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Pietro Greco

La scienza on line circola
come ai tempi di Galileo Galilei

Per quasi tre secoli gli scienziati hanno potuto far conoscere i risultati delle proprie ricerche soltanto se erano riusciti a superare il severo vaglio di qualità al quale le riviste specializzate sottoponevano ogni pubblicazione: l'informazione scientifica primaria era, in sostanza, esclusivamente mediata. Oggi Internet consente loro di comunicare in maniera molto più diretta. Come avveniva nel Seicento.

E' in arrivo dagli Stati Uniti un giornale finalmente nuovo. Destinato a fare storia. Perché modificherà il modo di comunicare la scienza. E, forse, il modo stesso di fare scienza. Si chiamerà "E-Biomed". E, più che una rivista, sarà un enorme sacco, elettronico, in cui tutti i ricercatori biomedici del mondo, di qualsivoglia origine e disciplina, potranno gettare dentro e tirare fuori i loro articoli scientifici. Gli autori, infatti, potranno pubblicare praticamente in tempo reale, sul world wide web, i risultati della loro attività di ricerca. Senza quella valutazione preventiva di qualità che nel mondo dell'editoria scientifica si chiama peer-review: analisi critica a opera di colleghi tanto esperti quanto anonimi. Quanto ai lettori, beh, essi potranno accedere da ogni dove alla rivista via Internet: in modo facile, libero e, soprattutto, quasi gratuito.

Il progetto del sacco elettronico, reso di pubblico dominio nei mesi scorsi, lo ha voluto e firmato Harold Varmus in persona1. Ovvero il direttore dei National institutes of health (Nih) degli Stati Uniti e, quindi, il leader della ricerca biomedica mondiale. Per un motivo molto semplice. Perché Harold Varmus sa che quel suo giornale telematico sarà tra le avanguardie dell'esercito che si accinge a realizzare la terza, grande rivoluzione nella storia della comunicazione della scienza moderna, dopo l'avvento del libro nel XVI secolo e l'invenzione delle riviste nel XVIII secolo. E lui, Harold Varmus, a questa terza rivoluzione culturale, la rivoluzione telematica del XX secolo, vuole associare il suo nome.

Il progetto di Harold Varmus è destinato a fare rumore. Non fosse altro perché i biomedici formano ormai la più vasta e articolata comunità scientifica del mondo. Ma non è il solo progetto a occupare il campo. Anzi, la rete. Perché, in realtà, il web è tutto un ribollire di iniziative di singoli ricercatori e di intere organizzazioni di ricerca che intendono sperimentare nuove forme di comunicazione della scienza anche (ma non solo) nel settore della cosiddetta letteratura primaria. Ovvero della comunicazione con cui i membri di quelle comunità informali che sono le comunità scientifiche trasmettono ai colleghi, membri della medesima comunità scientifica, i risultati originali conseguiti con la propria attività di ricerca. Bene, la nostra tesi è che gli esperimenti di comunicazione scientifica on line non stanno solo iniziando a diversificare e a modificare i modi con cui i ricercatori comunicano tra loro. Ma stanno iniziando a modificare, per certi versi, il modo stesso di fare scienza.

Per capire in cosa consiste questo radicale cambiamento, dobbiamo cercare di definire cosa sia, davvero, la scienza. L'impresa è tutt'altro che facile. Impegna, da qualche secolo, schiere di scienziati e filosofi. C'è chi ne dà una definizione strumentale: la scienza è «mezzo per risolvere problemi». C'è chi ne dà una definizione epistemologica: la scienza è «conoscenza organizzata». Di definizioni potremmo elencarne molte altre ancora, prendendo a prestito il punto di vista di filosofi, sociologi, psicologi. C'è una definizione particolare però, abbastanza ampia, anche se un po' datata, che ci consente di affrontare con una buona attrezzatura i problemi della comunicazione e dei suoi cambiamenti. Secondo questa definizione, che potremmo considerare accademica, in quanto non tiene conto delle relazioni che i ricercatori hanno col resto della società, la scienza è: «un'istituzione sociale dedita alla costruzione di un consenso razionale d'opinione sul più vasto campo possibile»2.

Anche se segnata dal tempo (oggi pochi ricercatori possono davvero prescindere dai rapporti col resto della società), si tratta di una definizione importante, perché suggerisce che la scienza è "conoscenza pubblica". E, quindi, che la comunicazione non è un prodotto secondario dell'attività di ricerca, ma un suo carattere determinante. Infatti, le scoperte degli scienziati, teoriche o sperimentali che siano, non sono, e non possono essere considerate, "conoscenza scientifica" finché non sono state riferite e registrate in modo permanente. Pertanto possiamo dire, in modo più formale, che l'istituzione sociale fondamentale della scienza è il sistema di comunicazione. Ovvero il sistema attraverso cui i risultati dell'attività di ricerca diventano "conoscenza pubblica". E possiamo dire, inoltre, che, in una prospettiva storica, la scienza evolve attraverso una sequenza collegata di pubblicazioni scientifiche.

Poiché la "conoscenza pubblica" si consolida soprattutto attraverso la comunicazione formale scritta, non è davvero un caso che la scienza moderna, la nuova scienza di Galileo, sia nata e si sia sviluppata solo quando l'invenzione della stampa ha reso possibile un sistema di scrittura economico, rapido e universale. La stampa consolida la "conoscenza pubblica" della scienza attraverso una sequenza collegata e sempre più serrata di pubblicazioni. In pratica consente ai nuovi scienziati di Parigi o di Londra di venire a conoscenza, rapidamente e nei dettagli, delle «sensate esperienze» e delle «certe dimostrazioni» che vengono condotte a Padova o a Firenze. In modo da poterle sottoporre ad analisi critica, ripetere gli esperimenti, organizzarne di nuovi, precisare e dibattere le interpretazioni. In breve, la stampa accelera così tanto i tempi e incrementa così tanto la diffusione della comunicazione, da consentire a tutti gli scienziati sparsi per l'Europa di raggiungere rapidamente il massimo consenso razionale d'opinione possibile intorno a singoli fatti e a singole teorie. Di creare, cioè, quell'istituzione sociale che noi chiamiamo scienza moderna.

All'alba della nuova scienza, dal '500 fino al '700, il medium utilizzato dai nuovi filosofi della natura per presentare i risultati originali delle loro ricerche (letteratura primaria) è il libro. Tutte le grandi svolte nella storia della scienza passano principalmente attraverso un libro (anche se gli annunci a mezzo lettera e gli epistolari hanno un ruolo da comprimario importante nella storia originaria della comunicazione della scienza). Niccolò Copernico propone a tutti la sua nuova visione della meccanica celeste pubblicando, nel 1543, il celeberrimo De Revolutionibus Orbium Coelestium. Galileo Galilei rende pubbliche le sue straordinarie osservazioni dei cieli effettuate col cannocchiale mandando alle stampe, nel 1610, il Sidereus Nuncius. Isaac Newton dimostra l'unità tra meccanica celeste e meccanica terrestre pubblicando, nel 1687, il Philosophiae Naturalis Principia Mathematica. Ancora nel 1859, Charles Darwin annuncia la sua teoria dell'evoluzione biologica pubblicando un libro: On the origin of species by means of natural selection.

Questi libri hanno un valore culturale incommensurabile. Lasciano attoniti per la radicalità dei cambiamenti di prospettiva che propongono. Hanno forti contenuti scientifici, ma sono anche grandi opere letterarie. Tuttavia, dal nostro punto di vista, hanno almeno un altro carattere primario. Sono forme, o meglio "gemme", di comunicazione diretta. Nessuno ha fornito una valutazione formale e preventiva di qualità alle comunicazioni scientifiche di Copernico, Galileo, Newton o Darwin. L'analisi critica fondata sul sano scetticismo, tipica della scienza, si è esercitata solo dopo la pubblicazione dei risultati originali.

Se, invece, guardiamo alle grandi svolte scientifiche del nostro secolo, possiamo facilmente verificare che la forma della comunicazione è cambiata radicalmente. Prendiamo a esempio lo scienziato forse più rappresentativo del '900, Albert Einstein. Nel 1905 il giovane impiegato dell'Ufficio Brevetti di Berna lancia quelli che Louis De Broglie definisce tre razzi fiammeggianti che improvvisamente gettano luce sulla notte della fisica. Si tratta delle tre famose opere sull'effetto fotoelettrico, sul moto browniano e sulla relatività ristretta. I risultati contenuti in queste opere sono tre nuovi capisaldi nella storia della scienza.
Ma come vengono resi pubblici? Non attraverso libri, bensì mediante tre articoli su riviste: Zur Theorie der Brownschen Bewegug (Sulla teoria del moto browniano); Ist die Trägheit eines Körpers von seinem Energeinhalt abhängig? (L'inerzia di un corpo dipende dal suo contenuto di energia?); Über einen die Erzeugung und Verwandlung des Lichtes betreffenden heuristischen Gesichtspunkt (Emissione e trasformazione della luce da un punto di vista euristico). Einstein pubblica i tre diversi articoli sulla medesima rivista: "Annalen der Physik". Il mezzo con cui Einstein rende di pubblico dominio i risultati originali delle sue ricerche teoriche, la rivista, è, dal punto di vista della comunicazione, radicalmente diverso rispetto a quello usato da Copernico e Galileo, da Newton e da Darwin.

Le prime riviste scientifiche, resoconto dei saggi che giungono alle varie Accademie delle Scienze sparse per l'Europa, vengono pubblicate già nel '700 e crescono poi, per numero e importanza, durante tutto l'800. E già all'inizio del '900 sono diventate il medium principale, potremmo dire quasi unico ormai, attraverso cui si esprime la letteratura scientifica primaria. Le riviste rappresentano di per sé una novità rispetto al libro: perché sono raccolte organizzate di saggi di diversi autori, pubblicate con cadenza periodica; mentre il libro è, in genere, l'opera unica e coerente di un singolo autore o di pochi autori. Tuttavia le riviste rappresentano la seconda grande transizione nella storia della comunicazione della scienza per un altro motivo. Perché con le riviste la comunicazione cessa di essere diretta e diventa comunicazione mediata. I risultati di una ricerca originale vengono pubblicati solo dopo una valutazione preventiva di qualità. Nei primi tempi è il direttore della rivista che decide se un saggio è degno o meno di essere pubblicato. Poi il numero di richieste di pubblicazione sale e sale anche il tasso di specializzazione degli articoli. La valutazione preventiva viene affidata alla review, alla rivisitazione critica, di un peer, un pari, per esperienza, dell'autore. Insomma, le riviste iniziano a pubblicare solo articoli che hanno superato il vaglio di uno o due membri, esperti e rigorosamente anonimi, della medesima comunità scientifica cui appartiene l'autore.

La novità non è solo formale. Né si limita a impedire la pubblicazione di articoli scientifici palesemente infondati o semplicemente banali. Contribuisce a modificare il modo stesso di fare scienza. La carriera degli scienziati viene sempre più legata al numero di pubblicazioni con peer-review e al numero di citazioni che quella pubblicazione ottiene in articoli successivi di altri autori. La citazione da parte dei colleghi, infatti, è il riconoscimento dell'importanza di un articolo. Tutto questo fa sì che gli scienziati inizino a pianificare la propria attività di ricerca anche in funzione della possibilità di superare la peer-review e pubblicare su una rivista accreditata i propri articoli. Le riviste specializzate, con le loro procedure formali di pubblicazione, diventano così il nucleo solido intorno a cui si aggregano e si cementano le comunità scientifiche, che sono comunità informali e, quindi, relativamente eteree. Grazie anche alle riviste specializzate, le comunità scientifiche si diversificano, adottando procedure, gergo e, persino, visioni culturali proprie.

Mentre i libri si trasformano, quasi del tutto, in medium della letteratura secondaria, ovvero in mezzi ove si riflette e si riorganizza la conoscenza scientifica, nel Novecento il successo delle riviste scientifiche quale medium della letteratura primaria è clamoroso. Da poche decine che erano nell'Ottocento, oggi, sparse per il mondo, se ne contano almeno 100.000. Le raccolte delle riviste, divise per annate, iniziano a riempire gli scaffali delle università, dei laboratori, dei centri di ricerca. Gli abbonamenti cominciano a diventare un onere sempre più pesante per le università, i laboratori, i centri di ricerca. L'Association of research libraries (Arl), l'associazione delle biblioteche scientifiche degli Stati Uniti, calcola che i suoi 121 membri nel 1997 hanno speso 780 miliardi di lire in abbonamenti a riviste: il 18% del loro budget totale, che ammonta a 4320 miliardi di lire e con cui devono anche acquistare libri, dare uno stipendio al personale, assicurare la manutenzione3. Cresce il numero delle riviste. Ma cresce anche il loro costo: a un ritmo che, negli Stati Uniti, è tre volte superiore all'incremento di costo dei libri e all'inflazione. In dieci anni, tra il 1987 e il 1997, le biblioteche dell'Arl hanno visto crescere i costi per gli abbonamenti del 142%, malgrado abbiano tagliato il numero degli abbonamenti del 6%. In Europa le cose non vanno diversamente: la grande biblioteca scientifica di Lyngby, in Danimarca, in quei medesimi dieci anni ha dovuto tagliare il 40% degli abbonamenti, a causa dei loro costi crescenti. Nei paesi del Terzo Mondo la crescita della cultura scientifica è fortemente limitata dall'accesso alle riviste. Per alcune riviste di settore, molto accreditate, un abbonamento annuo può raggiungere anche i 20 milioni di lire. Non sempre è così. Tuttavia è vero che poche biblioteche possono concedersi il lusso di avere migliaia, o centinaia o anche solo decine di abbonamenti a riviste scientifiche. Per molte biblioteche la situazione non è più sostenibile. Tanto più che la crescita dei costi non è dovuta a fattori obiettivi. Una delle più grandi case editrici scientifiche del mondo, la Reed-Elsevier, nel 1997 ha realizzato profitti per 680 miliardi: pari al 40% del fatturato. La performance non è un caso isolato, tra i grandi editori4.

I profitti, crescenti, delle grandi case editrici e le difficoltà, anch'esse rapidamente crescenti, delle biblioteche possono coesistere perché non sono le uniche variabili del mercato, su cui agisce un terzo fattore indipendente: l'interesse dello scienziato a pubblicare sulle riviste più accreditate. In pratica: i migliori scienziati pubblicano su poche riviste, obbligando le biblioteche che vogliono stare al passo con il progresso delle conoscenze scientifiche ad abbonarsi e consentendo agli editori di aumentare a piacimento il prezzo di quei fortunati giornali.
Dopo averne ricostruito la storia nobile, ci stiamo soffermando ora su questi aspetti, come dire, economicistici, non perché vogliamo intrattenere il lettore sulle miserie della comunicazione della scienza, ma perché proprio su questi aspetti hanno fatto leva quei processi che preludono alla terza grande rivoluzione nel modo di comunicare scienza. L'occasione è stata fornita dal rapido affermarsi di un nuovo medium, il computer. E, in particolare, da quella rete che ormai connette quasi tutti i computer del mondo. Non è un caso, peraltro, che sia l'uno, il computer, sia l'altro, il web, siano il frutto, applicato, della ricerca scientifica di base. Ma ciò che a noi interessa in questa sede è la nuova opportunità che il web offre ai singoli scienziati dislocati in ogni parte del mondo di comunicare tra di loro in tempo reale; alle comunità scientifiche di creare, con pochi soldi, riviste con peer-review senza passare attraverso l'onerosa mediazione degli editori; e alle biblioteche di allestire interi scaffali virtuali. Tutto questo ha iniziato a modificare la comunicazione della scienza in tre modi. Che, in sintesi, sono questi.

1. Gli scienziati hanno creato piccoli gruppi dove hanno iniziato a pubblicare e, insieme, a criticare i risultati originali delle loro ricerche. Dando luogo a una sorta di zona franca informale dove tutto è pubblico e tutto è in continua revisione.

2. Alcune comunità scientifiche o istituti di ricerca hanno creato proprie riviste, elettroniche, a basso costo ma in tutto simili alle riviste su carta. Compresa la peer-review. E' il caso, ad esempio, di "The journal of high energy physics" (Jhep), creato nel luglio del 1997 da un gruppo di fisici teorici presso la Scuola internazionale superiore di studi avanzati di Trieste, che in meno di due anni si è posizionata tra le riviste di settore col più alto indice di impatto (numero di citazioni per articolo pubblicato) e, quindi, nel novero delle riviste più accreditate. Il costo dell'abbonamento alla rivista è di uno o addirittura due ordini inferiore a quello delle omologhe su carta.

3. Le biblioteche hanno iniziato a contenere la carta e i suoi costi. Quella danese di Lyngby conta così di aumentare del 25% i titoli di riviste disponibili nel suo catalogo.

Questo rimescolio nel campo della letteratura scientifica primaria ha prodotto almeno due grandi effetti. In primo luogo un effetto che potremmo definire di "democrazia economica", perché ha indotto i grandi editori a "scendere in rete" con le regole della rete. Appena quattro anni fa, nel 1995, sul web potevate trovare solo 306 riviste scientifiche. Nei primi mesi del 1999 la sola Reed-Elseveir ne pubblica 1200; la Springer ne pubblica 360; la Academic Press 174. Per non contare le migliaia di riviste pubblicate anche o, più raramente, solo in versione elettronica da centinaia di piccoli editori, università, centri di ricerca. Oggi in rete si trova ormai una quantità di nuova "conoscenza scientifica" paragonabile a quella su carta. Con enorme beneficio per i budget delle biblioteche di tutto il mondo.

Ma, da un punto di vista culturale, l'effetto maggiore è quello cui accennavamo all'inizio. Il ritorno, per ora annunciato o solo appena iniziato, alla comunicazione diretta, non più mediata dalla peer-review. Il progetto di Harold Varmus. In pratica si tratta di estendere e organizzare quello che, in modo spontaneo e caotico, gli scienziati già fanno: comunicare i risultati originali della propria ricerca in tempo reale. E lasciare che sia l'intera comunità scientifica, proprio come avveniva ai tempi di Galileo e Newton, a fare da revisore critico.
Le differenze, rispetto all'età pionieristica della scienza moderna, sono molte. Allora i tempi di revisione erano così dilatati, che le pubblicazioni scientifiche formavano una sequenza collegata, ma non continua. Ogni proposta aveva contorni definiti e si distingueva dalla critica cosicché l'eventuale revisione rappresentava, nei fatti, una nuova proposta. Oggi la rete consente l'intervento in tempo reale: tanto che la differenza tra proposta, critica e revisione sfuma e, di fatto, le pubblicazioni scientifiche potrebbero diventare una sequenza continua e indistinguibile. Poco male, direte voi. Ma c'è chi teme che la comunicazione diretta continua favorisca la confusione, piuttosto che la crescita e la metabolizzazione delle conoscenze.

Alcuni temono anche gli effetti del superamento di fatto della peer-review. Pubblicare dati su cui non si è esercitata una seria analisi critica potrebbe essere socialmente pericoloso in settori, come la biomedicina, in cui ogni novità suscita forti aspettative e accende speranze nel grande pubblico. Insomma, potremmo ritrovarci di fronte a un moltiplicatore di "casi Di Bella". Ed è così che una prestigiosa rivista medica su carta, il "British Medical Journal", ha deciso di sottoporre a sperimentazione la comunicazione diretta in salsa elettronica. Pubblicando in rete alcuni manoscritti non sottoposti a peer-review. Il risultato non è stato negativo. Secondo Tony Delamothe, vicedirettore della rivista, i manoscritti hanno suscitato svariati commenti critici. Alcuni, certo, di scarsa qualità. Ma nel complesso il "revisore elettronico collettivo" è giunto a conclusioni non dissimili da quelle cui sarebbero giunti un paio di esperti peer-reviewers. Restano, naturalmente, da stabilire gli effetti non sulla scienza, ma sul resto della società, della diffusione di dati non controllati.

Per la scienza il nuovo tipo di pubblicazioni non sembra comportare, a breve, cambiamenti strutturali. Anche se, nel lungo periodo, bisognerà valutare gli effetti della "totale libertà" che si trovano a (ri)avere gli scienziati nella loro attività di ricerca. Se i risultati della ricerca non devono passare attraverso alcun vaglio critico preventivo, gli scienziati potrebbero modificare i metodi e gli obiettivi della medesima ricerca. E in modo, per ora, imprevedibile. Potremmo andare verso la valorizzazione della fantasia e l'abbattimento dei conformismi, accelerando, così, i tempi di produzione di "nuova scienza". Ma potremmo andare, anche, verso una perdita (irreparabile?) del rigore e della qualità. Non sappiamo, esattamente, dove ci porterà. Ma è certo che la rivoluzione telematica nella comunicazione della scienza è già iniziata. E, con essa, è probabilmente iniziata una nuova era nella produzione di cultura.
 

Note

1 D. Butler, NIH plan brings global electronic journal a step nearer reality, "Nature", 398, 29/04/99, pag 735.

2 Vedi J. Ziman, Il lavoro dello scienziato, Laterza, Bari, 1987.

3 The writing is on the web for science journals in print, "Nature", 397, 21.01.99, pag 195.

4 Idem.

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