dopo cinque secoli la situazione italiana, come
ognuno potrà ben comprendere, non è poi sostanzialmente diversa da quella
descritta dall’illustre maestro del Guicciardini, ma il tema delle relazioni
giuridiche tra conviventi more uxorio
ha assunto dimensioni tali da non poter essere concentrato in una breve
relazione di poche pagine. Sia consentito quindi, in apertura, un sintetico
richiamo a precedenti studi dello scrivente, nei quali potranno rinvenirsi –
oltre ai richiami storici – i necessari riferimenti alla dottrina italiana e
straniera, nonché alla giurisprudenza [3].
Dovrà qui, innanzi tutto, sommariamente ribadirsi che
i rapporti patrimoniali all’interno del faux
ménage appaiono riconducibili, ad
instar di quanto avviene per la famiglia legittima, alla diarchia tra
«regimi legali» e «regimi convenzionali». Alla prima categoria possono
ascriversi rimedi di diritto comune delle obbligazioni, quali la soluti retentio conseguente al riconoscimento
del carattere di atto di adempimento di obbligazione naturale proprio delle
prestazioni patrimoniali tra conviventi [4], nonché l’azione di ingiustificato arricchimento, per
le prestazioni (vuoi in denaro, vuoi in lavoro, vuoi in natura), sulla cui
ammissibilità in subiecta materia
sussistono peraltro in dottrina e giurisprudenza non poche perplessità [5].
Anche il tema dei regimi convenzionali, e dunque dei
contratti di convivenza, appare oggi assumere, specie alla luce delle
esperienze straniere e dei dibattiti de
iure condendo di casa nostra, proporzioni quanto mai estese [6]. Tra i multiformi aspetti che compongono quest’ultimo
argomento sarà qui d’uopo soffermarsi sui soli profili attinenti alla tutela post mortem del convivente.
In effetti, una delle clausole di cui all’estero, già
prima dell’introduzione di apposite normative a tutela della convivenza, veniva
e viene ancora con maggior frequenza raccomandato l’inserimento nei contratti
di convivenza concerne proprio la previsione di effetti giuridici destinati a
prodursi dopo la morte di uno dei contraenti e a beneficio dell’altro, quale
strumento al fine di assicurare la tranquillità economica del partner superstite [7]. Nel nostro ordinamento, però, la proposta viene
inevitabilmente a scontrarsi con il divieto dei patti successori [8], il quale, come noto, investe non soltanto i negozi
con cui un soggetto dispone della propria successione, bensì anche quelli con i
quali ci si obbliga a istituire erede taluno [9], come in quei casi, su cui la giurisprudenza ha già
avuto modo di pronunziarsi, che vedevano la promessa di istituzione di erede
scambiarsi con l’impegno della controparte di accudire alle faccende domestiche
del de cuius [10], ovvero di fornire a quest’ultimo alloggio e
assistenza per il resto dei suoi giorni [11].
Ma non basta. La dottrina e la giurisprudenza
dominanti vanno da tempo affermando la nullità non solo del patto successorio,
ma anche del testamento che vi abbia dato esecuzione, dal momento che la
presenza di un impegno a testare in un determinato modo escluderebbe la
spontaneità dell’atto di ultima volontà, pur restando salva la possibilità (per
il vero assai remota) di una convalida ex
art. 590 c.c. [12]. La gravità di tali conseguenze deve indurre dunque
alla massima attenzione circa l’eventuale predisposizione in un contratto di
convivenza di effetti destinati a operare sul patrimonio di una delle parti
dopo la sua morte. Al riguardo, c’è da chiedersi quale sia l’interesse dei partners a concludere un patto
successorio e in quale modo lo stesso possa essere soddisfatto mediante negozi
che non siano vietati, né direttamente, né mediante la regola della frode alla
legge.
2.
Caratteristiche dei negozi post
mortem ed esigenze di tutela del
convivente superstite.
Sul primo interrogativo posto nel precedente paragrafo
va detto che l’interesse in discorso sembra essere quello di operare
trasferimenti di diritti che godano, a un tempo, delle due caratteristiche
dell’irrevocabilità, da un lato, e della operatività dal momento della morte
del dante causa dall’altro [13]. E’ chiaro che il primo dei due obiettivi potrebbe
essere agevolmente raggiunto mercé il contratto (si pensi soprattutto alla
donazione), che presenta però anche l’«inconveniente» di determinare la perdita
immediata dei diritti trasferiti, mentre il secondo potrebbe essere conseguito
con il testamento, che peraltro è un atto per sua natura revocabile usque ad vitae supremum exitum.
I requisiti comunemente indicati come caratteristici
dei patti successori istitutivi (o confermativi) sono, come noto, i seguenti:
a) che la convenzione sia stipulata prima dell’apertura della successione; b)
che con essa il promittente abbia inteso provvedere in tutto o in parte alla
propria successione, privandosi così dello ius
poenitendi; c) che l’acquirente abbia
contrattato o stipulato come avente diritto alla successione stessa; d) che i
diritti oggetto del patto facciano parte di una successione ancora da aprirsi;
e) che l’acquisto avvenga successionis
causa, e non ad altro titolo [14]. Di particolare importanza appare dunque quest’ultimo
elemento, posto che i contratti di cui si discute sono sicuramente stipulati
prima dell’apertura della successione e (almeno generalmente) su diritti
destinati a far parte della stessa. Occorre perciò chiedersi se vi siano atti
destinati a produrre effetti (o, quanto meno, taluni effetti) solo dopo la
morte del titolare dei diritti alienati, ma che possano ciò non di meno
qualificarsi come inter vivos.
Al riguardo è stata individuata una nuova categoria di
negozi tra vivi, definiti post mortem, nei quali l’evento del decesso
di uno dei contraenti non è considerato o elevato dalle parti a causa
dell’attribuzione, bensì è ritenuto un mero requisito condizionante la produzione
degli effetti definitivi propri del negozio, senza escludere la produzione di
effetti limitati o prodromici, peculiari al contratto sottoposto a condizione
sospensiva, consistenti nell’aspettativa tutelata dalla legge (art. 1356 c.c.)
dell’acquisto del diritto. Non è questa la sede per una disamina dei singoli
istituti, né del fondamento o del futuro del divieto ex art. 458 c.c. [15]: sarà sufficiente, ai fini della presente indagine,
un richiamo a quei rimedi che maggiormente si prestano a soddisfare le esigenze
di tipo successorio proprie della coppia di fatto.
Si è già avuto modo di dire che la donazione pura e
semplice è (problemi di riduzione a parte) l’istituto destinato a realizzare
nel migliore dei modi l’interesse del beneficiario, in quanto atto, a
differenza del testamento, essenzialmente irrevocabile (se non nelle
circoscritte ipotesi dell’ingratitudine e della sopravvenienza di figli); essa
presenta peraltro la già segnalata controindicazione di privare immediatamente
il donante della disponibilità dei beni donati, cui il disponente in vita non
intende invece rinunziare. Quest’effetto indesiderato può essere, almeno in
parte, evitato per mezzo della donazione con riserva di usufrutto a vantaggio
del donante (art. 796 c.c.), la cui validità è fuori discussione, in quanto in
essa il trasferimento della proprietà è immediato [16]. Dibattuta è invece la possibilità di sottoporre gli
effetti di una donazione alla morte del disponente: tale eventualità va però
negata, tanto con riguardo alla cosiddetta donatio
mortis causa, la quale non si distingue da un patto successorio istitutivo
a titolo gratuito [17], quanto con riferimento alla liberalità sottoposta
alla condizione della morte (si moriar) o della premorienza (si praemoriar)
del donante [18], la cui invalidità andrebbe comunque affermata sotto
il profilo della frode alla legge [19].
Un espediente ugualmente poco produttivo al fine di
eludere in qualche modo le aspettative dei legittimari potrebbe essere
costituito dalla… trasformazione del convivente in legittimario mediante
adozione, ovviamente a condizione che di tale atto sussistano i presupposti. Il
rimedio è però sconsigliabile per il suo carattere intimamente irreversibile:
in caso di rottura, invero, i partners
si vedrebbero condannati, paradossalmente, a restare uniti per il futuro da un
rapporto (a differenza del matrimonio, addirittura) indissolubile [20].
3. Negozi post mortem tra
conviventi more uxorio: il contratto
a favore di terzo.
Uno strumento che può consentire di raggiungere
lecitamente risultati sostanzialmente analoghi a quelli di un patto successorio
è costituito dal contratto a favore di terzo con prestazione da effettuarsi
dopo la morte dello stipulante (art. 1412 c.c.), e – in particolare –
dall’assicurazione sulla vita a favore di un terzo (art. 1920 ss. c.c.). In
entrambi i casi, infatti, la causa dell’acquisto da parte del terzo (cioè il
convivente superstite) è rappresentata non già dalla morte dello stipulante, ma
dal contratto. Inoltre, ogni dubbio in punto frode alla legge è eliminato
dall’evidente diversità di «risultati giuridici» rispetto al patto successorio,
posto che il rapporto contrattuale intercorre non già fra il beneficiario e lo
stipulante, ma tra quest’ultimo e il promittente. Per giunta, il diritto
acquistato, stando almeno all’opinione prevalente, non proviene dal patrimonio
dello stipulante, ma è un rapporto autonomo che trae la sua origine dal
contratto e che si trasmette al terzo inter
vivos [21].
La tranquillità del convivente «debole» ben potrà,
dunque, essere garantita anche per il periodo successivo alla morte del partner per mezzo di un contratto di
assicurazione sulla vita di quest’ultimo, l’impegno a sottoscrivere (magari
reciprocamente) il quale può essere assunto nel contratto stesso di convivenza [22]. Con riferimento a quest’ultima clausola andrà
osservato che un eventuale inadempimento rispetto a tale obbligo esporrebbe gli
eredi del soggetto inadempiente al risarcimento dei danni verso il superstite,
che potrebbe così richiedere a essi il pagamento della somma che avrebbe
ottenuto qualora il de cuius avesse concluso l’assicurazione.
Sempre in relazione al contratto a favore di terzi e a
quello di assicurazione sulla vita, si potrebbe suggerire di inserire nello
stesso contratto di convivenza (per iscritto) quella rinunzia al potere di
revoca del beneficio attribuito al terzo prevista dagli artt. 1412 e 1921, c.
2, per il caso la prestazione debba essere effettuata dopo la morte dello
stipulante, e che, secondo taluni, costituirebbe un’eccezione al divieto dei
patti successori [23]; ad essa dovrebbe accompagnarsi, nell’atto medesimo,
la dichiarazione del beneficiario di voler profittare del beneficio,
dichiarazione che, ai sensi delle disposizioni testé citate, produce l’effetto
di paralizzare un’eventuale revoca [24].
Ancora nell’ambito delle disposizioni a favore di
terzo potrebbe suggerirsi la costituzione di un deposito bancario con
intestazione del libretto di risparmio nominativo al terzo, ma con riserva in
capo al solo costituente della facoltà di effettuare prelevamenti, e con
conferimento del diritto di prelievo all’intestatario sospensivamente
subordinato alla morte del primo: il marchingegno è già uscito indenne da
almeno un vaglio giurisprudenziale [25]. Un’ulteriore applicazione del contratto a favore di
terzi può poi essere ravvisata nella costituzione di una rendita vitalizia a
vantaggio del convivente, oppure di un vitalizio alimentare, in relazione ai
quali occorrerà però avere l’accortezza di pattuire espressamente
l’intrasmissibilità del potere di revoca agli eredi dello stipulante [26].
Non va però trascurato che tutti i negozi in questione
– come del resto ogni disposizione a favore di terzi compiuta animo donandi – assumono il carattere di donazioni indirette e sono
quindi assoggettabili a riduzione.
4. Negozi post mortem tra
conviventi more uxorio: rendita
vitalizia e mantenimento vitalizio.
A prescindere dallo schema del negozio a favore di
terzo, ci si può chiedere se la tranquillità economica del convivente superstite
possa essere assicurata mediante una rendita vitalizia o un vitalizio
alimentare stipulato direttamente tra le parti. Come illustrato in altra sede [27], la dottrina
italiana pare orientata a individuare quale contenuto dei contratti di
convivenza l’obbligo di corresponsione di somme di denaro a titolo di
mantenimento da parte del partner più
abbiente in favore di quello più bisognoso [28]. Ma c’è da chiedersi se
invece non convenga optare per forme negoziali più collaudate, quali per esempio
il contratto di mantenimento vitalizio [29]. Si tratta della
convenzione con la quale una parte attribuisce all’altra il diritto di esigere,
vita natural durante, di essere mantenuta, quale corrispettivo dell’alienazione
di un bene mobile o immobile o della cessione di un capitale [30]. Più precisamente,
l’obbligo del vitaliziante consiste non già nel versamento di somme di denaro,
ma nella corresponsione, in natura, di vitto, alloggio vestiario e assistenza
medica, anche se la prassi conosce altre pattuizioni di carattere accessorio [31].
Proprio l’appartenenza di
tali prestazioni al novero di quelle di fare, anziché di dare, ha da sempre
indotto la dottrina maggioritaria a evidenziare l’atipicità del contratto in
esame rispetto alla rendita vitalizia, secondo una tesi che riscuote ora anche
il consenso della Suprema Corte, e che pare senz’altro preferibile, anche in
considerazione del cospicuo numero di altri elementi differenziatori nei
riguardi della figura regolata dall’art. 1872 ss. c.c. [32].
Nell’ambito dei rapporti tra
conviventi more uxorio il contratto di mantenimento vitalizio potrebbe però
assumere un ulteriore connotato caratterizzante, idoneo ad allontanarlo
definitivamente dalla rendita vitalizia. Nello schema negoziale potrebbe
infatti mancare la cessione della proprietà di determinati beni dal vitaliziato
al vitaliziante, (specie quando uno dei due difettasse dei mezzi necessari per
un’operazione del genere). In tal caso la controprestazione, a fronte
dell’impegno del vitaliziante, potrebbe essere costituita da un obbligo
reciproco di assistenza materiale, oppure potrebbe mancare del tutto. Ma a
questo punto occorre ammettere che il primo caso non sembra differire di molto
dal contratto di contribuzione che si è cercato di enucleare in altra sede [33], mentre nel secondo appare
inevitabile riconoscere la presenza di una donazione. Proprio per questo, la
previsione dell’obbligo di mantenimento a carico di una soltanto delle parti,
senza alcuna controprestazione, richiede necessariamente il rispetto della
forma solenne, ex art. 782 c.c. [34].
Non va trascurato poi che un
accordo del genere di quello in oggetto potrebbe dar luogo a sospetti di
contrarietà al buon costume, inducendo a ritenere che la controprestazione per
l’impegno a mantenere sia in realtà costituita dal consenso alle relazioni
sessuali; appare quindi consigliabile che nel contratto di convivenza
l’eventuale obbligo di mantenimento assunto da uno dei contraenti a vantaggio
dell’altro venga posto in corrispondenza biunivoca con un reciproco dovere di
contribuzione, ovvero con un’altra prestazione a carico del beneficiario, che
potrà essere costituita dalla cessione di un capitale, ovvero dalla prestazione
di lavoro domestico, o ancora dalla messa a disposizione di certi beni [35], usando peraltro l’accortezza,
qualora vi sia sproporzione tra le prestazioni, di osservare la forma solenne
prevista per la donazione.
Un
problema legato a siffatto tipo di negozi riguarda la possibilità della
previsione di eventuali limiti d’ordine temporale all’obbligo di contribuzione
o di mantenimento così fissato. In proposito, si può innanzi tutto ritenere
valida anche un’espressa subordinazione degli effetti del vincolo obbligatorio
alla durata del rapporto di fatto, in quanto una clausola del genere verrebbe a
concretare una condizione risolutiva ordinariamente (e non meramente)
potestativa. Inutile dire che una siffatta cautela appare consigliabile per il partner
che figuri quale unico (o prevalente) obbligato e voglia porsi al riparo dal
rischio di dover continuare ad adempiere anche dopo la rottura del legame. Come
si è invero dimostrato in altra sede, la presupposizione non sembra poter
giocare alcun ruolo nel contesto dei rapporti tra conviventi [36].
Assai
più delicato appare invece l’aspetto della possibilità di pattuire una durata
minima del periodo di corresponsione della contribuzione (consistente
eventualmente anche nella prestazione lavorativa, specie se domestica) o del
mantenimento, indipendentemente dalla durata del ménage e dunque anche
dopo la rottura di quest’ultimo o la morte del convivente «forte». Una simile
clausola – una delle poche in grado di costituire una vera garanzia per il
convivente «debole» – potrebbe infatti venirsi a scontrare con quel principio
generale d’ordine pubblico che fa divieto ai soggetti di assumere vincoli
giuridici di durata eccessiva. L’ammissibilità di un impegno del genere
apparirebbe dunque a prima vista collegata al rispetto di convenienti limiti di
tempo, la cui concreta estensione dovrebbe essere di volta in volta accertata,
tenute in considerazione le particolarità del caso concreto. Peraltro, proprio
l’indiscussa validità del contratto vitalizio di mantenimento induce ad
affermare che una prestazione di tipo contributivo-assistenziale possa essere
efficacemente assunta anche per un numero considerevole di anni, ovvero per
tutta l’esistenza del beneficiario; l’unico limite sarà dunque costituito dalla
durata della vita del creditore della prestazione.
La
validità di impegni assunti al fine di garantire «vita natural durante» la
tranquillità economica di uno dei conviventi e di porlo quindi al riparo dalle
conseguenze della rottura del ménage,
così come della morte del partner, è
stata del resto già riconosciuta dalla giurisprudenza, tanto di legittimità,
che di merito: nel primo caso si trattava di un caso di comodato concesso dal
convivente alla sua compagna, per tutta la vita di quest’ultima, salvo che essa
di sua iniziativa avesse posto fine al ménage.
La fattispecie ha costituito l’occasione per la Corte Suprema di affermare che
la convivenza more uxorio tra persone in stato libero «non costituisce causa di
illiceità e, quindi, di nullità di un contratto attributivo di diritti
patrimoniali collegato a detta relazione, in quanto tale convivenza, ancorché
non disciplinata dalla legge, non contrasta né con norme imperative, non
esistendo norme di tale natura che la vietino, né con l’ordine pubblico, che
comprende i principi fondamentali informatori dell’ordinamento giuridico, né
con il buon costume, inteso, a norma delle disposizioni del codice civile (vedi
artt. 1343, 1354), come il complesso dei principi etici costituenti la morale
sociale di un determinato momento storico» [37].
Nel
secondo caso un giudice di merito [38], in relazione ad un
contratto di usufrutto vitalizio su di un immobile, esclusa la natura donativa
dell’attribuzione, ha ammesso la validità del negozio in oggetto e la sua
idoneità pertanto a costituire validamente il diritto reale in questione in
capo all’usufruttuaria e dunque per tutta la vita di costei, a prescindere
dalla rottura del legame affettivo e di convivenza, nel frattempo intervenuta [39].
5. Negozi post mortem
diretti ad assicurare l’acquisto della proprietà su beni o somme di denaro:
acquisto en tontine, acquisto
«incrociato», riconoscimenti di debito.
Abbandonando le figure negoziali tendenti ad
assicurare forme di rendita o comunque diritti di godimento (obbligatori o
reali) a favore del convivente superstite e tornando al problema
dell’individuazione dei modi in cui sia eventualmente possibile predisporre
forme di acquisto della proprietà di beni in capo al partner, ci si imbatte subito in due rimedi suggeriti in Francia,
ma che non sembrano avere ancora suscitato interesse da noi. Il primo concerne
il cosiddetto acquisto en tontine, con cui si pattuisce, all’atto
della stipula di un contratto di acquisto da parte di entrambi i conviventi,
che il primo di essi a morire si considererà come non fosse mai stato titolare
del diritto, che si riterrà invece come sin ab
initio trasferito in capo al solo
superstite. Un medesimo avvenimento, cioè la morte di uno dei due partners, fungerebbe così, al contempo,
da condizione risolutiva dell’acquisto in capo al premorto e sospensiva del
trasferimento in capo all’altro. La clausola, non prevedendo (a differenza di
quella detta d’accroissement, colpita da nullità), un trasferimento mortis causa, sfugge al divieto dei patti successori [40].
In Italia l’unico precedente in termini sembra
costituito da un’ormai remota pronunzia di legittimità [41], che ha ricondotto alla figura del patto successorio
vietato «l’atto con il quale due soggetti comprino in comune la proprietà di un
immobile, contestualmente pattuendo che la quota ideale di comproprietà da
ciascuno acquistata debba successivamente pervenire a chi di essi sopravviva,
in quanto quest’ultimo acquista l’altra quota non dall’originario venditore che
l’aveva già alienata al soggetto premorto, ma direttamente dal medesimo, al di
fuori delle prescritte forme di successione mortis
causa». Dalla lettura della massima
non è dato evincere se il trasferimento post
mortem della quota fosse o meno
dotato di carattere retroattivo. La motivazione, del resto, contiene un unico
fugace accenno (si tratta, in particolare, dell’uso del verbo «ritrasferire»)
dal quale si può comprendere che le parti avevano previsto un trasferimento
successivo della quota del premoriente al superstite [42].
L’altro espediente suggerito dalla pratica d’Oltralpe
è costituito dall’acquisto «incrociato» in capo, rispettivamente, all’uno e
all’altro dei conviventi, della nuda proprietà su di una metà del bene e
dell’usufrutto sulla rimanente metà. Ne consegue che, alla morte del primo
degli acquirenti, il superstite acquista la proprietà piena della quota di cui
era nudo proprietario, mentre rimane usufruttuario dell’altra quota, così
evitando di perdere la disponibilità del bene stesso [43].
Con notevole cautela deve poi essere accolto
l’ulteriore suggerimento, conosciuto da tempo dalla prassi francese, relativo
al rilascio di dichiarazioni di debito da parte di un convivente a vantaggio
dell’altro [44], così che, al momento dell’apertura della
successione, quest’ultimo «possa assumere la posizione di creditore nei
confronti di quel compendio dal quale è escluso come erede» [45]. Di tutta evidenza appare infatti la necessità di
evitare che le predette dichiarazioni si trasformino in facile strumento di
ricatto ai danni del partner che le
ha rilasciate. Così, se ne potrebbe ipotizzare un’emissione vicendevole e su
identiche somme, di modo che gli atti ricognitivi finirebbero con
l’«annullarsi» reciprocamente qualora uno dei due intendesse farne uso in vita
dell’altro. In tal caso occorrerebbe però anche adottare accorgimenti idonei a
evitare che le «controdichiarazioni» confessorie in possesso del convivente
deceduto per primo cadessero in mani estranee (si pensi a eventuali altri
eredi). La soluzione migliore sembra quella di affidare le stesse a un
depositario (per esempio a un notaio) scelto di comune accordo, con l’impegno
da parte di quest’ultimo di farne consegna al convivente superstite oppure,
durante la vita di entrambi, soltanto sulla base di una richiesta congiunta.
6. Famiglia di fatto e
trust.
Non è raro rinvenire nella letteratura
più recente il richiamo al ruolo che la previsione di un trust potrebbe svolgere al fine di assicurare le fonti di
sostentamento della famiglia di fatto, finché essa è in atto, nonché la
tranquillità economica del convivente superstite, dopo la morte di uno dei partners. Non è certo questa la sede per
affrontare la vexata quaestio circa
l’ammissibilità del trust interno,
che in altra sede si è ritenuto di dover risolvere in senso negativo [46], pur dandosi atto dei non pochi argomenti che
sembrerebbero militare in senso opposto, non ultimo quello – sicuramente ad
effetto – dell’estrema «duttilità» dell’istituto di common law, che, proprio nell’esperienza dei paesi anglosassoni, ha
saputo dimostrare come famiglia legittima e famiglia di fatto altro non siano
che due facce di una stessa medaglia [47].
Così si è ipotizzato il caso dell’uomo
che intenda provvedere alla propria compagna non abbiente, senza tuttavia fare
danno alla propria famiglia legittima e, al tempo stesso, commisurando le
elargizioni alle effettive necessità della convivente: il ricorso al trust sarebbe qui consigliato di fronte
alla constatazione secondo cui nessun
negozio conosciuto nel nostro ordinamento sarebbe in grado di assicurare tali
finalità [48]. La conclusione non sembra però condivisibile:
invero, ogni attribuzione effettuata (direttamente come indirettamente) alla
convivente andrà a diminuire il patrimonio del disponente, così riducendo le
«aspettative» (di fatto) dei futuri eredi legittimi e dunque «facendo danno
alla famiglia legittima»; d’altro canto, anche la finalità di «commisurare le
elargizioni alle effettive necessità della compagna», ben può essere
soddisfatta mercé la stipula di un contratto di mantenimento, in cui si abbia
l’accortezza di predeterminare il quantum delle prestazioni in relazione
ai redditi e ai patrimoni delle parti [49].
Taluno ha poi anche prospettato un
complesso caso pratico di trust finalizzato ad eseguire l’obbligazione
naturale gravante su un convivente dotato di un patrimonio assai più
consistente di quello della propria compagna [50]. Nella specie il ricorso al trust è però stato
erroneamente presentato come l’unico rimedio in grado di superare l’ostacolo
posto dall’incoercibilità delle obbligazioni naturali, laddove è chiaro che, da
un lato, la creazione di un trust non è certo coercibile, se il soggetto
che dovrebbe assumere la veste di settlor non intende dar luogo a tale
attribuzione, e, dall’altro, una volta che il convivente «forte» intende
adempiere, questi ben può obbligarsi mercé la stipula di un contratto di
convivenza, nei modi e nelle forme in altra sede descritti [51].
Ancora, si è proposto di «abbinare» la
creazione di un trust a contratti quali l’assicurazione sulla vita o il
deposito bancario: la designazione di un fiduciario quale beneficiario della
polizza sulla vita, infatti, garantirebbe il settlor che l’arricchimento
del beneficiario avvenga attraverso la corresponsione di utili prodotti in
forza di un’oculata amministrazione delle somme dovute dall’assicuratore [52]. Peraltro, ad avviso di chi scrive, sembra difficile
comprendere per quale ragione, supponendo che il beneficiario sia persona
maggiorenne e capace di amministrarsi, non sia più idoneo, per il conseguimento
degli scopi perseguiti dal disponente, oltre che meno oneroso, prevedere
l’attribuzione della prestazione direttamente in capo al convivente superstite…
D’altro canto, sempre secondo lo studio
appena citato, l’intestazione di un deposito bancario ad un bare trustee,
a beneficio prima del disponente e poi del partner superstite di questi,
risolverebbe i problemi relativi al residuo non prelevato in vita, di cui il
titolare dovrebbe disporre per testamento (nel caso di cointestazione di conto
bancario congiunto semplice con il partner, nel quale gli intestatari
possono ritirare l’intera somma congiuntamente e, disgiuntamente, solo una
porzione pari alla propria quota), eliminando altresì i rischi di un
prelevamento totale da parte del partner (nel caso di conto congiunto
solidale) [53].
A ben vedere, però, sembra quanto mai
inopportuno affidare ad un soggetto estraneo l’amministrazione di un conto
corrente che, verosimilmente, dovrebbe servire a fornire la necessaria base
economica e finanziaria del ménage, con tutto quello che siffatta
soluzione comporta, anche dal punto di vista di una gestione quotidiana che
appare assai difficile predeterminare nell’atto istitutivo del trust in
tutti i sui molteplici (e sovente inaspettati) risvolti.
A parte le specifiche perplessità sulla
reale necessità, utilità e convenienza economica di un trust nelle situazioni testé delineate, ove si ritenesse
(contrariamente all’opinione dello scrivente) di poter superare le riserve
d’ordine generale sull’ammissibilità di un trust interno (riserve che
dovrebbero però venir meno nel caso di trust
costituito in presenza di un effettivo elemento di estraneità), potrebbero
dunque ipotizzarsi trusts anche nella
famiglia di fatto. Il costituente (uno dei conviventi, o entrambi, ovvero anche
un terzo) potrebbe così segregare parte del proprio patrimonio, dettando al trustee
norme a beneficio dell’unione di fatto e magari provvedere anche in ordine
all’eventuale scioglimento di quest’ultima.
E proprio in contemplation di una possibile rottura si dovrebbero inserire
apposite previsioni volte a disciplinare la sorte dei cespiti patrimoniali,
magari prevedendo una qualche forma di «ultrattività» del trust a tutela
della parte debole e/o della prole. In ogni caso – a scanso di pericolosi
equivoci – sarebbe opportuno individuare in maniera esplicita e certa le
situazioni nelle quali la convivenza si dovrebbe considerare come venuta meno
(invio di una lettera, fissazione di residenze anagrafiche distinte, ecc.).
Con specifico riguardo al profilo della
cessazione della convivenza, va aggiunto che una delle ragioni per le quali
parte della dottrina raccomanda la creazione di trusts tra conviventi è
rappresentata dalla possibilità di far assumere ad essi una valenza post
mortem, il che peraltro – a parte la questione del possibile contrasto con
il divieto dei patti successori, quanto meno sotto l’angolo visuale della frode
alla legge – può porre problemi in relazione al tema della tutela dei
legittimari. Al riguardo si precisa in dottrina che, mentre nel negozio di
trasferimento dei beni dal settlor al trustee non è
rintracciabile alcuna liberalità, per mancanza dell’animus donandi in capo al primo e
dell’elemento oggettivo dell’arricchimento in capo al secondo, costituirebbe,
invece, donazione indiretta l’attribuzione che il settlor attua a favore
del beneficiario [54]. Tuttavia, la stessa dottrina ammette che assai
problematica appare la tutela dei legittimari nelle diverse fattispecie che la
pratica propone [55].
Sono, invece, sicuramente soggetti a riduzione da
parte dei legittimari quei trusts che siano stati costituiti per
testamento: d’altro canto, le norme nazionali sulle successioni sono fatte
esplicitamente salve dall’art. 15 della Convenzione de L’Aja. Comunque, si
consiglia l’inserimento, nell’atto istitutivo, di una clausola di salvaguardia
che faccia obbligo, al fiduciario o al beneficiario finale del patrimonio, di
garantire i diritti dei legittimari del disponente, ove lesi al momento della
sua morte, integrando automaticamente, con beni o denaro, pur nei limiti del
valore del trust, la quota loro riservata dalla legge. Ma, come si è
avuto modo di vedere [56], la tutela del convivente superstite sembra attuabile
anche mercé negozi o istituti maggiormente «collaudati» nel nostro ordinamento.
7.
Famiglia di fatto e vincolo di
destinazione ex art. 2645-ter c.c. Impostazione del problema.
E’ noto che l’art. 39-novies della l. 23
febbraio 2006, n. 51, di conversione con modifiche del d.l. 30 dicembre 2005, n. 273 («Recante definizione e proroga di termini,
nonché conseguenti disposizioni urgenti. Proroga di termini relativi
all’esercizio di deleghe legislative») è venuto ad introdurre nel nostro
ordinamento l’art. 2645-ter c.c., volto a consentire «atti di
destinazione per la realizzazione di interessi meritevoli di tutela» [57]. A prescindere dalle gravi
questioni generali di inquadramento dell’istituto e dai suoi collegamenti con
il trust, che formeranno oggetto di
apposito e separato studio dello scrivente [58], va detto che alcuni tra i
primi commentatori non hanno esitato a ravvisare nella disposizione la
possibilità di creare vincoli in favore della famiglia di fatto: da
disposizioni sulla casa familiare, alla protezione del patrimonio destinato ad
alimentare le risorse del ménage,
alla creazione di un vero e proprio fondo patrimoniale tra conviventi [59].
Il vero problema posto dalla
norma consiste peraltro nella identificazione delle facoltà concesse al
«conferente»: vale a dire se, mercé l’istituto in oggetto, sia possibile
esclusivamente prevedere la costituzione di un vincolo su beni di proprietà del
costituente medesimo, ovvero se la norma ammetta anche l’effettuazione di
trasferimenti di diritti in capo ad un distinto «esecutore della destinazione»
e, soprattutto, se tale soggetto possa ulteriormente vincolarsi a trasferire,
una volta giunto a scadenza il periodo di durata del vincolo stesso, i beni ad
un soggetto distinto, secondo quanto avviene nelle ipotesi di trust non autodichiarato [60]. E’ evidente che la
risposta positiva ad un siffatto interrogativo consentirebbe di dar vita non
solo ad un vero e proprio «fondo patrimoniale tra conviventi» – ciò che
sicuramente appare possibile, avuto riguardo alla incontestabile rispondenza a
criteri di meritevolezza di un vincolo ex
art. 2645-ter c.c. in favore del ménage di fatto – ma addirittura di
prevedere attribuzioni di cespiti patrimoniali in occasione di determinati
eventi, quali la cessazione del vincolo o la morte del partner «forte».
Peraltro, i concetti di «destinazione per un determinato
periodo» e di «vincolo», contenuti nella norma novellamente introdotta nel nostro
codice civile, sono ben distinti da quello di «trasferimento di un diritto». Un
bene può essere vincolato ad uno scopo senza essere trasferito ad un soggetto
diverso dal suo titolare, come avviene, ad esempio, nel fondo patrimoniale su
beni dei coniugi o nel trust
autodichiarato, nel quale è lo stesso costituente a porsi quale trustee. Vincolo di destinazione
significa che il bene può essere amministrato solo in vista della realizzazione
di quello scopo e che tale bene è aggredibile dai soli creditori i cui diritti
si fondano su atti di gestione compiuti in vista della realizzazione dello
scopo medesimo. Ma tutto ciò, con il trasferimento dal costituente al trustee, che pure caratterizza il trust non autodichiarato, nulla ha a che
vedere.
La prima e provvisoria conclusione alla quale sembra
potersi pervenire sul punto è che l’art. 2645-ter c.c. si limita a prevedere la costituzione di un vincolo in
maniera del tutto avulsa dal fatto che in vista di tale vincolo sia stato
effettuato un trasferimento del diritto sul bene da vincolarsi, ovvero che le
parti pattuiscano un ritrasferimento o un trasferimento ulteriore, una volta
che il vincolo sia giunto a scadenza [61].
8. Art. 2645-ter
c.c. ed effetti traslativi. Critica dell’opinione dominante.
Nonostante quanto si è illustrato nel paragrafo
precedente, molti interpreti concordano nel ritenere che l’art. 2645-ter c.c. possa anche prevedere un
momento traslativo. Più esattamente, mentre alcuni sembrano dare tale effetto
quasi per scontato [62], altri cercano di fornire dimostrazioni al riguardo,
sovente appoggiandosi alle ambiguità della formulazione normativa. Così, si è
affermato che siffatta conclusione trarrebbe conferma dal fatto che il testo
«considera normale l’eccedenza della durata del vincolo rispetto alla vita del
disponente, perché chiama “conferente” il disponente e, infine, perché consente
a terzi interessati di agire per l’attuazione della finalità dell’ “atto di
destinazione” anche dopo la morte del “conferente” e, dunque, necessariamente,
anche dopo la morte del conferente». Non solo. La legge, oltre a parlare di
«conferente» e di «beni conferiti», attribuisce al conferente il potere di
agire per l’adempimento dello scopo, così dando a intendere che, non potendosi
immaginare che il conferente convenga in giudizio se stesso, dovrebbe ritenersi
scontato l’intervento di un terzo soggetto, cui il diritto sul bene vincolato
andrebbe trasferito [63].
Cominciamo dal termine [64] «conferente» e da quello, ad esso riferito, «beni
conferiti». Sotto il profilo strettamente etimologico andrà notato che il verbo
conferire, dal latino confero, deriva
da cum-ferre: le espressioni in
oggetto denotano dunque un atto traslativo (ferre)
compiuto con altri soggetti. La conferma balza agli occhi sol che si ponga
mente a fenomeni quali i conferimenti del diritto societario (cfr. ad es. artt.
2253, 2343 ss., 2440 c.c.), o il conferimento per la costituzione di fondi di
garanzia (art. 2548 c.c.), ma anche il conferimento negli ammassi (art. 837
c.c.), oppure qualora si pensi al verbo «conferire», impiegato dalle norme
(cfr. artt. 737, 739, 740, 751 c.c.) in tema di collazione (termine che deriva,
a sua volta, proprio dal verbo conferre).
La giurisprudenza impiega dal canto suo questa medesima terminologia per
denotare l’inserimento, in comunione convenzionale tra coniugi, di uno o più
beni che, in assenza di convenzione, sarebbero rimasti personali ex art. 179, lett. a), c.c. [65].
Altrettanto sicuramente può però rimarcarsi che, nel
linguaggio corrente, il verbo «conferire» e il sostantivo «conferimento»
possono essere riferiti anche ad un semplice atto di sottoposizione a vincolo,
pure in assenza di trasferimento della proprietà sul bene vincolato, come
dimostrato da una florida messe di pronunzie di legittimità, che, senza alcuna
difficoltà, parlano di «conferimento» (e/o di «beni conferiti») in fondo
patrimoniale [66], come del resto già
si diceva per la dote, che parimenti si sostanziava in un mero vincolo [67] e, a quanto pare,
si comincia a dire pure per il trust
autodichiarato [68]. Quanto sopra
dimostra che – anche senza necessariamente supporre lapsus freudiani del legislatore [69] – l’impiego dei
termini in discorso non tradisce necessariamente l’intento di richiamare una
vicenda traslativa di diritti, ben potendo riferirsi anche alla sola volontà di
denotare la costituzione di un vincolo.
Per quanto attiene poi al fatto che il legislatore mostrerebbe di considerare normale l’eccedenza della durata del vincolo rispetto alla vita del disponente [70], va detto che non sussistono difficoltà nel riconoscere che il vincolo si trasmetta agli eredi del titolare del diritto vincolato: ma ciò non ha nulla a che vedere con la natura traslativa o meno del fenomeno descritto dall’art. 2645-ter c.c. Del resto non si riesce a comprendere perché mai un ipotetico «trustee all’italiana» ex art. 2645-ter c.c. dovrebbe essere dotato di una longevità maggiore di quella del costituente (pardon: conferente). Proprio l’ipotesi (pure essa «fisiologica») della premorienza di tale soggetto rispetto al momento di cessazione del vincolo, ben lungi dal risolvere il problema adombrato, pone, anzi, il quesito della trasmissibilità agli eredi di quest’ultimo.
Venendo alla legittimazione attiva concessa al
conferente medesimo, si è asserito [71] che anche tale elemento confermerebbe gli effetti
traslativi (o anche traslativi) della vicenda descritta nell’art. 2645-ter c.c., poiché non avrebbe senso
legittimare il costituente ad agire contro se stesso. Qui si può però
obiettare, in primis, che il
riferimento all’azione del costituente ben può intendersi come riferita ad un’actio mandati del costituente stesso
contro il mandatario che il medesimo abbia eventualmente incaricato di attuare
lo scopo [72]. D’altra parte, come messo in luce in dottrina, «la
previsione di una sistematica legittimazione attiva del conferente potrebbe (…)
anche indicare che il conferente, essendo sempre altresì gestore del fondo
destinato, ha il potere di attivarsi per la realizzazione del fine di
destinazione contro qualunque soggetto terzo che tenti di impedirla» [73].
Concludendo sul punto, ben può concordarsi con chi
afferma che la norma non pare offrire elementi testuali decisivi in un senso o
nell’altro, poiché utilizza ora termini neutri al riguardo (beni «destinati»;
«vincolo di destinazione»; «fine di destinazione»), ora termini ambivalenti, in
quanto evocano l’immagine di un trasferimento di beni («conferente»; beni
«conferiti»), ma vengono inseriti in un contesto in cui mai viene menzionata
l’esistenza di un soggetto gestore che sia diverso dal soggetto autore della
destinazione [74]. Proprio per questo motivo, anzi, se si considera che
«profilo statico» (attinente alla costituzione del vincolo) e «profilo
dinamico» (relativo al momento traslativo) sono concetti ben distinti e che
l’idea stessa di un vincolo limitato nel tempo appare esclusivamente
compatibile (in assenza di ulteriori elementi, magari propri della cultura di common law, ma inesistenti nel caso di
specie) con l’erogazione di redditi (oltre che con l’utilizzo diretto) dei beni
vincolati, dovrà necessariamente concludersi che il predetto vincolo non può
ritenersi di per sé [75], per la sua struttura, finalizzato alla traslazione
di diritti dominicali sui beni medesimi.
9. Vicende traslative disposte dall’autonomia delle
parti in relazione all’art. 2645-ter
c.c.
La conclusione di cui sopra – secondo cui costituzione
di un vincolo e trasferimento del diritto sul bene già vincolato, o da
vincolarsi, sono vicende radicalmente distinte tra di loro, mentre l’art. 2645-ter c.c. sembra far riferimento alla
sola prima delle due, con conseguente differenziazione rispetto al trust – non risolve ancora di per sé
sola l’ulteriore quesito circa la possibilità che le parti prevedano un
trasferimento in vista dell’attuazione del vincolo, avvalendosi (non già della
norma testé citata, ma) delle regole generali sull’autonomia privata. La
questione rievoca gli accaniti dibattiti sull’idoneità del consenso a
riprodurre nel diritto italiano questo effetto, tipicamente conosciuto dagli atti
costitutivi di trust (almeno, di
quelli non autodichiarati) nel diritto anglosassone [76]. Ad essa si farà cenno in altra sede [77], mentre qui non si potrà far altro che rilevare come
l’esistenza di un articolo quale il 2645-ter
c.c., ancorché non delineante di per sé – come si è visto – una fattispecie
traslativa, possa oggi porsi quale idonea causa al trasferimento operato in
funzione del vincolo di destinazione meritevole di tutela e costituito con il
rispetto delle regole previste dalla disposizione.
In altre parole, mentre in precedenza il trasferimento
in funzione della costituzione di un vincolo da trust, non coperto dall’operatività della Convenzione de L’Aja, per
effetto del disposto del suo art. 4, non poteva ritenersi sorretto da idonea
causa, se non ricorrendo alla controversa tesi della causa fiduciae, può ora dirsi che la translatio dominii compiuta in funzione della costituzione di un
vincolo quale quello (malamente) descritto dall’art. 2645-ter c.c. sia giustificata, proprio perché diretta a porre in essere
un vincolo (questa volta espressamente) riconosciuto dalla legge. Trattasi
dunque di trasferimento causalizzato dall’art. 2645-ter c.c., in quanto posto in essere per raggiungere lo scopo meritevole
di tutela e perché attuato verso un soggetto incaricato, in base ad un apposito
mandato (e/o di un contratto d’opera, visto che il più delle volte non si
tratterà certo solo di porre in essere atti giuridici), di porre in essere
tutti i comportamenti ritenuti idonei al fine di ottenere il conseguimento
dello scopo sperato.
Strettamente collegata al problema dell’effetto
traslativo è la questione dell’eventuale ritrasferimento del diritto dominicale
– una volta trascorso il periodo di durata, o che si sia verificata la morte
del beneficiario – dall’ «attuatore» al costituente, o a un terzo, ovvero
ancora dallo stesso costituente (e contemporaneamente «attuatore», o dagli
eredi di quest’ultimo) ad un terzo. E’ noto che questo aspetto è uno dei profili
salienti dei trusts, che sovente
prevedono proprio la duplice figura del beneficiario immediato e del
beneficiario finale: il primo dei quali è costituito dal soggetto che
s’avvantaggia del vincolo di durata, mentre il secondo (che può anche
coincidere con il primo) è la persona cui andrà trasferita la proprietà dei
beni (già) vincolati [78].
Ancora una volta i sostenitori della ammissibilità del
trust interno non sembrano mostrare
dubbi sulla liceità di una siffatta pattuizione [79], al punto da spingersi ad ipotizzare la
trascrivibilità immediata, nel caso di mandato senza rappresentanza ad
acquistare, del «vincolo di
destinazione dei beni a beneficio del mandante. Senza, quindi, necessità
di attendere l’eventuale inadempimento del mandatario al fine di trascrivere la
domanda di esecuzione in forma specifica dell’obbligo di ritrasferimento»; si
assicurerebbe in tal modo «al mandante una tutela reale almeno a partire dal
momento in cui l’acquisto è effettuato ad opera del mandatario» [80].
Ma, a parte il dubbio [81], più che legittimo, che la novella si occupi
veramente del mandato senza rappresentanza e della causa fiduciae, tutto quanto si può ricavare (e con una certa
fatica!) dall’art. 2645-ter c.c. è –
come si è visto – l’ammissibilità di un trasferimento strumentale ad un vincolo
e non certo quella di un vincolo strumentale ad un (ri)trasferimento. Il
vincolo di cui si discute, infatti, per la sua intrinseca temporaneità non può
esaurirsi se non in un impiego del bene perché il suo reddito (o il suo uso
temporaneo) realizzi scopi meritevoli di tutela denunziati nell’atto
costitutivo: tale impiego non può dunque risolversi un un’attribuzione
definitiva del diritto dominicale (o di altri diritti reali) una volta esaurita
la funzione per cui il vincolo era stato creato.
10.
Conclusioni.
In base a quanto sopra illustrato rimane dunque
evidenziata un’importante ragione di distinzione della fattispecie descritta
dall’art. 2645-ter c.c. rispetto al trust, nel quale, come già ricordato, il
fenomeno del ritrasferimento al settlor
o del trasferimento ad un soggetto distinto dal trustee costituisce un elemento naturale del trust non autodichiarato [82]. Un elemento che peraltro viene sovente a porre, con
riguardo alla nostra legislazione, seri problemi di compatibilità con taluni
istituti del diritto successorio (e di ammissibilità stessa del trust, ai sensi dell’art. 15 della
Convenzione de L’Aja): la clausola di ritrasferimento, se legata alla morte del
trustee, potrebbe invero incorrere in
nullità per violazione del divieto dei patti successori e, se contenuta in una
disposizione mortis causa, per
violazione dell’ordo successivus.
Deve dunque darsi per confermato che, in assenza di
disposizioni normative che espressamente si occupino della successione del
convivente, il testamento costituisce l’unico modo per operare il trasferimento
mortis causa di diritti dall’uno
all’altro dei partners, mentre il
ricorso ai negozi post mortem sopra
enucleati [83] potrà valere, per lo più, per assicurare la
tranquillità economica della parte «debole», mercé negozi a favore di terzo che
il convivente «forte» avrà dovuto avere l’accortezza di stipulare in vita.
Tanto il trust (sempre, beninteso,
che si ritenga l’istituto ammissibile, pur in difetto di elementi di
internazionalità della fattispecie), quanto il vincolo ex art. 2645-ter c.c.,
infine, paiono adatti ad assicurare quella sicurezza economica cui si è appena
fatto riferimento più attraverso l’erogazione di redditi (derivanti dal
capitale vincolato) o la messa a disposizione dei beni vincolati (si pensi alla
casa d’abitazione), che non attraverso la traslazione post mortem della proprietà su cespiti determinati.
Così ad esempio, il già più volte menzionato «fondo patrimoniale tra conviventi», grazie
all’elevato livello di «duttilità» dello strumento ex art. 2645-ter c.c.
rispetto a quello delineato dagli artt. 167 ss. c.c. [84] (ecco, finalmente, una
conseguenza positiva della tecnica legislativa da paese del Terzo Mondo che
sembra caratterizzare il legislatore italiano del terzo millennio!), ben
potrebbe spingersi a prevedere l’erogazione del mantenimento di uno dei membri
del ménage de fait, anche dopo la
rottura di quest’ultimo, o dopo la morte del compagno, per tutta la vita del
superstite.
(*)
Relazione presentata al convegno sul tema «Donazioni e successioni nell’evoluzione
civilistica e fiscale. Tutela dei legittimari e circolazione dei beni. Assetti
patrimoniali e pianificazione fiscale», organizzato da Paradigma – Ricerca e cultura d’impresa, svoltosi a Milano nei
giorni 3 e 4 ottobre 2006 e a Roma nei giorni 20 e 21 novembre 2006.
[1] Decio, In Primam Secundamque Digesti Veteris. Item
in Primam ac Secundam Codicis Partem Commentaria, Lugduni, 1547, f. 251.
[2] Cfr. l. maritus,
C., de carboniano edicto (C. 6. 18.
1.).
[3] Oberto, I
regimi patrimoniali della famiglia di fatto, Milano, 1991; Id., Partnerverträge in rechtsvergleichender Sicht unter besonderer
Berücksichtigung des italienischen Rechts, in FamRZ, 1993, p. 1 ss.;
Id., Le prestazioni lavorative
del convivente more uxorio, Padova, 2003; Id.,
I contratti di convivenza tra autonomia
privata e modelli legislativi, in Contr.
impr./Eur., 2004, p. 17 ss.; Id.,
Contratti di convivenza e diritti del
minore, in Dir. fam. pers., 2006,
p. 240 ss.; Id., Contratto e famiglia, in Aa. Vv.,
Temi e problemi del contratto, a cura
di Roppo, Milano, 2006 (in corso di stampa), cap. VI.
[4] Cfr. Oberto, I
regimi patrimoniali della famiglia di fatto, cit., p. 83 ss.
[5] Cfr. Oberto, I
regimi patrimoniali della famiglia di fatto, cit., p. 105 ss.; Id., Le prestazioni lavorative del
convivente more uxorio, cit., p. 43 ss.
[6] Per i richiami cfr.
Oberto, I regimi patrimoniali della famiglia di fatto, cit., p.
151 ss.; Id., I contratti di convivenza tra autonomia
privata e modelli legislativi, cit., p. 17 ss.
[7] Cfr. ad es. Kunigk, Die Lebensgemeinschaft, Rechtliche Gestaltung von ehelichem und eheähnlichem Zusammenleben, Stuttgart, 1978, p. 128. Per i sistemi di common law v. Weitzman, Legal regulation of Marriage: Tradition and Change, in California Law Review, 62, 1974, p. 1253. Per una più approfondita disamina della questione e
per i necessari rinvii cfr. Oberto,
I regimi patrimoniali della famiglia di fatto, cit., p. 295 ss.; per la
dottrina successiva cfr. del Prato,
Patti di convivenza, in Familia,
2002, p. 986 s.; Coppola, La
successione del convivente more uxorio, in Familia, 2003, p. 695 ss.
[8] Gazzoni,
Dal concubinato alla famiglia di fatto, Milano, 1983, p. 165. E’ chiaro
che ci si intende qui riferire ai soli patti successori istitutivi (detti anche
confermativi), ex art. 458, prima
parte, c.c.
[9] Cfr. per tutti Ferri,
Successioni in generale, nel Commentario
al codice civile, a cura di
Scialoja e Branca, Bologna-Roma, 1964, p. 83 ss.; Grosso e Burdese, Le successioni. Parte generale, Torino,
1977, p. 94; De Giorgi, Patto successorio, in Enc. Dir., XXXII, Milano, 1982, p. 535.
Nello stesso senso è orientata la giurisprudenza: v. Cass., 10 aprile 1964, n.
835, in Giust. civ., 1964, I, p. 1604; Cass., 24 luglio 1971, n. 2477, in Rep. Foro
it., 1971, voce «Successione ereditaria», 31; Cass.,
21 aprile 1979, n. 2228, in Rep. Foro it.,
1979, voce «Successione ereditaria»,
55.
[10] Cass., 10 aprile 1964, n. 835, cit.; cfr. anche
Cass., 8 marzo 1985, n. 1896, in Rep.
Foro it., 1985, voce «Lavoro
(rapporto)», 1985, 496. Nello stesso senso v. in dottrina De Giorgi, Patto successorio, cit.,
p. 542 s.; Palazzo, I negozi
trans-morte nell’ambito familiare, in Aa. Vv., I trasferimenti patrimoniali nell’ambito della
famiglia. Aspetti civili e tributari.
Convegno organizzato dal comitato Regionale Notarile della Sicilia, Taormina
20 e 21 novembre 1987, Palermo, 1987, p. 95 s.
[11] Cass., 6 gennaio 1981, n. 63, in Rep. Foro it., 1981, voce «Successione ereditaria», 20.
[12] De Giorgi,
Patto successorio, cit., p. 547. In giurisprudenza v. Cass., 22 febbraio
1974, n. 527, in Rep. Foro it.,
1974, voce «Successione ereditaria»,
20.
[13] Diversa è la posizione di Palazzo, Autonomia contrattuale e successioni anomale, Napoli, 1983, p. 3 e passim, secondo cui l’interesse che
giustificherebbe la conclusione dei patti successori sarebbe rivolto a
realizzare trasferimenti soggetti ad una qualche forma di revoca da parte del
disponente. Sembra invece che, almeno nella maggior parte dei casi, il
desiderio di colui che intende disciplinare la propria successione con un atto inter vivos – specie se in favore di una persona cui il disponente è
legato da speciali vincoli di carattere affettivo – sia quello non già di
lasciarsi aperto uno spiraglio per un eventuale pentimento, bensì di operare un
trasferimento dotato della definitività, anche se non immediatamente efficace.
L’atto idoneo a soddisfare mortis causa,
con disposizione però revocabile, il trasferimento di diritti è invece
sicuramente costituito dal testamento.
[14] Cfr. Giannattasio,
Delle successioni. Disposizioni generali. Successioni legittime, nel Commentario
a cura di magistrati e docenti, Torino, 1971, p. 2821; De Giorgi, Patto successorio, cit.,
p. 535; cfr. anche Cass., 22 luglio 1971, n. 2404, in Foro it., 1972, I, c.
700.
[15] Per la dottrina che negli ultimi anni ha iniziato ad
interrogarsi su un possibile superamento del divieto dei patti successori v. Lenzi, Il problema dei patti successori tra diritto vigente e prospettive di
riforma, in Riv. notar., 1989, p. 1209 ss.; Rescigno, Trasmissione della ricchezza e divieto dei patti successori, in Vita
notar., 1993, p. 1281 ss.; Rescigno, Attualità e destino dei patti successori, in Aa.Vv., La trasmissione familiare della ricchezza. Limiti e prospettive di
riforma del sistema successorio, Padova, 1995, p. 1 ss.; Caccavale
e Tassinari, Il divieto dei patti successori tra diritto
positivo e prospettive di riforma, in Riv.
dir. priv., 1997, p. 74 ss.; Roppo, Per
una riforma del divieto dei patti successori, in Riv. dir. priv.,
1997, p. 5 ss.; Ieva, Il
trasferimento dei beni produttivi in funzione successoria: patto di famiglia e
patto d’impresa. Profili generali di revisione del divieto dei patti successori,
in Riv. notar., 1997, p. 1371 ss.; Dogliotti,
Rapporti patrimoniali tra coniugi e patti successori, in Fam.
dir., 1998, p. 293 ss.; Zoppini,
Il patto di famiglia (linee per la
riforma dei patti per le successioni future), in Aa. Vv., Studi in memoria di Salis, Torino, 2000,
II, p. 1265 ss. Giudica «inevitabile alla luce del quadro europeo» l’abolizione
del divieto dei patti successori anche S. Patti,
Regime patrimoniale della famiglia e autonomia privata, in Familia,
2002, p. 312. Per uno studio comparatistico del divieto dei patti successori v.
Zoppini, Le successioni in diritto comparato, in Aa. Vv., Trattato di diritto comparato, a cura di
Sacco, Torino, 2002, p. 155 ss.
[16] Cfr. De Giorgi,
Patto successorio, cit., p. 536; Palazzo,
Autonomia contrattuale e successioni anomale, cit., p. 50 ss.; Id.,
I negozi
trans-morte nell’ambito familiare, cit., p. 79 ss.
[17] De Giorgi,
Patto successorio, cit., p. 536 s.; Cass., 9 aprile 1947, n. 526, in Mon. trib.,
1947, p. 143; Cass., 27 settembre 1954, n. 3136, in Giust. civ., 1955, I, p. 244.
Suggerisce un’applicazione della donazione con riserva di usufrutto al campo
dei rapporti tra conviventi more uxorio Mazzocca,
La famiglia di fatto. Realtà attuale e prospettive,
Roma, 1989, p. 114 ss.
[18] Torrente,
Variazioni sul tema della donazione «mortis causa», in Foro it., 1959, I, c.
580; De Giorgi, Patto successorio, cit., p. 536 ss.
[19] Invero, la semplice costituzione di un’aspettativa di
diritto a beneficio del donatario non sembra discostarsi di molto da quello che
è l’effetto tipico del fenomeno successorio, vale a dire il trasferimento di un
diritto per effetto del decesso di un soggetto: risulterebbe così evidente
quell’identità di «risultati giuridici» che (a differenza della semplice
identità di «risultati economici») determina l’illiceità della causa ex art. 1344 c.c.: v. Scognamiglio, Dei contratti in generale,
nel Commentario al codice civile,
a cura di Scialoja e Branca, Bologna-Roma, 1970, p. 345; nel senso della
nullità per fraus legi sembrano orientati anche De Giorgi, Patto successorio, cit.,
p. 536 ss. e Ieva, I fenomeni
c.d.
parasuccessori, in Riv. notar.,
1988, I, p. 1190 s.
[20] Per un approfondimento delle questioni legate
all’adozione del convivente e per gli ulteriori rinvii cfr. Oberto, I regimi patrimoniali della
famiglia di fatto, cit., p. 316 ss.
[21] De Giorgi,
Patto successorio, cit., p. 538 ss.; Palazzo,
Autonomia contrattuale e successioni anomale, cit., p. 76 ss; Id.,
I negozi
trans-morte nell’ambito familiare, cit., p. 92 ss.; Ieva,
I fenomeni
c.d.
parasuccessori, cit., p. 1149 ss.;
cfr. inoltre Majello, L’interesse
dello stipulante nel contratto
a favore
di terzi, Napoli, 1962, p. 201 s.; Moscarini,
I negozi
a favore
di terzo, Milano, 1970, p. 219 s.
[22] In questo senso v. Kunigk, Die Lebensgemeinschaft, Rechtliche Gestaltung von ehelichem und eheähnlichem Zusammenleben, cit., p. 128.
[23] Sull’argomento cfr. Palazzo,
I negozi
trans-morte nell’ambito familiare, cit., p. 93; Ieva,
I fenomeni
c.d.
parasuccessori, cit., p. 1155.
[24] Nel caso di assicurazione sulla vita a favore del
convivente superstite, poi, la rinunzia del contraente e la dichiarazione del
beneficiario vanno comunicate all’assicuratore: cfr. art. 1921, secondo comma,
c.c.
[25] Cfr. Trib. Catania, 5 marzo 1958, in Banca, borsa, tit. cred., 1961, II, p. 311, con nota di Majello, che ha negato che l’espediente
possa ritenersi in violazione del divieto dei patti successori; sull’argomento
cfr. anche Nicolò, Disposizioni di beni «mortis causa» in forma «indiretta», in Riv. notar., 1967, I, p. 641 ss., secondo cui
invece la pattuizione in esame sarebbe nulla per frode alla legge.
[26] Palazzo,
Autonomia contrattuale e successioni anomale, cit., p. 95; Id.,
I negozi
trans-morte nell’ambito familiare, cit., p. 96 ss.
[27] Oberto,
I regimi patrimoniali della famiglia di
fatto, cit., p 241 ss.; Id., I contratti di convivenza tra autonomia
privata e modelli legislativi, cit., p. 49 ss.
[28] Cfr. Mazzocca, op. cit., p. 92; cfr.
inoltre Gazzoni, Dal concubinato
alla famiglia di fatto, cit., p. 165.
[29] E’ il suggerimento di Calò, Contratto di mantenimento
e proprietà
temporanea, nota a Cass., 11 novembre
1988, n. 6083, in Foro it., 1989, I,
c. 1171. Per una serie di indicazioni pratiche al riguardo cfr. Peirano, Clausole in tema di contratto di mantenimento, in Notariato, 1995, p. 611 ss. V. inoltre
lo studio n. 4089, approvato dalla Commissione Studi del Consiglio Nazionale
del Notariato il 25 marzo 2003, dal titolo Contratto
di mantenimento a favore del terzo «post mortem».
[30] V. per tutti Calò,
Contratto di mantenimento e proprietà
temporanea, cit., c. 1165; Andreoli, La rendita vitalizia, in Trattato di diritto civile, diretto da Vassalli, Torino, 1958, VIII, p. 47 ss. Per un
caso di contratto di mantenimento tra conviventi in Germania v. BGH, 29
giugno 1973, in NJW, 1973, p. 1645,
che ha affermato la validità di un accordo con cui un uomo aveva trasferito
alla propria convivente la proprietà di un immobile, riservandosi il diritto
vitalizio d’abitazione sullo stesso, in cambio dell’impegno della convivente
di assisterlo e curarlo per il resto dei suoi giorni (nella specie la Sittenwidrigkeit è stata esclusa perché
il negozio non appariva direttamente rivolto a remunerare le prestazioni
sessuali della convivente, tenuto conto, da un lato, della durata del rapporto
e, dall’altro, che l’onere della prova dell’immoralità gravava sull’attore).
[31] Tali
prestazioni accessorie possono avere natura patrimoniale (cfr. per esempio il
caso risolto da Cass., 11 novembre 1988, n. 6083, in Foro it.,
1989, I, c. 1168, in cui il
vitaliziante si era impegnato verso il vitaliziato ad effettuarne «il trasporto
in macchina in città italiane, della Francia o della Svizzera» e a «ospitare
parenti ed amici del vitaliziato in caso di malattia»), ma anche non patrimoniale
(si pensi all’impegno di prestare assistenza morale, o compagnia ovvero,
ancora, di convivere con il vitaliziato), sulle quali ultime si addensano però
i dubbi di validità già prospettati, tanto con riferimento alla possibilità per
tali prestazioni di formare oggetto di rapporto obbligatorio e di contratto, ex artt. 1174, 1321 c.c., quanto,
soprattutto, con riguardo agli aspetti d’ordine pubblico per l’eventuale
lesione della libertà personale del vitaliziante.
[32] Per i richiami cfr. Oberto,
I regimi
patrimoniali della famiglia di fatto,
cit., p. 242 ss.
[33] Cfr. Oberto, I regimi patrimoniali della famiglia di fatto,
cit., p. 242 ss.
[34] Si
tratterebbe in particolare di donazione di prestazioni periodiche, ai sensi
dell’art. 772 c.c. Nel senso che tra le prestazioni di cui alla norma citata
possono rientrare «quelle che hanno funzione alimentare, di beneficenza o di
soccorso» cfr. Carnevali, Gli atti
di liberalità e la donazione
contrattuale, in Trattato di diritto privato, diretto da P. Rescigno, VI, Torino, 1982, p. 468. V.
inoltre Cass., 29 novembre 1986, n. 7064, in Rass. dir. civ., 1988, p. 199 ss., che ha affermato la nullità, per
mancato rispetto della forma solenne, di un contratto per scrittura privata,
denominata «transazione», con cui una parte si era obbligata a versare
all’altra una determinata somma mensile per tutta la durata della vita di
quest’ultima.
[35] Si pensi alla casa d’abitazione e al relativo arredo,
all’automobile, ecc.
[36] Per una disamina della questione cfr. Oberto, I regimi patrimoniali della famiglia di fatto, cit., p. 139 ss.; Id., Le prestazioni lavorative del convivente more uxorio, cit., p. 83
ss.
[37] Cfr. Cass., 8
giugno 1993, n. 6381, in Nuova giur. civ.
comm., 1994, I, p. 339, con nota di Bernardini.
[38] Trib. Savona,
7 marzo 2001, in Fam. e dir., 2001, p. 529, con nota di Dogliotti.
[39] Si noti che la decisione ammette in astratto (e in
obiter) la possibilità per il nudo proprietario di far valere in tal caso
la presupposizione, con conseguente risoluzione del contratto, una volta venuta
meno la convivenza. Per una critica di questo (solo) punto della decisione v. Oberto, Le prestazioni lavorative
del convivente more uxorio, cit., p. 83 ss. Sulla astratta possibilità di
costituire, purché nei limiti di forma previsti dalla legge per costituzione di
diritti reali immobiliari e per gli atti di liberalità, un diritto reale di
abitazione in favore del convivente v. l’affermazione in obiter contenuta in Trib. Palermo, 3 febbraio 2002, in Gius, 2003, p. 1506.
[40] Cfr. Cass., ch. mixte,
27 novembre 1970, in D., 1971, p. 81;
Cass. Civ., 11 janvier 1983, ivi,
1983, p. 501; Aa. Vv., Couple et modernité, 84ème congrès des notaires de France, La Baule, 29
mai - 1er juin 1988, Malesherbes, 1988, p. 403 ss.; Morin, La clause d’accroissement,
in D., 1971, Chron., p. 55 ss.; Chappert,
Droit d’usage et d’habitation et pacte
tontinier, in Defrénois, 1999, n.
6, p. 330 ss. Per avere un’idea del successo che Oltralpe ha avuto
questa clausola basterà digitare l’espressione «achat en tontine» o quella
«pacte tontinier» in qualsiasi motore di ricerca su Internet.
[41] Cfr. Cass., 18 agosto 1986, n. 5079, in Rep. Foro
it., 1986, voce «Successione ereditaria», 33.
[42] Per uno studio italiano sul tema v. Calogero, «Tontine» e «achat tontinier». Ovvero, di una
interessante vicenda francese, in Riv.
dir. civ., 2000, II, p. 743 ss.
[43] Aa. Vv., Couple
et modernité, cit., p. 408.
[44] La giurisprudenza d’Oltralpe suole riconoscere in
tali atti delle donazioni dissimulate: v. Cass. Civ., 2 février 1966, in Bull. civ., 1966, I, n. 84, p. 63; Cass.. Civ., 8 julliet 1975, ivi, 1975, I, n. 225, p. 190; Cass.
Civ., 22 octobre 1975, ivi, 1975, I,
n. 291, p. 243; cfr. inoltre Aa. Vv., Couple et modernité, cit., p. 433.
[45] Cfr. Mazzocca,
op. cit., p. 113.
[46] Cfr. Oberto,
Trust e autonomia negoziale nella
famiglia, in Fam. dir., 2004, p.
201 ss., 310 ss.; Id., Il regime di separazione dei beni tra
coniugi. Artt. 215-219, in Il codice civile. Commentario fondato e già diretto da Piero Schlesinger, continuato
da Francesco Donato Busnelli, Milano, 2005, p. 183 ss.; Id., Il trust familiare, disponibile al sito web seguente:
http://utenti.lycos.it/giacomo305604/milano11giugno2005trust/relazionemilano.htm.
[47] Cfr. Oberto,
Trust e autonomia negoziale nella
famiglia, cit., p. 203.
[48] Cfr. Lupoi,
Lettera a un notaio conoscitore dei trust, in Riv. notar., 2001, p. 1168.
[49] Su cui v. per tutti Oberto,
I regimi patrimoniali della famiglia di
fatto, cit., p. 242 ss.; Id.,
I contratti di convivenza tra autonomia
privata e modelli legislativi, cit., p. 49 ss.
[50] Cfr. Tarissi
de Jacobis, Esecuzione di un’obbligazione morale, già disponibile
al seguente indirizzo web:
http://www.il-trust-in-italia.it/TrustInterni2002/Liberali/Tarissi%20t.htm.
Favorevole alla applicazione del trust alla famiglia di fatto è anche Cenni, Trust e fondo patrimoniale, in Aa. Vv., Il trust nel
diritto delle persone e della famiglia. Atti del convegno. Genova, 15
febbraio 2003, a cura di Dogliotti e Braun, Milano, 2003, p. 111 ss.; Ead., Il fondo patrimoniale, in Trattato
di diritto di famiglia, diretto da P. Zatti, III, Regime patrimoniale
della famiglia, a cura di Franco Anelli e Michele Sesta, Milano, 2002, p.
648. Per una panoramica delle questioni relative all’impiego del trust
nell’ambito delle relazioni giuridiche familiari cfr. F. Patti, I trusts: problematiche
connesse all’attività notarile, cit., p. 547 ss.; Dogliotti e Piccaluga,
I trust nella crisi della famiglia, in Fam. e dir., 2003,
p. 301 ss.; Aa. Vv., Il trust
nel diritto delle persone e della famiglia. Atti del convegno. Genova, 15
febbraio 2003, a cura di Dogliotti e Braun, cit.; Viglione, Vincoli di
destinazione nell’interesse familiare, Milano, 2005, p. 65 ss.
[51] Cfr. per tutti Oberto,
I regimi patrimoniali della famiglia di
fatto, cit., p. 151 ss.; Id.,
I contratti di convivenza tra autonomia
privata e modelli legislativi, p. 31 ss.
[52] Così Coppola,
op. cit., p. 739.
[53] Così, se si è ben compreso, Coppola, op. loc. ultt. citt.
[54] Sul punto v., anche per i richiami, Coppola, op. cit., p. 742 s.
[55] Cfr. Moscati,
Trust e tutela dei legittimari, in Riv. dir. comm., 2000, I, p.
13 ss.; Lupoi, Trusts, Milano,
2001, p. 667 s.
[56] Cfr. supra,
§§ 3 ss.; v. inoltre Oberto, I regimi patrimoniali della famiglia di
fatto, cit., p. 295 ss.; Id.,
I contratti di convivenza tra autonomia
privata e modelli legislativi, p. 80 ss.
[57] Più esattamente, secondo la disposizione in esame,
«Gli atti in forma pubblica con cui beni immobili o beni mobili iscritti in
pubblici registri sono destinati, per un periodo non superiore a novanta anni o
per la durata della vita della persona fisica beneficiaria, alla realizzazione
di interessi meritevoli di tutela riferibili a persone con disabilità, a
pubbliche amministrazioni, o ad altri enti o persone fisiche ai sensi
dell’articolo 1322, secondo comma, possono essere trascritti al fine di rendere
opponibile ai terzi il vincolo di destinazione; per la realizzazione di tali
interessi può agire, oltre al conferente, qualsiasi interessato anche durante
la vita del conferente stesso. I beni conferiti e i loro frutti possono essere
impiegati solo per la realizzazione del fine di destinazione e possono
costituire oggetto di esecuzione, salvo quanto previsto dall’articolo 2915,
primo comma, solo per debiti contratti per tale scopo».
[58] Lo studio è in fase di elaborazione, in previsione
della relazione che lo scrivente dovrà presentare al convegno in tema di
vincoli di destinazione ex art. 2645-ter c.c., organizzato per il giorno 18
novembre 2006 dal Consiglio Notarile di Torino e dalla Scuola di Notariato
«Franco Lobetti Bodoni» di Torino. Per
i primi commenti sull’art. 2645-ter
c.c. v. Bartoli, Prime riflessioni sull’art. 2645 ter c.c. e sul rapporto fra negozio di
destinazione di diritto interno e trust, in Corr. merito, 206, p. 697 ss.; M. Bianca,
L’atto di destinazione: problemi
applicativi, testo dattiloscritto agli atti del Convegno sul tema «Atti
notarili di destinazione dei beni: Articolo 2645 ter c.c.», organizzato dal Consiglio Notarile di Milano il 19
giugno 2006; De Nova, Esegesi dell’art. 2645 ter cod. civ., testo dattiloscritto agli atti del Convegno sul tema «Atti notarili di
destinazione dei beni: Articolo 2645 ter
c.c.», cit.; D’Errico, Trascrizione del vincolo di destinazione,
testo dattiloscritto agli atti del Convegno sul tema «Atti notarili di
destinazione dei beni: Articolo 2645 ter
c.c.», cit.; Fanticini, L’articolo 2645-ter del codice civile: “Trascrizione di atti di destinazione per la
realizzazione di interessi meritevoli di tutela riferibili a persone a persone
con disabilità, a pubbliche amministrazioni, o ad altri enti o persone fisiche”,
in Aa. Vv., La tutela dei
patrimoni, a cura di Montefameglio, Santarcangelo di Romagna, 2006, p. 327
ss.; Franco, Il nuovo art. 2645-ter cod.
civ., in Notariato, 2006, p. 315
ss.; Gazzoni, Osservazioni sull’art. 2645 ter,
disponibile alla pagina web seguente:
http://www.judicium.it/news_file/news_glo.html;
Lupoi, Gli “atti di destinazione” nel nuovo art. 2645-ter cod. civ. quale frammento di trust, in Trusts e attività fiduciarie, 2006, p.
169 ss.; Petrelli, La trascrizione degli atti destinazione,
dattiloscritto agli atti del Convegno organizzato a Firenze dalla Associazione
Italiana Giovani Notai il 24 giugno 2006 sul tema «Gli atti di destinazione e
la trascrizione dopo la novella» (l’articolo è in corso di pubblicazione in Riv. dir. civ., 2006).
[59] In
quest’ultimo senso v. in particolare Fanticini,
op. cit., p. 343.
[60] Sul punto si fa rinvio per tutti a Lupoi, I trust nel diritto civile, nel Trattato
di diritto civile, diretto da Sacco, Torino, 2004, p. 237 ss., 277 ss.
[61] In questo senso sembra anche orientata la circolare
n. 5/2006 della Direzione dell’Agenzia del Territorio, del 7 agosto 2006, la
quale rimarca, testualmente, quanto segue: «Quanto ai profili di merito, sembra
opportuno ribadire preliminarmente la circostanza che detti atti di
destinazione producono soltanto effetti di tipo “vincolativo”. Come già in parte
accennato, infatti, i beni oggetto degli atti di destinazione, pur venendo
“segregati” rispetto alla restante parte del patrimonio del “conferente” – al
fine di garantire la realizzazione degli interessi meritevoli di tutela cui è
preordinato il vincolo – restano comunque nella titolarità giuridica del
“conferente” medesimo».
[62] Ad avviso di De
Nova, op. cit., p. 3 «Non
sembra vi sia ragione di escludere che l’art. 2645 ter possa applicarsi anche ad un atto con cui il disponente
trasferisce la proprietà dei beni a persona che li amministri a favore di terzi
beneficiari, e così ad un negozio bilaterale»; nello stesso senso v. M. Bianca, op. cit., p. 7 ss., secondo cui il costituente può anche operare un
trasferimento della proprietà ad un terzo «attuatore della destinazione»; D’Errico, Trascrizione del vincolo di destinazione, loc. cit.; Fanticini,
op. cit., p. 330, che vede nella
nuova figura codicistica il riferimento ai negozi traslativi atipici. Possibilista
al riguardo parrebbe anche Busani,
I notai ammettono il trust interno,
in Il Sole 24-ore del 23 febbraio
2006, per il quale nella nuova norma codicistica «non c’è (...), anche se non
la si può escludere a priori, alcuna
attività traslativa». Contra Gazzoni, op. cit., § 7, il quale nega
che l’art. 2645-ter c.c. possa
riferirsi a vicende traslative.
[63] Cfr. Lupoi,
Gli “atti di destinazione” nel nuovo art.
2645-ter cod. civ. quale frammento di
trust, cit., p. 170. Si noti che, anche prima della novella del
2006, D’Errico, Trust e destinazione, in Aa. Vv.,
Destinazione di beni allo scopo. Strumenti attuali e tecniche innovative,
Milano, 2003, p. 221 sottolineava «la struttura trinaria del negozio di
destinazione: disponente è il soggetto che destina beni allo scopo, gestore è
il soggetto investito dell’amministrazione di beni finalizzata a quegli scopi,
beneficiario è il soggetto nel cui interesse è disposta la destinazione».
[64] «Freudiano», secondo Gazzoni, op. cit., § 1, è «il termine conferente,
riferito a chi destina il bene, perché costui, ovviamente, non conferisce un
bel niente rimanendo proprietario, onde è esclusa la nascita di un distinto
ente».
[65] Cfr. Cass., 4 febbraio 2005, n. 2354, in Foro it., 2005, I, c. 1735; in Fam. e dir., 2005, p. 237, con nota di
V. Carbone.
[66] Cfr. Cass.,
15 gennaio 1990, n. 107; Cass., 18 marzo 1994, n. 2604; Cass., 9 aprile 1996,
n. 3251; Cass., 2 settembre 1996, n. 8013; Cass., 2 dicembre 1996, n. 10725;
Cass., 5 giugno 2003, n. 8991; Cass., 18 luglio 2003, n. 11230; Cass., 23
settembre 2004, n. 19131; Cass., 7 marzo 2005, n. 4933; Cass., 31 maggio 2006,
n. 12998.
[67] Cass., 20 maggio 1977, n. 2096.
[68] Di
«beni conferiti in trust» parla anche Trib. Bologna, 1 ottobre 2003, in Trusts e attività di fiduciarie, 2004, p.
67 ss.
[69] Secondo
quanto invece ritenuto (come si è visto) da Gazzoni,
op. cit., § 1, le cui conclusioni in parte qua appaiono peraltro
pienamente condivisibili.
[70] Cfr. Lupoi,
Gli “atti di destinazione” nel nuovo art.
2645-ter cod. civ. quale frammento di
trust, cit., p. 170.
[71] Cfr. Lupoi,
Gli “atti di destinazione” nel nuovo art.
2645-ter cod. civ. quale frammento di
trust, cit., p. 170.
[72] Secondo Gazzoni, op.
cit., § 7, è possibile «che il conferente concluda un autonomo contratto di
gestione con un terzo, assumendo i costi e attribuendo i poteri. Si
stipulerebbe allora, parallelamente al contratto di destinazione, un contratto
di mandato, onde l’azione che l’art. 2645 ter c.c. attribuisce al
conferente per la realizzazione dell’interesse, sarebbe appunto l’actio
mandati».
[73] Cfr. Bartoli, Prime riflessioni sull’art. 2645 ter c.c. e sul rapporto fra negozio di
destinazione di diritto interno e trust, cit., p. 701, il quale
rileva ulteriormente che, «Quanto poi alla previsione della concorrente
legittimazione ad agire di “qualsiasi interessato”, occorre preliminarmente
considerare che il termine “interessato” potrebbe riferirsi sia ad un soggetto
beneficiario in senso tecnico del negozio di destinazione, sia ad un soggetto
che, pur non essendo beneficiario in senso tecnico di detto negozio, destinato
a riceverne vantaggi eventuali, sia ad un soggetto cui il conferente abbia
attribuito, nel negozio di destinazione, il ruolo di controllore dell’attività
del gestore, sia infine al soggetto gestore».
[74] Cfr. Bartoli, Prime riflessioni sull’art. 2645 ter c.c. e sul rapporto fra negozio di
destinazione di diritto interno e trust, in p. 701.
[75] Il significato ed i limiti dell’inciso «di per sé»
saranno chiariti nel paragrafo immediatamente successivo.
[76] Cfr. per tutti Mariconda,
Contrastanti decisioni sul trust interno:
nuovi interventi a favore, ma sono nettamente prevalenti gli argomenti contro
l’ammissibilità, in Corr. giur.,
2004, p. 57 ss.
[77] Ci si riferisce al già citato studio in preparazione sui
rapporti tra art. 2645-ter c.c. e trust.
[78] Sul tema v. per tutti Lupoi, I trust nel
diritto civile, cit., p. 292 ss., 317 ss.
[79] Cfr. Lupoi,
Gli “atti di destinazione” nel nuovo art.
2645-ter cod. civ. quale frammento di
trust, cit., p. 172 s., il quale osserva al riguardo quanto segue:
«Guardando al momento finale, quando il vincolo cessa, nel diritto dei trust è
perfettamente possibile che i beni in trust tornino al disponente o ai suoi
eredi o comunque a un soggetto diverso da quello in favore dei quale erano
stati vincolati net corso del trust. Questo è ciò che normalmente avviene nei
trust interni per sostenere persone con disabilità: durante la vita delle
persone con disabilità il reddito dei beni è al loro servizio e, se necessario,
lo sono anche i beni stessi (alienabilità dei beni in trust), ma
successivamente il trustee trasferisce i beni o i beni residui ad altri
soggetti (usualmente gli altri figli del disponente) e il trust cessa. Il
vincolo, quindi, non è andato a vantaggio del soggetto, titolare dei beni
vincolati né nella vigenza del vincolo né alla sua cessazione. Questa
configurazione potrebbe non essere necessariamente richiesta per gli “atti di
destinazione” perché non sembra esservi incompatibilità fra il vincolo e la
patrimonializzazione, in capo al soggetto proprietario, alla cessazione del
vincolo medesimo. Infatti, il disponente che vincoli i beni per un breve
periodo e, al termine, sia vivo riacquista la pienezza della posizione
dominicale. Lo stesso potrebbe accadere al diverso soggetto al quale il
disponente abbia trasferito i beni con il patto che, alla cessazione del
vincolo, i beni gli appartengano pienamente (vi è una analogia con il
fedecommesso assistenziale)».
[80] Così Petrelli, La trascrizione degli atti
destinazione, cit., p. 8.
[81] Su cui v. anche Lupoi,
Gli “atti di destinazione” nel nuovo art.
2645-ter cod. civ. quale frammento di
trust, cit., p. 170.
[82] Sul fatto che nel trust vi possano essere, rispetto
ad un medesimo vincolo di destinazione, beneficiari immediati e beneficiari
finali, v. Lupoi, L’atto istitutivo di trust, Milano,
2005, p. 94 ss.; Petrelli, Formulario notarile commentato, III, 1,
Milano, p. 1024, 1036; Id., La trascrizione degli atti destinazione, cit., p. 13.
[83] Cfr. supra,
§§ 3 ss.
[84] Che è,
ovviamente, comunque inapplicabile alla famiglia di fatto.