COMUNIONE DE RESIDUO E TUTELA
DELLA PARTE DEBOLE:
[Nota a Cass., 7 febbraio 2006, n. 2597 – massima]
Sommario: 1.
Impostazione del problema: la fattispecie oggetto della decisione in esame. 2. La comunione de
residuo. Definizione e ratio
dell’istituto. 3. Natura della comunione de residuo; non surrogabilità dei
relativi beni; aggredibilità degli stessi da parte dei creditori personali;
ininfluenza del deposito in banca delle relative somme. 4.
Il problema dell’onere della prova. La necessità di non confondere la prova
della sottrazione con quella della consumazione. 5. La
prova liberatoria da parte del coniuge titolare dei beni e la teorica del
«coniuge virtuoso». 6. Amministrazione dei beni della
comunione de residuo e (inesistenza
di) poteri dell’altro coniuge. |
1. Impostazione del problema: la
fattispecie oggetto della decisione in esame.
Nel momento in cui il
Legislatore viene a sopprimere l’unico espresso riferimento del nostro sistema
normativo alla figura del «coniuge debole»
[1],
Senza anticipare i
risultati di un’indagine che dovrà per forza di cose rivelarsi di una certa
complessità, avuto riguardo all’ampiezza dei temi trattati ed al carattere
(forse un po’ esageratamente) «ecumenico» che
Procedendo con ordine,
sarà opportuno schematicamente riassumere come segue i punti salienti della
vicenda in esame.
Una coppia di coniugi in
crisi raggiunge un’intesa di separazione consensuale, omologata dal tribunale.
Nell’intervallo di tempo intercorrente tra la presentazione del ricorso e
l’omologazione, il marito, titolare di un conto corrente bancario sul quale è
depositata la somma di lire 54.700.053 ascrivibile alla comunione de residuo ex art. 177, lett. c.), c.c., nonché di titoli giacenti in un
deposito a custodia a lui intestato, per un importo pari a lire 150.000.000,
dispone la vendita dei titoli medesimi e l’accredito del relativo ammontare sul
predetto conto. Dopo di che, sempre prima del fatidico momento
dell’omologazione dell’intesa di separazione (che, come noto, determina, ex art. 191 c.c. lo scioglimento del
regime legale), con repentina mossa preleva dal conto quasi tutta la somma ivi
depositata, lasciandovi solamente circa otto milioni di lire.
Il giudice di prime cure,
adito dalla moglie, che chiede la condanna del marito al pagamento della metà
delle somme tutte di cui sopra, liquida all’attrice il solo importo di lire
4.209.760, cioè appunto la metà di quanto risultante sul conto alla data dell’omologazione
della separazione. Accogliendo la domanda della moglie, la corte d’appello di
Roma condanna invece il marito al pagamento dell’ulteriore somma di €
49.580,00.
Il ragionamento svolto
dal giudice di secondo grado è duplice. In primo luogo, per quanto attiene ai
titoli venduti dal marito nell’imminenza della separazione, con deposito del
ricavato sul conto personale e successivo prelievo, la corte territoriale
afferma che siffatti titoli erano comunque caduti in comunione immediata ex art. 177, lett. a), c.c., mentre, per
quanto riguarda le somme originariamente presenti sul conto corrente, pure esse
dovevano ritenersi comuni, atteso il principio secondo cui «cadono nella
comunione c.d. de residuo non solo
quei redditi di cui, di fatto, si riesca a provare la sussistenza all’atto
dello scioglimento della comunione, ma anche quelli percetti o percipiendi dei
quali il coniuge titolare non riesca a provare l’avvenuto utilizzo per i
bisogni della famiglia o per l’adempimento delle obbligazioni di cui all’art.
186 c.c.».
Ciò che, invece, il
marito aveva contestato era il giudizio (di diritto) operato dalla corte
d’appello di Roma circa il fatto che i buoni del tesoro fossero caduti in
comunione immediata, ex art. 177,
lett. a), c.c.: ciò, si badi, non già per effetto del principio secondo cui i
proventi dell’attività separata di ciascuno dei coniugi sarebbero sic et simpliciter oggetto di comunione
immediata (come erroneamente affermato dalla Cassazione con la sentenza 23 settembre 1997, n. 9355, su cui si
avrà modo di tornare), ma perché tali somme di denaro, in quanto impiegate per
comprare titoli, avrebbero dato luogo ad un «acquisto» rilevante ex art. 177, lett. a), c.c. Nella sua
parte finale, la decisione impone al giudice del rinvio di attenersi al
principio di diritto enunciato in materia (solo) di comunione de residuo, a quanto pare anche in
relazione a quelle somme che, secondo la sentenza cassata, formavano invece
oggetto di comunione immediata [2], senza che peraltro sul relativo punto in diritto – cioè sull’idoneità o
meno dei titoli a cadere in comunione immediata, in quanto oggetto di acquisto ex art. 177, lett. a), c.c. – i Supremi
Giudici abbiano ritenuto di doversi esprimere. Il tutto, «previamente
approfondendo l’accertamento in ordine all’effettiva provenienza (e alla
conseguente qualificazione) delle somme oggetto di contestazione tra le parti»:
accertamento, questo, di cui nessuno s’era più lamentato in sede di
legittimità, atteso che la moglie, vittoriosa, aveva proposto ricorso solo in
punto spese ed il marito aveva tutto l’interesse a mantenere ferma la statuizione
secondo cui sia il denaro che i titoli erano comunque proventi di attività
separata sua.
Premesso quanto sopra,
rimane comunque il fatto che
Al fine di operare una
corretta impostazione dell’argomento sarà però opportuno spendere ora qualche
parola su alcuni dei tratti salienti dell’istituto della comunione de residuo.
2. La comunione de residuo. Definizione e ratio dell’istituto.
Il termine comunione de residuo denota, come si sa, quella
comunione meramente residuale e differita che viene a formarsi all’atto stesso
dello scioglimento del regime legale, a condizione che i beni che ne
costituiscono l’oggetto non siano stati consumati prima di tale momento, secondo
quanto stabilito dagli artt. 177, lett. b) e c), nonché 178 c.c. [3].
La dottrina suole
individuare una duplice ratio
dell’istituto [4]: vale a dire, per ciò che attiene
alle ipotesi descritte dall’art. 177, lett. b) e c), c.c. [5], quella di reperire un giusto
equilibrio, un compromesso tra il principio solidaristico che dovrebbe
informare la vita coniugale (art. 29 Cost.), da un lato, e la tutela della
proprietà privata e della remunerazione del lavoro, dall’altro (artt. 35, 41, 42
Cost.) [6]. Nel caso, poi, delle fattispecie prese in considerazione
dall’art. 178 c.c. vengono in rilievo anche motivi di opportunità, che hanno
suggerito la soluzione di non coinvolgere il coniuge non imprenditore nella
posizione di responsabilità illimitata dell’altro, e di garantire a
quest’ultimo la piena libertà d’azione nell’esercizio della sua attività
d’impresa.
In relazione al
meccanismo di attuazione della comunione residuale svariate critiche sono state
mosse in dottrina alla soluzione adottata dal Riformatore del 1975, soprattutto
avuto riguardo al fatto che sottrarre alla comunione immediata i proventi
dell’attività personale di ciascuno dei coniugi significa togliere
concretamente rilievo a quella che è la principale (e sovente esclusiva) fonte
di reddito della famiglia media italiana: proprio quella verso cui sarebbe
precipuamente rivolto il regime legale [7], anche se d’altra parte si è
obiettato che il tipo di comunione si giustificherebbe nella già ricordata
ottica del contemperamento di istanze solidaristiche e individualistiche in cui
si sostanzia la struttura del regime legale
[8]. Sta comunque di fatto che l’operare congiunto, da un lato,
della regola che differisce allo scioglimento del regime legale la caduta in
comunione di questi beni e, dall’altro, del fatto che tale comunione venga ad
investire i soli beni a quel momento esistenti, unitamente al (tristemente)
noto principio che non consente allo scioglimento ex art. 191 c.c., in caso di separazione personale contenziosa, di
operare sollecitamente [9], determinano il rischio (ed anzi, nella maggior parte dei casi,
l’assoluta certezza) che il «residuo», quando il momento dello scioglimento
potrà dirsi al fine giunto, sia pari, o molto vicino, a zero.
Di fronte a questo
scenario, quali sono i possibili strumenti a tutela della posizione del coniuge
il quale possa vantare, durante il periodo di durata del regime legale,
determinate «aspettative» su di un determinato patrimonio dell’altro coniuge
destinato a cadere in comunione al momento della cessazione del regime, ma solo
limitatamente a quanto di tale patrimonio in quel momento sarà ancora di fatto
presente? Per rispondere a questo interrogativo si possono ipotizzare,
teoricamente, «rimedi» che si muovano su due distinti piani: uno sostanziale e
l’altro probatorio.
Per quanto attiene al
primo livello sarà opportuno domandarsi, innanzi tutto, quale sia la situazione
dei beni in oggetto durante il periodo di vigenza del regime legale e che cosa
accada all’atto del suo scioglimento, mentre, dal punto di vista generale, sarà
opportuno precisare subito che la regola della parità delle quote in comunione de residuo, in quanto strettamente
legata a quella principale della comunione immediata, non pare suscettibile di
deroga convenzionale, dovendosi applicare anche per tale profilo il disposto
dell’art. 210 c.c. Le disposizioni sull’amministrazione di quei rapporti
potranno invece essere liberamente rimesse all’autonomia negoziale, in quanto –
come si vedrà tra breve – i beni in comunione residuale, «propri» sino al
momento dello scioglimento, possono essere liberamente amministrati (ed anzi,
addirittura alienati o consumati) dal titolare, senza che al riguardo competa
all’altro coniuge alcun tipo di controllo
[10].
3.
Natura della comunione de residuo; non surrogabilità dei relativi beni;
aggredibilità degli stessi da parte dei creditori personali; ininfluenza del
deposito in banca delle relative somme.
Non vi è dubbio che i
beni in comunione de residuo non
possano considerarsi comuni, almeno fin tanto che non sia intervenuta una causa
di scioglimento del regime legale. Più che di beni personali (ed anche per
evitare confusioni con il catalogo ex
art. 179 c.c.) si preferisce parlare in tal caso di beni «propri», di esclusiva
titolarità del coniuge percettore. L’impiego dell’aggettivo «propri» è anche
suggerito dal particolare regime giuridico cui i medesimi sono sottoposti,
atteso che, in relazione ad essi, non è consentito applicare il fenomeno della surrogazione descritto nella lett. f)
dell’art. 179 c.c. A tale conclusione perviene non solo la dottrina [11], ma anche
la giurisprudenza di legittimità.
In
effetti
Da notare che
Coerente con questa
regola appare l’insegnamento della Cassazione sul tema dei rapporti con i
creditori. Se è vero, infatti, che i beni in comunione de residuo sono e continuano ad essere propri sino al momento dello
scioglimento, ne deriva che essi sono aggredibili alla stregua di beni
personali da parte dei creditori personali del coniuge. Un esempio
significativo è costituito da una ormai remota sentenza di legittimità,
riferita ad un bene in comunione de
residuo ex art. 178 c.c., che
Ad analoghe conclusioni,
sempre con riguardo a bene in comunione de
residuo ex art. 178 c.c., è pervenuta una successiva decisione di
legittimità, per cui «ai sensi dell’art. 178 cod. civ., in regime di comunione
legale, tutti i beni che vengano acquistati da uno dei coniugi e siano
destinati all’esercizio di un’impresa costituita dopo il matrimonio fanno parte
della comunione medesima solo de residuo,
cioè se e nei limiti in cui sussistano al momento del suo scioglimento. Da ciò
consegue che i beni acquistati e destinati all’esercizio dell’impresa sono,
prima dello scioglimento della comunione, aggredibili per intero dai creditori
del coniuge acquirente» [16].
Una questione in qualche
modo connessa a quella qui esaminata riguarda la capacità a testimoniare del
coniuge del titolare del diritto destinato a ricadere in comunione de residuo. Al riguardo
Deve pure ritenersi che
il deposito in banca o l’accantonamento su conto corrente di somme di denaro in
comunione de residuo non alterino la
natura di queste ultime, secondo quanto appare del resto desumibile
dall’analisi della giurisprudenza. Così mentre una remota decisione di merito
ha affermato che «I redditi individuali, non consumati al momento dello
scioglimento della comunione legale, vanno imputati alla cosiddetta comunione de residuo anche se costituiscono
crediti verso terzi (come nel caso di depositi in banca o presso uffici
postali)» [19], la stessa Cassazione
[20] ha riconosciuto che «l’accertamento che il danaro rinvenuto
sul conto corrente intestato al marito costituiva provento dell’attività separata
di ciascuno (o anche di uno solo) dei coniugi» è idoneo a rendere il danaro
stesso oggetto della comunione «in via assoluta, ai sensi dell’art. 177 lett.
c) dello stesso codice, senza che possa ammettersi una prova contraria a norma
dell’ultima parte dell’art. 195 cod. civ., e di conseguenza deve essere
ripartito in parti uguali al momento della divisione dei beni (art. 194, primo
comma, cod. civ.) sia che provenga dall’attività di uno solo dei coniugi, sia
che provenga dalle singole attività dei due coniugi, ancorché in misura diversa
per ciascuno di essi». Da notare che, in tal caso, si trattava di denaro
effettivamente rinvenuto al momento dello scioglimento (e dunque non sottratto
al coniuge non titolare del conto): siffatto precedente rileva dunque allo
scopo di dimostrare che, secondo
Quanto
sopra aiuta a comprendere per quale motivo la decisione qui in commento citi,
per criticarlo, proprio il precedente del 1997, dichiarando espressamente la
propria adesione alla successiva (e sicuramente corretta) sentenza del 2003,
senza avvedersi peraltro che la questione di diritto posta dal caso in esame non
verteva in alcun modo sui profili sostanziali della comunione de residuo,
bensì solo su quelli di carattere probatorio. In altre parole, la corte
d’appello (stando, quanto meno, a ciò che emerge dalla lettura dei motivi del
ricorso incidentale del marito) non aveva posto alla base della propria
decisione il ragionamento secondo cui le somme depositate sul conto del marito,
così come i titoli di credito, formassero oggetto di comunione immediata perché
proventi dell’attività del marito. Al contrario, il giudice di secondo grado
aveva (come si è visto), affermato la sussistenza di una situazione di
comunione immediata sui titoli di credito perché, pur provenendo i mezzi per il
relativo acquisto da attività separata del marito (e dunque ex art. 177,
lett. c.), c.c.), proprio l’effettuazione di tale acquisto aveva determinato
l’applicazione della regola ex art. 177, lett. a), c.c. Per le somme
depositate sul conto, invece, si era sempre trattato di beni in comunione de
residuo, per le quali – secondo la corte d’appello – veniva a gravare sul
marito l’onere di provare che siffatto denaro, non più presente al momento
dello scioglimento, era stato utilizzato «per i bisogni della famiglia o per l’adempimento delle
obbligazioni di cui all’art. 186 c.c.» [22].
4. Il problema dell’onere della prova.
La necessità di non confondere la prova della sottrazione con quella della
consumazione.
Le considerazioni di cui
sopra introducono la trattazione dell’altro piano (quello, cioè, probatorio) su
cui si potrebbero collocare strumenti a tutela del coniuge non titolare dei
beni destinati a cadere in comunione de
residuo: e qui sicuramente veniamo al «cuore» della decisione oggi in
commento.
Sono più che evidenti,
infatti, in relazione al fondamentale requisito della «non consumazione» dei
beni in comunione de residuo all’atto
dello scioglimento del regime legale, le difficoltà probatorie cui va incontro
il coniuge creditore, su cui, come attore, ricade, in base agli ordinari
criteri fissati dall’art. 2697 c.c., l’onere di dimostrare non solo la
percezione da parte dell’altro di frutti e proventi, bensì anche di provare che
tali somme si trovavano ancora nel patrimonio del percipiente al momento della
cessazione della comunione [23].
Proprio su questo tema
specifico
Con una prima decisione,
risalente al 1996 [24], essa aveva stabilito che «Nella
comunione de residuo, di cui all’art.
177 comma 1, lett. c) c.c., provata attraverso consulenza tecnica l’esistenza
di redditi, grava sul titolare dell’attività l’onere di provare che essi sono
stati consumati o per il soddisfacimento di bisogni della famiglia o per
investimenti caduti in comunione». Analoga ratio
decidendi si rinviene con riferimento ad una decisione del 2000 [25], in relazione ad alcune somme
depositate su un conto corrente cointestato, ritirate prima della separazione e
asseritamente utilizzate per l’attività d’impresa del coniuge prelevante.
Venendo alle valutazioni
di siffatte argomentazioni, non vi è dubbio che
In altri termini, appare
più che ragionevole fondare su di una massima di comune esperienza il principio
secondo cui (salvo prova contraria) i proventi, specie se cospicui, di una
certa attività, una volta che ne sia stata accertata la percezione, si possono
reputare ancora esistenti (o perché accantonati, o perché reinvestiti) all’atto
dello scioglimento del regime, ponendosi l’evento della consumazione o comunque
della perdita dei medesimi come eccezionale. A chi scrive sembra, poi, che
siffatta presunzione (cioè, di perdurante persistenza delle attività in
discorso nel patrimonio del coniuge che le aveva a suo tempo percepite ed
accantonate) vada vieppiù ribadita in un caso come quello oggi in esame, nel
quale si assiste ad un repentino «prosciugamento» del conto bancario su cui le
somme in contestazione risultavano depositate.
Non bisognerà dimenticare
in proposito che la prova della «non consumazione» è cosa ben diversa da quella
– certo non richiesta dalla legge! – della «non sottrazione»: frutti e proventi
«non consumati» non sono solo quelli «ancora visibili» sul conto bancario su
cui si sono sempre trovati. La prova della sottrazione non può essere
sbrigativamente confusa con quella della consumazione, specie quando siffatta
sottrazione avvenga improvvisamente, investa magari somme rilevanti e sia
effettuata (guarda caso) nel corso della crisi coniugale o, addirittura,
nell’imminenza del momento di cessazione del regime legale. In tali circostanze
sarà infatti più che ragionevole presumere (ovviamente, salvo prova contraria),
che il denaro sottratto non sia stato consumato (donato in beneficenza, speso
in baldorie, convertito in banconote successivamente bruciate in un raptus di follia, impiegato per
l’acquisto di un prezioso collier
donato all’amante…), ma sia, tutto al contrario, al sicuro in qualche forziere
nascosto o magari in qualche conto cifrato, difficilmente reperibile anche da
parte del più astuto investigatore privato.
Dunque, nel caso oggetto
della controversia che ha dato luogo al precedente in commento, più che
giustificata sarebbe apparsa una decisione che, valorizzando i dati sopra
evidenziati, corrispondenti ad altrettanti fatti notori e di fronte al più
assordante silenzio del marito, avesse ritenuto le somme in contestazione
ancora esistenti nel patrimonio di quest’ultimo (ancorché non più presenti su
quel determinato conto corrente), e pertanto «non consumate».
5. La prova liberatoria da parte del
coniuge titolare dei beni e la teorica del «coniuge virtuoso».
Il terreno su cui appare
difficile invece seguire il ragionamento della Cassazione nelle citate pronunce
del 1996 e del 2000 e la ragione per la quale, in parte qua, sono sicuramente condivisibili le argomentazioni
svolte dalla decisione oggi in commento, è costituito da quell’idea per cui la
prova liberatoria dovrebbe necessariamente consistere nel fatto che i beni
oggetto della comunione de residuo
«sono stati consumati o per il soddisfacimento dei bisogni della famiglia o per
investimenti già caduti in comunione». Per la verità, questa idea di «coniuge
virtuoso», tutto «casa e lavoro» (si badi: neppure «tutto casa e Chiesa», posto
che in tale situazione l’adempimento del precetto evangelico quod superest date pauperibus non
potrebbe rientrare nell’alternativa secca a suo tempo posta dalla Cassazione)
appare estranea al vigente sistema normativo. Ai sensi delle norme qui in
commento, infatti, l’esistenza di un diritto ex communione de residuo è legato al solo fatto che determinate
utilità siano ancora presenti nel patrimonio di uno dei coniugi, a prescindere
nella maniera più assoluta dalle ragioni che ne abbiano determinato la
«sparizione», anche solo un momento prima del verificarsi di uno degli eventi
descritti dall’art. 191 c.c.
I Supremi Giudici non
mancano ancora di rilevare (sempre nella decisione qui in commento) come la surriferita
tesi, in precedenza propugnata dalla Cassazione, finirebbe con l’inasprire
fortemente le limitazioni strutturali che l’istituto della comunione legale
pone alla libertà dei coniugi medesimi, «aggiungendo a livello interpretativo
ulteriori restrizioni che renderebbero l’istituto troppo vincolante e oppressivo e, dunque, inficiato dal rischio
di essere ben poco desiderato se non addirittura abbandonato dai coniugi» [26]. Ciò, con la conseguenza che «manente communione il coniuge percettore
avrà, rispetto ai proventi dell’attività personale, un potere di godimento,
amministrazione e disposizione pieno, ex
art. 217 c.c., salvo il limite di contribuire ai bisogni della famiglia, che peraltro
sussiste anche con riferimento ai beni personali». La conclusione sul punto,
assolutamente condivisibile, è dunque nel senso che sostenere che possano
ritenersi consumati solo i redditi utilizzati o per soddisfare i bisogni della
famiglia o per procurare acquisti alla comunione immediata «non è conforme al
sistema varato nel 1975, nel quale non vi è traccia di strumenti concessi al partner per sindacare o impedire
l’utilizzo delle disponibilità individuali dell’altro coniuge».
Peccato, come già detto,
che
6. Amministrazione dei beni della
comunione de residuo e (inesistenza di) poteri dell’altro coniuge.
A questo punto potremmo
anche chiudere il commento al precedente in oggetto, se non scoprissimo che la
motivazione, dopo essersi a lungo soffermata sui principi sopra esposti,
inserisce (non richiesta) un vistoso obiter,
volto a indicare quali possano essere i rimedi «a fronte di un comportamento
del coniuge tale da pregiudicare le aspettative dell’altro».
Anche su questo argomento
sarà opportuno procedere con ordine, presentando una breve cronistoria delle
varie prese di posizione.
In linea generale potrà
iniziarsi osservando come sia la stessa sentenza in commento a confermare
espressamente che, per ciò che attiene all’amministrazione dei beni in
comunione de residuo, occorra
riferirsi al parametro espresso dall’art. 217 c.c. in relazione ai beni dei
coniugi in regime di separazione; disposizione, questa, riferibile, tra
l’altro, anche al patrimonio personale ex
art. 179 c.c. [27]. Come rilevato da una sentenza di
merito, in relazione ai beni in
comunione de residuo, «siccome non
ancora individuati e dei quali non è certa la loro stessa venuta ad esistenza,
il coniuge non titolare non vanta alcun potere di disposizione o di
amministrazione, né gli è riconosciuto il diritto al rendiconto». Siffatti beni
e «per eccellenza le somme di denaro, costituiscono una categoria a sé stante,
giacché ad essi non sarà mai applicabile la disciplina propria dell’amministrazione
dei beni della comunione (art. 180 c.c.): non esistendo, invero, una comunione,
all’amministrazione di tali beni si applicheranno le norme di cui ai commi 2, 3
e 4 dell’art. 217» [28].
E’ noto che, secondo
l’opinione espressa un tempo da autorevole dottrina, al coniuge non titolare
dei beni destinati alla comunione de
residuo sarebbe spettato manente
communione un potere di «informazione e di controllo sui redditi
dell’altro» [29]. E del resto alla citata opinione ha
fatto eco il rilievo secondo cui la lettura comunemente accolta della norma
(per la quale, invece, il coniuge è libero di amministrare e consumare come
meglio crede il proprio patrimonio in comunione de residuo fin tanto che il regime legale è sussistente) «non è
priva di inconvenienti perché sembra legittimare il titolare non solo ad un uso
non apprezzabile delle risorse ma persino al loro sistematico e doloso
sperpero, a discapito delle attese dell’altro coniuge; l’incongruità della
soluzione si palesa più evidente ove si tenga conto che questi potrebbe aver
amministrato oculatamente i propri beni comuni de residuo cosicché, al momento dello scioglimento del regime
legale, dovrebbe renderne partecipe chi, invece, li ha utilizzati a suo
esclusivo vantaggio, incurante degli interessi altrui» [30].
La tesi che ammetteva l’ipotizzabilità di un
potere di controllo venne però vivacemente criticata [31], sottolineandosi che nessun dato
normativo – al di là dell’obbligo generico gravante su tutti i coniugi di
contribuire ai bisogni della famiglia ex
art. 143 u.c. c.c. – giustificava limiti alla incondizionata libertà di ciascun
coniuge di disporre a proprio piacimento dei risparmi individuali, una volta
assolti i predetti obblighi di contribuzione. Peraltro lo stesso sostenitore della tesi qui esposta venne a
mutare successivamente avviso [32], rilevando come la sua originaria
presa di posizione, pur ispirata a mozioni di giustizia sostanziale, apparisse
difficilmente giustificabile alla luce del dato testuale [33] e concludendo nel senso che «i
redditi individuali sono destinati: (a) o agli investimenti, che cadono in
comunione secondo la regola (…) codificata dalla lettera a dell’art. 177; (b) o
ai consumi, insuscettibili di controllo reciproco, restando nella esclusiva,
anche capricciosa, discrezionalità del titolare; (c) o ai risparmi, che
viceversa, al momento del verificarsi di una causa di scioglimento della
comunione, diventano automaticamente oggetto di un diritto dell’altro
coniuge» [34].
La disputa sembrava
sopita, allorquando un improvvido obiter
di legittimità [35] venne ad operare un rimescolamento
di carte. La sentenza, pur affermando, correttamente, che «L’art. 177 lett. c)
del codice civile esclude dalla comunione legale tra coniugi i proventi
dell’attività separata svolta da ciascuno di essi e consumati in epoca
precedente allo scioglimento della comunione», conteneva infatti in una parte
della motivazione, assolutamente irrilevante ai fini del decidere, l’elenco dei
seguenti strumenti a tutela della posizione del coniuge del percettore dei
proventi in discorso: (a) la separazione giudiziale dei beni ex art. 193 c.c.; (b) l’azione
revocatoria; (c) l’azione surrogatoria; (d) la domanda di risarcimento dei
danni; (e) «in via di estremo subordine (…) il principio di buona fede ed il
divieto dell’abuso del diritto, fermo l’obbligo per il coniuge ‘dissipatore’ di
rendere il conto delle sue entrate e di come sono state spese».
Sul punto potrà
rimarcarsi criticamente che, per quanto attiene al rimedio sub (a) esso è concesso a tutela contro la mala gestio del patrimonio in comunione immediata, mentre i
proventi in comunione de residuo sono
e rimangono, fino al momento dello scioglimento, di esclusiva titolarità del
percettore, il quale può pertanto esercitare il diritto dominicale di disporre di
siffatte utilità a suo esclusivo piacimento
[36]. Ciò detto, sarà opportuno
aggiungere che, nel caso fossero effettivamente riscontrabili i requisiti di
cui all’art. 193 c.c., l’effetto retroattivo della sentenza di accoglimento
consentirebbe, per così dire, di «recuperare» eventuali attività de residuo andate disperse nel periodo
compreso tra la domanda e la sentenza, nel senso che esse dovrebbero ritenersi
come fittiziamente presenti, ancorché non più effettivamente esistenti nel
patrimonio di chi tali beni aveva percepito. Quanto sopra induce dunque ad
affermare l’ammissibilità – in corso di azione giudiziale ex art. 193 c.c. – di un eventuale sequestro giudiziario di somme
su conti bancari, con l’avvertenza (di non secondaria importanza) che qui il fumus boni juris va parametrato non solo
sull’appartenenza alla comunione de
residuo e sull’esistenza delle predette somme all’atto della presentazione
della domanda di separazione giudiziale dei beni, ma anche sul fondamento della
domanda stessa ex art. 193 c.c.
Per ciò che attiene al
rimedio sub (b) sarà appena il caso
di rilevare come l’azione surrogatoria presupponga l’inerzia del titolare di un
diritto nel suo esercizio verso terzi, laddove qui si discute di comportamenti
che, tutto al contrario, manifestano l’esercizio del diritto dominicale [37].
Venendo al rimedio sub (c), cioè all’azione revocatoria,
andrà rimarcato che il medesimo è concesso al creditore, laddove nel caso di
specie il coniuge non ha ancora tale veste, essendo oltretutto l’oggetto di
siffatto preteso credito ancora da determinarsi, dal momento che il regime non
è ancora cessato. Come efficacemente asserito in dottrina, la tesi – al di là
dalle buoni intenzioni che la ispirano – non tiene adeguatamente conto della
reale situazione in cui viene a trovarsi il coniuge rispetto all’acquisto
differito; situazione che non solo non è qualificabile in termini di situazione
di vantaggio piena, ma non presenta nemmeno i requisiti di un’aspettativa in
quanto il meccanismo di attribuzione è destinato ad operare nei confronti di
determinati cespiti in un determinato momento senza che si verifichino gli
estremi per configurare in capo al coniuge un diritto condizionato [38].
Il dettato codicistico
non sembra lasciare dubbi in tal senso. A ben vedere, infatti, la mancata
consumazione non può essere assunta come evento (incerto nell’an), esterno e indipendente alla volontà
delle parti, dal cui verificarsi dipende l’acquisto definitivo al patrimonio
comune di un cespite, quanto piuttosto come elemento costitutivo della stessa
fattispecie acquisitiva [39]. Il richiamo alla revocatoria
appare, dunque, incongruo non solo per l’insussistenza di un diritto
(condizionato) all’acquisto, ma anche perché gli interessi che essa è chiamata
ad attuare sono di natura diversa rispetto a quelli qui in gioco; in
particolare, tale strumento assolve al ruolo di mezzo di conservazione della
garanzia patrimoniale generica in vista del soddisfacimento di crediti già
sussistenti nella sfera giuridica del soggetto, laddove nell’ipotesi di
acquisto del residuo è l’esistenza dello stesso credito ad essere in
dubbio [40].
Ogni domanda risarcitoria
– e qui si viene al punto (d) [41] – poi, è destinata ad infrangersi
contro la considerazione per cui qui iure
suo utitur neminem laedit e lo stesso vale in relazione ai supposti rimedi
indicati sub (e).
Con particolare riguardo
al tema dell’abuso del diritto [42], si è efficacemente obiettato che,
ove si volesse configurare un comportamento abusivo in capo al coniuge che
sperpera i propri proventi personali, precludendo così al consorte di
acquisirli come residuo, occorrerebbe determinare per un verso quale sia il
diritto nel cui esercizio si perpetrerebbe l’abuso e, per l’altro, se comunque
la posizione in cui si trova la vittima sia meritevole di tutela. Per ciò che
attiene alla prima delle questioni prospettate, la posizione di vantaggio di
cui si lamenterebbe l’abuso non è altra che quella di cui gode ciascun
consociato rispetto ai propri beni. D’altra parte, non sembra che in capo al
coniuge non percettore si possa configurare una situazione dotata – seppure
marginalmente o di rimando – di tutela giuridica, come avviene con riguardo
alle fattispecie tradizionalmente ricondotte alla figura dell’abuso di
diritto [43]. Venendo, poi, ai richiami ai
criteri della buona fede e della correttezza
[44], notiamo che, come si è esattamente
obiettato, essi risultano troppo generici e, in quanto tali, inidonei a
configurare in capo al coniuge percettore quella serie di comportamenti
(dovuti) volti a garantire la realizzazione di un residuo o in mancanza la
reazione del sistema.
Assai più saggiamente,
dunque, una decisione di legittimità del 2004
[45] si è limitata a ribadire che «i frutti
dei beni di ciascun coniuge ed i proventi dell’attività separata di ciascuno di
essi cadono in comunione nei soli limiti in cui essi non siano stati consumati
al momento del suo scioglimento», con la conseguenza che nessuna pretesa può
vantare un coniuge sulle somme attinte dall’altro dai proventi della sua
attività artigianale e consumate in costanza del regime di comunione legale.
Ora, la sentenza qui in
commento, nuovamente in obiter, torna
a proporre i rimedi seguenti: (a) l’azione diretta alla separazione giudiziale
dei beni ex art. 193 cpv. c.c.; (b)
l’azione diretta al risarcimento del danno ex
art. 2043 c.c.; (c) l’azione revocatoria ex
art. 2901 c.c. Ma ciò che appare più sconcertante è che siffatti strumenti
vengano (ri)proposti dopo che la stessa Corte, poche righe più in alto,
solennemente (e, ad avviso dello scrivente, correttamente) proclama il
carattere di «semplice aspettativa di fatto»
[46] della situazione del coniuge non
percettore dei proventi oggetto della comunione de residuo.
In conclusione dovrà
puntualizzarsi che una qualche forma di tutela del coniuge sarà, invece,
assicurabile in presenza di atti (donazioni o contratti di mutuo), con i quali
il soggetto titolare di beni soggetti alla comunione de residuo determini simulatamente – manente communione – la fuoriuscita dal proprio patrimonio dei beni
medesimi. In tal caso al coniuge leso potrà essere riconosciuta la posizione di
terzo (avente causa), al quale l’ordinamento tutela l’interesse a far prevalere
la realtà sull’apparenza, con quanto ne consegue per ciò che attiene alle
agevolazioni sul piano probatorio [47]. Il rimedio
dell’inefficacia/invalidità non appare invece praticabile nel caso in cui
l’atto sia stato posto in essere «realmente», anche se con l’esclusivo intento
di ledere la posizione del coniuge [48].
Peraltro, proprio per
quanto riguarda il possibile utilizzo di «prestanome» per sottrarre beni alle
pretese del coniuge, andrà tenuto presente che la recente riforma
sull’affidamento condiviso [49] ha stabilito, riformando l’art. 155
c.c. (cfr. il relativo ultimo comma), che «Ove le informazioni di carattere
economico fornite dai genitori non risultino sufficientemente documentate, il
giudice dispone un accertamento della polizia tributaria sui redditi e sui beni
oggetto della contestazione, anche se intestati a soggetti diversi». Sembra
quindi muovere i primi, timidi, passi – ancorché, sia chiaro, almeno per il
momento, in una materia non esattamente coincidente con quella in esame – la
tendenza ad una certa «insofferenza» legislativa verso forme di sottrazione del
proprio patrimonio alle pretese che si collochino nell’ambito del contenzioso
familiare. Il richiamo al concetto di «intestazione», invero, potrebbe forse
indurre a rivedere (ma il discorso presupporrebbe ben altro approfondimento)
posizioni tradizionalmente basate sul concetto giuridico di «appartenenza», al
là dunque del fatto che i trasferimenti operati verso i terzi abbiano ad
oggetto (asserite) situazioni di interposizione fittizia, o addirittura anche
reale [50].
[1] Il richiamo
alla figura del «coniuge debole» era contenuto nell’art. 6, comma sesto,
l.div., così come sostituito dall’art.
[2] In quanto
provento di vendita di titoli di credito, dalla corte d’appello ritenuti
formare oggetto di comunione immediata ai sensi dell’art. 177, lett. a), c.c.
[3] In generale
sull’istituto v. Schlesinger, Della comunione legale, in Commentario
alla riforma del diritto di famiglia,
a cura di Carraro, Oppo e Trabucchi, I, 1, Milano, 1977, p. 361 ss.; Corsi, Il regime patrimoniale della
famiglia, I, in Trattato
di diritto civile e commerciale, diretto
da Cicu e Messineo, continuato
da Mengoni, Milano, 1979, p. 90 ss.;
Cian e Villani, La comunione dei beni tra
coniugi (legale e convenzionale),
in Riv. dir. civ.,
1980, I, p. 391 ss.; Santosuosso,
Delle persone e della famiglia. Il regime patrimoniale della famiglia,
in Commentario del codice civile, I, 1, III, Torino, 1983, p. 174 ss.;
A. e M. Finocchiaro, Diritto
di famiglia, I, Milano, 1984, p. 928 ss.; Nuzzo, L’oggetto della comunione legale tra coniugi, Milano, 1984, p. 29 ss.; Majello,
Comunione dei beni tra coniugi 1) Profili sostanziali, in Enc. giur. Treccani, Roma, 1988, p. 4 ss.; Costanza,
Amministrazione dei beni in comunione de residuo, in Aa. Vv., La comunione legale, a cura di Bianca, I, Milano, 1989, p. 671 ss.; Napoli,
I frutti, in Aa. Vv., La comunione legale, a cura di Bianca, I, Milano, 1989, p. 41 ss.; Di Transo,
La comunione de residuo, in Aa.
Vv., Scritti in onore di
Capozzi, I, 1, Milano, 1992, p. 529 ss.; Schlesinger, Della comunione legale, in Commentario al diritto
italiano della famiglia, diretto
da Cian, Oppo e Trabucchi, III, Padova, 1992, p. 116 ss.; Santosuosso, Beni ed attività
economica della famiglia, in
Giurisprudenza sistematica di diritto civile e commerciale, fondata da Bigiavi, Torino,
1995, p. 93 ss.; Caravaglios, La comunione legale, I, Milano, 1995, p.
623 ss.; Barbiera, La
comunione legale, in
Trattato di diritto privato, diretto
da Rescigno, Persone e famiglia,
3, II, Torino, 1996, p. 435 ss.;
Gabrielli e Cubeddu, Il regime patrimoniale dei
coniugi, Milano, 1997, p. 30 ss.; Auletta, La comunione legale, in Trattato di diritto privato diretto
da Bessone, IV, Il diritto di
famiglia, II, Torino, 1999,
p. 98 ss.; Galasso e Tamburello, Regime patrimoniale
della famiglia, I, in
Commentario del codice civile Scialoja-Branca a cura di Galgano, Artt. 159‑230, Bologna‑Roma, 1999, pp. 388 ss. e 425 ss.; Russo, L’oggetto della comunione legale e i beni
personali. Artt. 159-166-bis,
in Il codice civile,
Commentario diretto da Schlesinger, Milano, 1999, p. 61 ss.; Bianca, Diritto civile, II,
La famiglia. Le successioni, Milano, 2001, p. 103 ss.; Rimini,
Acquisto immediato e differito nella comunione legale, Padova, 2001, p. 53 ss.; Troiano, I proventi dell’attività separata nell’alternativa tra libera
disponibilità e destinazione ai bisogni della famiglia, in Familia, 2001, p. 354 ss.; De Paola, Il diritto patrimoniale
della famiglia nel sistema del diritto privato, II, Il regime patrimoniale della famiglia, Milano, 2002, p. 525 ss.; Spitali, [Il
regime legale]. L’oggetto, in Aa. Vv.,
Trattato di diritto di famiglia, diretto da Zatti, III, Regime
patrimoniale della famiglia, Milano, 2002, p. 134 ss.; Cavallaro,
La c.d. comunione de residuo fra garanzia dell’autonomia individuale e
«vanificazione» dei fini della comunione, in Familia, 2005, p. 109 ss.; Sesta,
Diritto di famiglia, Padova, 2005, p.
186 ss.
[4] Sono note le
discussioni che hanno caratterizzato il tentativo di individuare una ratio del sistema di comunione legale
introdotto dalla Riforma del 1975. La prima è quella che punta sulla
remunerazione del lavoro femminile (in questo senso cfr. ad es. Russo, Considerazioni sull’oggetto della comunione, in Studi sulla riforma del diritto di famiglia,
Milano, 1973, ripubblicato in Le
convenzioni matrimoniali e altri saggi sul nuovo diritto di famiglia,
Milano, 1983, p. 76 ss.; Costi, Lavoro e impresa nel nuovo diritto di
famiglia, Milano, 1976, p. 11 ss.; Id.,
Nuovo regime patrimoniale tra coniugi e
società di persone, in Aa. Vv., Diritto di famiglia. Società - contrattazione immobiliare, Milano,
1978, p. 18). La critica a tale impostazione si basa sulla mancanza di elementi
testuali, nonché sulla considerazione per cui, se tale affermazione fosse vera,
occorrerebbe, al momento dello scioglimento, tenere conto del lavoro prestato o
meno in concreto, laddove, tutto al contrario, il regime legale opera e produce
tutti i suoi effetti senza restrizione alcuna a prescindere dal concreto
contributo prestato al ménage
familiare (cfr. Schlesinger, Della comunione legale, cit., 1992, p. 70 ss.; v. inoltre Carraro, Il regime patrimoniale della famiglia, Milano, 1979, p. 54 s.; Cataudella, Ratio dell’istituto e ratio della
norma nella comunione legale tra coniugi, in Aa. Vv., Scritti in
onore di Nicolò. Diritto di famiglia,
Milano, 1982, p. 302; A. e M. Finocchiaro, op. cit., p. 710 s.; Santosuosso,
Il regime patrimoniale della famiglia,
cit., p. 24 ss.; Corsi, op. cit., p. 54). Secondo un altro
avviso il regime della comunione mirerebbe all’attuazione del principio di
parità tra coniugi stabilito dall’art. 29 cpv. Cost. Di contro si può però osservare che, se tale asserzione fosse
vera, si dovrebbe ritenere inconstituzionale il sistema di separazione dei beni
(sul punto v. Oberto, Il regime di separazione dei beni tra
coniugi. Artt. 215-
[5] Cioè i frutti
dei beni propri (si pensi ad esempio ai canoni di locazione corrisposti
dall’inquilino di un alloggio o al
raccolto di un fondo rustico di proprietà di uno solo dei coniugi) e i proventi
dell’attività separata di ciascuno dei coniugi (si pensi allo stipendio
mensilmente percepito dal coniuge lavoratore dipendente, ovvero al reddito da
lavoro autonomo). Se è opinione abbastanza condivisa che il riferimento ai
frutti includa tanto quelli naturali che quelli civili, restando semmai
controverso, per quanto riguarda quest’ultima categoria, a quale momento
bisogna fare riferimento ai fini di determinarne l’avvenuta percezione e cosa
si intenda per «mancata consumazione» (sul punto, fra gli altri, Napoli, op. cit., p. 66 ss.; Rimini, op. cit., p. 60 ss.), i commentatori non sono concordi sul
significato da attribuire alla formula «proventi dell’attività separata di
ciascuno dei coniugi». Per un’ampia trattazione della questione si rinvia
comunque a Rimini, op. cit., p. 69 ss.
[9] Sono noti i
termini della vexata quaestio
relativa all’individuazione del momento da cui far decorrere lo scioglimento
del regime comunitario, posto che il Legislatore – a differenza di quanto avviene
per l’ipotesi di separazione giudiziale dei beni, per la quale è previsto che
l’instaurazione del regime di separazione retroagisca alla proposizione della
domanda (art. 193, quarto comma, c.c.)
– per le fattispecie previste dall’art. 191 c.c. ha omesso di indicare il momento in cui si produce lo
scioglimento della comunione. Rinviando allo sconfinato dibattito dottrinale e
giurisprudenziale sul tema (sul tema v. per tutti Schlesinger, Separazione personale e scioglimento della
comunione legale, Nota a Trib.
Milano, 20 luglio
[11] Sul punto v.
per tutti Corsi, op. cit., p. 92; A. e M. Finocchiaro,
op. cit., p. 1012, nota 49 bis; Auletta,
op. cit., p. 109; Russo, L’oggetto della comunione legale e i beni personali,
cit., p. 81 s. Sembra invece adombrare (se si è ben compreso) la
possibilità di una surrogazione Cavallaro,
op. cit., p. 111: secondo l’Autrice,
infatti, i beni in comunione de residuo
«Se spesi si trasformeranno in acquisti alla comunione ovvero, là dove ne
ricorrano i presupposti, in acquisti destinati ad essere ricompresi nelle
categorie di beni di cui all’art. 179 c.c.».
[12] Cfr. Cass., 23 settembre 1997, n.
[13] Cfr. Cass., 12
settembre 2003, n.
[14] Da notare che
in motivazione la decisione citata alla nota precedente si occupa anche
dell’eventuale applicabilità della presunzione ex art. 195 c.c. in relazione alle somme oggetto di comunione de residuo. Rigettando la domanda del
coniuge, che chiedeva il riconoscimento di un diritto ad una parte dei proventi
dell’attività lavorativa personale del consorte e ne lamentava l’occultamento,
[15] Cfr. Cass., 29
novembre 1986, n. 7060; sull’appartenenza alla comunione de residuo di un immobile per il solo fatto obiettivo della sua
destinazione ad attività di impresa gestita da uno solo dei coniugi cfr. anche
Cass., 19 settembre 2005, n. 18456.
[16] Cass., 9 marzo
2000, n.
[18] Sulla capacità
a testimoniare del coniuge in regime di comunione legale si registrano i
seguenti precedenti di legittimità (oltre a quello di cui si riferisce nel
testo): «Nel caso di regime di comunione fra i coniugi, e con riguardo a
controversia promossa dall’uno per l’attribuzione di un bene destinato ad
incrementare il patrimonio comune (nella specie, con azione di retratto
agrario), l’altro coniuge, pur non avendo la qualità di litisconsorte
necessario, si trova in situazione di incapacità a testimoniare, ai sensi
dell’art. 246 cod. proc. civ., stante la sua facoltà di intervenire nel
relativo giudizio» (Cass., 7 marzo 1984, n.
[21] Il tema della titolarità dei conti correnti e, più
in generale, dei rapporti bancari relativamente a coniugi in regime
legale appare strettamente legato a quello della caduta in comunione dei rapporti di credito (su cui v. per tutti,
Alagna, Regime patrimoniale
della famiglia ed operazioni bancarie, Padova, 1988; Spitali, op. cit., p. 126 ss.).
Sullo stesso tema potrà
segnalarsi un’ulteriore decisione, secondo la quale «La mera titolarità formale
di un conto corrente bancario non può, da sola, costituire circostanza decisiva
in ordine alla proprietà e spettanza dei relativi fondi, occorrendo valutare in
concreto, caso per caso, se sussista disgiunzione fra intestazione nominale del
conto e reale appartenenza delle somme depositate (principio affermato dalla
S.C. nel confermare la decisione di merito che, a seguito di separazione
personale, facendo corretta applicazione dell’art. 2729 cod. civ. aveva ritenuto
che le somme accreditate sul conto corrente di cui era titolare un coniuge
spettassero all’altro, i proventi della cui attività avevano costituito l’unica
fonte di guadagno della famiglia)» (Cass., 23 gennaio 2004, n. 1149): da notare
che, in questo caso, neppure dalla lettura della motivazione emerge che la
parte interessata (nella specie, quella unica intestataria del conto) si sia
mai curata di avanzare pretese ex art. 177 lett. c) c.c. In epoca ancora
più recente
A prescindere poi dalla questione circa la caduta o
meno in comunione dei diritti di credito, la dottrina sembra orientata ad
affermare che oggetto di comunione legale possa essere anche il denaro, in
quanto bene mobile, suscettibile d’acquisto da parte dei coniugi (così v. per
tutti Spitali, op. cit., p. 124 ss.; contra Russo,
L’oggetto della comunione legale e i beni personali, cit., p. 227). Posto che
peraltro, come ammette la stessa dottrina contraria alla caduta in comunione
dei rapporti di credito, il denaro «raramente viene conservato sotto forma di
numerario» (così, ad esempio, Spitali,
op. cit., p. 125), la conclusione testé
enunciata rischia di perdere concreto significato, laddove si affermi che il
credito verso la banca in un rapporto di conto corrente o di deposito non
sarebbe idoneo a sottostare alla regola ex
art. 177 lett. a) c.c.
[22] Prima di
passare all’esame del profilo probatorio e degli strumenti che su tale piano
Se la prima tesi ha il pregio di corrispondere
maggiormente al tenore letterale della disposizione, che parla, per l’appunto,
di «comunione», va detto che siffatta soluzione sembra presentare problemi
quasi insolubili, quando si procede all’esame delle relative conseguenze pratiche.
Basti pensare al fatto che oggetto della comunione de residuo sono non solo somme di denaro, ma anche beni, sia mobili
che immobili (si ponga mente in particolare alle fattispecie riconducibili al
disposto dell’art. 178 c.c.). In tal caso affermare l’automatico venire in
essere di una situazione di contitolarità reale in capo a tali beni verrebbe a
porre problemi insormontabili nei rapporti con i terzi, ai quali può sfuggire
(ed anzi normalmente sfugge) l’esistenza di ragioni che determinano l’assoggettamento
a comunione di beni a questa apparentemente sottratti; siffatta tesi verrebbe
poi anche a porsi in contrasto con il principio secondo cui lo scioglimento
della comunione legale dovrebbe attenuare i vincoli patrimoniali tra i coniugi,
anziché incrementarli sul piano della contitolarità. Per queste ragioni appare
maggiormente convincente la tesi seguita in giurisprudenza da un ormai remoto
precedente di merito (Trib. Camerino, 5 agosto
[24] Cass., 10 ott.
1996,
[25] Cass., 17
novembre 2000, n. 14897: «Costituiscono oggetto della
comunione cosiddetta de residuo, ai
sensi dell’articolo 177 lett. c) cod. civ., non solo quei redditi per i quali
si riesca a dimostrare che sussistano ancora al momento dello scioglimento
della comunione ma anche quelli, percetti e percipiendi, rispetto ai quali il
coniuge titolare non riesca a dimostrare che siano stati consumati o per il
soddisfacimento dei bisogni della famiglia o per investimenti già caduti in
comunione (nella specie
[26] Sul tema del
progressivo abbandono, da parte delle coppie italiane, del regime della
comunione legale (abbandono, sia detto per inciso, favorito proprio da talune
rigidità della Cassazione su temi quali l’individuazione del momento di
scioglimento del regime, o l’inammissibilità del rifiuto preventivo del
coacquisto, o la necessaria partecipazione di entrambi i coniugi per gli
acquisti personali ex art. 179, cpv.,
c.c., o, ancora, il non riconoscimento di validità alle intese concluse in
vista della crisi coniugale) si fa rinvio per tutti a Oberto, Il regime di
separazione dei beni tra coniugi. Artt.
215-219, cit., p. 6 ss.
[27] Sull’applicabilità dell’art. 217 c.c. ai beni
personali ed a quelli in comunione de
residuo si fa rinvio per tutti a Oberto,
Il regime di separazione dei beni tra
coniugi. Artt. 215-219, cit., p.
131 ss.
[31] V. in
particolare A. e M. finocchiaro, op. cit., p. 932 ss.; Giusti,
L’amministrazione dei beni della
comunione legale, Milano, 1989, p. 34, nota 13.
[33] Conclusione,
questa, ribadita nel commento a Cass., 10 ottobre 1996, n. 8865, cit., ove si
legge che «sostenere che possono considerasi “consumati” – e quindi esclusi
dalla comunione de residuo –
solo i redditi utilizzati o per soddisfare i bisogni della famiglia
o per procurare acquisti alla comunione legale, mi parrebbe non conforme al
sistema varato dal legislatore del 1975, sistema nel quale non vi è traccia di
strumenti concessi al partner per sindacare o impedire 1’utilizzo delle
disponibilità individuali dell’altro coniuge» (Schlesinger, Comunione de residuo e onere della
prova, nota a Cass., 10
ottobre 1996, n.
[34] Sull’inesistenza di poteri di controllo da
parte del coniuge cfr. anche Trib. Trani, 12 maggio 1997, cit.; in dottrina v.,
anche per i richiami, Russo, L’oggetto
della comunione legale e i beni personali, cit., p. 62 ss.; Spitali, op. cit., p. 143 ss.
[36] Il tentativo di
collegare la tematica in questione al disposto di cui all’art. 193 c.c. è stato
inizialmente percorso da Busnelli,
La «comunione legale» nel diritto di
famiglia riformato, in Riv. notar.,
1976, p. 37, il quale individua una corrispondenza fra l’interesse la cui
realizzazione verrebbe messa a rischio da una disordinata conduzione degli
affari e l’interesse all’acquisizione del residuo, che in tal guisa riceverebbe
quell’autonomo riconoscimento giuridico, presupposto necessario ai fini
dell’estensione di adeguati mezzi di tutela anche in fase di regolamentazione
degli effetti dello scioglimento della comunione. La ricostruzione – su cui v.
anche Cavallaro, op. cit., p. 119 ss. – si scontra però
con il rilievo secondo cui appare impossibile desumere dal disposto di cui
all’art. 193 c.c. il riconoscimento di una situazione soggettiva autonomamente
tutelata e relativa all’acquisizione del residuo, posto che gli interessi ivi
richiamati sono generici e destinati a rilevare in via di mero fatto, nel senso
che la loro messa in pericolo assume rilevanza solo in quanto concorre ad
integrare il presupposto dell’azione di scioglimento. E d’altra parte, che il
comportamento pregiudizievole del coniuge rilevi solo indirettamente, ai fini
di giustificare la richiesta dello scioglimento giudiziale del regime di comunione,
è confermato dal fatto che la norma non prevede l’adozione di alcun rimedio
volto a sanzionare tale comportamento e a rimuoverne eventuali effetti
negativi, salva l’applicabilità del rimedio di cui all’art. 194, cpv., c.c.,
che comunque è predisposto in via immediata alla tutela di interessi di altro
tipo (per questi rilievi v. anche Cavallaro,
op. cit., p. 119, nota 26).
[37] Applica
l’azione revocatoria Trib. Ferrara, 21 maggio
[38] Così Cavallaro, op. cit., p. 120. Configurano in capo al coniuge non percettore un acquisto
sottoposto a condizione sospensiva Gionfrida
Daino, La posizione dei creditori
nella comunione legale tra coniugi, cit., p. 12; Di
Transo, op. cit., p. 534
ss., 541. Quest’ultimo Autore, però, ritiene che «trattandosi di condicio
iuris, nessuna tutela
spetta medio tempore al titolare dell’aspettativa, cioè all’altro
coniuge (p. 535)». Come rilevato da Cavallaro,
op. cit., p. 120, nota 29, stando
così le cose, non si comprende l’utilità del ricorso alla figura della
condizione.
[41] Sul tema
dell’applicabilità dell’art. 2043 c.c. alla fattispecie in esame v. Busnelli, La «comunione legale» nel diritto di famiglia riformato, cit., p.
37; Id., Linee di tendenza della dottrina nei primi due anni di applicazione
della riforma del diritto di famiglia, in Dir. fam. pers., 1979, p. 416 s. e le relative critiche in Cavallaro, op. cit., p. 121, secondo cui la previsione del «danno ingiusto»
quale presupposto per il riconoscimento della tutela risarcitoria postula pur
sempre la lesione di un interesse giuridicamente riconosciuto, che nella
presente ipotesi si stenta a rinvenire, risultando a tal fine troppo generico
il riferimento agli interessi del coniuge, della famiglia o della comunione,
contenuto nell’art. 193, cpv., c.c. Né sembra ammissibile, per tale via,
invocare la violazione del principio del neminem
laedere, visto che anche in questo caso si rende necessaria
l’individuazione di una situazione soggettiva tutelata in capo a colui che
lamenta la lesione rispetto al conseguimento del residuo, laddove il coniuge –
nella fase precedente allo scioglimento della comunione – non vanta nessuna
situazione giuridicamente protetta, né in termini di diritto relativo, né tanto
meno in termini di diritto di proprietà.
[42] Per il
tentativo di collocare la questione all’interno delle ipotesi di abuso di
diritto v. Majello, op. cit.,
p. 5, il quale rinviene l’abuso
«nell’ipotesi in cui i redditi personali siano stati sperperati nella
soddisfazione di interessi egoistici», ma riconduce tale comportamento alla
violazione del dovere di buona fede. Per un’informazione generale sul tema
dell’abuso del diritto v. per tutti Natoli,
Note preliminari ad una teoria dell’abuso del diritto nell’ordinamento giuridico
italiano, in Riv. trim.
dir. proc. civ., 1958, p. 28 ss.; Rescigno, L’abuso
del diritto, in Riv.
dir. civ., 1965, 1, p. 259
ss.; Id., L’abuso del diritto, Bologna, 1998; Patti, Abuso del diritto, in Dig. IV,
Disc. priv., Sez. civ., I, Torino, 1987, p. 1 ss.; Breccia, L’abuso del diritto, in Aa Vv.,
Diritto privato 1997, Padova,
1998, p. 82 ss.
[44] Su cui v., in
tal senso, Gionfrida Daino, La posizione dei creditori nella comunione
legale tra coniugi, cit., p. 15; Ead.,
Nota a Trib. Ferrara, 21 maggio
[46] Nel senso
dell’aspettativa di diritto v. invece Busnelli,
La «comunione legale» nel diritto di famiglia
riformato, cit., p. 37.
[49] Cfr. la già
citata l. 8 febbraio 2006, n. 54, «Disposizioni
in materia di separazione dei genitori e affidamento condiviso dei figli».
[50] Sul controverso
concetto di «intestazione di beni sotto nome altrui» v., anche per gli
ulteriori, necessari, rinvii, Fr.
Ferrara Sr., Della simulazione nei
negozi giuridici, Roma, 1922, p. 182 s.; Id.,
Interposizione di persona e intestazione
in altra persona, in Riv. dir. priv.,
1937, p. 129 ss.; Messineo, Dottrina generale del contratto, Milano,
1952, p. 308; Valente, L’intestazione di beni sotto nome altrui :
concetto, natura, estensione ed effetti, Milano, 1958; Cariota Ferrara, Il negozio giuridico nel diritto privato italiano, Napoli, s.d. ma
1966, p. 546, nota 20; Flamini, Interposizione fittizia
di persona o intestazione di beni sotto nome altrui, Nota a Trib.
Ascoli Piceno, 12 aprile