CIVIL
LAW E COMMON LAW
A CONFRONTO
NELL’OTTICA DEL GIUDICE CIVILE (*)
«[rispetto alla legge] Anche il giudice lavora sull’astratto, ossia
combina spettri mentali,
quando conclude che sia stato commesso un delitto o stipulato un
contratto e simili,
ma i suoi fantasmi distano meno dalle cose».
(Franco Cordero, Riti e sapienza del diritto, VII, 31.8)
Sommario:
1. Ruolo, poteri e legittimazione del giudice nei due
sistemi. – 2. Sull’impossibilità di trasporre nei
sistemi continentali il metodo di reclutamento dei giudici dei Paesi di common law. – 3.
Il rapporto tra giudice e processo civile nei due sistemi. In particolare il
processo inglese. – 4. Il rapporto tra giudice e
processo civile nei due sistemi. In particolare il processo statunitense e
quello australiano. – 5. Funzione giudiziale e funzione
notarile nei due sistemi. Generalità. – 6. Segue. Il
contenzioso relativo ai trasferimenti immobiliari. – 7.
Segue. Il contenzioso familiare. – 8. Segue. La funzione
«antiprocessuale» del notaio latino nell’odierna «stagione della negozialità»
dei rapporti familiari. 9. Segue. Il diritto societario.
– 10. Conclusioni. |
1. Ruolo,
poteri e legittimazione del giudice nei due sistemi.
Vorrei iniziare questo mio intervento sui rapporti tra
common law e civil law nell’ottica del giudice civile italiano rammentando un
episodio occorsomi diversi anni fa. Invitato a Londra a tenere un intervento
sul tema dell’etica giudiziaria nell’ambito di un seminario organizzato dal Lord Chancellor’s Department e dall’Institut des Hautes Etudes sur
Terminato il seminario, un alto magistrato inglese
presente all’incontro, prendendomi bonariamente a braccetto, mi disse di non
aver condiviso quella mia affermazione, poiché «when we sit as judges, only God
is above us». Quella frase mi cadde addosso come un fulmine, fornendomi in un
attimo la percezione della distanza abissale che separa i giudici che siedono
sulle opposte sponde del canale della Manica. Ancora oggi, pur lavorando da
vent’anni per l’Unione Internazionale dei Magistrati, cioè un organismo che si
occupa istituzionalmente di porre in contatto tra di loro giudici di tutto il
mondo, mi chiedo sovente se possa essere effettivamente di qualche utilità
continuare il dialogo con colleghi che troppo spesso mi danno l’impressione di
provenire da un altro pianeta.
Il fatto è che – malgrado la sostanziale identità della
funzione di giudicare – la figura del giudice nei sistemi di common law è qualcosa di ontologicamente
diverso da quella del magistrato, così come lo intendiamo noi, a cominciare dal
nome: il termine judge, invero, non è
riferibile al concetto di pubblico ministero, compreso invece nell’espressione
italiana «magistrato» o in quella francese magistrat.
Ne segue che quest’ultima locuzione non può essere resa in inglese con il
termine judge, dovendosi sempre
aggiungere la precisazione «or prosecutor». L’uso del termine magistrate o magistrate judge – si suole dire – è invece da evitarsi, perché
indica in inglese quella vastissima schiera di giudici non professionali,
sovente non particolarmente qualificati (o per nulla qualificati) sul piano
tecnico, su cui grava, in realtà, gran parte del lavoro giudiziario e con i
quali noi magistrati professionali di civil
law potremmo forse, invece, utilmente confrontarci. Tanto per fare un
esempio, il sito web ufficiale del
governo degli Stati uniti non esita ad ammettere che le Trial courts of limited jurisdiction, costituite da giudici non
professionali e che sovente «are not required to have any formal legal
training» sono quelle che in realtà «handle the bulk of litigation in the
United States each year and constitute about 90 percent of all courts». La
situazione non è sostanzialmente diversa in Gran Bretagna e negli altri Paesi
di common law. A ciò s’aggiunga
che judges
e justices sono assistiti da schiere
di law clerks e segretari
semplicemente impensabili da parte di chi, come il giudice italiano, non può
fare i conti se non con la propria disperata solitudine.
Le differenze divengono poi ancora più evidenti quando
si pensa al modo di reclutamento, alla carriera e, soprattutto, ai poteri che
competono ai giudici nei sistemi di common
law. Nell’Europa continentale il magistrato è solitamente reclutato quando
è ancora molto giovane, poco dopo il compimento degli studi universitari e
comunque (almeno di regola) senza che neppure abbia iniziato la carriera
forense o che vi si sia potuto affermare. Essenziale è dunque (specie oggi) il
tema della formazione iniziale e continua, volta a trasmettere al giovane
magistrato quelle conoscenze teoriche e pratiche che gli studi universitari non
sono stati in grado di fornirgli. Negli ordinamenti di matrice anglosassone, al
contrario, la nomina a giudice costituisce il coronamento di una carriera
maturata attraverso l’esercizio per lunghi anni della professione di avvocato.
Ma la differenza non è certo tutta qui. Il sistema di
selezione nei Paesi europei continentali è fondamentalmente basato su di un
concorso pubblico, aperto a tutti coloro che sono in possesso di determinati
requisiti, sulla base di prove d’esame scritte e orali il cui svolgimento è
predeterminato rigidamente. La valutazione, poi, deve seguire criteri obiettivi
e ben precisi, dei quali è interprete ed applicatrice una commissione, la quale
a sua volta è solitamente espressione (per lo meno nella sua componente
maggioritaria) della magistratura stessa, tramite una selezione dei suoi
componenti effettuata direttamente o indirettamente dall’organo di autogoverno
del potere giudiziario e quindi con maggiori garanzie d’indipendenza dal potere
politico.
Di sicuro, altrettanto non può dirsi per la selezione
dei giudici di common law, rimessa
vuoi nelle mani dell’elettorato, vuoi del legislativo, vuoi (e più spesso
ancora) del potere esecutivo. In ogni caso, l’immagine di «terzietà» che il
giudice dovrebbe trasmettere appare sovente, specie negli U.S.A., appannata dal
«vizio d’origine» legato alla nomina politica. Basti pensare alle polemiche
esplose dopo le decisioni di alcune corti americane (e della stessa Corte
Suprema) a seguito della competizione per
Il che naturalmente non significa che l’idea
dell’indipendenza del potere giudiziario sia estranea alla cultura d’oltre
Oceano. Basti pensare al fatto che già la dichiarazione d’indipendenza del 1776
appare chiaramente ispirata ai principi enunciati da Montesquieu, rimproverando
al sovrano britannico di avere «obstructed the Administration of Justice, by
refusing his Assent to Laws for establishing Judiciary powers», oltre che di
avere «made Judges dependent on his Will alone, for the tenure of their
offices, and the amount and payment of their salaries». E’ nota poi l’influenza
esercitata, alla fine del XVIII secolo, da James Madison, un altro strenuo
assertore della teoria della separation
of powers, il quale, a differenza di Montesquieu, riconosce che il vero
problema, nelle relazioni tra i tre poteri, consiste nella naturale tendenza
che ciascuno di essi ha ad invadere le sfere di competenza altrui. Madison ha
anche il merito di avere compreso e lucidamente espresso che una semplice
demarcazione sulla carta («a mere demarkation on parchment») dei limiti
costituzionali dei tre poteri dello Stato «is not a sufficient guard against
those encroachments which lead to a tyrannical concentration of all the powers
of government in the same hands». Ma il sistema statunitense (come del resto
gli altri sistemi di common law) non
ha saputo poi elaborare strutture organizzative del potere giudiziario in grado
di evolversi in veri e propri organismi d’autogoverno della magistratura. Le
ragioni sono le più varie e sono strettamente legate a vari fattori, tra cui il
modo di reclutamento e forse anche l’età dei candidati e la loro estrazione
sociale e professionale. Sta di fatto che quelle strutture «consigliari»
germogliate nell’esperienza continentale europea (occidentale) su di un tronco
fondamentalmente riconducibile alla struttura burocratica napoleonica, hanno
saputo trasformarsi da semplici strumenti consultivi in veri e propri organi
d’autogoverno del potere giudiziario, in grado d’assicurare un livello
tendenzialmente piuttosto elevato d’indipendenza, sia esterna che interna, dei
giudici e talora anche dei pubblici ministeri.
Meno influenzata, di fatto, da criteri
politici rispetto a quanto accade negli Stati Uniti, la scelta dei giudici in
Gran Bretagna è comunque effettuata dal Secretary
of State for Constitutional Affairs and Lord Chancellor e dal relativo Department for Constitutional Affairs
(cioè dal Ministero della giustizia), in maniera sostanzialmente discrezionale,
sulla base di criteri che per lungo tempo sono rimasti avvolti da una nebbia
più fitta di quella del Tamigi. La situazione non risulta mutata neppure dopo
la creazione di Assessment Centres per
l’avvio delle procedure di selezione e
di una Commission for Judicial
Appointments – composta di nove membri, nessuno dei quali (come
orgogliosamente proclamato nel relativo sito Internet) è mai stato avvocato o
giudice – il cui compito è quello di vagliare (non si capisce bene come) la
correttezza delle procedure di selezione e decidere su eventuali contestazioni.
Non si potrebbero attendere
sconvolgimenti – a mio sommesso avviso – neppure dall’eventuale introduzione di quella independent Judicial Appointments Commission
(JAC), attualmente allo studio del
Governo britannico, il cui compito sarebbe quello di «recommend candidates to
the Secretary of State for Constitutional Affairs for appointment as judges».
Un
luogo comune piuttosto diffuso (e che, sciaguratamente, sta prendendo piede
anche presso di noi) vuole che l’elezione diretta dei giudici o la loro nomina
da parte del legislativo o dell’esecutivo sia il sistema in astratto
preferibile, in quanto in grado di fornire il più alto grado di legittimazione
possibile. Ebbene, proprio i dati ufficiali squadernati ed illustrati dal già
ricordato sito ufficiale del governo statunitense sembrano convincere
dell’esatto contrario. Nonostante qualche
rara eccezione, i giudici federali (che al momento della nomina hanno un’età
media di 49 anni) provengono esclusivamente dalle middle and upper-middle classes, «come i capitani d’industria e
degli affari» s’affretta a precisare la pagina web, da cui si apprende anche che, sino alla presidenza di Jimmy
Carter (1977-81), meno del 2% dei district
judges erano donne. Le minoranze razziali, ammette poi lo stesso sito
ufficiale, «also have been underrepresented on the trial bench, not only in
absolute numbers but also in comparison with figures for the overall population».
Per ciò che attiene poi alle simpatie
politiche, circa il 90% dei district
judges sono dello stesso partito politico del presidente che li ha nominati
ed il 60% di essi può vantare (se così si può dire per un giudice) un passato
di attivo impegno in un partito politico. E la musica non cambia di molto se si
considera il livello degli state judges,
dove, verso la metà degli anni Novanta, solo il 14% del totale (ivi compresi i magistrates) erano donne e solo il 6%
erano «either African American, Hispanic, or Asian American» (il che, detto per
inciso, non fa molto onore ad un Paese che vuole presentarsi come un melting pot di etnie e di culture
diverse).
2.
Sull’impossibilità di trasporre nei sistemi continentali il metodo di
reclutamento dei giudici dei Paesi di common law.
E’ mia
ferma convinzione che questo procedimento di selezione, fondato in buona
sostanza sulla «chiamata diretta» da parte dell’esecutivo, non possa funzionare
se non in un sistema basato, come quello britannico, su un secolare e radicato
rispetto per la funzione, il ruolo e l’indipendenza dei giudici. Un sistema nel
quale – come si tende sin troppo spesso a dimenticare dalle nostre parti – al
giudice è attribuita una posizione giuridica, morale, sociale, lavorativa ed
economica così elevata da porlo al riparo dagli appetiti dei politici e dagli
attacchi non solamente alla sua indipendenza, ma anche solo alla sua serenità.
Un sistema, poi, nel quale al giudice sono attribuiti poteri di un’estensione
semplicemente inimmaginabile nell’Europa continentale. Si pensi alla funzione
creatrice del diritto che gli ordinamenti anglosassoni attribuiscono alla
giurisprudenza, tramite il riconoscimento (a determinate condizioni) del
carattere vincolante del precedente giudiziario, al punto che, alla fine del
XIX secolo, Oliver Wendell Holmes (in seguito criticato, e giustamente, nella
prospettiva «continentale», da Hans Kelsen) si spingeva a definire il diritto –
né più e né meno – come «the
prophecies of what the courts will do in fact, and nothing more pretentious»,
mentre, mezzo secolo dopo, William Seagle considerava i giudici americani
«virtually the dictators of the state». E qui il cultore del diritto di
famiglia non potrà certo astenersi dal menzionare, a titolo di mero esempio,
l’impatto dirompente di rimedi di case-law
come il constructive trust,
nell’applicazione fattane a partire dalle decisioni di Lord Denning agli
acquisti operati in costanza di rapporto coniugale o di convivenza more uxorio, o ancora l’effetto prodotto
da certi leading cases negli Stati
Uniti (primo tra tutti: Marvin v. Marvin
della Corte Suprema della California) sulla possibilità di ammettere
l’esistenza di implied cohabitation
contracts.
E se è
vero che negli ultimi decenni lo statute
law (o Parliament-made law) ha
guadagnato notevole terreno sul judge-made law, va constatato che il
Legislatore nei sistemi di matrice anglosassone, anche nei settori in cui
decide di intervenire, lascia sempre e comunque al giudice amplissimi spazi di
discrezionalità. Basti citare il continuo ricorso a concetti quali l’equity e la reasonableness e ad aggettivi quali equitable, reasonable, fair, ecc., sparsi a piene mani nei più
disparati acts d’oltre Manica. Si pensi,
tanto per citare un esempio, che in materie dove, tradizionalmente, il giudice
di civil law è costretto ad usare il
classico «bilancino», come i rapporti patrimoniali tra coniugi, i parlamenti
dei Paesi di common law (proprio
recependo la regola giurisprudenziale cui si faceva cenno poco sopra) hanno
emanato regole che consentono alle corti di (continuare a) «re-allocate the
property rights of the parties» secondo criteri di fairness, spingendosi addirittura a concedere al giudice il potere
di modificare accordi raggiunti tra le parti stesse, secondo ciò che «può apparire giusto avuto riguardo a tutte
le circostanze».
E non
ho ancora menzionato la vera arma a difesa (più esattamente: autodifesa)
dell’indipendenza del giudice di common
law: intendo riferirmi a quello strumento formidabile che va sotto il nome
di contempt of court. Per effetto di
questo principio (secondo quanto illustrato da un famoso dizionario di termini
giuridici online) ogni «disobedience
to, or disregard of, a court order or any misconduct in the presence of a
court», così come ogni «action that interferes with a judge’s ability to
administer justice or that insults the dignity of the court» è punibile con
sanzioni pecuniarie e/o detentive. Ciò, per di più, sulla base di una pronuncia
emessa dallo stesso giudice che si sente minacciato.
Ma
torniamo all’osservazione sull’impossibilità di un trapianto nell’Europa
continentale di un sistema di selezione dei giudici del genere di quello
conosciuto dai sistemi di common law.
Qui posso aggiungere che, nella mia attività di consulente del Consiglio
d’Europa per la riforma delle legislazioni dei Paesi dell’Europa Centrale ed
Orientale, mi sono imbattuto più volte nei veri e propri disastri causati dalla
più o meno meccanica, sciagurata, trasposizione del principio della nomina
«politica» dei giudici a realtà nelle quali il principio della separazione dei
poteri non era mai stato conosciuto. Il risultato concreto è che nelle
Costituzioni di quasi tutti i Paesi ex comunisti, approvate sotto l’influsso
della potentissima American Bar
Association (tramite una propria emanazione locale, chiamata C.E.E.L.I – Central European and Eurasian
Law Initiative, capillarmente presente in tutti quegli Stati), se da un
lato troviamo sbandierato (a parole) il principio dell’indipendenza della
magistratura, dall’altro scopriamo che la selezione dei giudici viene
sistematicamente lasciata nelle mani del potere politico. Per converso, gli
organi impropriamente chiamati di «autogoverno della magistratura» (consigli di
giustizia, consigli dei giudici, consigli dei tribunali, ecc.), vengono
concepiti come veri e propri «comitati di presidenza», costituiti da pochissimi
alti magistrati, di nomina per lo più (direttamente o indirettamente) politica;
ad essi, per giunta, sono attribuite funzioni, a tutto concedere, meramente
consultive, laddove ogni decisione veramente rilevante per la «vita» del
magistrato è sostanzialmente legata al bon
plaisir dell’esecutivo.
Questo
punto viene a toccare quello, delicatissimo, dei veri organi di autogoverno del
potere giudiziario, cioè dei consigli superiori della magistratura, formati
(come del resto prescritto a livello internazionale dai documenti in materia di
indipendenza della magistratura emanati dal Consiglio d’Europa) in prevalenza
da giudici (e/o pubblici ministeri, laddove questi fanno parte, come in Italia
o in Francia, dell’ordine giudiziario), democraticamente eletti senza
distinzioni di sorta da tutti gli appartenenti al corpo giudiziario e dotati di
competenze non meramente consultive, ma decisorie, che si estendono dal
reclutamento alla formazione, alla carriera, alle promozioni ed ai
provvedimenti disciplinari. Si tratta di argomenti che in questa sede non
possono essere affrontati, se non per rimarcare che siffatti organi non
esistono (per lo meno in queste forme, o in forme anche lontanamente
comparabili) nei sistemi di common law,
non già perché questi ultimi siano migliori (o peggiori) dei nostri, ma
semplicemente perché lì non ve ne è bisogno, atteso che quei giudici hanno gli
strumenti per difendere la propria indipendenza da soli.
3.
Il rapporto tra giudice e processo civile nei due sistemi. In particolare il
processo inglese.
Quanto sin qui esposto può
forse aiutarci a comprendere le profonde divergenze esistenti tra civil e common law anche nel campo del processo civile. In nessun altro
settore, forse, come in questo, il giudice continentale (e italiano, in
particolare) appare alla stregua di un mero garante del rispetto delle regole
del gioco. Regole che il giudice non contribuisce certo a creare, bensì
piuttosto a subire e a vedere di giorno in giorno più complesse ed involute,
prodotte a getto continuo da un Parlamento costretto, quasi quotidianamente,
con schizofrenico affanno, a disfare la tela di Penelope sotto la pressione di
questa o quella consorteria. Certo, non mancano anche qui margini
d’interpretazione, specie di fronte alla vertiginosa caduta dello stile del
nostro drafting legislativo e di
quella che un tempo era la buona tecnica normativa. Ma, ancora una volta, ogni
paragone con i poteri dei giudici di common
law manifesta contrasti sconcertanti.
E si badi che non è sempre
stato così. Se vi è un processo nel quale – come lucidamente messo in luce da
Michele Taruffo – il tradizionale modello adversarial
vedeva un giudice nel ruolo di mero «arbitro passivo», disinformato e
disinteressato, oltre che neutrale, il cui compito era esclusivamente quello di
garantire la correttezza dello scontro tra le parti, questo processo era
proprio quello disciplinato dalla common
law. La situazione è peraltro notevolmente mutata nel corso degli ultimi
anni ed è culminata, oltre Manica, con l’adozione, nel 1999, delle Civil
Procedure Rules 1998 – CPR, che costituiscono il testo fondamentale
relativo alla disciplina del rito civile in Inghilterra (e nel Galles). Una
lettura anche superficiale di questo vero e proprio codice di procedura civile
consente di rendersi conto dell’impressionante armamentario di cui i giudici di
quel Paese dispongono per imporre un andamento spedito ai procedimenti civili.
Innanzi tutto, per ciò che
attiene in generale al potere di direzione dello svolgimento del processo (case
management),
Veramente sconcertante agli
occhi continentali appare la rule 3.4 delle CPR, secondo cui il
giudice inglese può disporre, puramente e semplicemente, la cancellazione d’una
o più domande giudiziali o eccezioni quando esse gli appaiano sfornite di
«ragionevole fondamento», oppure se gli sembrino costituire un abuso
processuale, ovvero se anche solo possano «ostruire il regolare svolgimento
della procedura, o se la parte non ha rispettato un ordine o un’istruzione
impartiti dal giudice». Non è il caso di spendere qui troppe parole per
commentare il valore acceleratorio di una siffatta disposizione, che, ove
applicata agli italici bizantinismi, potrebbe contribuire, tra l’altro, a
combattere quel lamentevole fenomeno (che ho battezzato «anatocismo delle
cause») in base al quale, nel nostro Paese, un numero sempre crescente di
procedimenti, magari definiti con sentenze passate in giudicato, finisce con il
dar luogo a nuovi procedimenti, successivamente destinati a generarne altri, in
una spirale irrefrenabile e alla quale il buonsenso delle parti e dei difensori
sembra incapace di porre un qualsiasi rimedio che non sia quello dell’ennesima
definizione in sede contenziosa.
Una speciale disciplina
delle proposte di definizione transattiva, poi, stimola i contendenti a
risolvere in via amichevole il contenzioso, atteso che l’effettuazione di
un’offerta secondo le formalità previste determina una serie di conseguenze in
relazione alle spese di lite, nel caso di sua mancata accettazione. Così, la
parte che, pur vittoriosa (in tutto o in parte), non ha accettato un’offerta
che sarebbe stata per lei più vantaggiosa rispetto alla soluzione finale della
controversia, non solo non ha il diritto al rimborso delle spese in danno della
controparte, ma deve anche pagare le spese di lite della parte avversa, a
partire da 21 giorni dopo che l’offerta è stata fatta (cfr. la rule
36.20). Se invece l’attore offre di accettare una somma inferiore rispetto a
quella iniziale e tale richiesta è rifiutata dal convenuto, e se
successivamente l’attore ottiene una somma superiore a quella oggetto della sua
proposta transattiva, l’attore non solo recupera le spese di lite in danno del
convenuto, ma può vedersi riconosciuta dal giudice anche una somma maggiore
(con il riconoscimento di interessi in misura fissata dal giudice, entro il
tetto del 10% rispetto al tasso ufficiale di sconto: cfr. la rule
36.21).
Alcuni speciali protocolli
d’azione ante causam (pre-action protocols) sono poi
previsti dalle CPR per svariati tipi di azioni (come per esempio per
controversie in materia d’appalto, di diffamazione, lesioni personali,
responsabilità medica, ecc.). Scopo di questi protocolli è quello di sortire un
effetto acceleratorio e deflattivo, perché obbligano le parti a rendere note le
proprie prove prima ancora dell’inizio della causa, ciò che spinge, di solito,
ad una definizione amichevole, prima che i costi della lite abbiano iniziato a
crescere. Speciali regole sono poi dettate per il giudizio in contumacia (default
judgment, o judgement in default of defence), dalla Part
12 delle CPR. La relativa procedura varia a seconda dell’oggetto del
giudizio e del tipo di provvedimento richiesto. Così, se l’azione riguarda il
pagamento di una somma di denaro (cfr. la rule 12.4 (1)), l’attore non
ha che da presentare una richiesta di condanna al giudice, che deciderà senza
fissare alcuna udienza. Negli altri casi è invece necessario procedere fissando
un’udienza.
Il giudizio sommario (Summary
judgment), disciplinato dalla Part 24 delle CPR, viene
solitamente usato dalle parti che intendono evitare il rito ordinario ed è
esperibile in quasi tutti i tipi di controversie, con una serie di eccezioni
specificate dalla rule 24.3 (in particolare alcune controversie in tema
di locazione). I presupposti per l’applicazione di siffatta procedura sono
descritti, ancora una volta, con una (quanto meno per l’osservatore
continentale) sconcertante semplicità. Così, il giudice può seguire tale rito,
praticamente a sua discrezione, il che appare particolarmente utile laddove
esistano questioni dirimenti in fatto o, soprattutto, in diritto. Va rilevato
in proposito che l’attore ha in questo tipo di procedimenti un onere di
allegazione assai limitato, nel senso che tutto ciò che deve fare è
identificare il petitum e dichiarare di ritenere che, avuto riguardo al
profilo probatorio, il convenuto non ha alcuna prospettiva concreta di proporre
una successful defence. L’esistenza della possibilità che il giudizio
sommario sia chiesto eventualmente anche dal convenuto contro l’attore dimostra
che siffatta richiesta può essere formulata anche in corso di causa, sebbene
ciò avvenga solitamente all’inizio della procedura. Così, per esempio, la parte
interessata potrà rivolgere istanza al giudice, illustrandone le ragioni ed
allegando i documenti giustificativi (ad esempio, la dichiarazione scritta di
un teste). Di regola la richiesta di summary judgment è accolta
allorquando il caso non presenta particolari difficoltà in diritto o in fatto:
in tal caso viene fissata un’udienza per la discussione (mai per l’escussione
di testi od altre prove orali) e il caso viene deciso. Sarà interessante notare
inoltre che la corte può decidere il passaggio al giudizio sommario anche ex
officio. Molte controversie vengono definite in tal modo. Sovente capita
che con questa procedura si decida la sola questione relativa all’an,
lasciando alla prosecuzione del giudizio nelle forme ordinarie l’eventuale
definizione del quantum (ciò si verifica in particolare nei casi di
lesioni personali o di questioni commerciali complicate). Si nota, al riguardo,
che la procedura può essere qui definita come semplificata, perché viene
evitata non solo l’istruttoria orale (e la relativa cross examination),
bensì anche la procedura, solitamente piuttosto complessa, di «discovery of
documents».
In buona sostanza, e per dirla con le parole di Adrian Zuckerman, «the
modern trend of Anglo-American systems is to adopt judicial control of
lititgation as the principal instrument for accomodating rule enformcement with
the objective of doing justice on the merits». Alla luce di quanto sopra, non stupisce che,
come mi diceva non molto fa un collega inglese, il processo made in Britain possa qualificarsi come
«quick and effective». Il vero problema sta altrove e risiede negli
elevatissimi costi di lite. Da una ricerca pubblicata nel 2002 è emerso che,
mentre l’Italia si trova al terzo posto in Europa (dopo il Portogallo e
4.
Il rapporto tra giudice e processo civile nei due sistemi. In particolare il processo
statunitense e quello australiano.
A differenza della Gran
Bretagna – e nonostante i costi elevatissimi delle procedure – gli Stati Uniti
sembrano, invece, presentare problemi seri di court congestion, dovuta all’incremento della litigiosità in settori
come la responsabilità civile (soprattutto la medical malpractice), la
responsabilità del produttore (e, quindi, la tutela del consumatore) e la
protezione dell’ambiente. La via che si è cercato di percorrere è stata quella
della diffusione di forme alternative di soluzione delle controversie (Alternative Dispute Resolution – A.D.R.),
culminata, nel 1990, con l’entrata in vigore del Civil Justice Reform Act,
basata sull’imposizione alle corti di sei principi di case management (gestione del contenzioso), radicati nella bifronte
«filosofia» di un più incisivo intervento del giudice, da un lato, e del
ricorso obbligatorio a procedure di
A.D.R., dall’altro, con la finalità precipua di ridurre la durata e i costi della
giustizia, nonché il carico del lavoro giudiziario.
I principali modelli-base di
A.D.R. americane sono i seguenti:
·
La conciliazione (Mediation).
Si tratta di una procedura delle controversie nella quale un terzo neutrale,
privo di qualsiasi potere decisionale, assiste i litiganti nel tentativo di
trovare una soluzione negoziata accettabile da entrambe. Il conciliatore,
quindi, diversamente dal giudice e dall’arbitro, si limita ad aiutare le parti
a concordare una soluzione che le stesse desiderano, senza prendere alcuna
decisione vincolante per le medesime. La dottrina ha elaborato principalmente
due tipi diversi di conciliazione, maggiormente diffusi nella prassi: il primo,
denominato «facilitativo», nella quale l’obiettivo principale del conciliatore
è quello di agevolare la trattativa diretta tra le parti, in modo che esse
stesse stabiliscano i termini dell’accordo; il secondo, denominato
«valutativo», ove il conciliatore svolge un ruolo più attivo, giungendo a
proporre alle parti una o più formule di possibile accordo, esprimendo
raccomandazioni, quindi con una più penetrante valutazione del merito della
controversia.
·
Valutazione preliminare (Early
neutral evaluation). Qui un terzo neutrale esamina i fatti oggetto della
lite, ascolta le parti ed i rispettivi legali ed infine fornisce una sua valutazione
o previsione su un possibile andamento e conclusione della controversia se
questa venisse portata in tribunale o di fronte ad un collegio arbitrale. La
valutazione preliminare di un terzo neutrale sulla lite può agevolare il
raggiungimento di un accordo in quanto consente alle parti di farsi un’idea più
chiara in merito alla forza dei rispettivi argomenti e quindi di verificare, ex ante, gli esiti della causa. La
pronuncia del valutatore non è mai vincolante, e pertanto non è soggetta ad
appello. Tali pronunce però, hanno particolare significato in ipotesi di
controversie aventi carattere eminentemente tecnico, ove il valutatore,
specialista del settore, può inquadrare in una fattispecie, anziché un’altra,
la materia del contendere, fornendo appunto elementi di valutazione sull’esito
della lite.
·
Miniprocesso (Mini-trial). Si
tratta di una procedura che coniuga gli aspetti negoziali della conciliazione
(la mancanza di cogenza della pronuncia, che non è mai vincolante per le
parti), con quelli formalmente contenziosi, tipici del processo civile e
dell’arbitrato. Si tratta, in sostanza di una simulazione di un processo, sulla
scorta del procedimento innanzi esposto, in quanto anche in questa ipotesi, si
ottiene una valutazione preliminare. Nella fattispecie, infatti, viene nominata
una «giuria», composta in eguale numero da persone designate dalle parti
contendenti, e di norma presieduta da un terzo neutrale. Le parti, assistite
regolarmente da avvocati, espongono le loro ragioni, e la «giuria» rende una
«decisione», che ha solo lo scopo di dare ai contendenti il senso di quello che
una vera corte statuirebbe se una causa del genere venisse realmente iniziata.
Sulla base di questa simulazione processuale le parti sono di norma incentivate
a riprendere il negoziato per risolvere bonariamente la lite.
·
Comitato permanente per la risoluzione delle controversie (Dispute settlement board). In genere,
questa procedura trova applicazione durante l’esecuzione di grandi opere
civili, ove quindi una contestazione, anche di modesta entità, potrebbe portare
a conseguenze assai gravi, come la sospensione dei lavori. Ormai nei paesi
anglosassoni è consuetudine diffusa quella di affidare ad un comitato
permanente la gestione del contratto e la risoluzione di eventuali controversie.
Tale comitato svolge, al contempo, una funzione di controllo dell’esecuzione
dell’accordo, in quanto si riunisce periodicamente, anche in mancanza di
contestazioni specifiche, svolgendo quindi anche una funzione preventiva delle
eventuali liti, dirimendo ab origine
i motivi di conflittualità.
·
Ombudsman. Si tratta di un organo di
«autoregolamentazione», tipicamente istituito dai rappresentanti di una data
categoria; è un modello di provenienza svedese, particolarmente operante in
materia di rapporti contrattuali di assicurazione, di controversie inerenti i
contratti bancari, di controversie tra gli agenti immobiliari ed i propri
clienti. Esso opera su ricorso dei clienti delle aziende appartenenti alla
categoria in questione.
·
Conciliazione-arbitrato (med-arb).
E’ una procedura bi-fasica in cui il conciliatore, se fallisce il tentativo di
conciliazione tra le parti, assume il ruolo di arbitro, emettendo una decisione
vincolante. Si tratta di un procedimento particolarmente efficace in quanto le
parti contendenti conferiscono un incarico, sapendo che comunque otterranno la
definizione della lite o su un presupposto maggiormente conciliativo o, in
subordine, contraddittorio e vincolante.
·
Arbitrato con banda di oscillazione predefinita (High-low Arbitration). In questa forma di arbitrato le parti
fissano una banda di oscillazione (risarcimento minimo e massimo), entro la
quale il quantum stabilito dal lodo
dovrà essere contenuto. Se la valutazione arbitrale sarà più bassa del minimo,
il convenuto pagherà solo il minimo pattuito e se essa sarà superiore al
massimo l’attore pretenderà solo il massimo previsto dalla banda di
oscillazione. Nel caso il lodo si collochi tra i due estremi il convenuto
pagherà la somma determinata dall’arbitro. I limiti minimo e massimo possono
anche non essere comunicati all’arbitro.
·
Arbitrato con scelta di una sola delle richieste (Baseball Arbitration). Nato nel mondo delle controversie salariali
dei giocatori di baseball, questo tipo di arbitrato si caratterizza per il
fatto che può essere esperito solo in quei casi in cui vi è lite sul quantum e non sull’an. L’arbitro, in effetti, non ha il potere di fissare una somma,
ma è costretto a scegliere la richiesta che egli stima più ragionevole tra le
due avanzate dalle parti stesse. In questo modo le parti sono spinte ad
effettuare richieste ed offerte «moderate», per il timore che l’arbitro scelga
quella della controparte.
Da notare poi che, in data
30 ottobre 1998, una apposita legge sulla risoluzione alternativa delle
controversie è stata varata dal Parlamento americano. Essa definisce come
A.D.R. «ogni procedimento o procedura cui partecipa un terzo neutrale, diverso
dal giudice competente, per agevolare la risoluzione delle controversia,
attraverso strumenti quali la valutazione neutrale, la conciliazione, il mini-trial, e l’arbitrato secondo quanto
previsto da questa legge».
Vanno poi tenuti presenti
gli altri cinque punti qualificanti del Civil Justice Reform Act, così enumerati:
·
Una gestione differenziata del contenzioso (Differential management of cases),
·
Un maggior controllo da parte del giudice dei
vari stadi in cui si articolano le fasi preliminari al processo (Early and ongoing judicial control of pretrial processes),
·
Un controllo particolarmente incisivo dei casi più complessi (Special monitoring and judicial control of
complex cases),
·
Un procedimento di deduzione e presentazione delle prove reso meno
costoso per effetto della cooperazione tra le parti e del volontario scambio di
informazioni (Cost-effective discovery
through cooperation and voluntary exchanges of information),
·
Un maggior impegno da parte dei legali, diretto a risolvere le questioni
attinenti all’istruzione probatoria prima di presentare le domande al giudice (Good-faith efforts to resolve discovery
disputes before filing motions).
Peraltro, come notato da
Vittorio Denti, le aspettative circa
l’impatto delle procedure alternative sul carico di lavoro delle Corti federali
non hanno trovato il conforto dell’esperienza pratica, tanto che la fiducia nel
loro impiego si è molto attenuata. La stessa conclusione, tuttavia, non vale
per le alternative fondate sulla iniziativa privata, come quelle che concernono
la responsabilità del medico, che dà luogo ad un numero rilevante di
controversie. Presso taluni grandi ospedali sono stati istituiti appositi
uffici per la soluzione delle liti con i pazienti, previamente informati sia
dei loro diritti che delle possibili incidenze negative delle terapie. Secondo
dati abbastanza recenti, circa la metà delle controversie relative alla medical
malpractice viene risolta per questa via. Conseguenza rilevante di tale
fenomeno è però stata – sempre secondo Denti – «la discriminazione, sul piano
sociale, nelle concrete possibilità di accesso alle corti, a danno dei soggetti
privi dei mezzi economici necessari per sopportare il costo, anche in termini
di durata, della giustizia». Insomma, ad oltre mezzo secolo di distanza, sembrano forse ancora valide
le considerazioni di William Seagle, secondo cui «The great paradox of Western
legal systems is that despite the fact that there are too many lawyers, there
are not enough of them to defend the poor and the oppressed».
La ponderosa analisi dei risultati della riforma
statunitense del 1990 compiuta ad alcuni anni di distanza dal prestigioso
istituto di ricerca sulla giustizia civile della RAND Corporation (RAND
Institute for Civil Justice) mostra che il programma pilota introdotto
dalla citata normativa non ha portato ad alcun sostanziale miglioramento
rispetto al passato. Anzi, essa prova che alcune delle raccomandazioni del
programma (ad esempio l’early active judicial management, cioè un
coinvolgimento più attivo del giudice, anziché dei soli legali, sin dall’inizio
della controversia) hanno incrementato i tempi di lavoro degli avvocati, così
facendo lievitare i costi del contenzioso. Puntualmente i dati statistici
dimostrano che ad essere più soddisfatti del «nuovo rito» sono (in una
percentuale peraltro trascurabile) gli avvocati, mentre i clienti hanno
dichiarato di preferire e di ritenere comunque più fair le vecchie procedure.
Anche in Australia il problema della lentezza dei
procedimenti civili è stato affrontato partendo dalla constatazione per cui la
crisi del sistema era legata all’eccessivo spazio lasciato ai poteri delle
parti in causa. Così, a seguito di svariate riforme introdotte negli anni
Novanta dello scorso secolo, si è attribuito al giudice un ruolo molto più
attivo nel contesto dei suoi poteri di case
management, consentendogli di creare, in buona sostanza, egli stesso le
regole destinate a reggere le singole procedure svolte sotto la sua direzione.
Anche questa soluzione si è però dimostrata ininfluente sulla riduzione dei
costi del processo. In particolare, l’incremento della pratica di rivolgersi a
mediatori privati ha contribuito ad elevare i costi della giustizia. Peraltro,
al termine di una lite, il giudice può emettere cost orders, con i quali obbliga i legali delle parti a pagare di
tasca loro quelle spese determinate dalla loro condotta processuale
ostruzionistica o semplicemente legate ad attività processuali inutili: una
pratica che, ove introdotta in Italia, fornirebbe un notevole contributo alla
soluzione del problema dei ritardi della giustizia.
5.
Funzione giudiziale e funzione notarile nei due sistemi. Generalità.
Una sintesi espositiva dei rapporti tra common law e civil law nell’ottica del giudice civile italiano non può
prescindere dalla considerazione della funzione notarile. Prospettiva, questa,
imposta non solo e non tanto dalla cornice in cui queste riflessioni sono
svolte, quanto dal ruolo fondamentale che la figura del notaio ha storicamente
svolto e continua a svolgere negli ordinamenti continentali. E’ sin troppo
ovvio che, per parlare del rapporto tra funzione giudiziale e funzione notarile
nella diversa prospettiva dei due sistemi qui a confronto, occorre tenere
presenti le profonde differenze esistenti tra l’istituto del notariato latino e
la figura del notary public.
Come messo in luce da Gianmaria Ajani, la tradizionale
oralità del processo civile di common law
(che, però, come si è detto in precedenza, ha ora lasciato il campo a svariate
forme di procedura scritta) e l’idea che la prova si formi essenzialmente nel
processo di fronte al giudice, senza bisogno di alcun tipo di mediazione, hanno
storicamente impedito la nascita del concetto di atti forniti di fede
privilegiata, predisposti da soggetti le cui dichiarazioni sono destinate a
rimanere ferme sin tanto che non sia dimostrato che è stato compiuto un falso.
Tutto al contrario, nei Paesi di civil
law, accanto all’avvocato, si incontra una figura di pubblico ufficiale,
dotato di preparazione giuridica, il cui compito precipuo è quello di
predisporre atti dotati di fede privilegiata a livello probatorio e di compiere
attività certificativa. Il notaio italiano, come i suoi colleghi del notariato
latino, il notaire francese ed il Notar tedesco, fornisce altresì
consulenza giuridica a coloro che a lui si rivolgono, affinché i negozi
giuridici che questi ultimi si accingono a porre in essere siano conclusi in
modo certo e consapevole.
Nei sistemi di common
law la professione legale per eccellenza è invece rimasta quella di
avvocato. Se esiste scissione funzionale all’interno di essa, come succede in
Inghilterra tra solicitors e barristers, essa non corrisponde alla
distinzione tra avvocati e notai. Sono l’attorney
statunitense ed il solicitor inglese
i professionisti in grado di assistere, in sede contenziosa, ma anche al di
fuori e prima di essa, i clienti che si rivolgono a loro per un parere
giuridico. Tali soggetti, tuttavia, non hanno la capacità di conferire
autenticità agli atti compiuti innanzi a loro o per conto dei loro clienti.
Questa funzione è propria del notary
public, che però svolge funzioni esclusivamente certificative, senza
fornire alcun tipo di consulenza giuridica e non deve necessariamente possedere
una preparazione giuridica. In buona sostanza, egli si limita ad accertare
l’identità di chi sottoscrive gli atti che gli sono sottoposti per autentica e
la appartenenza della firma alla persona che deve apporla. Per le altre
attività riconducibili alle mansioni del notaio latino è richiesta una
preparazione giuridica assai più approfondita di quella richiesta al notary public. Per queste è competente,
in linea generale, l’avvocato. Quella del notary
public è una funzione che in senso lato si può definire amministrativa,
tant’è vero che si trovano, comunemente, notaries
impiegati come lavoratori subordinati.
Tanto il notaio di civil
law quanto quello di common law
si caratterizzano dunque per la loro attività certificativa. Esiste tuttavia
una differenza fondamentale tra l’attività dell’uno e quella dell’altro, e tale
differenza consiste nel valore probatorio che l’ordinamento interno attribuisce
all’atto ricevuto dal notaio. All’atto pubblico gli ordinamenti appartenenti al
notariato latino attribuiscono pubblica fede, e cioè la maggiore forza
probatoria possibile, una presunzione di verità della provenienza dell’atto dal
pubblico ufficiale che lo ha sottoscritto. Dal punto di vista del contenuto del
documento, la presunzione di verità si estende alle operazioni eseguite dal
notaio od in sua presenza ed alle dichiarazioni a lui fatte. Tale presunzione
può essere vinta, a seconda degli ordinamenti, soltanto con una apposita
domanda (querela di falso), la quale può essere introdotta in via principale ed
autonoma, od in via incidentale. La rispondenza a verità del contenuto delle
dichiarazioni fatte dalle parti al notaio, al contrario, non richiede tale
procedimento. In alcuni casi, all’atto è riconosciuta efficacia esecutiva.
Ora, è proprio a tale singolare forza probatoria che
si deve il rilievo della funzione notarile nei sistemi continentali, al punto
che il notaio è divenuto un imprescindibile esperto in alcuni settori-chiave
del traffico giuridico: si pensi ai trasferimenti immobiliari, ai rapporti
patrimoniali tra coniugi, al diritto successorio, al diritto societario. A ciò
ha indubbiamente contribuito anche una «politica» estremamente rigorosa nella
selezione degli appartenenti alla classe notarile, che ha saputo preservare un
livello di professionalità estremamente elevato nei vari sistemi di notariato
latino.
Nei Paesi di common
law il documento munito del sigillo notarile non possiede la medesima forza
probatoria dell’atto rogato da notaio latino. Negli Stati Uniti si presume
l’autenticità del certificato e del sigillo notarile, ma tale presunzione può
essere vinta senza necessità di introdurre un’apposita azione di falso,
presentando una «clear and convincing evidence». In Inghilterra un certificato
notarile non è di per sé accettato dal giudice come prova. Il giudice potrà
chiamare il notaio a testimoniare in giudizio su ciò che è avvenuto in sua
presenza. Ciò in quanto la prova documentale, nei sistemi di common law, non ha la forza che le è
riconosciuta negli ordinamenti di derivazione franco-tedesca. In Inghilterra e
negli Stati Uniti la prova per testimoni (parol,
o witness, od oral evidence) è la prova fondamentale. E’ regola generale che il
teste, nel giudizio civile, venga esaminato oralmente. La hearsay rule, caratteristica del common law, ai sensi della quale non è ammessa in giudizio la prova
di fatti di cui il testimone non ha conoscenza diretta, permette al giudice di
non ammettere la prova documentale. Il diritto angloamericano guarda con
sospetto alla testimonianza in giudizio relativa a fatti od affermazioni fatte
al di fuori del giudizio da altri che non sia il testimone stesso. La
valutazione di tali affermazioni, infatti, non riposa soltanto sulla
credibilità del testimone, ma anche su quella di altri, che possono restare
sconosciuti alla Corte ed alla giuria. La convinzione della veridicità di tali affermazioni
e la prova di essa è assai debole e può essere esclusa.
A questa abissale diversità di funzioni fa da
singolare contraltare una certa similitudine terminologica, che purtroppo è
stata più volte causa di confusioni. Così, ad esempio, è capitato che molti
immigrati ispanofoni negli U.S.A., trovandosi di fronte ad notary public, credessero di avere a che fare con un Notario
Público di tipo «latino». Molti notaries
ne hanno approfittato per imbastire vere e proprie truffe ai danni dei propri
clienti, di fronte ai quali si erano spacciati come equivalenti dei notai di civil law, con il risultato che stati
come
Ma non basta ancora. Il notaio di civil law ha una posizione di terzietà rispetto alle parti. E’
tenuto a controllare la legalità e la validità dell’atto che gli si chiede di
ricevere, ad accertare la volontà delle parti ed a darle la corretta forma giuridica.
Controlla l’identità delle parti, le informa del significato giuridico del
negozio che si accingono a stipulare, le consiglia sugli aspetti tributari di
esso. L’accuratezza con la quale il notaio attende a tale funzione è assicurata
dal suo assoggettamento, in caso di violazione, a responsabilità civile ed a
sanzioni disciplinari. Sotto questo profilo, dunque, il notaio latino è
equiparabile all’avvocato dei sistemi di common
law e come questi, deve possedere una preparazione giuridica accurata, accertata
attraverso selezioni rigorose. Peraltro, come si diceva, a differenza di questi
ultimi, il notaio dei sistemi continentali è tenuto ad una posizione di
equidistanza rispetto ai contraenti e di imparzialità (che non si può certo
richiedere agli avvocati), volta anche, in un certo senso, a mediare tra i
confliggenti interessi in gioco e a rimediare allo squilibrio tra le parti, sempre più accentuato nella contrattazione
moderna, anche al fine di prevenire possibili conflittualità, svolgendo quella
che è stata efficacemente definita dal Carnelutti come funzione
«antiprocessuale».
Per
questa ragione molto significativa appare la tendenza che sembra profilarsi nei
paesi di common law (ed in particolare
negli Stati Uniti) all’avvicinamento al notariato di tipo latino. Lo Stato
della Florida nel
6.
Segue. Il contenzioso relativo ai trasferimenti immobiliari.
L’ottica del giudice consente di
valutare in termini estremamente positivi l’intervento, nel traffico
immobiliare degli ordinamenti di civil
law, di un soggetto altamente qualificato come il notaio. Il trasferimento
della proprietà, la costituzione o il trasferimento di altri diritti reali sono
divenuti ormai di una complessità tale nel nostro Paese da non poter
prescindere dall’opera di un professionista esperto di tale settore. Per
giustificare tale affermazione occorre porre mente al fatto che il nostro
ordinamento – contrariamente a quanto si suole ritenere – consente, di regola,
che il trasferimento immobiliare avvenga anche per semplice scrittura privata,
assegnando all’atto pubblico notarile (o alla scrittura privata autenticata da
notaio o verificata giudizialmente) la sola funzione di condizionare la
trascrizione sui pubblici registri immobiliari. Ora, la trascrizione possiede
di regola un’efficacia non già costitutiva, bensì solo dichiarativa,
consentendo pertanto a chi per primo la effettua (purché, di norma, sulla base
di un valido ed efficace titolo riconducibile al titolare) di prevalere anche
su chi eventualmente possa vantare un titolo anteriore, ma non trascritto. Già
questo fenomeno rende chiaro come la presenza del notaio sia, nei fatti,
imposta dal sistema pubblicitario, così come concretamente congegnato.
A complicare la situazione viene poi la figura del
contratto preliminare, cioè dell’impegno a trasferire il diritto reale mercé un
atto da stipularsi in un secondo momento (contratto definitivo). Dunque,
contratto immediatamente traslativo e contratto preliminare sono ipotesi
teoricamente ben distinte, ma chi svolge la professione di giudice civile sa
benissimo quali enormi difficoltà si incontrino nella pratica, quando siffatti
documenti sono stilati da soggetti non forniti di adeguata preparazione
giuridica. Con l’ulteriore aggravante dell’usuale impiego – comunque improprio
– della medesima espressione «compromesso» per indicare talvolta l’una e
talvolta l’altra delle due situazioni. La giurisprudenza, si sa, impone – sulla
scorta delle regole di interpretazione dei contratti contenute nel codice
civile – di accertare la reale volontà delle parti, al di là delle espressioni
usate e dunque di vedere se esse volevano operare un trasferimento immediato,
ovvero consegnare tale effetto ad un momento e ad un atto successivi. In
realtà, nelle poche righe «tirate giù» dalle parti stesse, magari assistite da
un sedicente «esperto», s’affastellano sovente espressioni ambigue ed
assolutamente contraddittorie («promette di vendere… e vende», «promette di
acquistare… e acquista») e il più delle volte il contenuto del documento fa
letteralmente «a pugni» con il titolo e le premesse del medesimo.
Ma non basta ancora. Un mutamento di titolarità nel
campo immobiliare non deve rispondere solo ad una estesa e complessa serie di
requisiti di validità e completezza sul piano che nel linguaggio giuridico si
definisce «della fattispecie» (si pensi, ad es., alla certezza
sull’individuazione delle parti e sulla loro capacità, sulla determinazione del
prezzo, sull’identificazione dei beni trasferiti, sul tipo di diritti da
trasferire, sul momento del trasferimento dei diritti coinvolti, ecc.). Esso
deve infatti «fare i conti» con una ricchissima sequenza di possibili
«ricadute» sul piano degli effetti, avuto riguardo, ad esempio:
·
ai rapporti
familiari (si pensi a es. all’incidenza con i regimi patrimoniali della
famiglia, tanto dell’alienante che dell’acquirente),
·
a quelli
successori (si pensi ad es. ai diritti che la legge riserva ai legittimari
contro le donazioni vuoi dirette vuoi indirette poste in essere in vita dal de cuius),
·
a quelli con i
creditori (che possono a determinate condizioni esperire l’azione revocatoria
contro atti che essi ritengano pregiudizievoli),
·
a quelli con
possibili terzi che vantino diritti incompatibili (essenziale sul punto è il
controllo della legittimazione del dante causa e dell’inesistenza di diritti o
oneri di terzi, attuato mediante le c.d. visure ipotecarie e catastali),
·
a quelli con
altri soggetti titolari di vari altri tipi di aspettative o diritti nascenti
proprio da quel trasferimento (si pensi ad es. ai titolari di diritti di
prelazione legale o convenzionale sul bene trasferito),
·
ai profili
urbanistici (con possibili ricadute addirittura sulla validità dell’atto),
·
ai profili
fiscali, ecc.
In definitiva, può veramente dirsi che il notaio
latino rappresenti oggi il miglior garante che si possa immaginare della
sicurezza dei traffici immobiliari. Prova ne è il fatto che, come rimarcato dai
comparatisti, nei sistemi di common law non
si può riscontrare un identico grado di sicurezza, anche in considerazione
dell’esistenza (e sovente dell’assenza) di sistemi di pubblicità immobiliare
stratificatisi nel corso del tempo. Si pensi alla distinzione tra registered e unregistered property in Inghilterra: nel secondo caso la proprietà
non è garantita dallo Stato e può essere provata solo con la copia del
contratto unita ad una ricerca effettuata dall’avvocato dell’acquirente per i
precedenti quindici anni. Anche il più estasiato ammiratore della precisione
del sistema d’oltre Manica rimarrà per lo meno deluso nel leggere, nei siti web ufficiali dedicati alla proprietà
immobiliare, che «With unregistered property, disputes over title are not
uncommon» (con tutto ciò che l’espressione «not uncommon», secondo il classico understatement britannico, può indurre a
ritenere…). Lo stesso vale in relazione alle conseguenze del progressivo
abbandono del sistema di registrazione fondiaria «Torrence» negli U.S.A., con
il risultato che, in quel Paese, oggi, il sistema più comune per evitare i
rischi connessi all’acquisto da soggetti privi di titolo, o al trasferimento di
beni soggetti a pesi od oneri pregiudizievoli, è quello di assicurare il titolo
stesso. Qui bisogna però tenere ben presente che l’assicurazione del titolo
consente, al più, un ristoro in termini risarcitori, cioè solo per equivalente;
essa non potrà quindi mai fornire certezza sul piano proprietario al
compratore, il quale non vedrà così eliminato il rischio di perdere quanto
acquistato, magari al prezzo di grandi sacrifici.
Ancora una volta, dal raffronto emerge la funzione
«antiprocessuale» del notaio nei sistemi di civil
law. Non sembra pertanto esagerato affermare, alla luce di quanto si è
venuto sin qui illustrando, che un ipotetico (e certo non auspicabile)
passaggio dell’ordinamento italiano dal sistema del notariato latino a quello
dei notaries public del common law determinerebbe una vera e
propria esplosione del contenzioso giudiziario in materia immobiliare.
7.
Segue. Il contenzioso familiare.
Un’immediata verifica operativa di quanto appena detto
può aversi ponendo mente alla vicenda dei trasferimenti immobiliari tra coniugi
in crisi, di cui mi sono specificamente occupato alcuni anni fa per un lavoro
monografico. Come ho cercato di dimostrare in quella sede, proprio
l’inesistenza nell’ordinamento italiano di una regola che imponga la presenza
del notaio perché si operi l’effetto traslativo della proprietà (o di altro
diritto reale) induce a ritenere che nel contesto della redazione delle
condizioni di una separazione consensuale (o anche soltanto di fatto), ovvero
di un divorzio su domanda congiunta, i coniugi, magari assistiti dai rispettivi
legali, possano regolare le rispettive pretese mediante il trasferimento
dall’uno all’altro di beni, mobili o immobili. Inoltre, poiché l’art. 2699 c.c.
non stabilisce che atto pubblico sia unicamente quello rogato da notaio, ma
prevede che tale documento possa essere stilato anche da qualsiasi altro
pubblico ufficiale nell’esercizio delle proprie funzioni, asserivo che il
verbale di separazione consensuale, così come quello di divorzio su domanda
congiunta, in quanto atti pubblici redatti dal cancelliere sotto la direzione
del giudice, erano titoli idonei alla trascrizione, senza alcun intervento del
notaio. Avvertivo peraltro che tale posizione – successivamente accolta, in
pieno, da diverse decisioni della Cassazione – pur se corretta sul piano
teorico, avrebbe potuto essere ciò nondimeno foriera, sul piano pratico, di
svariati inconvenienti e rischi.
In effetti è successo che molti di
questi «trasferimenti-fai-da-te» siano stati successivamente impugnati per
mancato rispetto delle prescrizioni formali disposte dalla disciplina
urbanistica. Talora è anche capitato che il coniuge A, destinatario del
trasferimento dell’alloggio X da parte del coniuge B, non si sia curato di
operare la trascrizione a proprio favore del verbale di separazione consensuale
contenente tale effetto, e che B abbia successivamente rivenduto lo stesso bene
a terzi, che, avendo operato la trascrizione, hanno privato A della proprietà
del bene. Da una situazione di questo genere è nata, ad esempio, una causa
dinanzi al tribunale di Torino, in cui A ha convenuto in giudizio il proprio
avvocato, «accusato» di non aver operato la trascrizione; il tribunale ha però
respinto la domanda, rilevando che sull’avvocato (a differenza che sul notaio)
non grava alcun obbligo di procedere all’esecuzione delle formalità
pubblicitarie. La conclusione appare indiscutibilmente corretta. Resta però da
dire che, tra i doveri di diligenza del buon professionista legale (secondo i
criteri in linea generale dettati dall’art. 1176, secondo comma, c.c.), rientra
quanto meno un obbligo (integrativo e strumentale) di informazione sugli
aspetti connessi all’attività prestata. E tra tali informative non può non
farsi rientrare anche quella volta a rendere noto al cliente
che il trasferimento così operato, anche se effettuato davanti al presidente
del tribunale, deve essere a sua volta trascritto, perché possa «resistere» di fronte a diritti vantati da
eventuali aventi causa o creditori del dante causa, che operino in epoca
successiva la trascrizione o l’iscrizione dei propri titoli. Mi sembra poi che
l’avvocato debba anche informare il cliente del fatto che l’intervento di un
notaio può fornire la massima tranquillità circa il rispetto delle prescrizioni
imposte dalla disciplina edilizia, così come sull’effettuazione dei necessari
controlli circa la legittimazione del dante causa e sull’assenza di diritti di
terzi già eventualmente gravanti sul bene.
In conclusione sul punto, lungi
dall’ipotizzare una sorta di «conflitto di competenza» tra avvocatura (o
magistratura) e notariato, appare opportuno supporre l’esistenza di un dovere
del legale di mettere in guardia il proprio cliente dai rischi connessi a
questi «trasferimenti-fai-da-te», espressamente invitandolo a rivolgersi ad un
notaio. Dal punto di vista pratico, poi, la soluzione operativa più felice
consiste nella stipula in sede di verbale giudiziale di un mero impegno sul
piano obbligatorio ad effettuare un successivo trasferimento con atto notarile,
trasferimento che gode – tra l’altro – degli stessi benefici fiscali concessi
ad ogni atto della procedura di separazione o divorzio. Per il resto, mi preme
cogliere l’occasione per ribadire che proprio chi ha trascorso lunghi anni alle
prese con la trattazione, l’istruzione e la decisione di innumerevoli
controversie in materia immobiliare, è in grado, meglio di chiunque altro, di
comprendere come la funzione notarile in questo settore sia oggi divenuta di fatto imprescindibile, al punto da
indurre a chiedersi se non sia per caso giunto il momento di adeguare la realtà
normativa a questa constatazione. A ben vedere, i tempi paiono più che maturi
per rimettere in via assolutamente
esclusiva nelle mani della classe notarile il monopolio della funzione
traslativa della proprietà, elevando l’atto pubblico notarile al rango di
elemento richiesto ad substantiam in
relazione agli atti ex art. 1350, n.
1, 2, 3, 4, 5, 6, 7, 11, 12 c.c.
Tornando alla materia del contenzioso
familiare, ben possono ipotizzarsi forme di collaborazione del notaio alla
redazione dell’accordo di separazione, secondo quanto ritenuto possibile da
tempo in giurisprudenza, la quale ha ammesso la possibilità che le parti
consacrino le condizioni della separazione in atto notarile, richiamando
quest’ultimo nel verbale d’udienza presidenziale. In effetti, nulla vieta che
le parti predispongano un accordo già tra loro concretato che regoli tutti gli
aspetti del nuovo regime coniugale: potranno, quindi, aversi quanto meno tre
ipotesi: 1) un ricorso (o due distinti ricorsi) al presidente del tribunale
col generico accordo dei coniugi di vivere separati: in tal caso, nel verbale
di cui all’art. 711 c.p.c. si statuiranno le condizioni; 2) un ricorso (o due)
contenente le dettagliate condizioni che si sottopongono al tribunale e sulle
quali i coniugi sono già d’accordo:
in tal caso, il verbale si riporterà al contenuto del ricorso, e, infine; 3) un
ricorso (o due) che rinvii – per le specifiche condizioni – a un atto in precedenza
concluso tra le parti e che venga, poi, a costituire allegato al più volte
detto verbale giudiziale: questo atto, contenente la volontà dei coniugi in
relazione alle singole modalità della separazione, potrà essere da loro sottoscritto
(scrittura privata) ma ben potrà essere un atto notarile (atto pubblico) nel
quale il notaio si sia limitato a raccogliere le dichiarazioni delle parti da
sottoporre al presidente, prima, ed al tribunale, poi, per l’omologa.
Sulla base di queste riflessioni appare
chiaro come anche in questo campo il nostro sistema, lungi dal doversi ispirare
all’esperienza dei notaries public,
necessiti di un intervento ancora più incisivo della figura del notaio latino
nel contenzioso familiare. Basti pensare che siffatte questioni potrebbero
essere gestite, in alternativa, solo da avvocati, e dunque da soggetti ben poco
«terzi» rispetto alle parti, con possibili gravi incidenze e ricadute sul piano
dello squilibrio tra le parti, a tutto svantaggio di quelle meno fornite di
mezzi economici. Nella realtà odierna del nostro Paese verrebbe poi ad
aggiungersi un’ulteriore, gravissima, questione, legata al livello medio di professionalità e
preparazione della nostra classe forense: ma questo è (come noto) un tema che
meriterebbe una trattazione a sé e che non voglio affrontare in questa sede.
8.
Segue. La funzione «antiprocessuale» del notaio latino nell’odierna «stagione
della negozialità» dei rapporti familiari.
Nell’ambito della già evidenziata
funzione «antiprocessuale» del notaio nei sistemi di civil law non potrà omettersi il riferimento al fondamentale ruolo
che un esperto del genere può svolgere in seno a questa vera e propria
«stagione della negozialità» che ormai da tempo si è aperta un po’ ovunque in
Europa (e persino nel nostro Paese) per la famiglia, tanto legittima che di
fatto. Come ho avuto modo di notare nelle monografie consacrate ai regimi
patrimoniali della convivenza more uxorio
e ai contratti della crisi coniugale, fenomeni quali l’introduzione del
principio della parità tra coniugi, l’emancipazione femminile, il mutamento dei
costumi, l’esplosione del contenzioso coniugale, l’emergere di nuove famiglie,
le riforme legislative fiorite in tutta Europa nel campo giusfamiliare a
partire dagli anni Settanta dello scorso secolo, hanno determinato una
massiccia irruzione della figura del contratto nel campo dei rapporti
familiari. Non è un caso che i primi ad occuparsi seriamente dei contratti di
convivenza, già oltre trent’anni fa, siano stati i notai belgi, olandesi e
tedeschi, dando il via ad un dibattito che è infine sfociato nella predisposizione
di apposite normative nei sistemi dell’Europa centro-settentrionale
(successivamente «dilagate», come noto, in tutto il resto del continente, ad
eccezione, beninteso, del nostro Belpaese) per la regolamentazione dei rapporti
patrimoniali delle coppie di fatto etero- ed omosessuali. E non è neppure un
caso che sia stata proprio l’Unione Internazionale del Notariato Latino a
sollecitare l’Unione Internazionale dei Magistrati ad occuparsi, già nel 1985,
di questo stesso tema.
Anche per le famiglie italiane, come
dicevo, si è aperta ormai da alcuni anni una vera e propria «stagione della
negozialità», favorita da quello che in altra sede ho chiamato il «passaggio
dalla concezione istituzionale alla concezione costituzionale», vale a dire
dalla «regola del capo» a quella dell’uguaglianza e della pari dignità tra i
coniugi. Un’evoluzione che, sebbene non ancora pienamente avvertita dal nostro
tardigrado Legislatore, ha caratterizzato il diritto vivente di questi
ultimissimi decenni, spianando la via ad una nozione di negozio giuridico
familiare cui è possibile applicare (in difetto di speciali deroghe normative)
la disciplina generale dettata dal codice per il contratto, secondo
l’autorevole insegnamento di Francesco Santoro-Passarelli. Un «punto fermo»,
questo, che può ormai dirsi pienamente recepito anche dalla giurisprudenza, la
quale, ancora una volta, ha staccato di varie lunghezze il Parlamento.
I nostri giudici riconoscono, per esempio, da tempo il
carattere negoziale dell’accordo di separazione personale, di quello di
divorzio su domanda congiunta, nonché di quelle particolari intese di carattere
patrimoniale concluse in sede, in occasione, o anche solo in vista della
separazione personale, della separazione di fatto, del divorzio o dell’annullamento
del matrimonio, che ho qualificato come «contratti della crisi coniugale». Lo
stesso vale per gli accordi costituenti il «contenuto eventuale» dell’accordo
di separazione consensuale, laddove nemmeno la dottrina sembra ormai più
dubitare della natura non solo negoziale, bensì addirittura contrattuale di
questi atti, allorquando gli stessi (come per lo più accade) abbiano ad oggetto
prestazioni di carattere patrimoniale. Anche qui l’art. 1322 c.c., consacrante
il principio della libertà contrattuale, ha ricevuto concreta applicazione in
un’innumerevole serie di casi che hanno portato il «diritto vivente» a
determinare, in nome del principio dell’autonomia privata (sovente
espressamente menzionato nelle motivazioni delle decisioni), una vera e propria
dilatazione dell’usuale contenuto dell’accordo di separazione, ben al di là di
quegli angusti limiti in cui alcuni autori lo avrebbero voluto inquadrare. Si è
così deciso, per esempio, in relazione ad una complessa pattuizione transattiva
di tutti i rapporti nati dal vincolo coniugale, che l’accordo dei coniugi
sottoposto all’omologazione del tribunale ben può contenere rapporti
patrimoniali anche «non immediatamente riferibili, né collegati in relazione
causale al regime di separazione o ai diritti ed agli obblighi derivanti dal
matrimonio». L’affermazione della negozialità tra coniugi (in crisi e non) è
giunta al punto che non destano neppure più stupore, nell’osservatore della
giurisprudenza di legittimità, affermazioni del genere di quella secondo cui «i
rapporti patrimoniali tra i coniugi separati hanno rilevanza solo per le
parti, non essendovi coinvolto alcun pubblico interesse, per cui essi sono
pienamente disponibili e rientrano nella loro autonomia privata».
In un crescendo che conosce ormai ben poche battute
d’arresto si sono così fondati i rapporti personali e contributivi dei coniugi
sulla regola dell’accordo, si è consolidata la tesi della natura contrattuale
delle convenzioni matrimoniali, si è ammessa una rimarcabile sfera di autonomia
con riguardo ai regimi patrimoniali, si è concessa la più ampia libertà
negoziale nei momenti salienti che caratterizzano il fenomeno della crisi
coniugale, mentre, sul versante della famiglia di fatto, si è venuta affermando
la validità dei contratti di convivenza e, più in generale, di tutte le intese
patrimoniali in seno al rapporto more uxorio, purché rispettose dei
canoni previsti per il contratto in generale. Ciò, del resto, conformemente a
un’evoluzione che sta caratterizzando le legislazioni di ogni parte d’Europa,
se è vero come è vero che proprio nella direzione della negozialità e non certo
in quella dell’imposizione di effetti giuridici conseguenti alla sola
sussistenza del ménage de fait, si muovono le soluzioni normative che di
recente, in vari Paesi del nostro continente, si sono prefissate di affrontare
e risolvere i problemi giuridici posti dalle convivenze omo- ed eterosessuali.
Volgendo nuovamente lo sguardo alla situazione
italiana, possiamo infine aggiungere che, quale coronamento della descritta
evoluzione, è stata addirittura espressamente riconosciuta, da parte del nostro
stesso Legislatore, l’esistenza della categoria dei «contratti disciplinati dal
diritto di famiglia» (cfr. l’art. 11, d. legis. 9 aprile 2003, n. 70
«Attuazione della direttiva 2000/31/CE relativa a taluni aspetti giuridici dei
servizi della società dell’informazione nel mercato interno, con particolare
riferimento al commercio elettronico»), a conferma della praticabilità di un
accostamento – quello, per l’appunto, tra contratto e famiglia – che ancora
sino a non molto tempo fa poteva apparire ardito.
In questo contesto il ruolo che il notaio può svolgere
per la prevenzione di liti future è essenziale. In un recente lavoro
monografico sul regime di separazione dei beni tra coniugi ho rilevato il
progressivo abbandono, da parte delle coppie italiane, del regime legale di
comunione dei beni. Più che mai, dunque, in questo momento di profonda sfiducia
verso la regolamentazione ex lege
(giustamente avvertita come troppo complessa e «soffocante») del regime
patrimoniale familiare, l’intervento di un professionista qualificato quale il
notaio in sede di stipula delle convenzioni matrimoniali consente di modellare
l’assetto dei rapporti patrimoniali dei coniugi secondo i desideri delle parti,
tenendo conto delle esigenze e delle disponibilità del nuovo nucleo familiare.
Ciò del resto è avvenuto per secoli e l’analisi storica lo comprova.
Le sfide del futuro attengono alla preventiva
regolamentazione delle conseguenze di un’eventuale crisi coniugale. E se è vero
che il pensiero corre subito ai prenuptial
agreements in contemplation of divorce dell’esperienza americana e ai
contratti prematrimoniali dei miliardari e delle stelle dello spettacolo, è
altrettanto vero che tale pratica non solo (come ho cercato di dimostrare in
altra sede) risale addirittura al diritto romano, ma è ben presente da sempre
in svariate realtà del nostro continente, tra cui ad esempio, quella tedesca,
in cui, ancora una volta, la classe notarile ha giocato un ruolo determinante.
Nuovi orizzonti sembrano poi dischiudersi anche in
relazione al trust, altro istituto
anglosassone che ha fatto prepotentemente ingresso, in mezzo a mille polemiche,
nella realtà del nostro «diritto vivente». E se la possibilità di dar vita in
Italia ad un trust c.d. «interno»
(cioè tra cittadini italiani e su beni situati in Italia) appare – almeno a mio
sommesso avviso – assai discutibile allo stato attuale, non v’è dubbio che sarà
proprio e solo il notaio il soggetto in grado di gestire, nella pratica e nella
vita quotidiana, il delicatissimo passaggio dell’Italia da sistema no-trust a sistema trust il giorno in cui il Legislatore (recependo il «grido di
dolore» che da ogni parte del nostro Paese si leva) vorrà finalmente degnarsi
di riconoscere l’esistenza di questo problema, ovvero ancora in cui
9. Segue.
Il diritto societario.
Un ruolo di primaria importanza è poi
svolto dal notaio latino, in particolare in Italia (oltre che in Germania), per
ciò che attiene alla costituzione e alla vita delle società commerciali. Questo
era, anzi, sino all’entrata in vigore della l. n. 340/2000, uno dei settori in
cui si operava una sorta di vera e propria «interazione» tra giudice e notaio.
Il notaio redigeva gli atti sociali più rilevanti (atti costitutivi di società
e relative modifiche, emissioni di obbligazioni, delibere modificative dello
statuto assunte dagli amministratori) e ne chiedeva l’omologazione al
tribunale, che doveva verificare la sussistenza nel caso di specie dei
presupposti di validità dell’atto. Il tribunale, in caso di dubbio, poteva
convocare il notaio e poi prendeva la decisione nell’ambito di un procedimento
camerale, tendenzialmente disciplinato dagli artt. 737 ss. c.p.c.
La riforma del
In buona sostanza può però concludersi – lasciando da
parte aspetti che in questa sede potrebbero suonare come semplici technicalities – che le recenti riforme
societarie costituiscono un vero e proprio «atto di fede» del Legislatore nelle
capacità e nella correttezza professionale del notaio. Come incisivamente
osservato da Gianfranco Campobasso, l’efficace attuazione della riforma del
diritto societario, in punto omologazione, dipenderà proprio dalle regole che
la classe notarile saprà e vorrà darsi e, ancor di più, dal rispetto che delle
stesse farà il singolo notaio. Legislativamente, l’intervento di tale figura
appare vieppiù opportuno di fronte alla scelta operata dal Legislatore della
riforma societaria, di attribuire maggiore rilievo a quegli statuti sociali che
proprio il procedimento di omologazione sottopone a vaglio. E il controllo di
legalità risulta particolarmente difficile stante la grande varietà di
possibilità e di modelli, magari di ispirazione straniera.
Non bisogna infine dimenticare che, sullo sfondo di
questa riforma (che tanti sfracelli sta già producendo sul versante
dell’organizzazione del lavoro giudiziario, con la predisposizione di un «rito
societario» inutilmente complesso, articolantesi in una serie snervante di
ripetitivi minuetti processuali e di inutili rimpalli tra relatore e collegio),
rimane la filosofia che l’ha ispirata, ricalcata su di una deregulation che, negli Stati Uniti, ha già prodotto frutti
perversi chiamati Enron o Worldcom e che, alla luce degli scandali
societari di casa nostra (peraltro maturati in epoca ancora precedente alla
riforma nostrana), non sembra davvero promettere nulla di buono.
10.
Conclusioni.
Questa forzatamente sommaria analisi di
alcuni degli aspetti salienti del raffronto tra civil law e common law
compiuta da un civil law judge (nel
duplice significato di «giudice civile» e di giudice di un sistema di civil law) ha evidenziato come non molti
siano gli elementi agevolmente trasferibili da una realtà all’altra. Certo, è
innegabile che – secondo quanto rimarcato da svariati ed autorevoli studiosi –
anche da noi il giudice assolve ad una funzione in qualche modo creatrice del
diritto. E lo stesso vale per la dottrina ed la tradizione giuridica, che si
pongono sovente alla base di sentenze e di leggi, ma che, a loro volta, come
rilevava Roscoe Pound, vengono utilizzate proprio per criticare quelle stesse
decisioni e quelle stesse normative.
Forse, spingendosi ancora più in là si potrà osservare
che, a ben vedere, anche negli ordinamenti continentali può ritenersi valida la
constatazione di Benjamin Cardozo secondo cui, alla fin fine, l’ordinamento
giuridico consiste in nient’altro che «principles of order revealing themselves
in uniformities of antecedents and consequents»; quando le situazioni di
uniformità, continuava il grande giudice e giurista americano, «sono
sufficientemente costanti da diventare prevedibili con ragionevole certezza,
diciamo che quella è la legge». Rimane il fatto che tra i due sistemi esistono
divari notevolissimi sul piano degli strumenti e dei modi concreti attraverso i
quali la «legge» (da qualunque fonte essa provenga) tenta di trasformarsi in
«giustizia».
In questa schematica riflessione ho
cercato di dimostrare come i punti di maggior distanza vadano registrati nel
profilo, per così dire, ordinamentale dell’ «essere giudice», e, su di un piano
più generale, dell’ «essere giurista», teorico o pratico, in tutti i suoi
risvolti, per le ragioni storiche, sociali e culturali che ho tentato (e per
tante altre che non ho avuto il tempo) di indicare. In questa prospettiva
ricadono naturalmente anche le considerazioni sulla non trasponibilità del
sistema del «notariato» di common law
nel sistema continentale e sui più rigidi limiti che da questa parte
dell’Atlantico e della Manica devono caratterizzare i poteri del giudice nella
sua opera di interpretazione-creazione del diritto.
Posizioni più ravvicinate possono riscontrarsi invece
nel campo del rito civile, in relazione al quale utili indicazioni e
suggerimenti potrebbero – a mio sommesso avviso – venire da quella chiara
propulsione verso un maggior «interventismo» del giudice che, come si è
illustrato, sta caratterizzando la più recente fase evolutiva delle procedure
di common law. Una propulsione che,
se riceve adeguata conferma dalle riforme continentali attuate ormai diversi
anni or sono in Francia e più recentemente in Spagna, si scontra invece
duramente con il clima italico, caratterizzato, da un lato, da una crescente
diffidenza nei riguardi dei poteri del giudice e, dall’altro, da una montante
influenza del ceto forense, o per lo meno di quei suoi settori che, al di là
delle declamazioni verbali, concretamente spingono per una moltiplicazione ad infinitum delle regole che ingessano
il processo civile, nonché per una smodata proliferazione di riti alternativi,
procedure, sub-procedure e voies de
recours.
Ma è forse sul qui più volte citato
piano del diritto civile sostanziale dei rapporti patrimoniali nella famiglia,
vuoi legittima, vuoi di fatto, che lo spunto (e… le spinte) dei sistemi di common law verso una maggior
liberalizzazione tramite l’esaltazione dell’autonomia privata possono e debbono
trovare accoglimento. Ciò, soprattutto, per dare più adeguata risposta ai
problemi concreti di una società anche da noi in perenne movimento. Già in
altra occasione ho avuto modo di sottolineare come l’evoluzione che, nel breve
volgere di pochi anni, ha portato i giudici americani ad ammettere la validità
degli accordi prematrimoniali in
contemplation of divorce – evoluzione essenzialmente basata
sull’introduzione del principio del no
fault divorce – ben possa servire d’esempio ad un sistema nel quale pure il
tradizionale principio della colpa nella crisi coniugale ha subito un drastico
ridimensionamento. E qui ho ripetuto che la preventiva pattuizione delle
condizioni della separazione e del divorzio non può in alcun modo essere
presentata come una «novità» nei sistemi di civil
law, rispondendo a regole già proprie del diritto romano e costantemente
presenti in molte realtà normative del nostro continente. Ma proprio
l’esaltazione della libertà contrattuale, questa «stagione della negozialità»,
cui facevo riferimento sopra, potrà trovare più adeguata realizzazione, fugando
altresì i dubbi che da più parti si sono levati su possibili rischi che
correrebbero le parti contrattualmente più deboli, grazie all’aiuto e al
coinvolgimento di una figura «terza» e dotata di adeguata preparazione
professionale, quale quella del notaio latino, che da noi ben potrebbe
incarnare quell’independent legal advice
cui molte corti e molti acts di common law subordinano la validità dei prenuptial agreements.
Entro questi limiti e con queste precisazioni, dunque,
anche nell’ottica del giudice può e deve tenersi conto di alcune delle
evoluzioni in atto nei sistemi di common
law, le quali ci potranno fornire utili spunti di riflessione per far sì
che s’adempia compiutamente quell’auspicio di Roscoe Pound, sicuramente valido
sotto tutti i soli, secondo cui «The law must be stable and yet it must not
stand still».
(*) Testo della relazione presentata al forum sul tema:
«Civil law – Common law. Sviluppo economico e certezza giuridica nel confronto
tra sistemi diversi», svoltosi a Pesaro il 18 settembre 2005 nell’ambito del
XLI Congresso Nazionale del Notariato.