TRUST
E AUTONOMIA NEGOZIALE
NELLA FAMIGLIA*
«The trust is not a metaphysical
entity». Oliver Wendell Holmes, in Landram v. http://caselaw.lp.findlaw.com/cgi-bin/getcase.pl?court=us&vol=203&invol=56 |
Sommario: 1. Una «stagione della
negozialità» per coniugi e conviventi. – 2. Famiglia
legittima, famiglia di fatto e trust di
creazione giudiziale nei sistemi di common
law. – 3. Il
dibattito sull’ammissibilità di un trust «interno». Brevi cenni (e persistenti
dubbi). – 4. Trust e dote. Operatività ed estensione del
divieto di cui all’art. 166-bis
c.c. – 5. Trust e dote. Un caso pratico piuttosto singolare. – 6.
Trust e altri limiti
all’autonomia negoziale dei coniugi in sede di stipula delle convenzioni
matrimoniali (in particolare quelli di cui agli artt. 160 e 161 c.c.). – 7. Sui rapporti fra trust, convenzione
matrimoniale e regime patrimoniale (in particolare sull’applicabilità
all’atto costitutivo di un trust fra coniugi degli artt. da |
1. Una «stagione
della negozialità» per coniugi
e conviventi.
Il dibattito sul ricorso ai trusts nel campo
dei rapporti familiari si inserisce in quella «stagione della negozialità» che
da tempo sta progressivamente interessando la famiglia italiana. Il passaggio,
invero, dalla «concezione istituzionale» [1] alla «concezione costituzionale» della famiglia [2], ha spianato la via ad una nozione di negozio
giuridico familiare cui è possibile applicare (in difetto di speciali deroghe
normative) la disciplina generale dettata dal codice per il contratto, secondo
quell’insegnamento di Francesco Santoro-Passarelli [3] che può ormai dirsi recepito anche dalla
giurisprudenza. Quest’ultima, per esempio, riconosce da tempo il carattere
negoziale dell’accordo di separazione personale, di quello di divorzio su domanda
congiunta, nonché di quelle particolari intese di carattere patrimoniale
concluse in sede, in occasione, o anche solo in vista della separazione
personale, della separazione di fatto, del divorzio o dell’annullamento del
matrimonio, già qualificate dallo scrivente come «contratti della crisi
coniugale» [4].
Lo stesso vale per gli accordi costituenti il
«contenuto eventuale» [5] dell’accordo di separazione consensuale, laddove
nemmeno la dottrina sembra ormai più dubitare della natura non solo negoziale,
bensì addirittura contrattuale di questi atti, allorquando gli stessi (come per
lo più accade) abbiano ad oggetto prestazioni di carattere patrimoniale [6]. Anche qui l’art. 1322 c.c. ha ricevuto concreta
applicazione in un’innumerevole serie di casi che hanno portato il «diritto
vivente» a determinare, in nome del principio dell’autonomia privata (sovente
espressamente menzionato nelle motivazioni delle decisioni), una vera e propria
dilatazione dell’usuale contenuto dell’accordo di separazione, ben al di là di
quegli angusti limiti in cui alcuni autori lo avrebbero voluto inquadrare [7]: si è così deciso, per esempio, in relazione ad una
complessa pattuizione transattiva di tutti i rapporti nati dal vincolo
coniugale, che l’accordo dei coniugi sottoposto all’omologazione del tribunale
ben può contenere rapporti patrimoniali anche «non immediatamente riferibili,
né collegati in relazione causale al regime di separazione o ai diritti ed agli
obblighi derivanti dal matrimonio» [8]. L’affermazione della negozialità tra coniugi (in
crisi e non) è giunta al punto che non destano neppure più stupore,
nell’osservatore della giurisprudenza di legittimità, affermazioni del genere
di quella secondo cui «i rapporti patrimoniali tra i coniugi separati hanno
rilevanza solo per le parti, non essendovi coinvolto alcun pubblico interesse,
per cui essi sono pienamente disponibili e rientrano nella loro autonomia
privata» [9].
In un crescendo che conosce ormai ben poche battute
d’arresto [10] si sono così fondati i rapporti personali e
contributivi dei coniugi sulla regola dell’accordo [11], si è consolidata la tesi della natura contrattuale
delle convenzioni matrimoniali [12], si è ammessa una rimarcabile sfera di autonomia con
riguardo ai regimi patrimoniali [13], si è concessa la più ampia libertà negoziale nei
momenti salienti che caratterizzano il fenomeno della crisi coniugale [14], mentre, sul versante della famiglia di fatto, si è
venuta affermando la validità dei contratti di convivenza e, più in generale,
di tutte le intese patrimoniali in seno al rapporto more uxorio, purché
rispettose dei canoni previsti per il contratto in generale [15]. Ciò, del resto, conformemente a un’evoluzione che
sta caratterizzando le legislazioni di ogni parte d’Europa, se è vero come è vero
che proprio nella direzione della negozialità e non certo in quella
dell’imposizione di effetti giuridici conseguenti alla sola sussistenza del ménage
de fait, si muovono le soluzioni normative che di recente, in vari paesi
del nostro continente, si sono prefissate di affrontare e risolvere i problemi
giuridici posti dalle convivenze omo- ed eterosessuali. Questa stessa
impostazione sembra ormai destinata a lasciare tracce sempre più profonde anche
nella normativa sovranazionale [16].
Volgendo nuovamente lo sguardo alla situazione
italiana, possiamo infine aggiungere che, quale coronamento della descritta
evoluzione, è stata riconosciuta, da parte del nostro stesso Legislatore,
l’esistenza della categoria dei «contratti disciplinati dal diritto di famiglia»
[17], a conferma della praticabilità di un accostamento –
quello, per l’appunto, tra contratto e famiglia – che ancora sino a non molto
tempo fa poteva apparire ardito. In questo scenario non poteva dunque non porsi
anche la questione dei rapporti con uno strumento come il trust, che
costituisce per eccellenza espressione dell’autonomia dei privati [18].
2. Famiglia legittima, famiglia di fatto e trust di creazione giudiziale nei sistemi di common law.
E’
da notare, prima di tutto, che il trust rappresenta proprio uno di quei
terreni su cui, nei paesi di common law, famiglia legittima e famiglia
di fatto sono venute più spesso ad incontrarsi, così dimostrando, una volta di
più, d’essere null’altro che due facce di una stessa medaglia: «pile et face –
come icasticamente messo in luce da una attenta sociologa della famiglia –
d’une même contractualisation des rapports privés» [19].
Nella giurisprudenza inglese, infatti, il trust
è stato impiegato per risolvere problemi sostanzialmente di arricchimento
ingiustificato derivante dal fatto che nel corso della convivenza (matrimoniale
o meno) di due persone si siano acquistati beni «intestati» ad una sola di
esse, ma al cui acquisto abbia in qualche modo contribuito anche l’altra,
mediante prestazioni consistenti vuoi in un dare (si pensi alla consegna
di una somma di denaro, o di un bene da offrire in permuta, o al pagamento del
prezzo d’acquisto), vuoi in un facere (si pensi ai lavori di costruzione
o di restauro di immobili eseguiti dall’uno sul fondo dell’altro). La soluzione
escogitata al riguardo consiste proprio nell’applicazione dell’istituto del trust,
che consente di riconoscere nei casi suddetti l’esistenza, in capo al soggetto
«pretermesso», di un beneficial interest su singoli cespiti (si tratta
per lo più della casa d’abitazione) acquistati dall’altro e a questi
«intestati». L’espediente è agevolato dal fatto che, nel common law,
esiste un principio generale in base al quale, allorquando un certo bene viene
acquistato formalmente da un soggetto diverso da colui che ha fornito il denaro
necessario per l’acquisto, la beneficial ownership «risulta» in favore
di quest’ultimo (c.d. «presumption of resulting trust») [20].
Il campo di applicazione privilegiato di questa regola
è costituito dai rapporti tra conviventi more uxorio, in relazione ai
quali è necessario accertare che l’acquisto sia avvenuto (anche o
esclusivamente) per effetto del contributo (in denaro o in lavoro) del
«convivente debole» e che era comune intenzione delle parti attribuire tale interest
al convivente non titolare del bene acquistato [21]. Questa intenzione, e dunque l’esistenza di un trust,
ove non esplicitamente ammessa dal legal owner, può essere desunta dalla
condotta delle parti.
La stessa regola è stata estesa anche al caso di financial
contribution parziale per l’acquisto di determinati beni, come la casa
d’abitazione [22]. In tale ipotesi, alla parte che ha contribuito viene
riconosciuto un beneficial interest proporzionato al valore del suo
contributo rispetto al prezzo d’acquisto [23]. La giurisprudenza ha poi fatto applicazione del
principio attribuendo un beneficial interest al partner che aveva
con denaro proprio estinto alcuni ratei di un mutuo per l’acquisto della casa
dell’altro [24], così come – secondo un’intuizione di Lord Denning –
a quello che aveva fornito una direct contribution by labour [25], o, ancora, aveva anticipato parte del denaro
necessario all’effettuazione della ristrutturazione o del restauro della casa
in cui si svolgeva la convivenza [26].
Peraltro, in questi due ultimi casi Lord Denning
raggiunse tale risultato non già desumendo dal comportamento delle parti la
sussistenza di un accordo sul (resulting)
trust, ma facendo derivare
quest’ultimo direttamente dall’equity,
in base a un principio che lo stesso giudice aveva già seguito in una causa
precedente, relativa ad una famiglia fondata sul matrimonio. Qui una vedova
aveva corrisposto al genero una somma di denaro per realizzare un ampliamento
della casa di quest’ultimo (si trattava dell’aggiunta di una camera da letto),
in vista di un definitivo suo trasferimento presso la famiglia della figlia,
ma, dopo quindici mesi di convivenza, essendo insorti dei contrasti, aveva
mutato idea, chiedendo un indennizzo per l’esborso affrontato [27]. L’istituto in esame prende il nome di constructive trust. Esso viene
comunemente definito come un rimedio di equity
in base al quale il giudice può porre riparo a una situazione di ingiustificato
arricchimento di una parte ai danni dell’altra [28]. Il legame tra constructive
trust, equity e unjust enrichment
è tanto profondo da indurre uno dei più autorevoli giuristi americani della
metà del secolo scorso ad affermare che «By all odds the most important
contribution of equity to the remedies for prevention of enrichment is the
device we all know as the constructive trust» [29].
Questo stesso rimedio è alla base della soluzione del
caso Grant v. Edwards, in cui il convivente aveva proceduto da solo
all’effettuazione dell’acquisto della casa di abitazione, prospettando
falsamente alla donna l’eventualità che, nel caso di cointestazione
dell’immobile, quest’ultima avrebbe potuto essere almeno in parte rivendicata
dal marito di lei, con il quale essa aveva in corso la causa di divorzio. La Court
of Appeal concesse alla donna una quota di proprietà sull’immobile
corrispondente alla metà in considerazione del fatto che questa aveva fatto
affidamento sulla falsa dichiarazione del partner, sebbene la stessa non
avesse versato neppure in parte il prezzo del bene. Peraltro la convivente
aveva pagato una parte dei ratei di mutuo, aveva partecipato alle spese di
gestione dell’immobile, aveva svolto prestazioni di lavoro ed aveva allevato i
figli. La
Corte stabilì in proposito che per affermare l’esistenza di un trust nei
casi del genere di quello in esame sono necessari due elementi: «If the legal
estate in the joint home is vested in only one of the parties (the legal owner)
the other party (the claimant), in order to establish a beneficial interest,
has to establish a constructive trust by showing that it would be inequitable
for the legal owner to claim sole beneficial ownership. This requires two
matters to be demonstrated: (a) that there was a common intention that both
should have a beneficial interest; (b) that the claimant has acted to his or
her detriment on the basis of that common intention». La Corte individuò dunque la presenza di
questo secondo elemento nel contributo di fatto fornito dalla donna, mentre derivò dall’affermazione dell’uomo – secondo cui il
motivo che avrebbe impedito la cointestazione sarebbe stato rappresentato dal
rischio di pretese del marito nel processo di divorzio – e dal conseguente
affidamento della donna su quella dichiarazione l’«evidence of a common
intention that Mrs Grant should have beneficial interest (a half share) in the
property», così finendo con il valorizzare proprio quell’ «elemento negoziale»,
relativo ad una sorta di accordo implicito, che Lord Denning aveva invece
chiaramente voluto porre in secondo piano [30].
Nel caso Burns v.
Burns [31], di poco precedente, la
stessa Court of Appeal rigettò, invece, la domanda della ex convivente
che, pur non avendo contribuito direttamente all’acquisto della casa compiuto
dal solo uomo, aveva allevato la prole, eseguito i lavori domestici e
contribuito a delle spese di manutenzione e di arredamento. In tale fattispecie la Corte decise che alla donna non spettava alcun beneficial
interest sulla casa, «in the absence of a financial contribution which
could be related to the acquisition of the property, for example to the
mortgage repayments». L’elemento
dell’accordo implicito tra le parti, ovvero della promessa di un convivente –
ancorchè non formalizzata – su cui l’altro ha fatto affidamento, riemerge in Hammond v.
Mitchell. Nella specie, alla convivente venne attribuita una quota pari alla
metà della casa acquistata dall’uomo in costanza di rapporto, anche in assenza
di un contributo all’acquisto da parte della prima, avuto riguardo al fatto che
l’uomo le aveva testualmente dichiarato «I’ll have to put the house in
my name because I have tax problems due to the fact that my wife burnt all my
account books and my caravan was burnt down with all the records of my car
sales in it. The tax man would be interested, and if I could prove
my money had gone back into a property I’d be safeguarded» e «Don’t worry about
the future because when we are married it will be half yours anyway and I’ll
always look after you and [the boy]» [32].
Proprio questa dicotomia tra rationes decidendi ha portato a proporre di distinguere tra constructive trusts automatici e altri
discrezionali: i primi fondati sull’intenzione comune, i secondi visti invece
quale mezzo di tutela dell’Equity,
ciò che, come esattamente osservato, potrebbe aiutare a porre ordine in un
campo che negli ultimi anni si è singolarmente affollato [33]. A completare il quadro, invero, talora compare anche
l’implied trust, che, a somiglianza
del resulting, viene ritenuto
esistente sulla base del comportamento delle parti, come implicitamente voluto
dalle medesime. La stessa dottrina inglese ammette peraltro che resulting, constructive e implied trust «are not easy to
distinguish» [34] e su ciò concorda la dottrina italiana [35]. Il constructive
trust è stato poi con successo esportato anche in altri sistemi di common law, come, per esempio, in Nuova
Zelanda e in Canada [36], nonché, dopo talune esitazioni [37], anche in Australia. Così, per esempio, in Green v. Green [38] il trust venne riconosciuto nel Nuovo Galles del Sud al fine di supplire
alla inapplicabilità del De Facto Relationships Act (1984) alle
peculiarità del singolare caso concreto, in cui «a man died in Sydney, leaving
behind (it was then discovered), one wife, two de facto partners, and seven
children. One of the de facto partners, the mother of two of his children, had
been brought by the man to Australia from Thailand at the age of 13 or 14, and
provided by him with accommodation where he used to visit her» [39]. Nella più recente Carruthers v. Manning [40],
Sotto il profilo comparatistico sarà interessante
notare che in Italia, così come del resto in tutti gli ordinamenti di matrice
romanistica, non sembra invece possibile riconoscere all’autore dei contributi
in oggetto una qualche forma di partecipazione all’acquisto operato dalla controparte.
Invero, il nostro sistema, che pur conosce l’istituto della proprietà
fiduciaria [41], non ne può ammettere una costituzione in via
implicita, sulla base del comportamento delle parti e dei loro reciproci
rapporti, ma presuppone sempre una chiara manifestazione di volontà,
effettuata, per i trasferimenti immobiliari, nelle forme prescritte dalla legge
[42]. Del resto, appare quanto mai significativo che, per
pervenire a conclusioni non molto dissimili rispetto a quelle del case law
d’Oltremanica, dottrina e giurisprudenza francesi e tedesche debbano ricorrere
ad una di quelle situazioni in cui la legge ammette l’insorgere d’un rapporto
negoziale rebus ipsis et factis, quale è la società (civile) di fatto,
laddove l’inutilizzabilità di tale rimedio in Italia sbarra inesorabilmente
l’accesso a strumenti che consentano di raggiungere una tutela sul piano
«proprietario» del soggetto (coniuge o convivente che sia) che abbia effettuato
una prestazione di dare o di facere del genere di quelle sopra
indicate [43].
3. Il dibattito sull’ammissibilità di un trust «interno». Brevi cenni (e persistenti dubbi).
Che il trust di origine giudiziale sia un
fenomeno difficilmente «esportabile» in sistemi di civil law è stato ben
compreso dai redattori della Convenzione internazionale dell’Aja del 1985 [44], al punto da prevederne una esplicita esclusione dalla sfera di operatività di tale
strumento internazionale [45]. Per questo i trusts di cui deve
principalmente occuparsi lo studioso italiano sono quelli di fonte negoziale. Peraltro,
la costituzione in Italia per via negoziale di un trust a beneficio di
una famiglia – vuoi legittima, vuoi di fatto – pur in assenza di un qualsiasi
elemento di estraneità (che non sia quello della legge scelta dalle parti),
appare immaginabile solo a condizione che si fornisca alla convenzione dell’Aja
del 1985, ratificata con l. 16 ottobre 1989, n. 364 (entrata in vigore il 1°
gennaio 1992) [46], una lettura tale da consentire di ritenere
autorizzata la creazione di trusts «interni», superando le pur numerose
e gravi perplessità sollevate in dottrina e in giurisprudenza. Si pensi – a
tacer d’altro – ai problemi posti dai rapporti con il disposto dell’art. 2740
c.c., con il principio del numerus clausus dei diritti reali, con quello
della tassatività delle ipotesi in cui è consentito creare enti dotati di
autonomia patrimoniale, con quello della tassatività delle fattispecie soggette
a trascrizione, o al profilo di un’eventuale antiteticità rispetto all’art.
2744 c.c., in relazione alla possibilità di costituire, tramite trust,
nuovi meccanismi di garanzia, alla potenziale frizione con i principi del
nostro sistema successorio, pur nell’àmbito delle clausole c.d. di salvaguardia
di cui agli artt. 15 e ss. della Convenzione: si pensi, in particolare, al
divieto dei patti successori [47] e di sostituzione fedecommissaria [48], all’inapponibilità di pesi e condizioni sulla
legittima e, più in generale, alle norme a tutela della successione necessaria [49].
Questi temi hanno,
come noto, scatenato furibondi dibattiti dottrinali, sui quali – attesa anche
la sconfinata quantità di contributi al riguardo [50] – non è possibile in questa sede soffermarsi [51]. Basti solo dire, che, a ben vedere, la vera
difficoltà sembra essere quella di estrapolare da norme tipicamente di conflitto,
quali quelle di cui alla citata convenzione dell’Aja, una regola di diritto
interno, applicabile ai casi in cui non siano prospettabili collisioni tra
diversi ordinamenti [52]. In proposito sarà sufficiente ricordare, a conferma
dei dubbi sull’accettabilità della tesi che asserisce la validità dei trusts
«interni», che proprio quei lavori preparatori della Convenzione cui i fautori
di tale opinione fanno richiamo [53] contengono, in realtà, il chiaro riferimento al potere
del giudice di dichiarare la nullità di un trust «parce qu’il estime
qu’il s’agit d’une situation interne» [54].
Del resto, proprio
dall’ambito del diritto internazionale privato, da cui la Convenzione dell’Aja
proviene, sembra potersi estrapolare la regola generale che fa divieto ai
privati di scegliere a loro arbitrio la legge che disciplinerà i loro rapporti,
in assenza di un elemento di estraneità, che pertanto non può essere costituito
dalla sola legge dalle stesse parti indicata. Al riguardo va detto che, se è
vero che la Convenzione di Roma del 1980 sulla legge applicabile alle
obbligazioni contrattuali stabilisce, all’art. 3, che «il contratto è regolato
dalla legge scelta dalle parti», è altrettanto vero che l’art. 1 della citata
Convenzione delimita espressamente il campo d’applicazione della medesima alle
sole «obbligazioni contrattuali nelle situazioni che implicano un conflitto di
leggi», mentre il terzo comma dell’art. 3 cit. impedisce espressamente alle
parti di derogare alle disposizioni imperative dell’ordinamento cui «nel momento della scelta tutti gli altri dati di fatto si
riferiscano». La scelta non potrà dunque sortire
l’effetto di eludere l’applicazione delle norme cogenti (si badi: quelle
cogenti e non solo quelle di ordine pubblico) del paese con cui il contratto è
collegato in via esclusiva, proprio al fine di evitare che i soggetti di un
rapporto giuridico privo di elementi di estraneità possano sfuggire
all’applicazione delle norme imperative attraverso la designazione di una legge
straniera.
A ciò s’aggiunga che nemmeno l’argomento [55] fondato sulla disparità di trattamento ingenerata
dalla soluzione che non ammette il trust «interno» rispetto alle
situazioni caratterizzate da un obiettivo elemento di estraneità (nelle quali
non vi è dubbio che la validità del trust debba essere riconosciuta)
appare del tutto convincente. Sembra infatti a chi scrive che scopo delle norme
di diritto internazionale privato sia (e si perdoni l’apparente paradosso)
proprio quello di creare disparità di trattamento, al fine di adattare
la soluzione alle peculiarità di una fattispecie obiettivamente caratterizzata
da elementi di estraneità e dunque obiettivamente diversa da quella in cui tali
elementi di estraneità sono assenti. In altre parole, è proprio l’eventuale
presenza di elementi di estraneità «oggettivi» (e dunque distinti dal mero
capriccio delle parti) ad imporre (ai sensi del secondo, anziché del primo
comma, dell’art. 3 Cost.) un trattamento differenziato di situazioni
obiettivamente diversificate. D’altro canto, sarà sufficiente riflettere sul
fatto che l’argomento fondato sulla disparità di trattamento, ove spinto alle
sue estreme conseguenze, porterebbe puramente e semplicemente all’inaccettabile
risultato di una declaratoria di incostituzionalità di tutte le norme di
diritto internazionale privato [56].
4. Trust e dote. Operatività ed estensione del divieto
di cui all’art. 166-bis c.c.
Dal momento che, come si è appena detto, una parte
consistente della dottrina e della giurisprudenza italiane danno per scontata
(ancorché, a sommesso avviso dello scrivente, non sia ancora stata del tutto
persuasivamente dimostrata) la soluzione positiva all’interrogativo circa
l’ammissibilità di trusts «interni», varrà comunque la pena affrontare
alcuni problemi che, in ogni caso, vengono a coinvolgere la figura del trust,
anche nelle ipotesi di sicura ed incontestabile applicabilità delle norme della
Convenzione dell’Aja, vale a dire allorquando ci si trovi di fronte a
situazioni caratterizzate dalla presenza di elementi di estraneità diversi dal
mero capriccio delle parti.
In proposito occorre
tenere presente che, nello specifico settore dei rapporti personali e
patrimoniali tra coniugi (e con la prole), l’art. 15 della citata Convenzione
stabilisce che «La Convention ne fait pas obstacle à l’application des
dispositions de la loi désignée par les règles de conflit du for lorsqu’il ne
peut être dérogé à ces dispositions par une manifestation de volonté, notamment
dans les matières suivantes: a) la protection des mineurs et des incapables; b)
les effets personnels et patrimoniaux du mariage». Si è chiarito in dottrina che, ai sensi di questa
disposizione, la legge del trust cede
non alla legge del foro (protetta dagli artt. 16 e 18), ma alle disposizioni
della legge, straniera o meno, indicata dalle regole di conflitto del foro [57]. Per converso, non sembra condivisibile quanto
affermato in dottrina circa il fatto che la norma non riguarderebbe il
riconoscimento del trust, bensì
soltanto l’esecuzione di una o più fra le disposizioni dell’atto istitutivo [58]. Invero, è lo stesso rapport
explicatif della Convenzione a chiarire che la disposizione mira ad evitare
che «les clauses d’un trust, ou certaines dispositions de la loi qui le
régissent, soient incompatibles avec la loi applicable à une autre matière
selon les règles de conflit du for» [59].
Orbene, nel caso di specie, le regole di conflitto
italiane, in materia di rapporti patrimoniali tra coniugi, designano in primo
luogo, quale legge applicabile, quella «nazionale comune» (cfr. art. 30, l. 31
maggio 1995, n. 218, che rinvia in parte
qua all’art. 29), ponendo poi una complessa serie di regole destinate ad
entrare in vigore in presenza di un elemento di estraneità. Partendo dunque dal
presupposto che la coppia coniugata sia composta da due cittadini italiani, è
alle norme imperative dettate dal codice
civile italiano in tema di rapporti patrimoniali tra coniugi che andrà fatto
riferimento. Al riguardo – fermo restando il principio di libertà di
costituzione di regimi patrimoniali atipici, strettamente connesso alla natura
contrattuale delle convenzioni matrimoniali [60] – il nostro ordinamento prevede limiti all’autonomia
negoziale nelle disposizioni di carattere generale contenute agli artt. 160,
161, 162 e 166-bis. A tali ostacoli
vanno ancora aggiunti quelli stabiliti in relazione a ciascuno dei tipi di
convenzione: il caso più evidente è quello contemplato dall’art. 210, 3° co.,
c.c., in cui il legislatore menziona espressamente il carattere inderogabile di
determinate disposizioni in materia di comunione legale [61]. Tra questi principi andrà preso, innanzi tutto, in
esame quello che pone il divieto di costituzione, sotto ogni forma, di beni in
dote (art. 166-bis c.c.), con riguardo al quale la dottrina concorda
nell’affermare che la regola in esame pone uno specifico limite all’autonomia
negoziale dei coniugi in sede di pattuizione delle convenzioni matrimoniali [62], diretto ad impedire, attraverso il collegamento con
gli artt. 1344 e 1418 c.c., che l’effetto proprio della dote venga realizzato
attraverso un contratto in frode alle legge [63].
Il principale problema interpretativo é quello di
identificare il significato attuale del termine «dote», atteso che esso, nel
sistema previgente alla riforma del 1975, era collegato ad un dato formale
(l’art. 177 c.c. presupponeva infatti un apporto effettuato dalla moglie o da
altri per essa «espressamente a questo titolo») che oggi non esiste più [64]. Per tentare di fornire una risposta
all’interrogativo occorre, prima di tutto, tenere presente che, con la dote, la
moglie, od altri per essa, apportavano al marito, all’espresso titolo di dote,
beni mobili o immobili, al fine di sostenere gli oneri dei matrimonio (art. 177
abr.). Se si trattava di dote di specie, i beni restavano di proprietà della
moglie o del terzo mentre, nel caso di dote di quantità, il marito ne diveniva
proprietario, restando debitore della restituzione del tantundem (art.
182 abr.). L’amministrazione dei beni e la percezione dei frutti competevano
soltanto al marito (art. 184 abr.), fino al punto che, in caso di lontananza o
di altro impedimento di questi, la moglie, per poter amministrare i beni,
doveva chiederne l’autorizzazione al tribunale (art. 185 abr.). I beni dotali
erano sottoposti a vincolo di relativa indisponibilità e di impignorabilità [65].
Ma quale delle caratteristiche appena delineate può
apparire tale da consentire di individuare, oggi come oggi, in un atto di
attribuzione patrimoniale gli estremi di quella che fu un tempo la dote?
In proposito si è affermato che, se si intende
attribuire un senso compiuto all’art. 166-bis
c.c., occorre individuare la dote nella figura di un diritto il cui scopo sta
nel potere o nella potestà di comando o nel privilegio di un coniuge [66], ma a tale impostazione si è obiettato che, se la ratio fosse quella indicata, il motivo
della proibizione legislativa si sarebbe potuto agevolmente superare
attribuendo l’amministrazione dei beni dotali ad entrambi i coniugi, come in
effetti si è fatto con il fondo patrimoniale [67]. Si è pertanto proposto di identificare il concetto
di dote con quello di apporto cui si attribuisca il valore di corrispettivo,
«di indennizzo per aver preso in moglie l’altra metà» [68]. In quest’ottica, dunque, il divieto colpirebbe il
solo apporto ex latere mulieris, conformemente all’impostazione di chi,
in tempi più recenti, ha ammesso l’ipotizzabilità di un divieto, per così dire,
asimmetrico, che colpisca, in quanto fortemente sospetti, i soli contributi di
parte femminile, e resti, invece, del tutto indifferente di fronte a quelli di
parte maschile [69].
La conclusione non pare però accettabile. Gli artt. 3
e 29 Cost. parlano chiaramente contro ogni forma di discriminazione fondata sul
sesso, mentre la tentazione di ricorrere al capoverso dell’art. 3 Cost. va
rigettata sulla base della constatazione che l’evoluzione dei costumi e
l’emancipazione femminile di questi ultimi decenni non sembrano consentire più
(almeno in questo campo) alcuna forma di… affirmative action
all’italiana [70]. Per evitare sospetti di illegittimità
costituzionale, bisogna dunque innanzi tutto pensare che il divieto si
riferisca ad apporti non solo provenienti dalla moglie, bensì anche dal marito [71].
Nemmeno le altre soluzioni prospettate in dottrina
appaiono esenti da critiche. Così non può certo ritenersi costituire dote ogni
convenzione volta ad apportare o vincolare beni della moglie (o del marito) sol
perché diretta ad sustinenda onera
matrimonii, atteso che l’art. 167 c.c. prevede espressamente che ciascun
coniuge possa destinare beni determinati «a far fronte ai bisogni della
famiglia» [72]. Né si può pensare che l’elemento essenziale della
dote risieda nell’obbligo della restituzione dei beni all’atto dello scioglimento
del matrimonio [73]: invero, a parte che, nel previgente sistema, tale
principio poteva subire tutta una serie di eccezioni [74], rimane il fatto che l’idea di un «apporto» la cui
durata sia commisurata a quella di svolgimento del rapporto coniugale non sembra
poi così aliena al nostro ordinamento, come dimostrato dalla circostanza che il
vincolo derivante dal fondo patrimoniale cessa (almeno tendenzialmente: cfr.
art. 171 c.c.) all’atto dello scioglimento del matrimonio. Né, infine, può
affermarsi che il divieto ex art.
166-bis varrebbe ad interdire ogni
convenzione tendente ad un accrescimento temporaneo del patrimonio di un
coniuge «in corrispettivo della liberazione, in tutto o in parte, del coniuge
conferente, dall’obbligo di contribuzione ai pesi del matrimonio» [75]: da un lato, infatti, i coniugi ben possono adempiere
al dovere di contribuzione proprio «ponendo a disposizione della famiglia
determinati beni» [76], dall’altro, ogni eventuale accordo diretto a
derogare alla fondamentale regola posta dall’art. 143 c.c. è nullo perché già
vietato dall’art. 160 c.c., senza che si renda con ciò necessario «scomodare»
l’art. 166-bis.
In definitiva, non rimane che ribadire la correttezza
dell’impostazione prevalente, che ritiene vietata, per effetto della norma in
commento, la stipulazione di convenzioni che attribuiscano ad un coniuge –
indipendentemente dal fatto che sia il marito o la moglie – una posizione di
supremazia rispetto all’altro, conferendogli il potere di amministrare e
gestire beni nei confronti dei quali egli non vanti alcun diritto reale [77]. La conclusione, anziché essere smentita dalla figura
del fondo patrimoniale, ne riceve conferma: il legislatore, nel momento in cui
ha deciso di abrogare la dote per ragioni essenzialmente storico-ideologiche,
si è visto costretto a far confluire nel solo istituto del fondo patrimoniale
quello che si è felicemente definito come il «momento contributivo» [78]. Peraltro, in considerazione del principio della
libera stipulabilità di convenzioni atipiche, era necessario impedire che la
«messa a disposizione» di beni ad onera
matrimonii ferenda potesse avvenire per mezzo di accordi diversi da quelli
disciplinati dagli artt. 167 ss. c.c. e che mirassero a ricreare pattiziamente
quegli stessi poteri di disposizione, gestione ed amministrazione su beni di
proprietà esclusiva dell’altro coniuge, che erano previsti dagli artt. 184 ss.
c.c. nella formulazione precedente alla riforma del 1975.
Ciò premesso, appare piuttosto evidente come, tramite
il ricorso al trust, si potrebbe dar luogo ad apporti patrimoniali di
provenienza di un coniuge (o della sua famiglia), nella veste di costituente,
in favore dell’altro (nella veste di trustee), con conferimento di
potere di amministrazione esclusivo in capo a quest’ultimo, con vincolo di utilizzo
e destinazione ad onera matrimonii ferenda, con divieto di alienazione
dei cespiti «segregati» ed obbligo di restituzione per il caso di separazione
legale o scioglimento del vincolo matrimoniale. Tramite il ricorso allo
strumento in esame si potrebbero porre in essere attribuzioni patrimoniali
caratterizzate dalla compresenza di tutti quei connotati caratteristici della
dote che – come si è appena detto – la dottrina ha di volta in volta
individuato [79]. In questa fattispecie appare difficilmente contestabile
l’operatività, anche in relazione ad un ipotetico trust «interno», della
norma codicistica citata, proprio per effetto del rinvio di cui all’art. 15,
lett. b), della Convenzione dell’Aja alle disposizioni inderogabili relative
agli «effets personnels et patrimoniaux du mariage», disposizioni inderogabili,
tra le quali dovrebbe sicuramente rientrare anche l’art. 166-bis c.c. nel caso in cui, come si è
detto, entrambi i coniugi siano cittadini italiani, ovvero ogni qualvolta, per
effetto dell’art. 30, l. n. 218/1995, debba applicarsi la legge italiana.
Né, ad avviso dello scrivente, potrebbe farsi richiamo al
carattere essenzialmente unilaterale del negozio istitutivo del trust, per lo meno così come
disciplinato nel suo sistema di nascita, per derivarne la non applicabilità di
una norma (l’art. 166-bis c.c.)
espressamente riferita alle «convenzioni». Invero, le più approfondite
trattazioni in materia evidenziano come – a parte la questione della dinamica
contrattuale esistente nel mondo dei trusts
– anche per il diritto inglese dall’accettazione del trustee (ancorché eventualmente in forma implicita) non possa
prescindersi, prevedendo del resto l’equity
procedure per sostituire un trustee
che sia mancato e per nominare un altro trustee
qualora quello indicato dal disponente non abbia accettato [80]. Non vi è dubbio, quindi, che, per diritto italiano,
un accordo che vedesse un coniuge (o un terzo) costituire beni in trust, nominando trustee l’altro, andrebbe qualificato alla stregua di un negozio
bilaterale e dunque di una «convenzione matrimoniale», se diretto alla
creazione di un regime patrimoniale, nel senso che verrà oltre precisato [81].
5. Trust e dote. Un caso pratico piuttosto singolare.
Assai
diverso rispetto alla situazione descritta al § precedente appare il caso di
cui ad un atto istitutivo di trust redatto nel corso dell’anno 2000 da
un notaio fiorentino, relativamente alla fattispecie seguente [82]. In forza di un fedecommesso contenuto in un
testamento cinquecentesco, un certo fondo era stato lasciato a tre discendenti
del testatore allo scopo di impiegarne le rendite per costituire una dote alle
«fanciulle» della famiglia che si fossero maritate o avessero scelto di entrare
in un monastero. La proprietà sarebbe passata via via ai tre componenti più
anziani della famiglia, vincolati (essi e la proprietà) alle medesime finalità.
Nel corso dei secoli, trasferitosi il vincolo su di una somma, il fondo passò,
non senza controversie legali, da un discendente all’altro, sino a quando,
divenuto impossibile perseguire la finalità originaria nella forma ormai
vietata della dote, i tre amministratori furono costretti a dare un assetto
diverso alla fedecommisseria.
Nella
specie i tre costituenti scelgono la forma del trust «autodichiarato»,
limitato soggettivamente – quanto ai beneficiari – alle «fanciulle» che recano
il cognome di famiglia discendenti da un particolare soggetto. I beni in trust
vengono trasferiti su un conto e sotto una posizione titoli intestati al trust
medesimo, che si vuole regolato dalla legge delle isole caraibiche di Turks e
Caicos: scelta obbligata, in quanto solo quella legge prevede trust
senza termine finale di durata, senza imporre al tempo stesso un trustee
residente nel territorio. La giurisdizione è attribuita al giudice italiano.
Vengono poi dettate norme per l’attribuzione della presidenza del trust
e le sue deliberazioni. Il reddito viene accumulato e reinvestito, sino a
quando non si presentino le condizioni per l’attribuzione a una beneficiaria
che si sposi o prenda il velo. E’ regolata la determinazione dell’entità del
beneficio e prevista l’eventualità di una pluralità di beneficiarie.
L’effettiva elargizione alla beneficiaria avverrà con le forme giuridiche
scelte dai trustee, i quali possono sottoporre l’elargizione a vincoli
particolari all’impiego o prevederne la corresponsione in più rate.
Nell’ipotesi di esaurimento del trust per il venir meno dei mezzi o loro
insufficienza la somma residua dovrà essere distribuita in parti eguali tra
tutte le «fanciulle» della famiglia non sposate né fattesi monache.
Al riguardo si è paventata una possibile nullità ex
art. 166-bis c.c., avuto riguardo al fatto che solo le «fanciulle» sono
beneficiarie del fondo, mentre i soli «maschi» della famiglia sono suoi
amministratori e gestori [83]. Peraltro andrà tenuto presente che l’atto non
costituisce, di per sé, beni in dote, e che le finalità del trust
vengono individuate in quelle di «sovvenire le fanciulle della famiglia che si
maritino o prendano il velo monacale», così facendo intendere che destinatarie
delle relative utilità saranno le «fanciulle» e non già i rispettivi mariti
(cfr. del resto l’art. 20.2 ove, viene stabilito testualmente che «qualora una
fanciulla, figlia legittima o naturale, nata dalla famiglia … di … vada sposa o
prenda il velo monacale, i "Trustee" sono tenuti a versarle una
somma, non eccedente il reddito del Trust del precedente triennio, che essi
determinano in piena e assoluta discrezionalità…»), non menzionati nell’atto e
ai quali non compete pertanto alcun tipo di diritto, mentre ai trustees
viene rimesso il potere di scegliere «la forma giuridica della elargizione,
(che può avvenire una sola volta nei confronti del medesimo soggetto)
l’eventuale vincolo al suo impiego, la corresponsione in una o più rate».
Quanto sopra, ad avviso dello scrivente, ben potrebbe
attuarsi, dunque, mercé una donazione obnuziale (eventualmente nella forma
modale), secondo la previsione dell’art. 785 c.c.
6. Trust e altri limiti all’autonomia negoziale dei
coniugi in sede di stipula delle convenzioni matrimoniali (in particolare
quelli di cui agli artt. 160 e 161 c.c.).
Come
si è anticipato [84], l’autonomia negoziale dei coniugi in sede di stipula
delle convenzioni matrimoniali incontra anche altri limiti, diversi dal divieto
di costituzione di beni in dote. Per ciò che attiene, in particolare, al
principio posto dall’art. 160 c.c., andrà ricordato che, nel campo degli
effetti patrimoniali, la norma vale a rendere inderogabili i doveri di
contribuzione ex art. 143, 3° co.,
c.c. [85] e di mantenimento dei figli, ex artt. 147, 148 c.c. [86]. D’altro canto non vi è dubbio che, nelle ipotesi e
nei limiti in cui si ammetta la costituzione in Italia di un trust,
quest’ultimo ben potrebbe essere impiegato per adempiere ai doveri testé
citati. Nel caso di applicabilità del diritto italiano per effetto del disposto
dell’art. 30, l. n. 218/1995, dovrebbero però ritenersi nulle tutte le clausole
che dovessero eventualmente derogare ai criteri (di proporzionalità «in
relazione alle proprie sostanze e alla propria capacità di lavoro professionale
o casalingo») scolpiti negli articoli cui si è fatto riferimento. Si noti che
la predetta sanzione colpirebbe non solo eventuali accordi inter coniuges – «convenzioni», nel senso sopra precisato [87] – in cui uno venisse a rivestire il ruolo di
costituente e l’altro quello di trustee,
bensì anche eventuali clausole del genere di quelle indicate, contenute in trusts «autodichiarati», posto che
l’art. 160 c.c. non stabilisce che il divieto di deroghe ai diritti e ai doveri
derivanti dal matrimonio sia necessariamente legato ad atti qualificabili alla
stregua di «convenzioni».
Passando
ora all’esame dell’art. 161 c.c. va ricordato che, secondo questa disposizione,
«Gli sposi non possono pattuire in modo generico che i loro rapporti
patrimoniali siano in tutto od in parte regolati da leggi alle quali non sono
sottoposti o dagli usi, ma devono enunciare in modo concreto il contenuto dei
patti con i quali intendono regolare questi loro rapporti». Rinviando anche qui
alla trattazione più approfondita delle questioni ermeneutiche legate a tale
articolo [88], potrà ricordarsi, in primo luogo, che l’art. 161
c.c. vieta una mera relatio a norme straniere o consuetudinarie, ma non
impedisce che le parti si limitino a tradurre dalla lingua straniera la
regolamentazione di un certo istituto e ad inserirla tale e quale nelle loro
pattuizioni [89].
D’altro
canto il principio deve essere coordinato con il disposto dell’art. 30, l. 31
maggio 1995, n. 218: ne consegue che, in presenza di uno o più degli elementi
di estraneità di cui alla citata norma, la possibilità ivi concessa di
concludere un pactum de lege utenda verrà a consentire ai coniugi di effettuare nelle
convenzioni matrimoniali richiami, eventualmente anche solo per relationem,
al sistema di un paese straniero, con la naturale conseguenza che l’art. 161
c.c. trova oggi applicazione solo quando i rapporti patrimoniali tra coniugi
sono sottoposti alla legge italiana [90]. La constatazione sembra così confortare
ulteriormente la conclusione secondo cui il rinvio ad una legge straniera che
conosce i trusts è ammissibile solo in presenza di un oggettivo elemento
di estraneità. In ogni caso andrà aggiunto che, anche volendo ammettere in
generale la possibilità di costituire trusts «interni», nella specifica
ipotesi di costituzione tra coniugi cittadini italiani, ovvero nel caso in cui
comunque le regole di conflitto dovessero «puntare» verso la legge italiana,
occorrerebbe (per evitare di incorrere negli strali dell’art. 161 c.c., norma
inderogabile, come si è visto, laddove tra coniugi non sia presente un elemento
di estraneità ai sensi e per gli effetti dell’art. 30, l. n. 218/1995, cit.)
quanto meno riportare per esteso nell’atto costitutivo del trust le
disposizioni della legge straniera richiamata. Tale requisito formale andrebbe
peraltro osservato nelle sole ipotesi di trusts
che vedessero quale costituente uno dei coniugi e quale trustee l’altro, dal momento che l’art. 161 c.c. colpisce solo atti
qualificabili alla stregua di «pattuizioni», mentre non sembrerebbe riferibile
ai trusts «autodichiarati» (e neppure
a quelli in cui il ruolo di settlor o
quello di trustee è assunto da un
terzo, posto il riferimento dell’art. cit. a pattuizioni con cui i coniugi
definiscano i «loro rapporti», ciò
che induce a ritenere che tali rapporti siano, per l’appunto, solo quelli
reciproci).
7. Sui rapporti fra trust,
convenzione matrimoniale e regime patrimoniale (in particolare sull’applicabilità
all’atto costitutivo di un trust
fra coniugi degli artt. da 162 a 166 c.c.).
Il tema affrontato nella seconda parte del paragrafo precedente ci
introduce alla trattazione di una questione assai più spinosa. Visto che tra le
norme inderogabili poste nel campo dei rapporti tra coniugi compare anche
l’art. 162 c.c., v’è da chiedersi se pure tale disposizione – sempre in forza
del rinvio di cui all’art. 15, lett. b), della Convenzione dell’Aja – trovi
applicazione agli atti costitutivi dei trusts
posti in essere tra soggetti uniti in matrimonio al fine di regolamentare i
propri rapporti patrimoniali. Ma l’art. 162 c.c. disciplina le «convenzioni
matrimoniali», ciò che pone l’interrogativo se per avventura in tale categoria
non rientrino anche gli atti cui si è appena fatto cenno. E’ chiaro, altresì,
che un’eventuale risposta positiva determinerebbe come necessaria conseguenza
l’applicazione pure degli artt. da 163 a 166 c.c.
Senza rievocare in questa sede la complessa questione della
definizione del concetto di convenzione matrimoniale [91], si potrà cominciare con l’escludere ogni
possibilità di ravvisare gli estremi di tale figura nei trusts costituiti nel corso (o anche solo in vista) di una crisi
coniugale, ben potendosi estendere, in
subiecta materia, il rationale
posto a base di una giurisprudenza e di una dottrina assolutamente consolidate,
secondo cui le intese raggiunte in quel contesto non richiedono il rispetto
della forma solenne [92]. Per le ragioni, poi esaminate alla fine
del paragrafo precedente, non potrà parlarsi di «convenzione», tanto meno di
«convenzione matrimoniale» nelle ipotesi di trusts
«autodichiarati». Il discorso che verrà qui affrontato concerne dunque i soli
casi di trusts che vedano quale
costituente uno dei coniugi – o un terzo [93] – e quale trustee l’altro, al di fuori di una situazione di crisi coniugale.
Al riguardo, basterà ricordare le conclusioni altrove raggiunte,
secondo cui l’impostazione – per così
dire, «largheggiante» – consentita dalla formulazione dell’art. 159 c.c. 1942
(«I rapporti patrimoniali tra coniugi sono regolati dalle convenzioni delle
parti e dalla legge»), che induceva la dottrina a qualificare alla stregua di
convenzione matrimoniale ogni accordo contenuto in un contratto di matrimonio,
in connessione diretta con la relativa situazione patrimoniale, e non
altrimenti disciplinato dalla legge [94], non può oggi trovare più accoglimento. Alla luce,
invero, di un dettato normativo (cfr. la versione attuale dell’art. 159 c.c.,
così come modificato dalla riforma del 1975) secondo il quale «Il regime
patrimoniale legale della famiglia, in mancanza di diversa convenzione
stipulata a norma dell’art. 162, è costituito dalla comunione dei beni regolata
dalla sezione III del presente capo», sembra risultare chiaro che oggi il termine «convenzione matrimoniale» esprime solo quell’atto che si pone
quale fonte di un regime diverso da quello legale [95].
Certo, è vero che lo stretto legame esistente
tra le figure della convenzione matrimoniale, da un lato, e dei regimi patrimoniali
«eccezionali», dall’altro, non va esente da contraddizioni e perplessità. Se
infatti è innegabile che la separazione dei beni trovi la sua origine in una
apposita convenzione, va constatato che l’art. 228, 1° co., l. 19 maggio 1975,
n. 151, ha consentito – pur se in via transitoria – la nascita di tale regime
in forza non già di una convenzione, bensì di un atto unilaterale. Discorso per
certi versi analogo va compiuto in relazione al fondo patrimoniale, che può
costituirsi anche per testamento e che rappresenta anche per altre ragioni un
regime, per così dire, anomalo, non riguardando categorie generali ed astratte
di beni, bensì beni determinati e potendo il medesimo coesistere tanto con il
regime comunitario che con quello separatista. D’altro canto (e per converso),
si discute sul carattere autonomo del regime costituito in forza di convenzione
di comunione ex art. 210 ss. c.c.,
che secondo alcuni sarebbe una semplice variante del regime di comunione legale
[96]. Per concludere questa rapida carrellata delle
ipotesi in contrasto con l’affermazione di fondo che lega il concetto di
convenzione matrimoniale ai regimi patrimoniali «eccezionali», andrà osservato
come lo stesso regime legale possa trovare applicazione anche in forza di
convenzione, allorquando una coppia decida di abbandonare il regime di
separazione anteriormente prescelto.
Con
le precisazioni e le limitazioni testé apportate e in considerazione
dell’interpretazione restrittiva del concetto di convenzione matrimoniale sopra
indicata, è oggi certa la risposta negativa al quesito circa la riconducibilità
a tale categoria delle donazioni obnuziali, così come di tutti quegli atti che,
sebbene obnuziali, cioè compiuti in contemplazione causale di un determinato
matrimonio (come potrebbero essere mandati o contratti sociali), non abbiano
per oggetto la scelta di un regime patrimoniale della famiglia, limitandosi ad
operare trasferimenti di diritti su uno o più beni [97]. Lo stesso deve valere per quegli atti con cui i
coniugi decidono di immettere nella – o di estromettere dalla – comunione
legale singoli beni determinati [98], cui va pertanto negata la natura di convenzione
matrimoniale.
Il
problema diviene dunque quello di sapere se e in che misura un trust possa venire a costituire un vero e
proprio regime patrimoniale della famiglia. Sotto il profilo dell’an la risposta positiva sembra doversi
dare laddove si ponga mente al fatto che, per dottrina prevalente, la libertà
negoziale dei coniugi può spingersi a creare regimi patrimoniali atipici. E’
invero evidente che l’art. 159 c.c., ponendo – come già più volte ricordato –
uno stretto rapporto tra convenzioni matrimoniali e regimi patrimoniali della
famiglia, non stabilisce in alcun modo che le convenzioni debbano essere solo
quelle regolate dalla legge. La possibilità di liberamente conformare il
contenuto di queste ultime discende inoltre dal fondamentale principio scolpito
nell’art. 1322 c.c., applicabile anche alla materia in esame per effetto del
già illustrato carattere contrattuale delle convenzioni e, più in generale,
dell’appartenenza della materia in esame al campo del diritto privato [99], in cui il principio della autonomia negoziale
rappresenta la regola e non già l’eccezione. Ed anzi, proprio il fatto che il
legislatore sia intervenuto, nel campo delle convenzioni, dichiarando di volta
in volta nullo questo o quel patto (si pensi per esempio al divieto ex
art. 166-bis c.c.) consente di desumere a contrariis la regola
della generale libertà, quanto al contenuto, delle medesime [100]. Le conclusioni di cui sopra sembrano ricevere del
resto conferma anche sul piano di un’indagine estesa ai principi
costituzionali, laddove il richiamo all’art. 1322 c.c. trova il proprio
riconoscimento nel fondamentale principio di cui all’art. 29 Cost. [101] e sono sicuramente confortate dall’indagine storica [102], così come da quella comparatistica [103].
Ora, se è vero che per regime
patrimoniale deve intendersi non solo l’insieme delle regole che
precostituiscono la sorte di una serie indeterminata
d’acquisti (determinabili unicamente ex
post), compiuti dai coniugi, bensì anche l’insieme di quelle regole che
precostituiscono (e qui il fondo patrimoniale docet) l’eventuale separazione patrimoniale di una certa massa determinata di beni apportati ad onera matrimonii ferenda, oltre che
le regole per la loro amministrazione ed alienazione, si può agevolmente
comprendere come anche il trust,
ancorché avente ad oggetto una massa determinata di beni, possa ricadere in
tale categoria. In conclusione sul punto dovrà dunque dirsi che, nell’ipotesi
appena delineata (di «segregazione», cioè, di beni di uno o dell’altro dei
coniugi, destinati a sostenere gli oneri del matrimonio e ad essere
amministrati dal trustee secondo
regole predeterminate dal settlor
nell’interesse della famiglia), l’atto costitutivo del trust andrà considerato alla stregua di una convenzione
matrimoniale, con tutto ciò che ne consegue in tema di forma, pubblicità,
simulazione, capacità e quant’altro disposto dagli artt. da 162 a 166 c.c. (il
tutto, ovviamente, sul presupposto che si ritengano ammissibili trusts «interni», poiché altrimenti il
quesito non avrebbe neppure ragione di porsi, se non nel caso di presenza di un
obiettivo elemento di estraneità; inoltre, la conclusione di cui sopra è da
rapportarsi sempre al disposto dell’art. 30, l. n. 218/1995, per cui deve
essere riferita a coniugi entrambi cittadini italiani, o comunque al caso in
cui la legge individuata dalle norme di conflitto sia quella italiana).
Se, invece, scopo del trust fosse solo quello di procurare all’altro coniuge la semplice
«intestazione» in proprietà di un determinato bene, «rimarremmo fuori
dell’ambito di afferenza delle convenzioni matrimoniali per approdare a quello
delle attribuzioni liberali tra coniugi» [104].
8. Trust e limiti all’autonomia negoziale dei coniugi
in regime di comunione legale o convenzionale.
Venendo ora a trattare brevemente della
possibile incidenza di un eventuale trust «interno» (e comunque nel caso
di un trust costituito in presenza di
un obiettivo elemento di estraneità) delle disposizioni inderogabili in tema di
regime patrimoniale legale (e sempre, ovviamente,
allorquando si tratti di coniugi entrambi cittadini italiani, o comunque quando
la legge individuata dalle norme di conflitto sia quella italiana), andrà subito ricordato che l’atto costitutivo di trust va annoverato tra quelli di
straordinaria amministrazione, con conseguente necessità del consenso di
entrambi i coniugi, ex art. 180 c.c.
Ne consegue che, qualora la «segregazione» patrimoniale attuata da uno solo dei
coniugi – nella veste di settlor –
senza il consenso dell’altro dovesse venire a colpire uno o più dei beni di cui
all’art. 177, lett. a) e b), nonché cpv., c.c., ovvero anche la sola quota del
coniuge disponente [105], il coniuge pretermesso avrebbe a sua
disposizione i rimedi di cui all’art. 184 c.c. [106].
Più complesso è invece il tema dell’ammissibilità di un’operazione
diretta a «segregare» beni della comunione legale per effetto di un atto posto
in essere da entrambi i coniugi, nella veste di costituenti. Dubbi potrebbero
prospettarsi al riguardo, in considerazione della tesi che contesta la
possibilità di estromettere singoli beni dalla comunione, durante la vigenza di
quest’ultima. L’argomento appare, come noto, strettamente connesso alla vexata
quaestio dell’ammissibilità di un
rifiuto preventivo del coacquisto ex lege previsto dall’art. 177 lett.
a), d) e cpv., controversia rinfocolata da una recente decisione di legittimità
che, andando di contrario avviso rispetto ad un precedente del 1989, si è
spinta ad affermare che, manente
communione, «il coniuge non può rinunciare alla comproprietà di singoli
beni acquistati durante il matrimonio (e non appartenenti alle categorie
elencate nell’art. 179, co. 1°, c.c.) salvo che sia previamente o
contestualmente mutato, nelle debite forme di legge e nel suo complesso, il
regime patrimoniale della famiglia» [107]. Rinviando ad altra sede la critica di tale
opinabilissima conclusione [108], basterà dire che, qualora essa dovesse venire trasposta
alla materia qui in esame, dovrebbe ritenersi inibito – sempre, ovviamente,
nell’ottica, da chi scrive non condivisa, della Cassazione – ai coniugi in
comunione (eventualmente anche in presenza di un obiettivo elemento di
estraneità) di costituire entrambi un trust su beni comuni ex
art. 177, lett. a) e d), nonché cpv., c.c.,
nominando trustee uno solo di
essi, posto che, in tal modo, questi beni verrebbero di fatto estromessi dalla
comunione.
Diversa,
ancorché legata alla precedente, appare la questione dei rapporti con l’art.
210 c.c. In proposito non vi è dubbio che – ferma restando, ad avviso dello
scrivente, la possibilità di estromettere in tutto o in parte beni della
comunione, una volta che questi siano stati acquisiti – l’atto costitutivo di trust
su beni da acquistarsi [109] e che, una volta acquistati da uno dei coniugi,
formerebbero comunque oggetto della comunione legale, non potrebbe determinare
una violazione della regola della parità delle quote e dei principi in tema di
amministrazione. Ne consegue che sarebbe nullo un atto costitutivo di trust su beni destinati a cadere in
comunione legale in cui i coniugi, nella veste di settlors, istituissero trustee
(o beneficiario) uno solo di essi, ovvero essi stessi, ma in quote diverse da
quelle paritarie. Lo stesso è a dirsi per ciò che attiene al conferimento di
poteri di amministrazione ad uno solo dei coniugi.
Per
quanto riguarda invece i beni della comunione convenzionale non interessati dal
limite posto dall’art. 210 c.c. (si pensi a quelli, per esempio, di cui
all’art. 179, lett. a), c.c.) si è paventata la possibilità di una violazione
dell’art. 166-bis c.c. per la
convenzione che, «ampliando l’oggetto della comunione convenzionale,
attribuisca, in relazione a beni diversi da quelli che avrebbero formato
oggetto di comunione legale, il potere di amministrazione al coniuge che non
sia il proprietario del bene conferito nella comunione convenzionale» [110]. In proposito sarà però il caso di rilevare che,
qualora si supponga che la convenzione sia del tipo «ampliativo», ciò significa
che il coniuge (eventualmente) unico amministratore è contitolare della
proprietà sui beni che amministra. L’ipotesi è dunque diversa da quella
«paradigmatica» della dote che, come si è visto [111], è caratterizzata da un completo «scollamento» tra
titolarità del diritto reale e potere di amministrazione sui relativi beni. Ne
consegue che, ad avviso dello scrivente, per coloro che ammettono la
possibilità di costituire trusts «interni» e comunque per i trusts
creati in situazioni caratterizzate dalla obiettiva presenza di un elemento di
estraneità, i coniugi in regime di comunione convenzionale potranno senz’altro
«segregare» beni che non avrebbero fatto parte della comunione legale,
prevedendo quale trustee e/o beneficiario uno solo di essi (oltre che,
ovviamente, terzi familiari e/o estranei), senza curarsi in modo alcuno né
delle regole circa la parità delle quote, né di quelle in tema di
amministrazione della comunione legale.
9. Trust e fondo patrimoniale.
Nell’ambito delle questioni legate ai
rapporti tra trust e famiglia, è proprio il tema del fondo patrimoniale
ad aver richiamato la maggior attenzione da parte degli studiosi del settore [112]:
un bel risultato per un «ramo secco» del nostro ordinamento [113],
che, nelle sue applicazioni pratiche, ha dimostrato di saper produrre sino ad
ora solo frutti «perversi» [114],
al punto da indurre taluno ad affermare che tale istituto sarebbe ormai
destinato ad essere del tutto soppiantato dal trust [115].
La principale ragione per cui siffatto accostamento del trust al fondo
patrimoniale forma argomento di ampia trattazione in dottrina è costituita, a
parte talune analogie tra i due fenomeni [116],
dal dato di fondo che accomuna questi ultimi sotto il profilo della separazione
patrimoniale dei beni che ad entrambi necessariamente, anche se in forme e con
«gradazioni» diverse, consegue [117],
al punto da spingere parte della dottrina a ravvisare nell’istituto del fondo
patrimoniale un vero e proprio trust «amorfo» (del genere cioè di quelli
riconducibili all’ampia previsione di cui all’art. 2 della Convenzione
dell’Aja) previsto dal nostro ordinamento [118].
Peraltro la dottrina ha anche posto in
luce i fondamentali punti di distinzione, evidenziando la maggiore duttilità,
oltre che la più vasta sfera di operatività, del trust [119].
Effettivamente, dal punto di vista oggettivo, va sottolineato che quest’ultimo
non conosce limitazione quanto ai beni oggetto dei diritti su cui la
«segregazione» patrimoniale è destinata ad incidere, laddove l’art. 167 c.c.
circoscrive ai beni immobili, mobili registrati e ai titoli di credito i
possibili oggetti del fondo patrimoniale. D’altro canto, dal punto di vista
soggettivo, la «famiglia» in relazione alla quale il fondo può costituirsi è
solo quella legittima, così escludendosi non solo la famiglia di fatto [120],
bensì anche altre situazioni lato sensu analoghe, in cui sarebbe utile
che esistesse la possibilità di destinare beni ad onera (verrebbe da
dire: vitae…) ferenda. Così si è portato il caso [121]
della persona vedova o nubile, del figlio naturale (e, eventualmente, della
relativa madre) di un soggetto coniugato, di un fratello, ecc. Nell’ambito
della stessa famiglia legittima, poi, il trust può essere «mirato» in
relazione alle esigenze di uno o più dei suoi componenti (si pensi a soggetti
posti in particolare situazione di debolezza, quali, ad es. figli incapaci [122]),
laddove gli artt. 167, 168 e 170 c.c., con il loro generico riferimento ai
«bisogni della famiglia», non consentono di discriminare tra i membri di
quest’ultima.
A
differenza del trust, poi, il fondo
patrimoniale non prevede beneficiari in senso tecnico; e pertanto i soggetti in
favore dei quali è stato istituito il fondo, ad esempio i figli, non hanno
poteri di controllo sulla gestione dei beni, né sono legittimati ad agire nei
confronti dei genitori che destinino i frutti a finalità non coincidenti con i
bisogni della famiglia. Infine, nel fondo patrimoniale, non è previsto che al
momento della sua cessazione i beni debbano essere devoluti ad alcuno dei
componenti la famiglia, in particolare ai figli, per cui la tutela della
famiglia non appare così perseguita col massimo risultato. Un rimprovero
analogo, centrato cioè sul minor grado di protezione della famiglia rispetto al
trust, va pure mosso al fondo
patrimoniale per l’inesistenza di norme che prevedano un obbligo di reimpiego e
per la mancanza di un meccanismo surrogatorio, oltre che per la più limitata
(rispetto al trust) esecutabilità dei
beni e dei frutti.
Per
ciò che riguarda il profilo dell’amministrazione si presentano come punti
di debolezza del fondo patrimoniale rispetto al trust la discrezionalità consentita ai coniugi nelle decisioni
riguardanti l’amministrazione e la disposizione dei beni del fondo [123], laddove
l’esistenza di un trust non
consentirebbe la facile alienazione dei beni che lo compongono, producendo
altresì l’effetto di disincentivare la costituzione di fondi patrimoniali
simulati o abusivi. Di contro, non va però dimenticato che, secondo l’opinione
prevalente, l’art. 168 c.c., con il rinvio alle norme in tema di comunione
legale, viene a porre come inderogabile – per gli atti di cui all’art. 180 cpv.
c.c. – il principio di amministrazione congiuntiva [124], laddove
il trust ben potrebbe essere
congegnato in modo da affidare ad un solo coniuge l’amministrazione dei beni.
Non
sembra poi rispondere a verità – per ciò che attiene alla conformazione del
negozio costitutivo – l’affermazione secondo cui solo nel caso del trust potrebbero inserirsi condizioni
sospensive o risolutive [125], dal momento che siffatta conclusione deve ammettersi
anche in relazione ad ogni convenzione matrimoniale [126]. Parimenti non rispondente al vero risulta
l’affermazione secondo cui solo la costituzione
del fondo patrimoniale richiederebbe il rispetto delle formalità rigorose previste dall’art. 162 c.c.
[127],
dal momento che, come si è già avuto modo
di vedere [128], la norma in oggetto, nella sua qualità di principio
inderogabile relativo ai rapporti patrimoniali tra coniugi, deve trovare
necessariamente applicazione tra coniugi italiani e comunque allorquando la
legge italiana sia designata dalle norme italiane di conflitto.
E’
invece certamente vero che il fondo patrimoniale presenta aspetti negativi,
rispetto al trust, in considerazione
dell’eventualità che la coppia venga a trovarsi in una situazione di crisi. In
proposito andrà notato che, sebbene la costituzione di un fondo patrimoniale in
sede di separazione personale dei coniugi appaia senz’altro ammissibile [129],
ragioni di opportunità potrebbero sconsigliarla, atteso che l’amministrazione
spetterebbe comunque ad entrambi e ciò mal si concilia con la situazione di
conflitto coniugale. Per il resto, atteso che, ai sensi dell’art. 171 c.c. «la destinazione del fondo termina a seguito di
annullamento scioglimento o cessazione degli effetti civili del matrimonio», vi
è il rischio che in tali situazioni si vengano a disattendere le legittime
aspettative dei beneficiari, ad esempio la prole maggiorenne ma non
autosufficiente (atteso che per i minori provvede l’art. 171 cpv. c.c.).
10. Trust e crisi coniugale.
Le considerazioni di chiusura del paragrafo precedente introducono
l’argomento dei rapporti tra trust e
crisi coniugale. In proposito è lo stesso rapport explicatif della Convenzione dell’Aja a chiarire che «…il semble qu’un trust volontairement constitué par un
époux divorcé afin de réaliser l’obligation qui lui est imposée de trasférer
certains biens à son épouse et à ses enfants tomberait sous le coup de la
Convention. On peut également considérer comme volontaire un trust constitué par exemple en vue de
remplir une obligation alimentaire qui est ensuite homologuée par un tribunal» [130].
Nella dottrina e nella
pratica italiane non sono mancate indicazioni in questo senso. Così, per
esempio, si è affermato che il trust
potrebbe costituire uno strumento di estrema importanza allo scopo di
intervenire efficacemente nella genesi della crisi della coppia, e quindi, nel
momento antecedente l’inizio del procedimento di separazione o divorzio o in un
secondo momento, successivo alla conclusione di questi procedimenti, una volta
che la volontà delle parti (in sede consensuale) o la determinazione del
giudice (in sede contenziosa) abbiano imposto un contributo di mantenimento o
un assegno a carico di un coniuge [131]. Al riguardo, l’effetto «segregativo» proprio del trust consentirebbe di opporre il
vincolo ai creditori del disponente, così garantendo il pagamento delle
prestazioni periodiche in favore del coniuge e/o alla prole anche di contro a
possibili azioni esecutive di terzi (fatte salve, ovviamente, possibili domande
revocatorie). A ciò s’aggiunga che il trasferimento del bene al trustee, quando si tratti di immobile,
titoli azionari o altri beni soggetti forme di pubblicità, comporta formalità
che da sole impediscono atti di disposizione illegittimi: chiunque sia il trustee (il coniuge obbligato o un
terzo) saranno cosi prevenuti atti di disposizione in danno degli interessi che
il trust protegge [132].
Ove
si dovesse ammettere il trust «interno» e, in ogni caso, per il trust
creato in situazioni caratterizzate dalla obiettiva presenza di un elemento di
estraneità, questo potrebbe essere costituito nello
stesso negozio di separazione consensuale, di separazione di fatto, o di
divorzio su domanda congiunta: le parti verrebbero così a porre in essere lo
strumento attraverso il quale determinare le modalità di adempimento degli
obblighi ex artt. 155, 156 e 5 l.div.
D’altro canto e sempre, ovviamente, sulla base di un accordo inter partes, un trust potrebbe rappresentare il mezzo per garantire l’esecuzione di
obblighi di mantenimento e di assegni già determinati, precedentemente, dalle
parti stesse (in sede, per l’appunto, di separazione consensuale omologata, di
separazione di fatto, ovvero di divorzio su domanda congiunta, ovvero ancora in
sede di crisi coniugale contenziosa). Per questa specifica ipotesi andrà tenuto
presente che, secondo l’opinione ormai prevalente in dottrina e giurisprudenza [133], le condizioni della separazione e del
divorzio ben possono essere mutate dai coniugi senza dover ricorrere ad alcun
tipo particolare di procedura giudiziale.
Si
è poi anche rimarcato che «l’istituzione di un trust avrebbe una valenza estremamente garantista relativamente ai
diritti alimentari o di mantenimento vantati da coniuge e prole, in quanto
consentirebbe di isolare le risorse del coniuge obbligato al mantenimento, o
agli alimenti, affinché non possano essere distolte dall’adempimento di queste
obbligazioni». Il primo positivo effetto sarebbe infatti quello di evitare
qualsiasi conflitto fra i creditori del coniuge obbligato e i creditori della
prestazione alimentare, posto che questi ultimi sarebbero pienamente garantiti [134].
Ora,
se non vi è dubbio che – come si del resto già visto poco sopra – ciò risponde
a verità, va immediatamente aggiunto che altrettanto condivisibile non appare
l’affermazione secondo la quale l’ordinamento civilistico italiano non
offrirebbe alternative al trust per
il raggiungimento di siffatta finalità di garanzia del coniuge separato. A
parte, invero, il complesso sistema di garanzie apprestato dall’ordinamento per
l’adempimento degli obblighi derivanti dalla separazione o dal divorzio [135], nulla esclude che, in
considerazione del carattere negoziale (e, per ciò che attiene agli accordi di
carattere patrimoniale, contrattuale), delle intese in discorso, possano
trovare applicazione le garanzie e gli strumenti di induzione all’adempimento
previsti in generale dal codice: dalla fideiussione, all’ipoteca volontaria (si
pensi alle intese concluse nell’ambito di una separazione di fatto, ove l’art.
2818 c.c. non può, evidentemente, trovare applicazione), alla clausola penale,
alla caparra confirmatoria [136].
Così
pure, se è vero che i trusts sono
dotati di una maggiore «flessibilità» rispetto alle strutture civilistiche, non
è vero che lo strumento contrattuale della tradizione romanistica, applicato ai
contratti della crisi coniugale, non consenta disposizioni a termine, o sotto
condizione, ovvero non permetta (per lo meno inter vivos) la successiva indicazione di più beneficiari [137]. In definitiva, l’unico
vero vantaggio offerto dal trust
sembra essere quello di evitare «l’interferenza indebita degli interessati e le
spiacevoli situazioni, anche psicologiche e morali, che spesso vengono a
crearsi» [138]: un vantaggio che,
peraltro, le parti pagherebbero assai caro, posto che appare assai difficile
reperire un trustee disposto a
prestare gratis et amore dei la
propria attività, specie in siffatte situazioni, normalmente, dal punto di
vista dei rapporti umani, assai poco gradevoli.
Sempre
in relazione alla crisi coniugale si è poi ipotizzato [139] un caso pratico relativo ad una disposizione volta a
consentire ad un figlio, maggiorenne ma non autosufficiente e convivente con la
madre, di proseguire gli studi dopo il conseguimento del diploma di maturità,
in una situazione in cui, avvenuta l’adozione dei provvedimenti provvisori da
parte del presidente del tribunale investito del giudizio di separazione o
divorzio e disposta la prosecuzione della causa avanti il giudice istruttore,
la moglie pretenda di veder riconosciuto per sé e per il figlio un assegno di
mantenimento più consistente. Qui il marito potrebbe essere disposto ad
accedere alle richieste relative al figlio, pur non essendo incline a concedere
per questo alla moglie un assegno più sostanzioso.
In
siffatta situazione si è prospettata l’istituzione di un trust autodichiarato [140] da parte del marito, con previsione, in caso di
sopravvenuta impossibilità in capo al trustee
(cioè il marito stesso) di una sostituzione di quest’ultimo, magari
individuandosi l’eventuale sostituto nella persona di un professionista, ovvero
del legale fiduciario che lo assiste nella causa di separazione o divorzio. Il
beneficiario, in questo caso identificato fin dal momento dell’istituzione del trust
nella persona del figlio, sarebbe
il destinatario immediato delle utilità e dei valori prodotti dalle somme
«segregate» in trust, e sarebbe
beneficiario nei limiti prefissati nell’atto istitutivo. Egli diverrebbe così
titolare di un diritto di natura personale e che gli consentirebbe di agire nel
caso in cui il trustee non ottemperasse alle prescrizioni contenute
nell’atto istitutivo; egli potrebbe anche richiedere all’autorità giudiziaria
la revoca del trustee inadempiente.
Il termine di durata proposto, sempre nella ipotesi
pratica prospettata [141], coinciderebbe nella specie con quello consono alla
durata del corso di studi universitari già prescelto dal figlio, con la
possibile estensione ad uno o due anni in più, per andare incontro alle
eventuali difficoltà o ritardi che il ragazzo dovesse accusare. Allo spirare
del termine o al raggiungimento dello scopo (conseguimento della laurea) il trust dovrebbe trovare la sua fine
fisiologica, fatta salva la possibilità di inserire nell’atto istitutivo una
clausola di ultrattività del trust, nel limite del patrimonio conferito,
per soddisfare le esigenze di frequentazione di scuole di specializzazione, di
corsi avanzati, master o quant’altro. Nel caso il trust dovesse essere istituito nelle more fra il conseguimento del
diploma di scuola superiore e l’iscrizione ad un corso universitario, si è
altresì proposto di sottoporre il trust a condizione sospensiva, tale
per cui, qualora il figlio dovesse mutare orientamento e non iscriversi
all’università, il trust non esplicherebbe alcuna efficacia.
Parimenti, si è proposto [142] l’inserimento di una clausola risolutiva per le
seguenti evenienze:
· il figlio interrompe il ciclo di studi;
· il figlio consegue anzitempo al completamento degli
studi l’indipendenza economica (ad esempio trova un lavoro);
· il figlio o la ex
moglie, convengono il marito in giudizio per ottenere la modifica delle condizioni
della separazione o del divorzio ovvero, maturato il termine per la
proposizione della domanda di divorzio, avanzano nuove pretese che costringono
all’apertura di un nuovo contenzioso.
Con riferimento a tale ultima specifica previsione
andrà però subito detto che questa potrebbe essere ritenuta inconciliabile con
la consolidata giurisprudenza di legittimità che, come noto, non consente la
conclusione di intese preventive in vista del divorzio, in considerazione di un
supposto «commercio dello status di
coniuge» [143].
Sempre secondo la proposta citata [144], accanto al beneficiario diretto delle somme
«segregate» in trust (il figlio), potrebbe esservi la figura di un
beneficiario finale che, nel nostro caso, potrebbe essere ancora il figlio, nel
caso in cui il padre desiderasse premiarlo e lasciargli definitivamente
l’eventuale patrimonio residuato al conseguimento dello scopo del trust; oppure, potrebbe essere il
disponente stesso, che in tal modo rientrerebbe nella piena disponibilità del
proprio patrimonio.
Per concludere sul punto andrà ancora aggiunto che, sotto il
profilo fiscale, non vi è dubbio che le attribuzioni patrimoniali del genere di
quelle illustrate nell’ambito del presente paragrafo – a prescindere dalle
questioni circa l’applicabilità o meno degli atti istitutivi di trusts dell’imposta di registro a tassa
fissa [145] – ricadrebbero comunque, ove «relative»
ad un procedimento di separazione o divorzio [146], sotto il disposto dell’art. 19 l. div.,
esteso, come noto dalla Corte costituzionale alla separazione legale [147].
11. Trust e famiglia
di fatto.
Non è
raro rinvenire nella letteratura favorevole alla ammissibilità di trusts
«interni» specifiche applicazioni di tali fenomeni alla convivenza more
uxorio. Così si è ipotizzato il caso dell’uomo che intenda provvedere alla
propria compagna non abbiente, senza tuttavia fare danno alla propria famiglia
legittima e, al tempo stesso, commisurando le elargizioni alle effettive
necessità della convivente: il ricorso al trust
sarebbe qui consigliato di fronte alla constatazione secondo cui nessun negozio conosciuto nel nostro
ordinamento sarebbe in grado di assicurare tali finalità [148]. La conclusione non sembra però pienamente
condivisibile: invero, ogni attribuzione effettuata (direttamente come indirettamente)
alla convivente andrà a diminuire il patrimonio del disponente, così riducendo
le «aspettative» (di fatto) dei futuri eredi legittimi e dunque «facendo danno
alla famiglia legittima»; d’altro canto, anche la finalità di «commisurare le
elargizioni alle effettive necessità della compagna», ben può essere
soddisfatta mercé la stipula di un contratto di mantenimento, in cui si abbia
l’accortezza di predeterminare il quantum delle prestazioni in relazione
ai redditi e ai patrimoni delle parti [149].
Taluno ha
poi anche prospettato un complesso caso pratico di trust finalizzato ad
eseguire l’obbligazione naturale gravante su un convivente dotato di un
patrimonio assai più consistente di quello della propria compagna [150]. Nella specie il ricorso al trust è però stato
erroneamente presentato come l’unico rimedio in grado di superare l’ostacolo
posto dall’incoercibilità delle obbligazioni naturali, laddove è chiaro che, da
un lato, la creazione di un trust non è certo coercibile, se il soggetto
che dovrebbe assumere la veste di settlor non intende dar luogo a tale
attribuzione, e, dall’altro, una volta che il convivente «forte» intende
adempiere, questi ben può obbligarsi mercé la stipula di un contratto di
convivenza nei modi e nelle forme in altra sede descritti [151].
Ancora,
si è proposto di «abbinare» la creazione di un trust a contratti quali
l’assicurazione sulla vita o il deposito bancario: la designazione di un
fiduciario quale beneficiario della polizza sulla vita, infatti, garantirebbe
il settlor che l’arricchimento del beneficiario avvenga attraverso la
corresponsione di utili prodotti in forza di un’oculata amministrazione delle
somme dovute dall’assicuratore [152]. Peraltro, ad avviso di chi scrive, sembra difficile
comprendere per quale ragione, supponendo che il beneficiario sia persona
maggiorenne e capace di amministrarsi, non sia più idoneo, per il conseguimento
degli scopi perseguiti dal disponente, oltre che meno oneroso, prevedere
l’attribuzione della prestazione direttamente in capo al convivente superstite…
D’altro
canto, sempre secondo lo studio appena citato, l’intestazione di un deposito
bancario ad un bare trustee, a beneficio prima del disponente e poi del partner
superstite di questi, risolverebbe i problemi relativi al residuo non prelevato
in vita, di cui il titolare dovrebbe disporre per testamento (nel caso di
cointestazione di conto bancario congiunto semplice con il partner, nel
quale gli intestatari possono ritirare l’intera somma congiuntamente e,
disgiuntamente, solo una porzione pari alla propria quota), eliminando altresì
i rischi di un prelevamento totale da parte del partner (nel caso di
conto congiunto solidale) [153]. A ben vedere, però, sembra quanto mai inopportuno
affidare ad un soggetto estraneo l’amministrazione di un conto corrente che,
verosimilmente, dovrebbe servire a fornire la necessaria base economica e
finanziaria del ménage, con tutto quello che siffatta soluzione
comporta, anche dal punto di vista di una gestione quotidiana che appare assai
difficile predeterminare nell’atto istitutivo del trust in tutti i sui
molteplici (e sovente inaspettati) risvolti.
A parte
le specifiche perplessità sulla reale necessità, utilità e convenienza
economica di un trust nelle
situazioni testé delineate (e fatte salve le riserve d’ordine generale
sull’ammissibilità di un trust «interno», riserve che dovrebbero però
venir meno nel caso di trust
costituito in presenza di un effettivo elemento di estraneità), potranno dunque
ipotizzarsi trusts anche nella
famiglia di fatto. Il costituente (uno dei conviventi, o entrambi, ovvero anche
un terzo) potrà pertanto «segregare» parte del proprio patrimonio, dettando al trustee
norme a beneficio dell’unione di fatto e magari provvedere anche in ordine
all’eventuale scioglimento di quest’ultima. E proprio in contemplation di una possibile rottura si dovrebbero inserire
apposite previsioni volte a disciplinare la sorte dei cespiti patrimoniali,
magari prevedendo una qualche forma di «ultrattività» del trust a tutela
della parte debole e/o della prole. In ogni caso – a scanso di pericolosi
equivoci – sarebbe opportuno individuare in maniera esplicita e certa le
situazioni nelle quali la convivenza si dovrebbe considerare come venuta meno
(invio di una lettera, fissazione di residenze anagrafiche distinte, ecc.).
Con
specifico riguardo al profilo della cessazione della convivenza, va aggiunto
che una delle ragioni per le quali parte della dottrina raccomanda la creazione
di trusts tra conviventi è rappresentata dalla possibilità di far
assumere ad essi una valenza post mortem, il che peraltro – a parte la
questione del possibile contrasto con il divieto dei patti successori, quanto
meno sotto il profilo della frode alla legge – può porre problemi in relazione
al tema della tutela dei legittimari. Al riguardo si precisa in dottrina che,
mentre nel negozio di trasferimento dei beni dal settlor al trustee
non è rintracciabile alcuna liberalità, per mancanza dell’animus donandi in capo al primo e
dell’elemento oggettivo dell’arricchimento in capo al secondo, costituirebbe,
invece, donazione indiretta l’attribuzione che il settlor attua a favore
del beneficiario [154]. Tuttavia, la stessa dottrina ammette che assai
problematica appare la tutela dei legittimari nelle diverse fattispecie che la
pratica propone [155]. Sono, invece, sicuramente soggetti a riduzione da
parte dei legittimari quei trusts che siano stati costituiti per
testamento: d’altro canto, le norme nazionali sulle successioni sono fatte
esplicitamente salve dall’art. 15 della Convenzione dell’Aja. Comunque, si
consiglia l’inserimento, nell’atto istitutivo, di una clausola di salvaguardia
che faccia obbligo, al fiduciario o al beneficiario finale del patrimonio, di
garantire i diritti dei legittimari del disponente, ove lesi al momento della
sua morte, integrando automaticamente, con beni o denaro, pur nei limiti del
valore del trust, la quota loro riservata dalla legge. Come si è avuto
peraltro modo di vedere in altra sede [156], la tutela del convivente superstite sembra attuabile
anche mercé negozi o istituti maggiormente «collaudati» nel nostro ordinamento.
Una questione cui può accennarsi in conclusione del
presente studio concerne l’eventuale estensibilità al trust creato nell’ambito della famiglia di fatto delle
considerazioni sopra svolte con riguardo al divieto di costituzione di beni in
dote, ricordandosi in proposito la risposta affermativa data al quesito circa
l’applicabilità (nei limiti a suo tempo precisati) dell’art. 166-bis c.c. ai trusts costituiti nell’ambito di una famiglia legittima [157]. Ora, è evidente che quelle argomentazioni non
possono valere per la famiglia di fatto, in relazione alla quale non possono
trovare applicazione né l’art. 166-bis c.c., né l’art. 15, lett. b),
della Convenzione dell’Aja. Peraltro sarebbe legittimo porsi l’interrogativo
sulla possibilità di estrapolare dal divieto codicistico di costituzione di
dote un principio d’ordine pubblico [158] più ampio, che legando la norma ordinaria al canone
costituzionale di pari dignità tra uomo e donna anche al di fuori dell’unione
coniugale, vieti comunque la stipula di negozi fondati sull’idea (rectius:
sul pregiudizio) secondo cui la donna (o, per essa, la sua famiglia), dovrebbe
in qualche modo «compensare» con un apporto patrimoniale il «peso» che essa
viene a costituire per l’uomo con la creazione di una nuova famiglia (legittima
o di fatto), apportando beni destinati ad essere da quest’ultimo esclusivamente
amministrati [159].
* Testo della relazione presentata al convegno dal
titolo «Autonomia patrimoniale e segregazione patrimoniale nel trust»,
organizzato dall’Associazione Avvocati del Distretto di Torino e
dall’Associazione «Il trust in Italia», svoltosi a Torino il 24 gennaio 2004.
[1] Su tale concezione v., anche per gli ulteriori
rinvii, Sesta, Il diritto di
famiglia tra le due guerre e la dottrina di Antonio Cicu, in Cicu, Il diritto di famiglia. Teoria
generale, Lettura di Michele Sesta, Momenti del pensiero giuridico moderno.
Testi scelti a cura di Pietro Rescigno. Redattore Enrico Marmocchi, Sala
Bolognese, 1978, p. 1 ss., p. 47 ss.; cfr. inoltre, per ulteriori rinvii alle
opere del Cicu e agli autori intervenuti nel dibattito sulla «concezione
istituzionale» della famiglia, Oberto,
I contratti della crisi coniugale, I, Milano, 1999, p. 103 ss.
[2] Sul tema cfr. Oberto,
I contratti della crisi coniugale, I, cit., p. 116 ss. Ora v. anche Bocchini, Autonomia negoziale e
regimi patrimoniali familiari, in Riv. dir. civ., 2001, I, p. 446
ss, p. 437 ss.
[3] Si veda in particolare il contributo, pubblicato per
la prima volta nel 1945, dal titolo L’autonomia privata nel diritto di
famiglia (Santoro-Passarelli, L’autonomia
privata nel diritto di famiglia, in Saggi di diritto civile, I, Napoli,
1961, p. 381 ss., già in Dir. giur., 1945, p. 3 ss.). Per
un’illustrazione del pensiero dell’insigne Autore cfr. Oberto, I contratti della crisi coniugale, I, cit., p.
113 ss.; per una successiva riscoperta dello scritto di Santoro-Passarelli cfr.
anche Zoppini, L’autonomia
privata nel diritto di famiglia, sessant’anni dopo, in Riv. dir. civ.,
2001, I, p. 213 ss.).
[4] Cfr., anche per gli ulteriori rinvii dottrinali e
giurisprudenziali, Oberto, I contratti della crisi coniugale, I,
cit., p. 28 ss.; in particolare, sulla natura contrattuale dell’accordo di
separazione consensuale, per ciò che attiene alle intese d’ordine economico, v.
Id., La natura dell’accordo di separazione consensuale e le regole
contrattuali ad esso applicabili, in Fam.
e dir., 1999, p. 601 ss.; ivi,
2000, p. 86 ss.). Così, per esempio, un espresso rimando all’art. 1322 c.c.
compare per ben due volte in una nota decisione sulla validità degli accordi
preventivi tra coniugi in materia di conseguenze patrimoniali dell’annullamento
del matrimonio (Cass., 13 gennaio 1993, n. 348, in Corr. giur., 1993, p. 822 con nota di Lombardi; in Giur. it.,
1993, I, 1, c. 1670, con nota di Casola;
in Nuova giur. civ. comm., 1993, I,
p. 950, con note di Cubeddu e di Rimini; in Vita not., 1994, p. 91, con nota di Curti; in Contratti,
1993, p. 140, con nota di Moretti),
mentre espliciti o impliciti riferimenti all’autonomia contrattuale punteggiano
tutta o quasi la complessa vicenda in tema di trasferimenti immobiliari e
mobiliari in sede di separazione personale tra coniugi (sul tema cfr. per tutti
Oberto, I trasferimenti
mobiliari e immobiliari in occasione di separazione e divorzio, in Fam.
e dir., 1995, p. 155 ss.; Id.,
I contratti della crisi coniugale, II, cit., p. 1211 ss.; Id., Prestazioni «una tantum» e trasferimenti tra coniugi in occasione di
separazione e divorzio, Milano, 2000, in partic. p. 69 ss.; v. anche G. Ceccherini, Separazione consensuale e contratti tra coniugi, in Giust. civ., 1996, II, p. 378 s.; Longo, Trasferimenti immobiliari a scopo di mantenimento del figlio nel
verbale di separazione: causa, qualificazione, problematiche, nota a App.
Genova, 27 maggio 1997, in Dir. fam.
pers., 1998, p. 576; per una successiva, sintetica, analisi del tema, cfr.
anche T.V. Russo, I
trasferimenti patrimoniali tra coniugi nella separazione e nel divorzio,
Napoli, 2001). Ancora, al concetto di «convenzione di diritto familiare» fa
richiamo la Cassazione in una decisione del 1983 per affermare l’applicabilità
all’accordo di riconciliazione dei principi generali degli artt. 1326-1328 c.c.
in tema di formazione del consenso (Cass., 29 aprile 1983, n. 2948, in Giur. it., 1983, I, 1, c. 1233; in Dir. fam. pers., 1983, p. 910; per una
pronuncia più recente che applica l’art. 1371 c.c. ad una «convenzione
acecessoria alla sentenza di divorzio» v. Cass., 14 luglio 2003, n. 10978). Per
non dire poi dell’evoluzione più recente in materia di accordi non omologati
successivi alla separazione, ove la Cassazione riconosce effetto, ormai da
alcuni anni a questa parte, al pieno dispiegarsi della negozialità dei coniugi,
in forza del principio sancito dall’art. 1322 c.c., ritenuto senza riserve
applicabile al caso di specie, addirittura anche per quanto concerne le
pattuizioni concernenti la prole minorenne; conclusione, quest’ultima, che
conferma l’espansione dell’operatività della sfera dell’autonomia privata anche
nel settore di quei negozi del diritto di famiglia non caratterizzati dalla
patrimonialità (Cfr. per esempio Cass., 24 febbraio 1993, n. 2270, in Corr. giur., 1993, p. 820, con nota di Lombardi; in Giust. civ., 1994, I, p. 213, con nota di Sala; in Giust. civ.,
1994, I, p. 912; in Dir. fam. pers.,
1994, p. 554, con nota di Doria;
Cass., 22 gennaio 1994, n. 657, in Dir.
fam. pers., 1994, p. 868; in Nuova
giur. civ. comm., 1994, I, p. 710, con nota di Ferrari; in Giur. it.,
1994, I, 1, c. 1476; in Foro it.,
1995, I, c. 2984; in Fam. dir., 1994,
p. 148, con nota di V. Carbone;
Cass., 11 giugno 1998, n. 5829).
[5] Su questo concetto cfr. per tutti Oberto, I contratti della crisi coniugale, I, cit., p. 215 ss.
[6] In questo senso cfr. Barbiera, Disciplina
dei casi di scioglimento del matrimonio, in Commentario del codice civile
a cura di Scialoja e Branca, Bologna-Roma, 1971, p. 147 s.; A. Finocchiaro, Sulla pretesa inefficacia di accordi non omologati diretti a modificare
il regime della separazione consensuale,
in Giust. civ., 1985, I, p. 1659
s.; Metitieri, La funzione notarile nei trasferimenti di
beni tra coniugi in occasione di separazione e divorzio, in Riv. notar., 1995, I, p. 1177; G. Ceccherini, Separazione consensuale e contratti tra coniugi, cit., p. 407; Figone, Sull’annullamento del verbale di separazione consensuale per incapacità
naturale, nota a App. Milano, 18 febbraio 1997, in Fam. e dir., 1997, p. 441.
[7] Cfr., anche per i rinvii, Oberto, I contratti
della crisi coniugale, I, cit., p. 215 ss.
[8] V. Cass., 15 marzo 1991, n. 2788, in Foro it., 1991, I, c. 1787; in Corr. giur., 1991, p. 891, con nota di
A. Cavallo; sempre in materia di transazione
cfr. Cass., 12 maggio 1994, n. 4647, in Fam.
e dir., 1994, p. 660, con nota di Cei;
in Vita not., 1994, p. 1358;
in Giust. civ., 1995, I, p. 202; in Dir. fam. pers., 1995, p. 105; in Nuova giur. civ. comm., 1995, I, p. 882,
con nota di Buzzelli; in Riv. notar., 1995, II, p. 953.
[9] Così Cass., 23 luglio 1987, n. 6424, in Giust. civ., 1988, I, p. 459.
[10] Per una recente vicenda in cui la Corte Suprema, dopo
avere ribadito con dovizia di particolari in motivazione la tesi della
negozialità della separazione consensuale, con un… finale «a sorpresa» ha
negato l’impugnabilità della stessa per simulazione cfr. Cass., 20 novembre
2003, n. 7607, in Corr. giur., 2004,
con nota di Oberto, Simulazione della separazione consensuale:
la Cassazione cambia parere (ma non lo vuole ammettere), in corso di stampa
(sul n. 3).
[11] Cfr., anche per i rinvii, Ruscello, I rapporti personali fra coniugi, Milano,
2000, p. 63 ss.
[12] Cfr., anche per i rinvii, Oberto, L’autonomia negoziale nei rapporti patrimoniali
tra coniugi (non in crisi), in Familia, 2003, p. 617 ss.; Id., I contratti della crisi
coniugale, I, cit., p. 684 ss.
[13] Cfr., anche per i rinvii, Oberto, L’autonomia negoziale nei rapporti patrimoniali
tra coniugi (non in crisi), cit., p. 636 ss.; Id, I contratti della crisi coniugale, I, cit., p. 155
ss.
[14] Cfr, anche per i rinvii, Oberto,
I contratti della crisi coniugale, I, cit., p. 28 ss., 179 ss., 321 ss.,
634 ss., II, cit., p. 1212 ss., 1413 ss.
[15] Cfr. Oberto,
I regimi patrimoniali della famiglia di fatto, Milano, 1991, p. 8 ss.,
151 ss. e ora Id., I contratti di convivenza tra autonomia
privata e modelli legislativi, in Riv.
trim. dir. proc. civ., 2004 (in corso di stampa).
[16] Oberto,
I contratti di convivenza tra autonomia
privata e modelli legislativi, cit., §§ 1 s.
[17] Cfr. l’art. 11 d. legis. 9 aprile 2003, n. 70
«Attuazione della direttiva 2000/31/CE relativa a taluni aspetti giuridici dei
servizi della società dell’informazione nel mercato interno, con particolare
riferimento al commercio elettronico», il quale stabilisce l’inapplicabilità
della relativa regolamentazione ai «contratti disciplinati dal diritto di
famiglia». Il richiamo legislativo, ad avviso dello scrivente, deve intendersi
effettuato tanto alle convenzioni matrimoniali (sulla cui natura contrattuale
v. per tutti Oberto, L’autonomia
negoziale nei rapporti patrimoniali tra coniugi (non in crisi), cit., p.
617 ss.), quanto ai contratti della crisi coniugale che, come si è dimostrato
in altra sede (Oberto, I
contratti della crisi coniugale, I, cit., p. 696 ss.), rinvengono il loro
fondamento causale in specifiche disposizioni giusfamiliari.
[18] Così Ferrando,
Autonomia negoziale e rapporti familiari.
L’evoluzione dell’ultimo trentennio, in Dogliotti e Braun (a cura di), Il
trust nel diritto delle persone e della famiglia. Atti del
convegno. Genova, 15 febbraio 2003, Milano, 2003, p. 3.
[19] Cfr. Théry,
Le démariage. Justice et vie privée, Paris, 1993, p. 12.
[20] «Where the home is conveyed
to a person other than the one who provided the purchase money, there is a
general rule that beneficial ownership ‘results’ to the one providing the
purchase money»: v. Parry, Cohabitation, London, 1981, p. 14 ss.,
il quale peraltro rileva che la presumption
of resulting trust è rebuttable by
other evidence. Sull’argomento cfr. inoltre Parker e Mellows,
The Modern Law of Trusts, London,
1970, p. 32; Ford e Lee, Principles of the Law of Trust, Melbourne, 1983, p. 951 ss. Sulla questione v. anche Oberto, I regimi
patrimoniali della famiglia di fatto, cit., p. 130 ss.
[21] V. per tutti Parry,
op. loc. ultt. citt.; Olivier, The Mistress in Law, in Current
Legal Problems, 1978, p. 83 ss.; Pearl,
Rapports hors mariage, in Mariage et famille en question (l’évolution
contemporaine du droit anglais), sous la direction de H.A. Schwarz-Liebermann
von Wahlendorf, Lyon, 1979, p. 144 ss.; Finlay,
The Informal Marriage in Anglo-Australian
Law, in Eekelaar e Katz, Marriage and Cohabitation in Contemporary Societies, Toronto, 1980,
p. 164 ss.; Riddal, The Law of Trusts, London, 1987, p. 178
s., 182 s. Per un’analitica rassegna delle ipotesi di trust nelle relazioni
familiari (sia in presenza che in assenza di matrimonio) v. Cretney e Masson, Principles of Family Law, London, 1997, p. 126
ss.
[22] Per un’applicazione del trust a un conto intestato a uno solo dei conviventi, ma alimentato
da versamenti di provenienza di entrambi v. Paul
v. Constance, 1977, 1, WLR, 527,
in cui l’intenzione di costituire il trust
venne tra l’altro dedotta dalle espressioni a più riprese usate dal titolare
del conto, il quale aveva più volte dichiarato alla convivente: «The money is
as much yours as mine».
[23] «The parties will have
proportionate beneficial interests equivalent to their contribution»: v. Parry, op. cit., p. 16; nello stesso senso v. Riddal, op. cit.,
p. 178 s.
[24] «Mortgage repayments will
count as contributions towards the purchase price»: v. Diwell v. Farnes, 1959, 1, WLR,
624.
[25] Cooke v. Head,
1972, 1, WLR, 518 (Lord Denning), in
cui l’uomo aveva acquistato a proprio nome un terreno sul quale, con il
consistente aiuto della convivente (che «did a great deal of heavy work,
including mixing and carting cement»), aveva realizzato un bungalow. Il contributo della donna venne nella specie valutato in
un terzo del valore della proprietà (cfr. anche Cretney, The Law
Relating to Unmarried Partners From the Perspective of a Law Reform Agency,
in Eekelaar e Katz, Marriage and Cohabitation in Contemporary Societies, cit., p. 360).
La regola trova applicazione anche nei confronti delle coppie coniugate: v.
per esempio Smith v. Baker, 1970, 1, WLR,
1160.
[26] Eves v. Eves,
1975, 1, WLR, 1338, in cui alla
convivente venne riconosciuto un interest
pari a un quarto del valore della proprietà.
[27] Hussey v. Palmer, 1972, 1,
WLR, 1286.
[28] Cfr. Riddal, op. cit., p. 359 ss.; Parker
e Mellows, op. cit., p. 32; Heydon, Gummow,
Austin, Cases and Materials on Equity and Trusts, Sydney, 1982, p. 634; Furmston, Law of Contract, London, 1986, p. 442 ss.; per gli U.S.A. v. Jay Folberg, Domestic Partnership: A No-fault Remedy for Cohabitors, in Eekelaar e Katz, op. cit., p.
349. Sul tema v. anche diffusamente Lupoi, Trusts, Milano, 2001, p. 68 ss.; Dogliotti e Piccaluga,
I trust nella crisi della famiglia, in Fam. e dir., 2003,
p. 301 ss. e in Dogliotti e Braun (a cura di), Il trust nel diritto
delle persone e della famiglia. Atti del convegno. Genova, 15 febbraio
2003, Milano, 2003, p. 135 ss.
[29] Dawson,
Unjust Enrichment. A Comparative Analysis, Boston, 1951, p. 26 ss.; nel
senso che il constructive trust è uno
degli strumenti attraversi i quali si attua l’obbligo restitutorio gravante
sull’arricchito v. P. Gallo, L’arricchimento senza causa, Padova,
1990, p. 473. Per un’ampia panoramica su questo tipo di rapporti cfr. Lupoi, Trusts, cit., p. 68 ss.
[30] Grant v.
Edwards, 1986, Ch 638, 1986, 2 All ER 426.
[31] Burns v.
Burns, 1984, Ch 317, 1984, 1 All ER 244.
[33] Cfr. Lupoi, Trusts, cit., p. 112.
[34] Cfr. Parry,
op. loc. cit.; v. inoltre Ford e Lee, op. cit., p.
989.
[35] Cfr. Lupoi,
Introduzione ai trusts. Diritto inglese, Convenzione dell’Aja,
Diritto italiano, Milano, 1994, p. 10 ss., il quale propone una distinzione
tra implied, resulting e constructive
trusts nei termini seguenti: «trusts istituiti volontariamente, ma senza
espressa dichiarazione (implied trusts);
trusts che vengono in esistenza perché corrispondono a fattispecie delineate da
regole di equity (constructive trusts);
trusts residuali (resulting trusts)».
[36] Cfr. Stenger, Cohabitation and Constructive Trust - Comparative Approaches, in Journal of Family Law, 27 (1988-89), p.
373 ss.; Bruch, Nonmarital Cohabitation in the Common Law
Countries: A Study in Judicial-Legislative Interaction, in The American Journal of Comparative Law,
1981, p. 217, 221. Per la peculiare
situazione degli Stati Uniti d’America, ove l’applicazione dell’istituto del trust alla materia dei rapporti tra
conviventi risale a data addirittura anteriore alle elaborazioni di Lord
Denning cfr. Oberto, I regimi patrimoniali della famiglia di
fatto, cit., p. 232, nota 26.
[37] Di cui dà atto Lupoi,
Introduzione ai trusts. Diritto inglese, Convenzione dell’Aja,
Diritto italiano, cit., p. 20 s.
[38] Green v Green (1989)
17 NSWLR 343: «Nevertheless, it is
now well settled that there are circumstances in which a court of equity will
intervene to declare the existence of a proprietary interest in a family home
on the part of a spouse or de facto partner, and the unifying principle
underlying the cases where such intervention is regarded as appropriate is that
in the circumstances of the case and in accordance with equitable doctrines, it
would be unconscionable on the part of the person against whom the claim is set
up to refuse to recognise the existence of the equitable interest».
[39] Così Jessep,
Financial Adjustment in Domestic Relationships in NSW: Some Problems of
Interpretation, disponibile all’indirizzo web seguente: http://www.lawlink.nsw.gov.au/lrc.nsf/pages/seminar01.04;
(per richiami al De Facto Relationships Act v. Oberto, I contratti di
convivenza tra autonomia privata e modelli legislativi, cit., § 1, nota 6).
[40] Il testo della decisione, emessa nel dicembre 2001, è
reperibile al seguente indirizzo web: http://www.law.unsw.edu.au/Course/laws1081/Carruthers-v-Manninghandout.doc.
[41] Sull’ammissibilità della proprietà fiduciaria e dei
negozi fiduciari nel nostro ordinamento v. Grassetti,
Del negozio fiduciario e della sua
ammissibilità nel nostro ordinamento giuridico, in Riv. dir. comm., 1936, I, p. 345 ss.; Pugliatti, Fiducia e
rappresentanza indiretta, in Riv. it.
sc. giur., 1948, p. 226 ss.; Lipari,
Il negozio fiduciario, Milano, 1964,
p. 411 ss.; Jaeger, La separazione del patrimonio fiduciario nel
fallimento, Milano, 1968, p. 44; Santoro-Passarelli, Dottrine generali del diritto civile, Napoli, 1978, p. 179 ss.;
V.M. Trimarchi, voce Negozio fiduciario, in Enc. dir., XXVIII, Milano, 1978, p. 32
ss.; Carnevali, voce Intestazione fiduciaria, in Dizionari del diritto privato a cura di
N. Irti, Milano, 1980, p. 445 ss.; Sacco
e De Nova, Il contratto, in Trattato di diritto privato, diretto da P. Rescigno, 10, Torino,
1982, p. 324 ss.; Calvo, La
tutela dei beneficiari nel «trust» interno, in Riv. trim. dir. proc.
civ., 1998, p. 33 ss.
[42] Cass., 18 ottobre 1988, n. 5663, in Foro it., 1989, I, c. 101, secondo cui
il negozio traslativo che prevede l’obbligo del fiduciario di trasferire beni
immobili al fiduciante o ad altro soggetto, da quest’ultimo designato, deve
rivestire ad substantiam la forma
scritta. La giurisprudenza è costante in tal senso: v. Cass. 30 gennaio 1985,
n. 560, in Rep. Foro it., 1987, voce Contratto in genere, n. 295; in dottrina
cfr. Galgano, Il negozio giuridico, in Trattato fondato da Cicu e Messineo,
continuato da Mengoni, Milano, 1988, p. 324 ss.
[43] Sul punto si fa rinvio per tutti a Oberto, I regimi patrimoniali della famiglia di fatto, cit., p. 133 ss.; Id., Le prestazioni lavorative del convivente more uxorio, Padova, 2003,
p. 73 ss.
[44] Convention de
[45] «Article 3 –
[46] Su cui cfr., ex multis, Piccoli, L’avanprogetto di
convenzione sul «trust» nei lavori della Conferenza di diritto internazionale
privato de L’Aja ed i riflessi di interesse notarile, in Riv. not.,
1984, p. 844 ss.; Lupoi, Introduzione
ai trusts. Diritto inglese, Convenzione dell’Aja, Diritto italiano,
cit., in partic. p. 125 ss., 155 ss.; Id.,
La sfida dei trusts in Italia, in Corr. giur., 1995, p.
1205 ss.; Id., voce Trusts
‑I) Profili generali e diritto straniero, in Enc. giur.
Treccani, XXV, Roma, 1995, p. 7; Id.,
Trusts, Milano, 2001, p. 491 ss.; Fumagalli,
La Convenzione dell’Aja sul trust ed il diritto internazionale
privato italiano, in Dir. comm. int., 1992, p. 533 ss.; Aa.Vv., Convenzione relativa alla
legge sui trusts ed al loro riconoscimento, in Commentario, a
cura di Gambaro, Giardina e Ponzanelli, in Nuove leggi civ. comm., 1993,
p. 1211 ss.; Broggini, Il trust
nel diritto internazionale privato italiano, in Beneventi (a cura di), I
trusts in Italia oggi, Milano, 1996, p. 11 ss.; Pocar, La libertà di scelta della
legge regolatrice del trust, in Beneventi (a cura di), I trusts
in Italia oggi, cit., p. 3 ss.; Luzzatto,
«Legge applicabile» e
«riconoscimento» di trusts secondo la Convenzione dell’Aja, in
Trusts att. fid., 2000, p. 7 ss.; S.M. Carbone,
Autonomia privata, scelta della legge regolatrice del trust e
riconoscimento dei suoi effetti nella Convenzione dell’Aja del 1985, in
Trusts att. fid., 2000, p. 145 ss.; Contaldi,
Il trust nel diritto internazionale privato italiano, Milano,
2001.
[47] Sul rapporto tra trusts e patti successori,
cfr. Rescigno, Trasmissione
della ricchezza e divieto dei patti successori, in Vita not., 1993,
p. 1281; Calò, Dal probate
al family trust, riflessi ed ipotesi applicative in diritto italiano,
Milano, 1996, p. 101 ss.; Miranda,
Trust e patti successori: variazioni sul tema, in Vita not.,
1997, p. 1578 ss.; Gambaro, voce
Trusts, in Noviss. dig. it.,
Torino, 1999, p. 459 ss.;
F. Pene Vidari, Trust e
divieto dei patti successori, in Riv. dir. civ., 2000, p. 851 ss.; Lupoi, Trusts, cit., p. 663; Bartoli, Il trust, Milano, 2001,
p. 667 ss.
[48] Sul rapporto tra trusts e sostituzione
fedecommissaria, cfr., fra gli altri, Palazzo,
I trusts in materia successoria, in Vita not., 1996, p.
671 ss.; Lupoi, Trusts, cit., p.
553 ss.; Amenta, Trusts a
protezione di disabile, in Trusts att. fid., 2000, p. 618 ss.
[49] Sul tema cfr., anche per i richiami dottrinali e
giurisprudenziali, Di Landro,
Trusts per disabili. Prospettive applicative, in Dir. fam. pers.,
2003, p. 166 ss.
[50] Rileva Lupoi,
Perché i trust in Italia, in
Dogliotti e Braun (a cura di), Il trust nel diritto delle persone e
della famiglia. Atti del convegno. Genova, 15 febbraio 2003, cit., p.
19 che «La produzione della letteratura italiana al riguardo non ha l’eguale in
alcun altro Paese di diritto civile, mentre il numero delle pronunce
giurisprudenziali italiane in materia negli ultimi tre anni è probabilmente
maggiore della somma delle sentenze emesse nel medesimo periodo in tutti gli altri
paesi di tradizione civilistica del mondo».
[51] Sul tema cfr. ex multis Lupoi, Il trust
nell’ordinamento giuridico italiano dopo la convenzione dell’Aja del 10 luglio
[52] Il dubbio è posto e superato da Calvo, op. cit., p. 51 ss., cui
si fa rinvio anche per ulteriori richiami.
[53] Cfr. da ultimo Trib. Bologna, 1 ottobre 2003, ai
seguenti indirizzi web:
http://www.il-trust-in-italia.it/Giurisprudenza%20italiana/TribBologna1ott03.pdf,
nonché
http://www.filodiritto.com/notizieaggiornamenti/20ottobre2003/TBOlegittimitatrustinterno.htm;
per la dottrina v. Lupoi, Trusts,
cit., p. 520 ss.; S.M. Carbone,
Trust interno e legge straniera, in Dogliotti e Braun (a cura di), Il
trust nel diritto delle persone e della famiglia. Atti del
convegno. Genova, 15 febbraio 2003, cit., p. 28.
[54] Cfr. il rapport explicatif (cfr. von Overbeck, Rapport explicatif sur la Convention de La Haye du
premier juillet 1985 relative à la loi applicable au trust et à sa
reconnaissance, cit., n.
123, a commento dell’art. 13); il passo cui fanno riferimento i sostenitori
della validità del trust «interno» è invece quello che, a commento
dell’art. 6 (nn. 65 e 66), dà atto del rigetto di una proposta tendente a
legare la scelta della legge straniera all’esistenza di un «lien [réel] avec la
loi choisie»; il rigetto di tale proposta s’accompagna però al rilievo secondo
cui «l’opinion a prévalu qu’il était préférable de réprimer les choix abusifs
dans ce qui allait devenir l’article 13»: appare dunque chiara l’intenzione di
considerare «abusiva» la scelta del ricorso ad una legislazione straniera per
dare vita ad un trust «interno» in un Paese che non conosca tale
istituto.
[55] Su cui v. Calvo,
op. loc. ultt. citt.; cfr. inoltre Lipari,
Fiducia statica e trusts, in Beneventi (a cura di), I trusts in
Italia oggi, cit., p. 75; Lupoi,
Legittimità dei trusts interni, ivi, p. 41; Calò, Dal probate al family
trust, riflessi ed ipotesi applicative in diritto italiano, cit., p. 99,
nota 86.
[56] Ugualmente non persuasivo, a sommesso avviso dello
scrivente, appare poi il tentativo di fondare sulla normativa del codice civile
la possibilità di dar luogo a fenomeni di «segregazione» patrimoniale al di là
dei casi normativamente previsti. Si sono citati al riguardo, per ricordare
solo alcune fattispecie, i fenomeni previsti in relazione agli acquisti del
mandatario senza rappresentanza, alla posizione del debitore che ha costituito
in pegno uno o più beni, alla situazione che si viene a produrre nella c.d.
«fiducia statica» (che altro non è se non il mandato senza rappresentanza fiduciae causa) o nel sequestro
convenzionale (i rilievi sono stati presentati da Lupoi nel corso del convegno
dal titolo «Autonomia patrimoniale e segregazione patrimoniale nel trust»,
cit.; per un approccio riconducibile alla stessa ratio cfr. anche Lupoi,
Trusts, cit., p. 551 ss.). In tutti questi casi (e fermo restando,
naturalmente, che la questione meriterebbe ben altro approfondimento,
impossibile nella presente sede), l’effetto «segretativo», in deroga al
disposto di cui all’art. 2740 c.c., sembra invero porsi quale esclusiva
conseguenza di precise disposizioni di legge, in fattispecie che la legge
stessa tassativamente descrive, ricollegandole a ben precise dichiarazioni
negoziali (bilaterali, tra l’altro), inestensibili analogicamente. In altre
parole, sembra a chi scrive che l’art. 2740 c.c. non possa subire deroghe se
non per effetto di disposizioni di legge.
[57] Lupoi, Introduzione
ai trusts. Diritto inglese, Convenzione dell’Aja, Diritto italiano,
cit., p. 147.
[58] Così invece Lupoi,
Introduzione ai trusts. Diritto inglese, Convenzione dell’Aja,
Diritto italiano, cit., p. 147.
[59] Cfr. von Overbeck, Rapport explicatif sur la Convention de La Haye du
premier juillet 1985 relative à la loi applicable au trust et à sa
reconnaissance, cit., n.
137. Il richiamo all’unico precedente
giurisprudenziale italiano in materia non apporta, nella specie, grande aiuto.
In esso, invero, affermata la validità di una disposizione testamentaria
istitutiva di un trust, si è ammessa
l’esperibilità dei rimedi a tutela dei legittimari (cfr. Trib. Lucca, 23
settembre 1997, in Foro it., 1998, I,
c. 2007, con nota di Brunetti, c.
3391, con nota di Lupoi). Ora,
una volta chiarito che il trust è
cosa diversa dal fedecommesso (sul punto v. per tutti Lupoi, Aspetti gestori
e dominicali, segregazione: «trust» e istituti civilistici, nota a Trib.
Lucca, 23 settembre 1997, cit., in Foro
it., 1998, c. 3391 ss.), la violazione di norme inderogabili italiane si
pone direttamente sul piano degli effetti e non certo su quello della fattispecie:
si ponga mente al fatto che neppure in diritto italiano può affermarsi la
nullità di una clausola testamentaria che viola la legittima. Al contrario, nel
caso delle norme dettate dagli artt. 160 ss. c.c. ci troviamo di fronte a
disposizioni che attengono al piano della fattispecie.
[60] Sull’ammissibilità della creazione di regimi
patrimoniali atipici e sul carattere contrattuale delle convenzioni
matrimoniali si fa rinvio, anche per gli ulteriori richiami, a Oberto, L’autonomia negoziale nei
rapporti patrimoniali tra coniugi (non in crisi), in Familia, 2003,
p. 617 ss., 636 ss.
[61] Sul tema cfr. per tutti Oberto, L’autonomia negoziale nei rapporti patrimoniali
tra coniugi (non in crisi), cit., p. 667 ss.
[62] V. per tutti De
Paola, Il diritto patrimoniale
della famiglia coniugale, II, Milano, 1995, p. 58.
[63] Mazzocca, I rapporti patrimoniali tra i coniugi nel
nuovo diritto di famiglia, Milano, 1977, p. 26; De Paola, op. loc.
ultt. citt.
[64] Sacco, Del regime patrimoniale della famiglia,
nel Commentario al diritto italiano della
famiglia, a cura di Cian, Oppo e Trabucchi, III, Padova, 1992, p. 42.
[65] Cfr. Carnevali,
Le convenzioni matrimoniali, in Il diritto di famiglia,
Trattato diretto da Bonilini e Cattaneo, II, Il regime patrimoniale della
famiglia, Torino, 1997, p. 23.
[66] Sacco, Regime patrimoniale e convenzioni, nel Commentario alla riforma del diritto di
famiglia a cura di Carraro, Oppo e Trabucchi, I, 1, Padova, 1977, p. 342; Id., Del regime patrimoniale della famiglia, nel Commentario al diritto italiano della famiglia, a cura di Cian,
Oppo e Trabucchi, cit., p. 42; Grasso,
Il regime patrimoniale delle famiglia in
generale, in Trattato di diritto
privato, diretto da P. Rescigno, 3, Torino, 1982, p. 378; Moscarini, Convenzioni matrimoniali in generale, in La comunione legale, a cura di C.M. Bianca, II, Padova, 1989, p.
1014; Morelli, Autonomia negoziale e limiti legali nel
regime patrimoniale della famiglia, in Fam.
dir., 1994, p. 107.
[67] Corsi, Il regime patrimoniale della famiglia,
I, I rapporti patrimoniali tra coniugi in
generale, I, La comunione legale,
Milano, 1979, p. 15.
[68] Corsi, op. loc. ultt. citt.
[69] Cfr. Bechini,
Disposizioni proibitive, testo disponibile al seguente sito web: http://home.tiscalinet.ch/ugobechini/2c.doc, secondo cui, in presenza di una pregressa situazione
di discriminazione, sarebbe forse lecito «predisporre strumenti legislativi
(formalmente anch’essi discriminatori, ma di segno contrario) tesi al
riequilibrio dei rapporti tra le categorie di cittadini interessate (U.S.
Supreme Court, Fullilove v. Klutznick, 448 U.S. 448,1980; U.S. Supreme Court,
City of Richmond v. J. A. Croson Co., 488 U.S. 469, 1989, GiC, 1992, 681; C.
giust. CE
17.10.1995, 450/93/1995, Kalanke v. Glibmann, GC, 1995, I, 2863; C. giust. CE
11.11.1997, C-409/95, Hellmut Marschall v. Land Nordrhein-Westfalen, FI, 1998,
IV, 295»).
[70] Si noti che anche i lavori preparatori della riforma
del 1975 sembrano deporre in questo senso. Come si legge nella Relazione
della 2a Commissione permanente del Senato della Repubblica
(relatore sen. Agrimi) sui disegni di legge in materia di «Riforma del diritto
di famiglia» (27/1/75), in La riforma del diritto di famiglia, a
cura del Prof. M. Bin, Torino,
1975, p. 33, la ratio della norma in esame va ricercata non già
nell’intenzione di eliminare una disposizione «punitiva» nei confronti della
donna, bensì nel fatto che l’istituto venne «considerato incompatibile col
nuovo complessivo sistema di rapporti tra i coniugi».
[71] Sacco, Del regime patrimoniale della famiglia,
nel Commentario al diritto italiano della
famiglia, a cura di Cian, Oppo e Trabucchi, cit., p. 42; Morelli, op. cit., p. 107.
[72] Sul punto v. A. e M. Finocchiaro, Diritto di
famiglia, III, Il divorzio, Milano,
1988, p. 789; Morelli, op. cit., p. 107.
[73] Così invece Santosuosso,
Il regime patrimoniale della famiglia,
in Commentario del codice civile, a
cura di magistrati e docenti, Torino, 1983, p. 113 s.
[74] Su cui v. Tedeschi,
Il regime patrimoniale della famiglia,
Torino, 1950, p. 655 s.
[75] De Paola,
op. cit., p. 63.
[76] Cfr. Corsi,
op. cit., I, p. 26.
[77] Cfr. A. e M. Finocchiaro,
op. cit., p. 790; v. inoltre Moscarini, op. cit., p. 1014 ss., 1016 (secondo cui ciò che caratterizza la
dote è lo «scollamento» tra titolarità dei beni patrimoniali e potere di
amministrazione»).
[78] Cfr. Corsi,
op. cit., I, cit., p. 47 s.
[79] Per un accenno alla questione v. anche Marchesiello, La dote per mezzo di
trust secolare, in Dogliotti e Braun (a cura di), Il trust nel
diritto delle persone e della famiglia. Atti del convegno. Genova, 15
febbraio 2003, cit., p. 195 ss.
[80] Cfr. per tutti Lupoi,
Trusts, cit., p. 155 ss., 161 ss., 164 s. (l’Autore mette tra l’altro in
evidenza come la mancata indicazione del trustee
nelle disposizioni inter vivos sia
causa di nullità del trust).
[81] V. infra, § 7.
[82] L’atto è pubblicato in Trusts att. fid., 2003,
p. 126 ss., con nota di Lupoi, Trust
e "dote": un commento, ivi, p. 141 s.
[83] Così Marchesiello,
op. loc. citt.
[84] Cfr. supra, § 4.
[85] Cattaneo,
Corso di diritto civile. Effetti del
matrimonio, regime patrimoniale, separazione e divorzio, Milano, 1988, p.
58; De Paola, op. cit., p. 51; Oberto, Le
convenzioni matrimoniali: lineamenti della parte generale, in Fam. dir., 1995, p. 600 s.; Bargelli e Busnelli, voce Convenzione
matrimoniale, in Enc. dir., Aggiornamento, IV, Milano, 2000, p. 457; Zaccaria, Possono i coniugi optare per un regime
patrimoniale «atipico»?, in Studium
iuris, 2000, p. 947 s.; Valignani,
I limiti dell’autonomia dei coniugi
nell’assetto dei loro rapporti patrimoniali, in Familia, 2001, p. 382; Ieva, Le convenzioni matrimoniali, in Trattato di diritto di famiglia,
diretto da P. Zatti, III, Milano, 2002, p. 33; Patti, Regime patrimoniale della famiglia e autonomia
privata, in Familia, 2002, p. 285 ss.
[86] Sacco, Del
regime patrimoniale della famiglia, in Commentario al diritto italiano
della famiglia a cura di Cian, Oppo e Trabucchi, cit., p. 16 ss.; Maiorca, voce Regime patrimoniale della famiglia (disposizioni generali), in Noviss. Dig. it., Appendice, VI, Torino, 1986, p. 463; De Paola, op. cit., p. 52; Oberto, Le convenzioni matrimoniali: lineamenti della
parte generale, cit, p. 600 s.; Zaccaria,
Possono i coniugi optare per un regime patrimoniale «atipico»?, cit., p.
947 s.; Valignani, op. cit.,
p. 382; Patti, Regime
patrimoniale della famiglia e autonomia privata, cit., p. 285 ss.
[87] Cfr. supra, § 4 in fine.
[88] Cfr., anche per i rinvii, Oberto, L’autonomia negoziale nei rapporti patrimoniali
tra coniugi (non in crisi), cit., p. 651 s.
[89] Cfr. ex multis Oberto, Le convenzioni matrimoniali: lineamenti della
parte generale, cit., p. 603; conforme Bocchini,
Autonomia negoziale e regimi patrimoniali familiari, cit., p. 443; cfr.
anche Palazzo, Le convenzioni matrimoniali e l’ulteriore
destinazione dei beni per mezzo di trust, in Dogliotti e Braun (a cura di),
Il trust nel diritto delle persone e della famiglia. Atti del convegno.
Genova, 15 febbraio 2003, cit., p. 95.
[90] Sostanzialmente nel
medesimo senso v. Conetti, Commento all’art. 30, in Aa. Vv., Riforma del sistema italiano di diritto internazionale privato (l. 31
maggio 1995, n. 218), in Nuove leggi
civ. comm., 1996, p. 1177 s.; Salerno
Cardillo, Rapporti
patrimoniali tra coniugi nel nuovo diritto internazionale privato e riflessi
sull’attività notarile, in Riv. notar.,
1996, I, p. 195; Villani, I rapporti patrimoniali tra i coniugi nel
nuovo diritto internazionale privato, in Giust. civ., 1996, II, p. 456.
[91] Su cui v. per tutti Oberto, Le convenzioni matrimoniali:
lineamenti della parte generale, cit., p. 596 ss.; Bargelli e Busnelli, voce
Convenzione matrimoniale,
cit., p. 436 ss., 442 ss.; Ieva,
Le convenzioni matrimoniali, cit., p.
27 ss.; Oberto, L’autonomia
negoziale nei rapporti patrimoniali tra coniugi (non in crisi), cit., p.
617 ss.
[92] Sul punto cfr., anche per i
rinvii, Oberto, I contratti della crisi coniugale, I,
cit., p. 683 ss.
[93] Sul tema, che non è
possibile affrontare in questa sede, della natura di convenzione matrimoniale
del fondo patrimoniale, eventualmente anche quando sia costituito (ovviamente, inter vivos) da un terzo, si fa rinvio,
anche per una rassegna di tutte le opinioni espresse sul punto, a Di Sapio, Fondo patrimoniale: l’alienazione dell’unico bene costituito,
l’estinzione per esaurimento, lo scioglimento (volontario), il Lar
familiaris e il mito di Calipso, in Dir. fam. pers., 1999, p. 394 ss.
[94] Cfr. Busnelli,
voce Convenzione matrimoniale, in Enc. dir., X, Milano, 1962, p. 514; v.
inoltre Tedeschi, Il regime patrimoniale della famiglia,
cit., p. 469 ss.
[95] Grasso,
Il regime patrimoniale delle famiglia in
generale, cit., p. 378; Santosuosso,
Il regime patrimoniale della famiglia,
cit., p. 55 ss.; Spinelli e Parente, Le convenzioni matrimoniali, in I
rapporti patrimoniali della famiglia - Saggi dai corsi di lezioni di diritto
civile tenute dai proff. Spinelli e Panza, Bari, 1987, p. 43 ss.; Bocchini, Rapporto coniugale e circolazione dei beni, cit., p. 185; Galletta, I regolamenti patrimoniali tra coniugi, Napoli, 1990, p. 7; De Paola, op. cit., p. 29 ss.; Oberto,
Le convenzioni matrimoniali: lineamenti della parte generale, cit., p.
597 s. ; Bocchini, Autonomia
negoziale e regimi patrimoniali familiari, cit., p. 447 s.
[96] Sul tema v. per
tutti Oberto, L’autonomia
negoziale nei rapporti patrimoniali tra coniugi (non in crisi), cit., p.
667 ss.
[97] Sul punto si rinvia ancora, a Oberto, Le convenzioni
matrimoniali: lineamenti della parte generale, cit., p. 598 s. In senso
contrario Bocchini, Autonomia
negoziale e regimi patrimoniali familiari, cit., p. 448, secondo cui
sarebbero ascrivibili al novero delle convenzioni matrimoniali anche quegli
accordi «che orientano le appartenenze e le destinazioni di singoli beni da
acquisire o (che) incidono sullo statuto (titolarità e/o destinazione) di
singoli beni attuali»; nello stesso ordine di idee v. Parente, Il preteso rifiuto del coacquisto ex lege
da parte di coniuge in comunione legale, Nota a Cass., 2 giugno 1989, n.
2688, in Foro it., 1990, I, c. 608 ss.
[98] Cfr. A. e
M. Finocchiaro, op. cit.,
p. 1153; Gabrielli, Scioglimento parziale della comunione legale
fra coniugi. Esclusione dalla comunione di singoli beni e rifiuto preventivo
del coacquisto, in Riv. dir. civ.,
1988, I, p. 347; Roppo, voce Coniugi I) Rapporti personali e patrimoniali
tra coniugi, in Enc. giur. Treccani,
VIII, Roma, 1988, p. 2.
[99] Sulla questione cfr. Oberto, I contratti della crisi coniugale, I, cit., p.
103 ss.
[100] Rescigno, Manuale del diritto privato italiano,
Napoli, 1975, p. 274.
[101] Sul punto v. Oberto,
I contratti della crisi coniugale, I, cit., p. 121 ss. e da ultimo anche
Bocchini, Autonomia negoziale
e regimi patrimoniali familiari, cit., p. 432, 440; Patti, Regime patrimoniale della famiglia e autonomia
privata, cit., p. 292, nota 18.
[102] Cfr. Oberto, I contratti della crisi coniugale, I, cit., p. 66 ss.; Id., Gli accordi sulle conseguenze patrimoniali della crisi coniugale e dello scioglimento del matrimonio nella prospettiva storica, nota a Cass., 20 marzo 1998, n. 2955, in Foro it., 1999, I, c. 1306 ss.; Id., I precedenti storici del principio di libertà contrattuale nelle convenzioni matrimoniali, in Dir. fam. pers., 2004 (in corso di stampa).
[103] Per la comparazione con il sistema tedesco e con
quello francese contemporanei, nei quali vige il principio della libertà
contrattuale ed è ritenuta come preferibile la regola della atipicità dei
regimi patrimoniali cfr. Patti, Regime
patrimoniale della famiglia e autonomia privata, cit., p. 297 s.
[104] In quest’ultimo senso cfr. Palazzo, Le convenzioni
matrimoniali e l’ulteriore destinazione dei beni per mezzo di trust, cit.,
p. 100.
[105] Sul punto v. Trib.
Bologna, 1 ottobre 2003, cit., che afferma
correttamente l’applicabilità dell’art. 184 c.c. non solo nel caso in cui un
coniuge alieni diritti su beni della comunione, bensì anche qualora si limiti
ad alienare la propria quota in comunione legale su beni di quest’ultima,
rilevando in proposito che «sarebbe illogico ritenere che – mentre
l’alienazione di un intero bene, da parte di uno solo dei coniugi, è valida ed
efficace (salve, in ipotesi, le conseguenze dell’art. 184 c.c.) – l’alienazione
di una quota di quello stesso bene sia, al contrario, assolutamente inefficace;
peraltro, nulla impedisce ai coniugi di essere comproprietari di beni insieme a
terzi, salva l’applicazione del regime di comunione legale relativamente alla
quota posseduta».
[106] Si noti che, per quanto attiene alla annullabilità
comminata in relazione agli atti relativi ai beni immobili o mobili registrati
dall’art. 184, 1° e 2° co., c.c., l’atto su beni
della comunione posto in essere da uno solo dei coniugi in veste di costituente
e dall’altro in veste di trustee
dovrebbe comunque ritenersi convalidato dall’accettazione espressa o tacita di
quest’ultimo.
[107] Cass., 27 febbraio 2003 n. 2954, in Foro it., 2003, I, c. 1039, con nota di De Marzo; in Riv. notar., 2003, II, p. 412, con nota di Lupetti; in Fam. dir.,
2003, p. 559, con nota di F. Patti.
[108] Cfr. Oberto,
L’autonomia negoziale nei rapporti patrimoniali tra coniugi (non in crisi),
cit., p. 656 ss., 659 ss.
[109] Sulla possibilità di costituire, ora per allora, trusts su beni di futura acquisizione v., in senso discordante, Tucci, Trusts, concorso dei creditori e azione revocatoria, p. 7 (lo scritto è disponibile all’indirizzo web seguente: http://www.il-trust-in-italia.it/Attivit%C3%A0%20formative/Congresso%202002/Tucci.pdf), che sembra ammettere tale possibilità, e Calò, Dal probate al family trust, Problemi di diritto comparato, Milano, 1996, p. 39 ss., secondo cui il trust, «proprio per gli effetti immediati che (…) produce, non può esistere senza proprietà e i beni futuri non possono esserne oggetto».
[110] Verde, Le convenzioni matrimoniali, Torino,
2003, p. 162.
[111] Cfr. supra, § 4.
[112] Palazzo, Le convenzioni matrimoniali e l’ulteriore
destinazione dei beni per mezzo del trust, cit., p. 97 ss.; Lupoi, Trusts, cit., p. 624 ss.; Bartoli, La “conversione” del fondo
patrimoniale in trust, in Dogliotti e Braun (a cura di), Il trust
nel diritto delle persone e della famiglia. Atti del convegno. Genova, 15
febbraio 2003, cit., p. 207 ss.; Cenni, Trust e
fondo patrimoniale, ivi, p. 111 ss.; Rovelli,
Limiti del fondo patrimoniale, ibidem, p. 103 ss.; Nassetti, Il trust:
applicazioni pratiche (Aggiornamento in pillole per il consiglio dell’Ordine
degli Avvocati di Bologna – Relazione tenuta a Bologna il 16 febbraio 2001),
disponibile all’indirizzo web
seguente:
http://www.filodiritto.com/diritto/privato/civile/IlTrustApplicazionipratiche.htm;
Luongo, Fondo patrimoniale e trust, disponibile all’indirizzo web
seguente: http://www.associazioneavvocati.it/bacheca/trust/luongo.html.
[113] L’espressione di E. Russo,
Il fondo patrimoniale, in Studi sulla riforma del diritto di famiglia,
Milano, 1973, p. 568, riferita al patrimonio familiare, è stata ripresa e
sottoscritta per il fondo patrimoniale da Corsi,
Il regime patrimoniale della famiglia,
II, Le convenzioni matrimoniali. Famiglia
e impresa, in Trattato di diritto
civile e commerciale, già diretto da Cicu e Messineo e continuato da
Mengoni, Milano, 1984, p. 83.
[114] Oberto,
Famiglia e rapporti patrimoniali. Questioni d’attualità, Milano, 2002,
p. 271 ss.
[115] Nassetti,
op. loc. ultt. citt.
[116] Su cui v. Nassetti,
op. loc. ultt. citt.
[117] Lupoi, Trusts, cit., p. 624 ss.; Bartoli, Il trust, cit., p. 314 ss.; Palazzo, Le convenzioni matrimoniali e l’ulteriore destinazione dei beni per
mezzo di trust, cit., p. 98.
[118] Così Lupoi, Trust Laws
of the World, Roma, 1999, citato da Bartoli,
La “conversione” del fondo patrimoniale in trust, cit., p. 210 s., nota
5.
[119] In particolare cfr. Lupoi,
Trusts, cit., p. 626 ss., 629 ss.
[120] Sul tema specifico v. infra, § 11.
[121] Cenni, Trust e fondo patrimoniale, cit., p.
117 s.
[122] Sul punto v. per tutti da ultimo Di
Landro, Trusts per disabili. Prospettive applicative, in Dir.
fam. pers., 2003, p. 123 ss.
[123] Il riconoscimento dell’autonomia negoziale dei coniugi (su cui cfr. Auletta, Il fondo patrimoniale, in Aa. Vv., Il diritto di famiglia, Trattato diretto da G. Bonilini e G. Cattaneo, II, Il regime patrimoniale della famiglia, Torino, 1997, p. 359; Oberto, L’autonomia negoziale nei rapporti patrimoniali tra coniugi (non in crisi), cit., p. 685 ss.) si spinge a consentire al costituente di derogare addirittura a talune disposizioni poste a tutela dell’interesse familiare. Ci si intende qui riferire alla norma contenuta nell’art. 169 c.c., singolare esempio di cattiva tecnica legislativa, caratterizzata da una bizzarra forma di contorsionismo verbale in cui, come è stato esattamente notato (Corsi, op. cit., I, cit., p. 98), tre «se» e tre «non» si accoppiano e si susseguono, ma da cui appare comunque chiaro che al costituente è consentito di prevedere che i coniugi dispongano liberamente dei beni del fondo, pur in presenza di figli minori. Conclusione, questa, cui pervengono la dottrina maggioritaria e la giurisprudenza (per i rinvii cfr. Oberto, op. loc. ultt. citt.).
[124] In
questo senso v. Carresi, Del fondo patrimoniale, in Commentario al diritto italiano della
famiglia, a cura di Cian,
Oppo e Trabucchi, III, Padova 1992, p. 56, in considerazione del fatto che il
rinvio alle norme in tema di amministrazione della comunione legale è fatto
incondizionatamente e senza alcuna limitazione o cautela come potrebbe essere
quella risultante dall’inciso «in quanto applicabili»; un argomento a conforto
di questa tesi può essere rinvenuto d’altro canto anche nell’art. 210, 3° co.,
c.c.
[125] Nassetti,
op. loc. ultt. citt.
[126] Sull’apponibilità di termini e/o condizioni alle convenzioni
matrimoniali in generale cfr. Oberto,
L’autonomia negoziale nei rapporti patrimoniali tra coniugi (non in crisi),
cit., p. 622, 635, 671 s.
[127] Nassetti,
op. loc. ultt. citt.
[128] Cfr. supra,
§ 7.
[129] Sul punto cfr. Oberto, I
contratti della crisi coniugale, II, cit., 687 ss., ove si ipotizza
la costituzione di un fondo patrimoniale tra separati nell’interesse di figli
economicamente non autosufficienti (la conclusione sembra potersi argomentare a
contrariis dal primo comma dell’art 171 c.c. e a fortiori dal
capoverso del medesimo articolo; nel senso che l’utilità del fondo permane
anche in presenza di una crisi coniugale v. anche Auletta, Il fondo
patrimoniale, Milano, 1990, p. 337 s.; contra Oppo, Tizio e Mevia, che hanno costituito, all’atto del loro matrimonio, un
fondo patrimoniale in «comproprietà», attendono un figlio quando Tizio fallisce
nell’esercizio di impresa commerciale iniziata dopo il matrimonio. Quale la
sorte del fondo?, in Questioni di
diritto patrimoniale della famiglia discusse da vari giuristi e dedicate ad
Alberto Trabucchi, Padova, p. 126).
[130] Cfr. von Overbeck, Rapport explicatif sur la Convention de La Haye du
premier juillet 1985 relative à la loi applicable au trust et à sa
reconnaissance, cit., n.
49.
[131] Cfr. Nassetti,
op. loc. ultt. citt.
[132] Così Lupoi,
Trusts, cit., p. 643.
[133] Cfr., anche per i rinvii, Oberto, I contratti della crisi coniugale, I, cit., p. 328 ss.
[134] Nassetti,
op. loc. ultt. citt.; nello stesso
senso cfr. anche Lupoi, Trusts,
cit., p. 641 ss.; F. Patti, I trusts:
problematiche connesse all’attività notarile, in Vita not., 2001, p.
548.
[135] Basti citare i seguenti: obbligo di prestare idonea
garanzia reale o personale, iscrizione dell’ipoteca
giudiziale ai sensi dell’ articolo 2818 c.c., sequestro di parte dei beni del
coniuge obbligato, ordine ai terzi, tenuti a corrispondere anche periodicamente
somme di danaro all’obbligato, che una parte di esse venga versata direttamente
agli aventi diritto, ex artt. 156, 4°, 5° e 6° co., c.c., 8, 1°,
2°, 7° co., l.div., distrazione dei redditi ed azione diretta esecutiva ex
art. 8, 3°, 4°, 5°, 6° co., l.div.
[136] Per una proposta diretta ad applicare tale istituto
non solo alle intese di carattere patrimoniale, ma anche a quelle di tipo
personale relative all’affidamento della prole e ai diritti di visita cfr. Oberto, I contratti della crisi coniugale, II, cit., p. 1112 ss.
[137] In questo senso sembra invece orientata Nassetti, op. loc. ultt. citt.
[138] Pure questo profilo è messo in luce da Nassetti, op. loc. ultt. citt.
[139] Cfr. Carrera, Disposizioni di trust in sede
di separazione o divorzio per mantenere un figlio agli studi, relazione
presentata al «Laboratorio di trust» organizzato dal «Gruppo torinese del
trust», tenutosi a Torino il 21 novembre 2003 (testo cortesemente messo a
disposizione dello scrivente in forma elettronica dall’Autrice).
[140] Che prevede, cioè, l’identità soggettiva fra disponente e trustee e manca dunque del trasferimento ancorché non dell’effetto
«segregativo» che è il collante del trust o, se si vuole, l’effetto
naturale di qualsiasi trust e che impedisce la confusione fra beni
personali del trustee e
beni del trust e della inaggredibilità del trust found sia da parte dei creditori del trustee che da parte dei
creditori del beneficiario. Il marito non esce dunque di scena e, nella sua
qualità (anche) di trustee si assume l’obbligo di garantire le ragioni
del beneficiario adempiendo alle obbligazioni imposte nell’atto istitutivo.
[141] Cfr. Carrera, op. loc. ultt. citt.
[142] Cfr. Carrera, op. loc. ultt. citt..
[143] Per i rinvii alla giurisprudenza di legittimità sul
tema e per la relativa critica si fa rinvio a Oberto,
I contratti della crisi coniugale, I,
cit., p. 589 ss.; Id., «Prenuptial
Agreements in Contemplation of Divorce» e disponibilità in via preventiva dei
diritti connessi alla crisi coniugale, in Riv. dir. civ., 1999, II,
p. 200 ss. Analoghe considerazioni potrebbero svolgersi con riferimento alla
proposta (cfr. Palazzo, Le convenzioni matrimoniali e l’ulteriore
destinazione dei beni per mezzo di trust, cit., p. 100 s.) di ricorrere ad
uno strumento quale l’assicurazione sulla vita o la rendita vitalizia nella
forma del contratto a favore di terzo, con clausola di rinuncia al potere di
revoca, revoca che potrebbe così essere esercitata dal disponente «tutte le
volte che il mantenuto assumesse nei tre anni successivi un comportamento che,
a discrezione del mantenente, fosse disdicevole».
Si noti che, più di recente, nel dibattito
sull’ammissibilità di intese preventive di separazione o divorzio, è
intervenuta anche Bargelli, L’autonomia
privata nella famiglia legittima, il caso degli accordi in occasione o in vista
del divorzio, in Riv. crit. dir. priv., 2001, p. 303 ss. Tale
Autrice, nella sua frettolosa lettura (sempre ammesso che lettura vi sia
stata…) dei lavori dello scrivente, accusa quest’ultimo di voler «considerare
risolto il problema dei patti sulle conseguenze del divorzio in base alla
semplice constatazione del carattere patrimoniale della prestazione»,
rimproverandolo altresì di non aver svolto un’analisi sufficientemente attenta
dei limiti di liceità e degli aspetti più specificamente familiari delle intese
in oggetto e lodando invece chi ha individuato quale limite specifico del
potere di disposizione degli interessati l’obbligazione alimentare (cfr. Ead., op. cit., p. 313, nota 37). Così facendo (e a tacer d’altro), la
predetta, oltre a dimostrare di non aver letto (il che, ovviamente, non è
grave; grave, invece, oltre che scorretto, è distribuire censure, senza aver
neppure preso in visione il contributo che si critica) le parti del lavoro
dello scrivente nelle quali – a ogni piè sospinto – si richiama la necessità
del rispetto, nei contratti della crisi coniugale, delle regole d’ordine
pubblico e dei principi inderogabili (cfr., a titolo meramente esemplificativo,
Oberto, I contratti della crisi coniugale, I, cit., p. 32, 249 ss.; II,
cit., p. 1085 ss.), così come di quelle (inderogabili) proprie del diritto di
famiglia e, tra di esse, prima tra tutte, quella relativa all’obbligo
alimentare (cfr. Oberto, I contratti della crisi coniugale, II,
cit., p. 798 ss., 844 ss.; in tale contesto, si noti che proprio allo specifico
tema degli accordi sull’obbligazione alimentare il sottoscritto dedica
un’intera sezione: cfr. Oberto, I contratti della crisi coniugale, II,
cit., da p. 844 a p. 861), sembra dimenticare (il che è ancora più grave) che,
tra divorziati, l’obbligo alimentare non esiste…
[144] Cfr. Carrera,
op. loc. ultt. citt., la quale
propone altresì di fare riferimento alla legge di Jersey.
[145] Su cui v. Nassetti, op. loc. ultt. citt.; più in generale sui profili tributari dei
trusts cfr. Lupoi, Trusts, cit.,
p. 753 ss.
[146] Sull’interpretazione di tale
espressione cfr. Oberto, Prestazioni «una tantum» e trasferimenti tra
coniugi in occasione di separazione e divorzio, cit., p. 299 ss.
[147] Cfr. Corte cost., 10 maggio
1999, n. 154; si noti inoltre che, in tempi ancora più recenti, la stessa
Consulta ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 8, lettera b),
della Tariffa, parte prima, allegata al d.P.R. 26 aprile 1986, n. 131
(Approvazione delle disposizioni concernenti l’imposta di registro), «nella
parte in cui non esenta dall’imposta ivi prevista i provvedimenti emessi in
applicazione dell’art. 148 cod. civ. nell’ambito dei rapporti fra genitori e
figli» (cfr. Corte cost., 11 giugno 2003, n. 202). Dal momento che, però, in
motivazione, il tertium comparationis
è stato individuato nell’art. 19 l. div., vi è da chiedersi se la pronunzia non
sia riferibile anche agli accordi tra i genitori relativi ai procedimenti di
affidamento della prole naturale.
[148] Cfr. Lupoi,
Lettera a un notaio conoscitore dei trust, cit., p. 1168.
[149] Su cui v. per tutti Oberto,
I regimi patrimoniali della famiglia di
fatto, cit., p. 242 ss. e ora Id.,
I contratti di convivenza tra autonomia
privata e modelli legislativi, cit., § 7.
[150] Cfr. Tarissi
de Jacobis, Esecuzione di un’obbligazione morale, al seguente
indirizzo web:
http://www.il-trust-in-italia.it/TrustInterni2002/Liberali/Tarissi%20t.htm.
Favorevole alla applicazione del trust alla famiglia di fatto è anche Cenni, op. loc. ultt. citt.; Ead.,
Il fondo patrimoniale, in Trattato di diritto di famiglia,
diretto da P. Zatti, III, Regime patrimoniale della famiglia, a cura di
Franco Anelli e Michele Sesta, Milano, 2002, p. 648. Per una panoramica delle
questioni relative all’impiego del trust nell’ambito delle relazioni
giuridiche familiari cfr. F. Patti,
I trusts: problematiche connesse all’attività notarile, cit., p.
547 ss.; Dogliotti e Piccaluga, I trust nella
crisi della famiglia, in Fam. e dir., 2003, p. 301 ss.; Dogliotti e Braun
(a cura di), Il trust nel diritto delle persone e della famiglia.
Atti del convegno. Genova, 15 febbraio 2003, cit.
[151] Cfr. per tutti Oberto,
I regimi patrimoniali della famiglia di
fatto, cit., p. 151 ss. e ora Id.,
I contratti di convivenza tra autonomia
privata e modelli legislativi, §§ 3 ss.
[152] Così Coppola,
La successione del convivente more uxorio, in Familia, 2003, p.
739.
[153] Così, se si è ben compreso, Coppola, op. loc. ultt. citt.
[154] Sul punto v., anche per i richiami, Coppola, op. cit., p. 742 s.
[155] Cfr. Moscati,
Trust e tutela dei legittimari, in Riv. dir. comm., 2000, I, p.
13 ss.; Lupoi, Trusts, cit., p.
667 s.
[156] Cfr. Oberto,
I regimi patrimoniali della famiglia di
fatto, cit., p. 295 ss. e ora Id.,
I contratti di convivenza tra autonomia
privata e modelli legislativi, § 14.
[157] Cfr. supra,
§ 4.
[158] Interno e internazionale, con conseguente
applicazione del disposto dell’art. 18 della Convenzione dell’Aja.
[159] La conclusione, in armonia con quanto si è affermato
con riguardo all’art. 166-bis c.c. (cfr.
supra, § 4) dovrebbe però essere
considerata «reversibile» e, come tale, riferibile all’ipotesi speculare di
apporto da parte del convivente di sesso maschile.