I CONTRATTI DI CONVIVENZA NEI
PROGETTI DI LEGGE
(OVVERO SULL’IMPRESCINDIBILITÀ DI UN RAFFRONTO TRA
CONTRATTI DI CONVIVENZA E CONTRATTI PREMATRIMONIALI)
Sommario: 1. Le principali proposte di legge sui regimi patrimoniali
dei conviventi e sui contratti di convivenza nelle legislature X-XIV. – 2. Le principali proposte di legge sui regimi patrimoniali
dei conviventi e sui contratti di convivenza nelle legislature XV e XVI. – 3. Le principali proposte di legge sui regimi patrimoniali
dei conviventi e sui contratti di convivenza nella XVII legislatura. – 4. La proposta avanzata dal notariato nel 2011. – 5. Lo schema di testo unificato proposto alla Commissione
Giustizia del Senato il 24 giugno 2014. – 6. In guisa di
(temporanea) conclusione: per una valutazione complessiva dei progetti di
legge in termini di insufficienza. – 7. Contratti di
convivenza e contratti prematrimoniali. L’insegnamento ricavabile dal
raffronto tra le due categorie. – 8. Contratti di
convivenza e contratti prematrimoniali. Ricognizione dei possibili punti di
contatto in prospettiva de jure
condendo. – 9. Segue.
Le clausole sulla rottura del rapporto (matrimoniale o di convivenza). – 10. Contratti di
convivenza e contratti prematrimoniali. Analisi di alcune tra le più
rilevanti divergenze. |
«L’Italia è quel Paese che non ammette l’ignoranza della legge, ma ammette
l’ignoranza di chi fa le leggi»
M. Crozza, Crozza nel paese delle meraviglie,
puntata 10, 5 dicembre 2014.
La via della disciplina normativa dei rapporti
patrimoniali tra conviventi, già percorsa (peraltro non senza contraddizioni e
ripensamenti) all’estero da svariate legislazioni [1], è stata tentata più volte senza
esito da numerosi progetti di legge di casa nostra. Nell’ambito di tali
prospettate normative si collocano sovente disposizioni volte a disciplinare,
in modo più o meno adeguato, i contratti di convivenza.
Cominciando dalle testimonianze più risalenti, potrà
citarsi quel progetto di legge che, presentato già nel corso della X
legislatura, prevedeva l’applicazione ai conviventi more uxorio degli artt. 177, 178, 179 e 194 c.c. [2]. La proposta, se da un lato non
sembrava lasciare spazio all’autonomia delle parti, prevedendo per ciascuno dei
conviventi la possibilità di rivolgersi al giudice per la divisione del
patrimonio formato durante il ménage,
dall’altra sottintendeva in maniera abbastanza evidente – con il richiamo al
concetto di divisione, che, come noto, esiste anche nella forma non giudiziale,
vale a dire contrattuale – il potere dei partners,
se d’accordo, di liquidare in maniera convenzionale i diritti reciprocamente
spettanti.
Per venire
(sempre, naturalmente, a titolo di mero esempio, atteso il gran numero di
iniziative legislative sul tema di questi ultimi anni, rimaste, peraltro, tutte
lettera morta) alle proposte presentate in tempi più recenti, potrà farsi
menzione del progetto di legge intitolato «Disciplina del patto civile di solidarietà e delle unioni di fatto»
[3], risalente alla XIV legislatura.
Il regime patrimoniale envisagé da questa iniziativa si fondava (cfr. art. 11, commi terzo
e quarto) sulla libertà di scelta tra il regime di «comunione legale regolata
dal libro I, titolo VI, capo VI, sezione III, del codice civile» (regime che –
a ben vedere – non si sarebbe più potuto definire, nel caso di specie, come
«legale», nascendo dall’accordo delle parti, anziché «per default» dalla
legge) e quello di «comunione convenzionale regolata dal libro I, titolo VI,
capo VI, sezione IV, del codice civile» (con il problema, non risolto dalla
proposta, costituito dal fatto che una semplice «scelta» avrebbe dovuto dar
luogo ad un regime che avrebbe dovuto essere dettagliatamente regolato da una
serie di intese, le quali a loro volta non avrebbero potuto essere contenute se
non in un apposito contratto). In caso di mancata effettuazione della scelta,
il regime sarebbe stato quello separatista.
Un’analoga proposta coeva prevedeva invece l’alternativa
«secca» tra il regime di separazione dei beni (che si sarebbe dovuto
«presumere» in mancanza di scelta) e un non meglio precisato «regime di
comunione per i beni che verranno acquistati a titolo oneroso posteriormente
alla conclusione del contratto», di cui il progetto non si degnava neppure di
specificare la natura (appartenenza alla species definita dagli artt.
177 ss. c.c., o a quella di cui agli artt. 1100 ss. c.c.?) [4].
Nel corso della XV legislatura il richiamo agli artt.
177, 178, 179 e 194 c.c. era tornato a comparire nell’ambito di un progetto di
legge piuttosto discutibile. Nel sistema ivi delineato, infatti, l’accertamento
delle eventuali pretese delle parti sarebbe divenuto tecnicamente impossibile,
dal momento che il rinvio alle cennate norme era inserito in una disposizione
la cui prima parte contraddittoriamente avrebbe attribuito al giudice (secondo
modelli propri dei sistemi di common law)
il potere di procedere alla divisione del patrimonio «indipendentemente dalla
titolarità o dal possesso dei beni, tenuto conto della consistenza del
patrimonio costituito dalle parti con apporti di lavoro professionale e
casalingo». Questa attività appare evidentemente inconciliabile con
l’applicazione delle norme codicistiche citate, così come conformate dal nostro
legislatore [5].
Assai più realisticamente, un’altra proposta della medesima
XV legislatura prevedeva per default
il regime di separazione tra conviventi more
uxorio, in caso di mancata scelta per il regime di comunione legale ex artt. 177 ss. o di quello di
comunione convenzionale ex artt. 210
s. c.c. [6].
Al contratto di convivenza veniva comunque lasciata
un’ampia sfera d’azione, dal momento che lo stesso – oltre che derogare alla
separazione dei beni, come detto – poteva disporre il passaggio dall’uno
all’altro dei regimi patrimoniali previsti (separazione, comunione «legale»,
comunione convenzionale), utilizzando così le forme d’autonomia negoziale
consentite ai coniugi [7]; esso avrebbe inoltre potuto
disciplinare il regime di contribuzione in modo difforme da come previsto
dall’art. 8, sia nei rapporti interni, che, eventualmente, verso i terzi,
escludendo la solidarité ménagère di
regola introdotta per i conviventi. Al patto (scritto) veniva altresì affidata
(cfr. l’art. 10 cpv.) la possibilità di escludere che «tutte le scelte di
natura religiosa o morale, le modalità di svolgimento della cerimonia funebre,
la scelta del luogo di sepoltura ovvero la decisione di cremare il corpo del
defunto» fossero adottate dall’altro contraente di un patto civile di
solidarietà, così lasciando desumere a
contrariis che, in difetto di siffatta previsione, il partner avrebbe potuto decidere (peraltro «sentiti gli ascendenti e
i discendenti del soggetto interessato»).
Significativamente il d.d.l. governativo sui diritti
delle persone conviventi (c.d. «di.co.») [8], risalente al medesimo torno di
tempo, appariva muto sul punto, mentre la successiva proposta del Presidente
della Commissione giustizia del Senato (sui c.d. «c.u.s.») [9] avanzava l’idea della
(necessaria) indicazione, nel vagheggiato «contratto di unione solidale»,
dell’intenzione delle parti di assoggettare o meno «alle norme della comunione
in generale i beni acquistatati a titolo oneroso successivamente alla
stipulazione del contratto stesso, anche quando l’acquisto sia compiuto da una
sola delle parti». Formulazione, questa, da cui sembra dato arguire che il
regime proposto avrebbe dovuto essere quello di una comunione ordinaria (con
possibile determinazione convenzionale delle quote in misura diversa da quella
paritaria, imposta, come noto, dall’art. 210 c.c.), che si sarebbe però
costituita ex lege anche in caso di
acquisto da parte di uno solo dei conviventi. La proposta non chiariva,
peraltro, quale avrebbe dovuto essere il regime applicabile nel caso di
silenzio del contratto sul punto [10].
Analoga poliedricità di posizioni caratterizza le
proposte presentate nel corso della XVI legislatura.
Così, mentre il progetto conosciuto con l’acronimo
«Di.do.re.» [11] ignorava puramente e
semplicemente ogni questione attinente al regime patrimoniale della coppia
convivente, la proposta d’iniziativa dei deputati Bernardini e altri [12] mirava all’introduzione, tra
l’altro, di un art. 455-undecies c.c.
così concepito: «(Regime patrimoniale dell’unione civile). – (1) All’atto di
costituzione dell’unione civile le parti possono scegliere mediante convenzione
ai sensi dell’articolo 455-sexies il
regime patrimoniale della stessa. (2) Nel caso che, per qualsiasi ragione, si
ometta di stipulare la convenzione di cui al primo comma, si presume scelto il
regime di separazione legale».
Tra le convenzioni previste dal proposto art. 455-sexies c.c. non compariva, almeno
espressamente, quella costitutiva di un regime di comunione, anche se l’ampia
formulazione del primo comma della stessa («Con convenzione stipulata ai sensi
delle disposizioni del presente codice e delle leggi speciali vigenti in
materia di contratti, le parti dell’unione civile possono disciplinare gli
aspetti patrimoniali della stessa, nonché i termini per la cessazione
unilaterale di cui al terzo comma dell’articolo 455-octies e le conseguenze patrimoniali di tale cessazione») induceva
a ritenere senz’altro possibile un accordo diretto alla creazione di un regime
comunitario, sulla falsariga di quanto proposto dallo scrivente [13]. Il problema sarebbe stato,
semmai, e ancora una volta, quello di comprendere se tale comunione fosse
opponibile ai terzi, né sul punto avrebbe potuto soccorrere quanto disposto dal
capoverso del proposto art. 455-octies,
che si limitava a legare al rispetto delle regole dell’atto pubblico
l’opponibilità della convenzione, senza spendere una parola sul delicatissimo
tema della relativa pubblicità.
Non molto dissimilmente da tale ultima iniziativa,
un’altra proposta, d’iniziativa dei deputati Lucà ed altri [14], suggeriva (cfr. il relativo
art. 4) la previsione della «separazione dei beni, in conformità alla
disciplina stabilita dal libro primo, titolo VI, capo VI, sezione V, del codice
civile» quale «regime patrimoniale legale tra le persone componenti l’unione di
fatto». Nessuna menzione era fatta della possibilità che le parti convenissero
un regime diverso, anche se l’espresso richiamo al concetto di «regime
patrimoniale legale» induceva a ritenere che non fossero esclusi regimi
patrimoniali di fonte convenzionale, ivi compreso, quindi, un eventuale regime
comunistico [15].
Più preciso sul punto il disegno di legge d’iniziativa
della senatrice Franco [16], che, all’art. 8, terzo comma,
prevedeva che «I contraenti dell’unione civile possono scegliere tra i seguenti
regimi patrimoniali: a) la comunione legale, come regolata dal libro I, titolo
VI, capo VI, sezione III, del codice civile; b) la comunione convenzionale,
come regolata dal libro I, titolo VI, capo VI, sezione IV, del codice civile».
Di tale opzione si sarebbe dovuto fare menzione nel registro dello stato
civile, mentre, in difetto di scelta, il regime sarebbe stato quello della
separazione dei beni, con conseguente applicazione delle «norme del libro I,
titolo VI, capo VI, sezione V, del codice civile» [17].
Anche nel corso della XVII legislatura risultano
presentate diverse proposte di legge in tema di rapporti patrimoniali
nell’ambito della famiglia di fatto e di patti di convivenza, che in gran parte
richiamano e riprendono i tentativi di cui si è dato conto nei §§ precedenti.
Così il d.d.l. n. 197/XVII/S d’iniziativa dei senatori
Alberti Casellati, Bonfrisco, Caridi, D’Ascola e Caliendo, comunicato alla
presidenza il 15 marzo 2013, dal titolo «Modifiche al codice civile in materia
di disciplina del patto di convivenza», mira ad introdurre nel libro primo del
codice civile, dopo il titolo VI, un titolo VI-bis, rubricato «Del patto di convivenza», contenente dieci nuovi
articoli (da 230-ter a 230-duodecies c.c.), nessuno dei quali
(piuttosto curiosamente) appare però destinato a regolare i profili del regime
patrimoniale del patto di convivenza. Si prevede che il patto debba essere
stipulato necessariamente con il rispetto della forma notarile (peraltro senza
la prescrizione dell’intervento di testimoni) e successivamente trascritto nel
Registro nazionale dei patti di convivenza di cui all’articolo 230-octies, primo comma, c.c. [18]. Dalla stipula dell’accordo, che
prevede effetti anche d’ordine personale, discende un obbligo alimentare,
descritto con una sciatteria che, anche sotto il profilo stilistico, dimostra
quale reale attenzione si voglia porre ai veri problemi di un’unione civile [19].
Il d.d.l. n. 239/XVII/S, d’iniziativa del senatore
Giovanardi, comunicato alla presidenza il 20 marzo 2013, dal titolo
«Introduzione nel codice civile del contratto di convivenza e solidarietà»,
mira ad aggiungere nel libro quarto del codice civile, dopo il capo XXVI del
titolo III, un capo XXVI-bis,
rubricato «Del contratto di convivenza e solidarietà», contenente sei nuovi
articoli (da 1986-bis a 1986-septies c.c.), oltre ad alcune altre
disposizioni «sparse» per lo stesso codice. Quanto al regime patrimoniale, la
proposta prevede che il contratto, stipulato per atto pubblico notarile (anche
qui non è imposta la presenza di testimoni), ovvero per scrittura privata
autenticata da notaio (curiosamente envisagée
solo dal secondo comma dell’art. 1986-ter)
[20] possa contenere alcuni tipi di
disposizioni ad hoc.
In particolare, ai sensi dell’art. 1986-quinquies (Diritti patrimoniali), le
parti possono stabilire nel contratto: «1) le modalità di contribuzione alle
necessità della vita in comune, anche in riferimento ai termini, alle modalità
e all’entità delle rispettive contribuzioni; 2) che i beni acquistati a titolo
oneroso anche da uno dei conviventi successivamente alla stipula del contratto
siano soggetti al regime della comunione ordinaria, di cui agli articoli 1100 e
seguenti; 3) i diritti e le obbligazioni di natura patrimoniale derivanti per
ciascuno dei contraenti dalla cessazione del rapporto di convivenza per cause
diverse dalla morte; 4) che in deroga al divieto di cui all’articolo 458 e nel
rispetto dei diritti dei legittimari, in caso di morte di uno dei contraenti
dopo oltre nove anni dalla stipula del contratto spetti al superstite una quota
di eredità non superiore alla quota disponibile. In assenza di legittimari, la
quota attribuibile parzialmente può arrivare fino a un terzo dell’eredità».
Regole assai simili, sempre per ciò che attiene al regime
patrimoniale, sono previste dal d.d.l. n. 1072/XVII/C, d’iniziativa dei
deputati Moretti ed altri, presentato il 28 maggio 2013, dal titolo
«Introduzione del titolo XIII-bis del
codice civile, e altre disposizioni concernenti l’istituzione e la disciplina
del patto di convivenza». Anche qui, la statuizione, secondo cui i contraenti
possono prevedere nel contratto, ex
art. 448-quinquies c.c., «che i beni
acquistati a titolo oneroso da uno dei conviventi, successivamente alla
stipulazione del patto, siano soggetti al regime della comunione ordinaria, di
cui agli articoli 1100 e seguenti», induce a ritenere che, in difetto di
espressa pattuizione, il regime legale sia quello della separazione dei beni tra
conviventi.
Il d.d.l. n. 1211/XVII/S, d’iniziativa dei senatori
Marcucci ed altri, presentato 19 dicembre 2013, si fonda sulla distinzione tra
«unione civile» (riservata a persone del medesimo sesso), da un lato, e «patto
di convivenza» (per unioni tanto omosessuali che eterosessuali), dall’altro:
mentre per la prima vengono stabilite regole tali da avvicinare di molto
l’istituto al matrimonio, per il secondo si prevede che le parti possano
«organizzare la loro vita in comune», senza che il progetto spenda altre parole
per chiarire come tale organizzazione dovrebbe aver luogo e, soprattutto, quali
particolari rapporti siffatta organizzazione dovrebbe coinvolgere.
Il d.d.l. n. 2560/XVII/C, d’iniziativa del deputato
D’Alessandro, presentato il 23 luglio 2014, è volto all’introduzione nel codice
civile di alcuni articoli aggiunti, a cominciare dall’art. 230-ter c.c., rubricato «Patto civile di
solidarietà».
Il patto viene definito come un «contratto concluso tra
persone maggiorenni per l’organizzazione della vita in comune o dopo la sua
cessazione, le cui modalità sono regolate dal contratto stesso». La proposta
chiarisce che al contratto si applicano le norme del codice civile e delle
leggi speciali vigenti in materia di contratti, soggiungendo poi (non si capisce
bene perché) espressamente che «Risultano altresì applicabili le cause di
nullità del contratto previste agli articoli 1418 e seguenti». Il successivo
art. 230-octies c.c. stabilisce che
«I soggetti firmatari posso prevedere all’interno del patto civile entità,
tempi e modi della contribuzione di ciascuno», mentre, per effetto dell’art.
230-novies c.c., «all’interno del
patto civile i soggetti contraenti devono indicare se intendono scegliere il
regime di comunione per i beni che verranno acquistati a titolo oneroso
posteriormente alla conclusione del contratto stesso. In mancanza di tale
scelta si presume il regime di separazione dei beni».
Il d.d.l. n. 14/XVII/S, d’iniziativa del senatore Manconi
ed altro, presentato il 15 marzo 2013, prevede, all’art. 18, che il regime
patrimoniale dell’istituenda unione civile possa essere scelto dai conviventi
«con convenzione stipulata per atto pubblico», all’atto della registrazione
della loro unione civile. Tale regime può essere modificato in qualunque momento
nel corso dell’unione civile con atto stipulato nella medesima forma. Nel caso
che, per qualsiasi ragione, si ometta di stipulare l’atto pubblico di cui al
comma 1, si presume scelto il regime di comunione legale».
Il d.d.l. n. 1360/XVII/S, d’iniziativa del senatore
Fattorini ed altri, presentato il 5 marzo 2014, volto alla «Regolamentazione
delle unioni civili tra persone dello stesso sesso» prevede che il regime
patrimoniale della coppia convivente omosessuale sia quello della separazione
dei beni (art. 5). Peraltro si soggiunge (cfr. art. 6) che «al momento della
registrazione ovvero in qualsiasi momento successivo ad essa, i partner possono stipulare convenzioni di
convivenza relative, tra l’altro, alla contribuzione economica alla vita in
comune, al mantenimento reciproco, al godimento della casa di abitazione, al
regime di appartenenza e gestione dei cespiti conseguiti nel corso della
convivenza, all’assistenza reciproca in caso di malattia, alla designazione
reciproca quale amministratore di sostegno, ai doveri reciproci in caso di
scioglimento dell’unione civile registrata, a questioni testamentarie e ad
altri aspetti che ritengano opportuno regolare».
Inutile dire che l’entusiasmo suscitato dall’encomiabile
sforzo compiuto nella individuazione dei possibili campi di operatività
dell’intesa è destinato immediatamente a smorzarsi di fronte alla menzione di
non meglio precisate «questioni testamentarie»: esiste dunque il dubbio, più
che fondato, che gli autori di un siffatto scampolo di prosa normativa non
abbiano la più pallida idea delle gravissime questioni cui l’adozione di un
testo del genere darebbe luogo (abrogazione del divieto dei patti successori,
con valenza limitata alla famiglia di fatto, o semplice richiamo alla
possibilità di prevedere attribuzioni inter
vivos, pur se con valenza post mortem,
ecc.?).
La stessa disposizione prosegue poi prevedendo, al
secondo comma, che «Le convenzioni di convivenza sono annotate a margine
dell’atto di registrazione, anche se definite successivamente all’iscrizione».
Il terzo ed ultimo comma stabilisce invece che «Tali convenzioni perdono
efficacia nei casi di scioglimento della convivenza, salvo per la parte
relativa ai doveri reciproci in caso di scioglimento».
4. La proposta avanzata dal
notariato nel 2011.
Di ben altra ampiezza rispetto agli esercizi de iure condendo sin qui descritti,
sebbene non scevra da punti critici, appare invece la proposta avanzata dal
notariato nell’anno 2011 [21]. Essa prevede l’introduzione, nel
titolo III, del libro quarto del c.c., un capo XXVI-bis, rubricato «Del patto di convivenza». Il patto dovrebbe
disciplinare i soli rapporti patrimoniali relativi alla vita in comune ed alla
cessazione del legame (art. 1986-bis
c.c.).
Dal punto di vista formale, il patto, le sue successive
modifiche ed il relativo scioglimento dovrebbero risultare da atto pubblico
sotto pena di nullità (art. 1986-ter,
primo comma, c.c.). La disposizione, se sicuramente commendevole per ciò che
attiene alla scelta del regime patrimoniale, viene ad introdurre una
prescrizione eccessivamente onerosa per quanto riguarda profili quali l’obbligo
di contribuzione o l’opponibilità del rapporto al locatore, nel caso di
successione ex latere conductoris per
morte o crisi del ménage. Parimenti
eccessiva sembra l’imposizione dell’onere (art. 1986-ter cpv. c.c.) di attuazione della pubblicità mediante trascrizione
nell’istituendo Registro nazionale dei patti di convivenza ai fini della
generica «opponibilità ai terzi», laddove si pensi che tra tali terzi
dovrebbero ricomprendersi, allora, ad esempio, anche i soggetti tenuti ad
erogare prestazioni «in materia di assistenza, informazione e misure di
carattere sanitario e penitenziario» (art. 186-septies c.c.).
Il patto di convivenza è nullo: 1) se uno dei contraenti
è vincolato da precedente matrimonio per il quale non sia stata pronunciata
separazione giudiziale o sia stata omologata separazione consensuale; 2) se una
delle parti sia vincolata da un altro patto di convivenza trascritto; 3) se tra
i contraenti vi sia un vincolo di parentela in linea retta o collaterale entro
il secondo grado o vi sia un rapporto di adozione o di affiliazione o siano
entrambi figli adottivi della stessa persona (art. 1986-quinquies c.c.).
Di grande interesse è poi la norma sul contenuto del
contratto, per effetto della quale le parti possono stabilire: «1) le modalità
di contribuzione alle necessità della vita in comune, anche in riferimento ai
termini, alle modalità e all’entità delle rispettive contribuzioni; 2) che i
beni acquistati a titolo oneroso anche da uno dei conviventi successivamente
alla stipula del patto siano soggetti al regime della comunione ordinaria
regolata dagli articoli 1100 e seguenti; 3) i diritti e le obbligazioni di
natura patrimoniale derivanti per ciascuno dei contraenti dalla cessazione del
rapporto di convivenza per cause diverse dalla morte; 4) che in deroga al
divieto di cui all’articolo 458 e nel rispetto dei diritti dei legittimari, in
caso di morte di uno dei contraenti dopo oltre nove anni dalla stipula del
patto spetti al superstite una quota di eredità non superiore alla quota
disponibile. In assenza di legittimari, la quota attribuibile pattiziamente può
arrivare fino a un terzo dell’eredità» (art. 1986-sexies c.c.).
La disposizione pone il problema, già evidenziato,
dell’inopportunità di imporre, per la validità di un impegno sulla
contribuzione, il rispetto della forma dell’atto pubblico. A gravi incertezze
può poi dare luogo la previsione sulla comunione (ordinaria), non chiarendo la
proposta di legge, tra i due scenari disegnati già diversi anni or sono dallo
scrivente, vale a dire quello ad efficacia reale e quello ad efficacia
meramente obbligatoria [22], quale sia applicabile.
Il patto di convivenza si risolve per: 1) accordo delle
parti; 2) recesso unilaterale; 3) matrimonio di uno dei contraenti; 4) morte di
uno dei contraenti; 5) mancanza di effettiva convivenza per oltre tre anni; 6)
sopravvenuto matrimonio tra i contraenti (cfr. art. 1986-octies c.c.).
Singolare la disposizione in tema di successione nel
contratto di locazione della casa familiare. Al riguardo si stabilisce infatti
(cfr. art. 3 della proposta di legge citata) che «Al primo comma dell’articolo
6 della legge 27 luglio 1978, n. 392, le parole: “ed i parenti ed affini con
lui abitualmente conviventi” sono sostituite dalle seguenti: «i parenti ed
affini con lui abitualmente conviventi ed il convivente che abbia sottoscritto
un contratto di convivenza da almeno cinque anni e vi abbia stabilmente
convissuto». La proposta viene dunque a porre requisiti più restrittivi di
quelli oggi applicabili per effetto della nota sentenza n. 404 del 1988 della
Consulta [23].
Nemmeno la disposizione sull’impresa familiare appare
scevra da perplessità, posto che l’art. 230-ter
c.c., envisagé dalla proposta, non
collima, quanto a contenuto, con le previsioni in tema di partecipazione del
coniuge (e altri familiari) all’impresa familiare di cui all’art. 230-bis c.c. [24]. Tutto si sarebbe potuto
risolvere, assai più semplicemente, mediante l’inserimento del convivente
nell’art. 230-bis c.c.
5. Lo schema di testo unificato
proposto alla Commissione Giustizia del Senato il 24 giugno 2014.
I vari progetti di legge illustrati al § 3, proposti nel
corso della XVII legislatura, sono confluiti nello schema di testo unificato
proposto dalla relatrice Cirinnà alla Commissione Giustizia del Senato il 24
giugno 2014, sotto il titolo «Regolamentazione delle unioni civili tra persone
dello stesso sesso e disciplina delle convivenze». Lo schema si divide, dunque,
in due titoli, dei quali il primo è dedicato alla disciplina delle «unioni
civili», mentre il secondo (evidentemente influenzato dal progetto notarile di
cui si è dato conto al § 4) è volto alla «disciplina delle convivenze».
Seguendo, pertanto, la via già tracciata da precedenti proposte, sulla scia
della soluzione tedesca della eingetragene
Lebenspartnerschaft, il titolo primo contiene norme volte a regolamentare
le sole unioni tra persone dello stesso sesso, cui viene fornito un succedaneo
del matrimonio, che di quest’ultimo istituto non ha (quasi) solo il nome,
prevedendosi per il resto una pressoché totale identità di effetti.
Le «convivenze» di cui al titolo secondo sono invece
quelle (cfr. art. 8) che si instaurano tra «soggetti maggiorenni, conviventi
stabilmente da almeno tre anni o da almeno un anno in presenza di figli comuni,
uniti da legami affettivi e di solidarietà, ai fini di reciproca assistenza e
solidarietà, materiale e morale, non legati da rapporti di parentela, né
vincolati da matrimonio o da un’unione civile tra persone dello stesso sesso».
I rapporti patrimoniali all’interno di queste formazioni
sociali sono disciplinati da alcune disposizioni che sanciscono, in primo
luogo, la sussistenza di un diritto di abitazione in capo al convivente
superstite, in caso di morte dell’altro e in presenza di figli comuni minori
«nella casa ove convivevano, se di proprietà del defunto, per un numero di anni
pari alla durata della convivenza di fatto». Tale diritto cessa peraltro in
caso di matrimonio o d’inizio di una nuova convivenza (art. 11, primo comma).
Per l’abitazione detenuta in conduzione, invece, si stabilisce che, «In caso di
risoluzione anticipata del contratto di locazione della comune residenza da
parte del convivente conduttore, l’altro convivente può succedergli nel
contratto. In presenza di figli comuni, non si tiene conto del periodo di
durata della convivenza prescritto ai sensi dell’articolo 8, comma 1» (art. 11,
secondo comma).
I conviventi sono reciprocamente tenuti alla prestazione
degli alimenti, a determinate condizioni (cfr. art. 12), mentre, per ciò che
attiene più specificatamente alle intese d’ordine patrimoniale, ben sei
distinti articoli sono dedicati al «contratto di convivenza».
L’art. 13 (rubricato «Contratto di convivenza»)
stabilisce che il contratto di convivenza è quel contratto con il quale «i
conviventi possono disciplinare i reciproci rapporti patrimoniali relativi alla
loro vita in comune e alla sua cessazione». Assai prudentemente, dunque, sulla
scia di una consistente tradizione straniera, seguendo le raccomandazioni dello
scrivente [25], il legislatore (ipotetico, per
lo meno sino a tale momento) si fa carico di chiarire expressis verbis che l’intesa patrimoniale può abbracciare anche la
contemplation delle conseguenze di
una possibile crisi del rapporto.
Il capoverso del citato articolo 13 stabilisce poi che
«Il contratto di convivenza, le sue successive modifiche e il suo scioglimento
devono risultare da atto scritto a pena di nullità, ricevuto da un notaio in
forma pubblica», mentre, «Ai fini dell’opponibilità ai terzi, il notaio che ha
ricevuto l’atto in forma pubblica o che ne ha autenticato le sottoscrizioni
deve provvedere entro i successivi dieci giorni a trasmetterne copia al comune
di residenza dei conviventi per l’iscrizione all’anagrafe ai sensi degli
articoli 5 e 7 del regolamento di cui al decreto del Presidente della
Repubblica 30 maggio 1989, n. 223. Con il contratto di convivenza, le parti
stabiliscono di comune accordo la residenza comune» (cfr. il comma terzo).
Anche con riguardo a tali previsione vanno, dunque, ripetute le perplessità già
esternate in sede di commento al progetto del notariato (con particolare
riferimento all’inopportunità della previsione dell’atto pubblico quale condicio sine qua non della produzione
di effetti anche in settori nei quali basterebbe la semplice scrittura privata,
se non addirittura l’intesa verbale).
Il quarto comma dello stesso art. 13 prevede che il contratto
può stabilire:
1.
«le modalità di contribuzione alle necessità della vita in comune, anche in
riferimento ai termini, alle modalità e all’entità delle rispettive
contribuzioni;
2.
che i beni acquistati a titolo oneroso anche da uno dei conviventi successivamente
alla stipula del contratto siano soggetti al regime della comunione ordinaria,
di cui agli articoli 1100 e seguenti;
3.
i diritti e le obbligazioni di natura patrimoniale derivanti per ciascuno
dei contraenti dalla cessazione del rapporto di convivenza per cause diverse
dalla morte;
4.
che in deroga al divieto di cui all’articolo 458 e nel rispetto dei diritti
dei legittimari, in caso di morte di uno dei contraenti dopo oltre sei anni
dalla stipula del contratto spetti al superstite una quota di eredità non
superiore alla quota disponibile. In assenza di legittimari, la quota
attribuibile parzialmente può arrivare fino a un terzo dell’eredità;
5.
che nei casi di risoluzione del contratto di cui all’articolo 17 della
presente legge sia previsto l’obbligo di corrispondere al convivente con minori
capacità economiche un assegno di mantenimento determinato in base alle
capacità economiche dell’obbligato, al numero di anni del contratto di
convivenza e alla capacità lavorativa di entrambe le parti».
Anche con riguardo a tali previsioni, se, da un lato, va
sicuramente lodata la previsione della liceità di accordi in vista di una
possibile rottura, così come la considerazione della possibilità di intese
sulla contribuzione, rimangono i dubbi, dall’altro, sul meccanismo con il
quale, ad es., i conviventi potrebbero dar luogo alla comunione e sulla sua
opponibilità ai terzi. Per non dire poi dell’evidente difetto di coordinamento
delle ipotesi descritte ai nn. 3 e 5.
Gli artt. da 14 a 16 del d.d.l. contengono una serie di
cause impeditive alla stipula del contratto di convivenza, così come la
descrizione di taluni effetti anche non patrimoniali, quali l’assistenza
sanitaria e penitenziaria, ma anche la successione nel contratto di locazione ex latere conductoris. L’art. 17
disciplina la risoluzione del contratto di convivenza, individuandone le cause
(accordo delle parti, recesso unilaterale, sopravvenuto matrimonio o unione
civile di uno dei contraenti, morte di uno dei contraenti), e descrivendo le
forme di esercizio della concorde volontà di risoluzione e del recesso, nonché
le relative formalità pubblicitarie.
Lo schema di testo unificato attribuisce poi anche al
convivente che abbia stipulato un contratto e presti stabilmente la propria
opera all’interno dell’impresa dell’altro convivente (salvo diversa
disposizione contenuta nel contratto medesimo), una partecipazione agli utili
commisurata al lavoro prestato. Il diritto non spetta qualora tra i conviventi
esista un rapporto di società o di lavoro subordinato (cfr. il testo del
proposto art. 230-ter c.c.).
Lo stesso documento propone anche l’introduzione di un
art. 30-bis, dopo l’art. 30 della l.
31 maggio 1995, n. 218: secondo tale disposizione «1. Ai contratti di convivenza
disciplinati dalla presente legge si applica la legge nazionale comune dei
contraenti. Ai contraenti di diversa cittadinanza si applica la legge del luogo
di registrazione della convivenza. 2. Ai contratti di convivenza tra cittadini
italiani oppure ai quali partecipa un cittadino italiano, ovunque siano stati
celebrati, si applicano le disposizioni della legge italiana vigenti in
materia. 3. Sono fatte salve le norme nazionali, internazionali ed europee che
regolano il caso di cittadinanza plurima». Inutile dire che una siffatta
normativa sarebbe comunque destinata ad essere travolta dall’approvazione (e,
ovviamente, dalla successiva entrata in applicazione) dell’istituendo
Regolamento dell’Unione Europea sulle conseguenze patrimoniali delle unioni
registrate [26].
Al partner
legato da un contratto di convivenza competerebbero, infine, i diritti che la
legge attualmente già attribuisce alla «persona stabilmente convivente» (la cui
menzione, si badi, non sarebbe destinata a venir meno) in relazione agli
istituti dell’interdizione, dell’inabilitazione e dell’amministrazione di
sostegno (art. 417 c.c.), nonché il diritto di vedere applicati «i medesimi
criteri individuati per il risarcimento del danno al coniuge superstite», in
caso di «decesso di una delle parti del contratto di convivenza, derivante da
fatto illecito di un terzo».
La valutazione complessiva dei progetti di legge sin qui
descritti porta a tracciare un bilancio tutt’altro che incoraggiante.
Alla chiarezza dei testi (e, prima ancora, delle idee)
non giova certo la confusione, talora evidente, tra le due radicalmente diverse
prospettive che un intervento normativo in questo settore dovrebbe perseguire.
Da un lato, quella che mira a porre fine, una buona volta per tutte, alla
persistente discriminazione, indegna di un Paese che vorrebbe dirsi civile,
verso le persone omosessuali in merito alla possibilità di suggellare con il
vincolo matrimoniale la propria unione affettiva. Dall’altra, quella che ha per
scopo la soluzione di una serie di problemi giuridici inevitabilmente destinati
a sorgere da una convivenza tra persone (di sesso diverso, così come dello
stesso sesso) che, però, coscientemente, per le più svariate ragioni, escludono
la via del matrimonio.
Quest’ultima, e solo quest’ultima, è la considerazione
che deve porsi alla base di un’ipotetica disciplina ad hoc dei contratti di convivenza. Disciplina che deve, quindi,
mirare alla costituzione, per via negoziale, di un rapporto giuridico fonte di
reciproci diritti e doveri che possono anche per taluni aspetti assomigliare a
quelli di due soggetti i quali vivano, come si soleva affermare nei secoli
passati, in schemate matrimoniali, ma
che da questi divergano per modo di costituzione e di cessazione, nonché per
qualità, quantità ed intensità di effetti.
Il che, naturalmente, non esclude che stimolanti
parallelismi si possano tracciare tra i due sopra descritti «mondi»: e così si
viene anche a rispondere alla questione fondamentale che, con riguardo ai
contratti di convivenza, da molti anni s’agita. Vale a dire: ha un senso
prevedere per legge (oltre tutto, affrontando il rischio degli sfracelli cui ci
ha abituato l’insipienza legislativa di questi ultimi tempi) interventi i cui
effetti, comunque (per lo meno in parte consistente), già si possono realizzare
mercé il ricorso all’autonomia privata [27]?
La risposta è positiva, per almeno un triplice ordine di
ragioni.
Il primo è che, come le svariate esperienze straniere
dimostrano, l’intervento normativo potrebbe svolgere una funzione, per così
dire, «incentivante», con il risultato di prevenire possibili liti nate
dall’imprevidenza o dall’avventatezza dei partners.
In quest’ottica si poneva, ad esempio, esattamente trent’anni fa, l’Unione
Internazionale dei Magistrati, la cui Seconda Commissione di Studio approvava,
tra le conclusioni del congresso di Oslo (18 e 19 giugno 1985), quella secondo
cui «Il est souhaitable que les concubins puissent régler contractuellement au
moins leurs droits de propriété» [28], mentre alla stessa prospettiva
è riconducibile la raccomandazione con la quale il Comitato dei Ministri del
Consiglio d’Europa, tre anni dopo, veniva ad esortare gli Stati Membri a non
prevedere ipotesi di nullità dei contratti, per il solo fatto di essere stati
questi stipulati tra persone «living together as an unmarried couple» [29].
Il secondo motivo risiede nel fatto che l’adozione
dell’opzione legislativa potrebbe favorire l’apertura di nuove prospettive
negoziali in settori da cui l’attività contrattuale è esclusa o indebitamente
compressa: si pensi, ad esempio, al superamento del divieto dei patti
successori, per il quale si avverte, come noto, un’analoga necessità anche nei
rapporti intessuti nell’ambito della famiglia fondata sul matrimonio.
La terza ragione consiste nel fatto che l’intervento
legislativo (specie se adeguatamente meditato, come purtroppo non sembra il
caso in questo frangente, a dispetto della «vetustà» dell’idea) potrebbe
senz’altro aiutare a sciogliere residui dubbi sulla validità di singoli tipi di
clausole o su profili ancillari delle intese.
Proprio nella prospettiva da ultimo segnalata, di grande
utilità potrebbe rivelarsi il «dialogo» con l’esperienza maturata nello studio
delle questioni legate ai contratti preventivi sulla crisi coniugale, o
contratti prematrimoniali [30].
Ed infatti, che tra le due categorie si
pongano forti legami ed interazioni è dimostrato, innanzi tutto,
dall’osservazione di alcune tra le più significative esperienze straniere.
Così, posizionandoci idealmente ai nostri antipodi, e
collocandoci temporalmente nel lontano 1984, scopriamo che, in una delle prime
legislazioni al mondo ad occuparsi dei contratti di convivenza, vale a dire nel
De Facto Relationships Act del Nuovo
Galles del Sud (Australia), si prevede espressamente (art. 44) che un accordo
di convivenza possa essere «made in contemplation of the termination of a
domestic relationship».
Proprio tale disposizione (ora inserita nel Property (Relationships) Act) ha, in
tempi meno remoti, contribuito a determinare l’introduzione per via legislativa
dell’ammissibilità della stipula di prenuptial
agreements, conclusi anche eventualmente in contemplation of divorce, per effetto della riforma di cui al Family Law Amendment Act 2000, in vigore
in Australia dal 1° gennaio 2001 [31]. Si è, invero, constatato al riguardo che «it seemed
‘illogical’ that parties to a de facto relationship may have contractual rights
or entitlements enforceable by a court, whereas agreements by parties who
intend to marry will generally after marriage not be recognised as binding or
enforceable by the Family Court» [32].
In luogi e tempi più vicini a noi, invece, va rilevato
come, la legislazione catalana, dopo aver espressamente consentito, sin dal
1998, intese preventive, in contemplazione di una possibile rottura del
rapporto, nel contesto degli accordi tra conviventi, sia eterosessuali che
omosessuali [33], sia passata ad ammettere, nel relativo Codi de familia (art. 15), del medesimo
1998, che pure nei capítols matrimonials,
«hom pot determinar el règim econòmic matrimonial, convenir heretaments, fer
donacions i establir les estipulacions i els pactes lícits que es considerin
convenients, àdhuc en previsió d’una ruptura matrimonial» [34], per poi pervenire ad un’articolata definizione di
siffatto tipo di intese nel Codi Civil de
Catalunya del 2008 [35].
Ad ulteriore riprova di tale osmosi, va ricordato che,
nel 2010, anche a seguito dell’apertura in Spagna del matrimonio alle coppie
omosessuali, si è proceduto in Catalogna ad una revisione delle disposizioni
sulla convivenza more uxorio, con la
conseguenza che oggi il codice civile della citata regione autonoma iberica
(cfr. le modifiche introdotte dalla Ley
25/2010, de 29 de julio) tratta in modo uniforme le coppie conviventi
omosessuali ed eterosessuali, concedendo loro la possibilità, ove non intendano
accedere al matrimonio, di stipulare una
escriptura pública, nella quale esse regolino svariati aspetti patrimoniali
della loro unione, persino «en previsió del cessament de la convivència» (cfr.
artt. 234-1 – 234-14 del Codi Civil de
Catalunya), con espresso rinvio, in questo caso, alla dettagliata normativa
degli accordi prematrimoniali all’uopo predisposta dal codice.
Ulteriore conferma dei punti di contatto tra le due
categorie di accordi risiede in alcuni di quelli che possono costituire gli
elementi qualificanti degli stessi. Il cultore del diritto di famiglia sa bene
che svariati tipi di questioni teoriche, ma anche di sofferte controversie
giudiziali, si pongono nel medesimo modo e con la medesima frequenza nel caso
di crisi della coppia, coniugata o meno che sia.
Si pensi, ad esempio, alla questione della sorte delle
attribuzioni patrimoniali «a senso unico» eseguite in costanza di rapporto
affettivo per l’acquisto di beni operati esclusivamente (o in una quota non
proporzionale all’esborso effettuato) dall’ex coniuge, già in regime di
separazione dei beni, o dall’ex partner
ed all’uno o all’altro «intestati» in modo, per così dire, «difforme» rispetto
al soggetto da cui il denaro proveniva [36]. Orbene, il suggerimento [37] di inserire una clausola «preventiva» sul significato
da attribuire a determinati tipi di attribuzioni patrimoniali, nel caso fossero
concretamente eseguite in costanza di rapporto affettivo, sembra possedere
valore e pratica utilità non solo con riguardo alle intese tra conviventi,
bensì anche a quelle inter (futuros) coniuges.
La «cartina di tornasole» dell’attendibilità di questi
rilievi e dell’utilità dell’idea è rappresentata dal singolare raffronto tra la
giurisprudenza in tema, ad esempio, di «mutuo» (rectius: allegato, ma mai dimostrato mutuo) tra coniugi o
conviventi per l’acquisto di beni immobili in capo (in tutto o in parte)
all’asserito «mutuatario» (coniuge o partner
che sia), di cui abbiamo dato conto in altra sede [38], ove è dato riscontrare una curiosa convergenza,
assolutamente «trasversale» rispetto ai due tipi di famiglia, sia nel modo di
impostare la causa, allegazioni e petita
della parte attrice, difese della parte convenuta, sia nella sentenza di
(inevitabile) rigetto, fondata sulla semplicissima constatazione
dell’inidoneità della prova dell’effettuazione di un esborso per un acquisto
operato da un altro (coniuge o convivente che sia) a dimostrare la sussistenza
dell’obbligazione di restituire il tantundem
da parte del «beneficiario finale» dell’operazione.
E’ pur vero che dubbi sono stati espressi in dottrina
sulla validità delle intese preventive tra conviventi, auspicate e proposte al
riguardo dallo scrivente; dubbi attinenti all’allegato mancato rispetto del
principio di causalità delle attribuzioni patrimoniali accolto dal nostro
ordinamento. Questo principio, si asserisce, non potrebbe infatti «essere
semplicemente determinabile mediante la relatio ad un precedente negozio
normativo» [39].
Siffatte perplessità appaiono peraltro agevolmente
superabili ponendo mente, innanzi tutto, alla conclamata piena validità di
negozi traslativi a causa esterna. Ipotesi, questa, alla quale può poi essere
affiancata anche quella del contratto normativo o programmatico, specie tenuto
conto dell’incontestabile dato normativo scolpito nell’art. 1321 c.c., da cui
emerge che, mercé lo strumento contrattuale, le parti possono non solo
costituire od estinguere, bensì anche «regolare» rapporti giuridici, senza che
la disposizione distingua a seconda che tali rapporti giuridici siano già in
essere o meno inter partes. Del resto, una volta ammessa la validità del
negozio d’accertamento nel nostro ordinamento, non si riuscirebbe a comprendere
per quale ragione tale istituto non dovrebbe avere cittadinanza nel sistema
vigente, sol perché concluso in via preventiva rispetto ai negozi che si
pongono quali possibili fonti, a loro volta, di situazioni di incertezza [40]. Resta inteso, ovviamente, che la qualificazione
giuridica, in caso di controversia, non potrà spettare che al giudice. Le
clausole in esame servono però ad «orientare» la decisione nel caso di difetto
di elementi da cui trarre, di volta in volta, indicazioni circa la sussistenza
di una volontà negoziale in senso difforme [41].
Altri esempi di «contaminazione» e «interazione» tra
accordi prematrimoniali e contratti di convivenza potrebbero essere costituiti
dalle intese sulla gestione della responsabilità genitoriale, in relazione sia
alla prole nascitura, che a quella già nata, che a quella che venga a porre un
problema di affidamento in sede di crisi dell’unione affettiva, tanto più che
le relative regole [42] non possono, per definizione, differire, una volta
operata la piena equiparazione tra tutte le «antiche» categorie di figli [43].
Altri esempi ancora sono ricavabili da alcuni
peculiari profili di carattere patrimoniale: dalla predeterminazione del
contributo del partner ad
un’eventuale impresa familiare [44], che ben potrebbe servire di modello ad un’analoga
pattuizione programmatica tra futuri coniugi (con l’attribuzione in via
preventiva di eventuali diritti in caso di cessazione del rapporto collaborativo
e/o coniugale), alla creazione di un vincolo di destinazione ex art. 2645-ter c.c. a favore della famiglia di fatto, con l’inserimento della
clausola che ne preveda l’automatica trasformazione in fondo patrimoniale nel
caso di celebrazione delle nozze tra i due conviventi [45]. Sempre con riguardo a tale ultima norma potrà
notarsi come questa si presti a costituire un vero e proprio «ponte» tra i due
tipi di famiglia, ben potendo adattarsi a realizzare interessi meritevoli di
tutela in relazione ad entrambe le formazioni sociali in discorso, una volta
superata la tesi, pure autorevolmente prospettata, che predica
l’inapplicabilità dell’art. 2645-ter
c.c. alla famiglia fondata sul matrimonio, in seno alla quale potrebbe darsi
vita solo ad un fondo patrimoniale [46]. Per questa ragione, tanto alcuni progetti di legge
sugli accordi prematrimoniali [47], quanto taluni formulari ufficiali di contratti di
convivenza [48], vi fanno esplicito richiamo. Inutile dire, quanto
alla soluzione normativa, che la possibile obiezione fondata sulla superfluità
del rinvio alla disposizione sui vincoli di destinazione appare superabile
sulla base della considerazione della funzione «didattica», «premiale» e
«incentivante» che l’adozione nello specifico settore giusfamiliare di una normativa
ad hoc può assumere, nello stimolo
agli operatori ad utilizzare strumenti che l’ordinamento già pone a
disposizione dei soggetti in linea generale.
Analoghe considerazioni valgono con riferimento ad un
altro possibile punto di convergenza, costituito dalla creazione de iure condendo di un trust familiare all’italiana, di cui si
rinvengono tracce in alcune proposte di legge sui patti prematrimoniali [49], ma che ben s’adatterebbe a soddisfare analoghe
esigenze della famiglia di fatto. Uno specifico intervento normativo
consentirebbe, tra l’altro, di superare le persistenti obiezioni (per molti
profili largamente fondate) circa l’ammissibilità de iure condito di un trust
interno, di cui si è dato conto in altra sede [50].
9. Segue. Le clausole sulla rottura
del rapporto (matrimoniale o di convivenza).
Naturalmente, anche la possibilità di dedurre in
condizione l’eventuale rottura del rapporto – tanto coniugale, che
paraconiugale – in relazione alla ripetizione di attribuzioni patrimoniali
pregresse, ad instar di quanto
effettuato dalla coppia di fidanzati cui si riferisce una nota decisione di
legittimità emanata alla fine del 2012, si pone alla stregua di una soluzione
aperta tanto ai coniugi, come ai conviventi, come a futuri tali [51]. Sarà dunque immaginabile legare la restituzione di
un determinato importo mutuato (magari, come avvenuto nel caso testé citato,
mercé un’ipotizzata datio in solutum)
al «fallimento» (sempre per utilizzare la terminologia di quella concreta
coppia) del rapporto già in atto, o che sta per costituirsi tra i due. E qui,
ancora una volta, a prescindere dal fatto che siffatto legame affettivo sia
stato o debba essere suggellato dal vincolo matrimoniale.
Sempre in relazione alla preventiva determinazione
delle conseguenze della rottura del rapporto un altro evidente punto di
convergenza è costituito dalla possibile previsione di trasferimenti e di
costituzione di diritti a tacitazione di eventuali pretese postmatrimoniali,
analogamente a quanto già ampiamente consentito dalla giurisprudenza in tema di
contratti della crisi coniugale [52]. Il trasferimento o la costituzione potranno dunque
avere nel contratto preventivo la struttura del mero impegno a trasferire (o a
costituire), così come la struttura della traslazione o costituzione con
efficacia reale, sottoposta alla condizione sospensiva della crisi coniugale.
Ovviamente, identico tipo di accordi potrebbe
stipularsi tra conviventi (o ex tali), sia in via preventiva, che a chiusura di
un rapporto pregresso. Inutile dire che di estrema importanza sarebbe non solo
il ripristino, bensì l’estensione, tanto alle intese prematrimoniali, così come
a quelle relative alla famiglia di fatto, del contenuto dell’art. 19 della
legge n. 74/1987; disposizione che, come noto, ha cessato di esistere il 31
dicembre 2013 [53], pur se inopinatamente «resuscitata» da una quanto
meno «rocambolesca» circolare ministeriale [54]. E’ peraltro universalmente riconosciuto il
contributo che la regola in esame ha dato per un quarto di secolo alla
consensualizzazione delle crisi coniugali e, in definitiva, alla positiva
soluzione di almeno una parte del folto ed intricato contenzioso familiare.
Ulteriore possibile punto di contatto (o… di scontro)
tra accordi prematrimoniali e contratti di convivenza è rappresentato da un argomento
che ormai s’avvia a diventare un «classico» della crisi coniugale, vale a dire
il rilievo che l’eventuale instaurazione di una convivenza more uxorio – da parte dell’uno e/o dell’altro dei (futuri) coniugi
– può dispiegare sull’efficacia dell’assetto postmatrimoniale, eventualmente
già divisato in un’intesa prematrimoniale. Anche in questo caso è opportuno che
le parti d’un prenuptial agreement
s’accordino, espressamente prevedendo o, in alternativa, escludendo che la
realizzazione di tale eventualità dispieghi effetti sulle attribuzioni
postmatrimoniali (contributo al mantenimento del coniuge separato, assegno di
divorzio, assegnazione convenzionale della casa coniugale, ecc.) pattuite ex ante, così come su quelle che
dovessero venire concordate ex post,
o eventualmente anche determinate dal giudice, in caso di separazione o di
divorzio contenziosi [55]. Inutile rammentare che una soluzione del genere è
valida alla sola condizione che, secondo la tesi di gran lunga preferibile, le
prestazioni postmatrimoniali in oggetto (concernenti i rapporti tra i coniugi,
così come quelle coinvolgenti la prole minorenne, a condizione che le stesse
non si pongano in contrasto con l’interesse di quest’ultima) siano pienamente
disponibili inter partes [56].
Correlativamente, anche un contratto di convivenza può
mettere in conto la possibilità che la prestazione postmatrimoniale attualmente
goduta da uno dei due partners (o,
perché no, da entrambi) venga meno per qualche ragione (magari proprio per
l’instaurazione della convivenza in oggetto). In ogni caso, ciò che appare
vivamente consigliabile in ipotesi del genere è che le parti sappiano
«calibrare» opportunamente, oltre che con la dovuta precisione, le reciproche
contribuzioni e le condizioni di modifica o cessazione delle stesse.
La presenza dei sopra evidenziati punti di contatto
tra le due categorie di intese non deve però indurre a trascurare la
sussistenza di molteplici e sostanziali differenze, sia nell’attuale contesto
normativo del nostro Paese, che, in prospettiva, de jure condendo.
Ed invero, nella perdurante situazione di totale
assenza di una disciplina organica del fenomeno della convivenza more uxorio, con particolare riguardo ai
rapporti personali e patrimoniali tra i membri dell’unione di fatto, è evidente
che il contratto di convivenza tende ad assumere quella valenza di «carta
costituzionale» della vita di una certa coppia, che, in campo matrimoniale, è
svolta (per molti profili, tra l’altro, inderogabilmente) dagli artt. 143 ss.
c.c. In questa situazione, all’accordo prematrimoniale – stretto, da un lato
dalla disciplina codicistica dei diritti e dei doveri derivanti dal matrimonio
e, dall’altro, dalle regole in tema di convenzioni matrimoniali e regimi
patrimoniali della famiglia legittima – non rimane che limitarsi a disciplinare
i soli aspetti collegati alle prestazioni patrimoniali divorzili: dall’assegno
di divorzio, ad eventuali prestazioni pecuniarie una tantum, a trasferimenti immobiliari o mobiliari, alla
restituzione di mutui erogati prima delle nozze o durante il rapporto
coniugale, ecc.
In ordinamenti nei quali, invece, la convivenza è
inquadrata nell’ambito di regole para-matrimoniali le due categorie negoziali
qui in discorso (accordi prematrimoniali e contratti di convivenza) possono
presentarsi come entità quasi fungibili [57]. Tanto più che in molti di tali sistemi (si pensi ad
esempio, a quelli di Common Law), la
distinzione tra profili attinenti a quello che noi definiamo come «regime
patrimoniale» (vale a dire ai principi che attengono allo «statuto» dei beni
acquistati e, più in generale, dei rapporti giuridici costituiti in costanza di
matrimonio o di libera unione), da un lato, regole sull’attuazione
dell’indirizzo concordato, accordi sulla contribuzione, sulla prole, sulle
eventuali prestazioni dovute in caso di rottura, ecc., dall’altro, risulta
assai più sfumata rispetto a quanto avviene da noi [58].
Un’ulteriore
differenza, sempre strettamente legata allo stato della legislazione attuale
italiana, attiene poi a quello che potremmo definire come il «livello» di
necessità di un intervento da parte del legislatore. Fermo restando, infatti,
che, secondo la tesi da decenni sostenuta dallo scrivente, tanto gli accordi
prematrimoniali che i contratti di convivenza ben possono essere stipulati già de iure condito, non vi è dubbio che,
come già detto, l’accettazione di tale idea può darsi per (quasi) pacifica solo
relativamente ai secondi.
Ben diverso è il discorso per gli accordi
prematrimoniali in contemplation of
divorce. Qui, come noto, è la possibilità stessa di pattuire in anticipo le
conseguenze di un mutamento di status,
quale quello determinato dallo scioglimento del vincolo matrimoniale [59], ad essere messa in dubbio, a cominciare da una
giurisprudenza consolidata, ancorché tutt’altro che monolitica, per non parlare
poi di alcune consistenti «sacche di resistenza» in dottrina.
Ma, per tornare ai contratti di convivenza, sembra
evidente come la rassegna dei punti di contatto sopra evidenziati abbia posto
in luce una costellazione di situazioni la cui esistenza (e la cui necessità di
regolamentazione a livello di diritto positivo) pare sfuggire anche ai più
dettagliati (rectius: ai meno
superficiali) esercizi di ipotetica legislazione, di cui si è cercato di dare
conto nel presente scritto.
Inevitabile, dunque, l’auspicio che un ben più
meditato approccio ai temi qui in discussione porti ad evitare soluzioni del
genere di quelle che, ad esempio, nel 2006, «partorirono» veri e propri monstra di (pessima) tecnica legislativa
(e, quel che è peggio, di vera e propria confusione concettuale), quali il
patto di famiglia o i vincoli di destinazione.
Tale opera si renderebbe, però, necessaria non solo (e
non tanto) per fugare i dubbi dei residui scettici, quanto per introdurre
quegli accorgimenti e quelle cautele che potrebbero definitivamente convincere
anche i più pervicacemente contrari dell’utilità (anzi, dell’imprescindibile
necessità!) dell’introduzione della prassi di accompagnare ogni decisione di
due persone di unire le proprie vite (suggellata, o meno, dalla celebrazione
delle nozze) ad un’accorta pianificazione dei profili giuridici inevitabilmente
legati ad un’eventuale cessazione (inter
vivos, certo, ma anche mortis causa)
del rapporto affettivo.
[1] È
il caso (oltre che, come ovvio, degli ordinamenti che conoscono come legale un
regime di tipo comunitario ed in cui la disciplina matrimoniale viene sic et simpliciter richiamata dalle
norme sul partenariato registrato, come avviene, ad esempio, nei Paesi
scandinavi) della Germania, ove il Gesetz über die Eingetragene
Lebenspartnerschaft (Lebenspartnerschaftsgesetz - LPartG) del 16 febbraio 2001, che aveva
originariamente previsto per i conviventi omosessuali che avessero provveduto
alla registrazione della loro unione, l’apposito regime della Ausgleichsgemeinschaft,
modellato sulla falsariga della Zugewinngemeinschaft, ha, a seguito
della riforma di cui alla l. 6 febbraio 2005, adottato quale Güterstand (cfr. il nuovo § 6), peraltro derogabile,
proprio quello previsto quale regime legale per i coniugi, con espresso rinvio
ai §§ 1363, secondo comma, nonché da
[2] Si tratta della proposta presentata il 9
ottobre 1987, d’iniziativa dei deputati Calvanese e altri, recante il n. 1647 e
intitolata «Nuove norme in materia di diritto di famiglia». Essa, agli artt. 13
e 15, prevedeva testualmente quanto segue:
«Art. 13 (Patrimonio della famiglia di fatto).
I conviventi more uxorio possono rivolgersi al giudice per chiedere la divisione
del patrimonio costituito durante la convivenza.
Il giudice valuta, indipendentemente dalla
titolarità o dal possesso dei beni, la consistenza del patrimonio costituito
dai conviventi con apporti di lavoro professionale, o casalingo, ai sensi degli
articoli 177, 178 e 179 del codice civile, come sostituiti rispettivamente
dagli articoli 56, 57 e 58 della legge 19 maggio 1975, n. 151.
Il giudice procede alla divisione del
patrimonio ai sensi dell’art. 194 del codice civile, come sostituito dall’art.
73 della legge 19 maggio 1975, n. 151».
«Art. 15 (Facoltà per i conviventi di
escludere il regime di comunione e la costituzione di impresa familiare)
Le disposizioni di cui agli articoli 13 e 14
della presente legge non si applicano se i conviventi concordano su ciò con
atto pubblico di cui all’articolo 2699 del codice civile».
[3] Cfr. la proposta n. 3296/XIV/C, presentata
alla Camera il 21 ottobre 2002 di iniziativa del deputato Grillini.
[4] Cfr. l’art. 230-nonies c.c., secondo
la proposta n. 4334/XIV/C («Disciplina
del patto civile di solidarietà»), presentata il 2 ottobre 2003, di
iniziativa del deputato Rivolta e altri.
[5] Cfr. il progetto di legge n. 1563/XV/C,
presentato il 2 agosto 2006 dal deputato De Simone e altri, che proponeva
l’introduzione di un art. 455-septies
c.c., il cui quarto comma era del seguente tenore: «Nel caso di separazione, le
parti procedono di comune accordo alla divisione patrimonio comune. Nel caso in
cui l’accordo non sia possibile il giudice, indipendentemente dalla titolarità
o dal possesso dei beni, tenuto conto della consistenza del patrimonio
costituito dalle parti con apporti di lavoro professionale e casalingo ai sensi
degli articoli 177, 178 e 179, decide sulle conseguenze patrimoniali procedendo
alla divisione del patrimonio ai sensi dell’articolo 194, fatta salva la
possibilità per le parti agire per il risarcimento del danno eventualmente
subìto».
[6] Cfr. art. 8, terzo, quarto e quinto comma,
della proposta n. 33/XV/C, presentata il 28 aprile 2006 d’iniziativa del
deputato Grillini e altri.
[7] È impossibile in questa sede fornire un’esauriente elencazione dei contributi italiani e stranieri sull’argomento. L’autore si permette pertanto di fare richiamo a Oberto, I regimi patrimoniali della famiglia di fatto, Milano, 1991, p. 8 ss., 151 ss.; Id., I diritti dei conviventi. Realtà e prospettive tra Italia ed Europa, cit., p. 81 ss.
[8] Cfr. il d.d.l. di iniziativa governativa n. 1339/XV/S,
presentato il 20 febbraio 2007. Per alcune osservazioni su tale progetto cfr. Grasso, Tiziano o Duchamp: sul disegno di legge in tema di «Diritti e doveri
delle persone stabilmente conviventi», in Fam. pers. succ., 2007, p. 723 ss.
[9] Cfr. il disegno di legge dal titolo
«Contratti di unione solidale», presentato il 12 luglio 2007 dal senatore
Salvi, Presidente della Commissione Giustizia del Senato, al comitato ristretto
ed approvato dalla Commissione predetta il 4 dicembre 2007. Per alcune osservazioni
su tale progetto cfr. Laurini, Le convivenze extra-familiari. Una proposta
di disciplina rispettosa dei principi etici e costituzionali, in Notariato, 2008, p. 362 s.
[10] Cfr. il testo del proposto art. 455-octies c.c.: «Regime patrimoniale. Nel contratto
di unione solidale le parti devono indicare se intendono assoggettare alle
norme della comunione in generale i beni acquistatati a titolo oneroso
successivamente alla stipulazione del contratto stesso, anche quando l’acquisto
sia compiuto da una sola delle parti».
[11] Cfr. il progetto di legge dal titolo
«Disciplina dei diritti e dei doveri di reciprocità dei conviventi», presentato
l’8 ottobre 2008 dal deputato Barani ed altri (n. 1756/XVI/C). Analogo silenzio
contraddistingueva la proposta n. 1862/XVI/C, d’iniziativa del deputato Mantini
ed altri, dal titolo «Norme sulla responsabilità delle persone stabilmente
conviventi, in materia di successione, obblighi alimentari, prestazione di
lavoro, permesso di soggiorno, contratti di locazione, assegnazione di alloggi
di edilizia residenziale pubblica, assistenza in caso di ricovero, internamento
o detenzione, nonché di decisioni in materia di salute e in caso di morte»,
presentata il 3 novembre 2008.
[12] Cfr. la proposta n. 1065/XVI/C («Modifiche al
codice civile e altre disposizioni in materia di unione civile»), presentata il
15 maggio 2008.
[13] Cfr. Oberto, I regimi patrimoniali della famiglia di fatto, cit., p. 262 ss., 268 ss.; Id., I diritti dei conviventi. Realtà e prospettive tra Italia ed Europa, cit., p. 120 ss.
[14] Cfr. la proposta n. 1858/XVI/C
(«Riconoscimento giuridico di diritti, responsabilità e facoltà alle persone
che fanno parte di unioni di fatto e delega al Governo per la disciplina della
successione tra le medesime»), presentata il 3 novembre 2008.
[15] Il citato proposto art. 4 si preoccupava
invece di prevedere, al terzo comma, che «Gli atti di disposizione patrimoniale
effettuati tra le persone componenti l’unione di fatto in proporzione ai
rispettivi redditi, alle rispettive sostanze e alle rispettive capacità
lavorative costituiscono adempimento di obbligazione naturale, in conformità
alla disciplina stabilita dall’articolo 2034 del codice civile». Il successivo
quarto comma stabiliva, poi, che «Salvo prova contraria, si presume che gli atti
di disposizione patrimoniale eccedenti la misura individuata dal comma 3
costituiscono donazioni, per la cui validità sono richiesti i requisiti
stabiliti dal libro secondo, titolo V, del codice civile». Siffatte
disposizioni raccoglievano, ancora una volta, la più risalente proposta
«privata», redatta dallo scrivente il 28 febbraio 2000, nell’ambito dei lavori
di una riunione di esperti convocata presso il Dipartimento per le Pari
Opportunità della Presidenza del Consiglio dei Ministri, inviata in pari data
all’Ufficio Legislativo del suddetto Dipartimento e pubblicata nel proprio sito
web il 10 giugno 2000 (cfr. Oberto, Proposta di legge sul tema: disposizioni in materia di accordi di
convivenza, disponibile alla seguente pagina web: https://www.giacomooberto.com/convivenza/proposta.htm,
anche in Oberto, Famiglia e rapporti patrimoniali. Questioni
d’attualità, Milano, 2002, p. 1057 ss.; v. inoltre Id., I diritti dei conviventi. Realtà e prospettive tra
Italia ed Europa,
cit., Appendice B,
VII, p. 367 ss.). L’art. 3 della proposta dello scrivente era stato
letteralmente ripreso dalla proposta presentata il 13 giugno 2001 di iniziativa
del deputato Belillo (n. 795/XIV/C) ed era stato quindi trasposto nel progetto
qui menzionato e presentato nella XVI legislatura (sul tema v. anche Oberto, I contratti di convivenza tra autonomia privata e modelli legislativi,
in Contratto e impresa/Europa, 2004, p. 87 ss.).
[16] Cfr. la proposta n. 91/XVI/S («Norme sul
riconoscimento giuridico delle unioni civili»), comunicata alla Presidenza il
29 aprile 2008.
[17] Per una rapida rassegna di svariate proposte di legge sul tema v. anche Cocuccio, Convivenza e famiglia di fatto: problematiche e prospettive, in Dir. fam. pers., 2009, p. 908 ss.
[18] Una copia dovrebbe essere trasmessa dal notaio «al comune di residenza dei conviventi per l’iscrizione all’anagrafe, ai sensi del regolamento di cui al decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 1989, n. 223, a margine dello stato di famiglia».
[19] «Art. 230-duodecies. - (Obbligo alimentare). -- Nei casi di scioglimento di cui all’articolo 230-undecies, primo comma, numeri 1), 2) e 3), c’è [sic!] l’obbligo di corrispondere…».
[20] Successivamente trasmesso in copia, entro dieci giorni, «al comune di residenza dei conviventi per l’iscrizione all’anagrafe ai sensi degli articoli 5 e 7 del regolamento di cui al decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 1989, n. 223».
[21] Cfr. Consiglio Nazionale del Notariato, Nuove regole. Tra affetti ed economia. Le proposte del notariato. Accordi pre-matrimoniali. Convivenze. Successioni, Roma, 2011, p. 42 ss.
[22] Cfr. Oberto, I regimi patrimoniali della famiglia di fatto, cit., p. 262 ss., 268 ss.; Id., I diritti dei conviventi. Realtà e prospettive tra Italia ed Europa, cit., p. 120 ss.
[23] Su cui cfr. Oberto, I regimi patrimoniali della famiglia di fatto, cit., p. 53 ss.
[24] Si pongano a raffronto le due disposizioni come segue:
Art. 230-bis c.c. |
Art. 230-ter c.c. (proposta del notariato cit.) |
«Art. 230-bis. – (Impresa familiare). Salvo che sia configurabile
un diverso rapporto, il familiare che presta in modo continuativo la sua
attività di lavoro nella famiglia o nell’impresa familiare ha diritto al
mantenimento secondo la condizione patrimoniale della famiglia e partecipa
agli utili dell’impresa familiare ed ai beni acquistati con essi nonché agli
incrementi dell’azienda, anche in ordine all’avviamento, in proporzione alla
quantità e qualità del lavoro prestato. Le decisioni concernenti l’impiego
degli utili e degli incrementi nonché quelle inerenti alla gestione
straordinaria, agli indirizzi produttivi e alla cessazione dell’impresa sono
adottate, a maggioranza, dai familiari che partecipano all’impresa stessa. I
familiari partecipanti all’impresa che non hanno la piena capacità di agire
sono rappresentati nel voto da chi esercita la potestà su di essi. Il lavoro della donna è
considerato equivalente a quello dell’uomo. Ai fini della disposizione di
cui al primo comma si intende come familiare il coniuge, i parenti entro il terzo grado, gli
affini entro il secondo; per impresa familiare quella cui collaborano il
coniuge, i parenti entro il terzo grado, gli affini entro il secondo. Il diritto di partecipazione
di cui al primo comma è intrasferibile, salvo che il trasferimento avvenga a
favore di familiari indicati nel comma precedente col consenso di tutti i
partecipi. Esso può essere liquidato in danaro alla cessazione, per qualsiasi
causa, della prestazione del lavoro, ed altresì in caso di alienazione
dell’azienda. Il pagamento può avvenire in più annualità, determinate, in
difetto di accordo, dal giudice. In caso di divisione
ereditaria o di trasferimento dell’azienda i partecipi di cui al primo comma
hanno diritto di prelazione sull’azienda. Si applica, nei limiti in cui è
compatibile, la disposizione dell’articolo 732. Le comunioni tacite familiari
nell’esercizio dell’agricoltura sono regolate dagli usi che non contrastino
con le precedenti norme». |
«Art. 230-ter. – (Diritti del convivente). Al convivente che da almeno
cinque anni abbia stipulato un patto di convivenza e presti stabilmente la
propria opera all’interno dell’impresa dell’altro convivente spetta, salvo
diversa disposizione contenuta nel patto, una partecipazione agli utili
commisurata al lavoro prestato. Il diritto non spetta qualora
tra i conviventi esista un rapporto di società o di lavoro subordinato». |
[25] Cfr. Oberto, I diritti dei conviventi. Realtà e prospettive tra Italia ed Europa, cit., p. 171 ss.
[26] Cfr. la Proposal
for a Council Regulation on jurisdiction, applicable law and the recognition
and enforcement of decisions regarding the property consequences of registered
partnerships, in http://ec.europa.eu/justice/policies/civil/docs/com_2011_127_en.pdf. Da notare che le relative norme di conflitto
dovrebbero avere (come del resto accade in molti degli altri strumenti attraverso
cui si attua la cooperazione giudiziaria in materia civile) valore universale:
esse dovrebbero pertanto sostituire in tutto e per tutto le corrispondenti
disposizioni di d.i.p. italiano, anche nei rapporti «extracomunitari» (cfr.
l’art. 16 della citata proposta: «Article 16. Universal nature of
the conflict-of-law rule. 1. Any law determined in accordance with the provisions of this
Chapter shall apply even if it is not the law of a Member State»).
[27] E’ noto, infatti, che, pur rimanendo la discussione aperta su aspetti quali la concreta estensione del contenuto, sulla praticabilità di singole clausole, o sui profili formali e via discorrendo, per ciò che attiene al concetto di base, vale a dire la fondamentale ammissibilità dei contratti destinati a disciplinare i profili patrimoniali del faux ménage, può veramente dirsi che non vi sia (quasi) più discussione. Per una panoramica al riguardo cfr. G. Oberto, I regimi patrimoniali della famiglia di fatto, cit., p. 151 ss.; Id., I diritti dei conviventi. Realtà e prospettive tra Italia ed Europa, p. 81 ss. Per un recente esercizio pratico cui ha preso parte anche lo scrivente cfr. Consiglio Nazionale del Notariato, Guida operativa in tema di convivenza. Vademecum sulla tutela patrimoniale del convivente more uxorio in sede di esplicazione dell’autonomia negoziale. Contratti di convivenza open day, 30 novembre 2013, Roma, 2013.
[28] Cfr. Oberto, La famiglia di fatto nel diritto comparato, in Giur. it., 1986, IV, c. 110. Le conclusioni delle Commissioni di Studio dell’Unione Internazionale dei Magistrati (www.iaj-uim.org) sono disponibili all’indirizzo web seguente: http://www.iaj-uim.org/study-commissions/; quelle della Seconda, in particolare, si raggiungono direttamente tramite il link seguente: http://www.iaj-uim.org/?document-argument=&document-author=2-study-commission-civil-law-and-procedure&document-year=&document-type=conclusions&document-nation=.
[29] Cfr. la Recommendation N° R(88)3 of the Committee
of Ministers to Member States on the validity of contracts between persons
living together as un unmarried couple and their testamentary dispositions (adottata
dal Comitato dei Ministri il 7 marzo 1988, durante la 415a riunione
dei Vice-Ministri; disponibile al sito web seguente: https://wcd.coe.int/ViewDoc.jsp?id=706791&BackColorInternet=9999CC&BackColorIntranet=FFBB55&BackColorLogged=FFAC75),
del seguente tenore: «The Committee of Ministers, under the terms of Article
15.b of the Statute of the Council of Europe,
Considering that the
aim of the Council of Europe is to achieve a greater unity between its members,
in particular by promoting the adoption of common rules in legal matters;
Considering that many
problems concerning persons living together as an unmarried couple may be
resolved by the conclusion of contracts between such persons or by testamentary
dispositions made by one in favour of the other;
Noting that in some
countries such contracts and testamentary dispositions might be considered to
be contrary to public policy or morality,
Recommends that the
governments of member states take the necessary measures:
i. to ensure that
contracts relating to property between persons living together as an unmarried
couple, or which regulate matters concerning their property either during their
relationship or when their relationship has ceased, should not be considered to
be invalid solely because they have been concluded under these conditions;
ii. to
apply the same principle to testamentary dispositions».
[30] Cfr., anche per i richiami, Oberto, I contratti della crisi coniugale, I,
Milano, 1999, p. 483 ss.; Id., «Prenuptial agreements in
contemplation of divorce» e disponibilità in via preventiva dei diritti
connessi alla crisi coniugale, in Riv. dir. civ., 1999, II, p. 171
ss.; Id., Contratto e famiglia, in Aa.
Vv., Trattato del contratto (a cura
di E. Roppo), VI, Interferenze (a
cura di E. Roppo), Milano, 2006, p. 251 ss.; Id., Gli
accordi preventivi sulla crisi coniugale, in Familia, 2008, p. 25 ss.
[31] Su cui v. per tutti Panforti, Gli accordi patrimoniali fra autonomia dispositiva e disuguaglianza sostanziale. Riflessioni sul Family Law Amendment Act 2000 Australiano, in Familia, 2002, p. 153 ss.
[32] Cfr. la relazione sul Bills Digest No. 88 1999-2000, Family Law Amendment Bill 1999, preparato nel 1999 dal Department of the Parliamentary Library del Parliament of Australia, consultabile all’indirizzo web seguente: http://www.aph.gov.au/Parliamentary_Business/Bills_Legislation/bd/Bd9900/2000bd088.
[33] Si v. al riguardo gli artt. 3 (per le convivenze eterosessuali) e 22 (per le convivenze omosessuali) della legge catalana n. 10 del 15 luglio 1998 (d’unions estables de parella/de uniones estables de pareja), secondo cui i conviventi, sin dall’inizio della loro unione, «pueden regular las compensaciones económicas que convengan en caso de cese de la convivencia con el límite de los derechos que regula este capítulo, que son irrenunciables hasta el momento en que son exigibles». Sul tema cfr. Oberto, I contratti di convivenza tra autonomia privata e modelli legislativi, cit., p. 70.
[34] V. inoltre l’art. 3 della legge aragonese
n. 2/2003, del 12 febbraio 2003 (de
Régimen Económico Matrimonial y Viudedad), secondo cui «Los cónyuges pueden
regular sus relaciones familiares en capitulaciones matrimoniales, tanto antes
como después de contraer el matrimonio, así como celebrar entre sí todo tipo de
contratos, sin más límites que los del principio “standum est chartae”», con
una previsione comunemente interpretata come ammissiva degli accordi in vista
del divorzio: cfr. Martín Casals e
J. Ribot, Neue Entwicklungen im Bereich des Familienrechts in Spanien, in FamRZ, 2004, p. 1436. Sul tema v. anche Ferrer i Riba, Familienrechtliche
Verträge in den spanischen Rechtsordnungen, in Aa. Vv., From Status to Contract? – Die Bedeutung des Vertrages im europäischen Familienrecht, a cura
di S. Hofer, D. Schwab e D. Henrich, Bielefeld, 2005, p. 271 ss.
[35] Cfr. art. 231-20:
«Pactes en previsió d’una ruptura
matrimonial
1. Els pactes en previsió d’una ruptura
matrimonial es poden atorgar en capítols matrimonials o en una escriptura
pública. En cas que siguin avantnupcials, només són vàlids si s’atorguen abans
dels trenta dies anteriors a la data de celebració del matrimoni.
2. El notari, abans d’autoritzar
l’escriptura a què fa referència l’apartat 1, ha d’informar per separat
cadascun dels atorgants sobre l’abast dels canvis que es pretenen introduir amb
els pactes respecte al règim legal supletori i els ha d’advertir de llur deure
recíproc de proporcionar-se la informació a què fa referència l’apartat 4.
3. Els pactes d’exclusió o limitació de
drets han de tenir caràcter recíproc i precisar amb claredat els drets que
limiten o als quals es renuncia.
4. El cònjuge que pretengui fer valer un pacte
en previsió d’una ruptura matrimonial té la càrrega d’acreditar que l’altra
part disposava, en el moment de signar-lo, d’informació suficient sobre el seu
patrimoni, els seus ingressos i les seves expectatives econòmiques, sempre que
aquesta informació fos rellevant amb relació al contingut del pacte.
5. Els pactes en previsió de ruptura que
en el moment en què se’n pretén el compliment siguin greument perjudicials per
a un cònjuge no són eficaços si aquest acredita que han sobrevingut
circumstàncies rellevants que no es van preveure ni es podien raonablement
preveure en el moment en què es van atorgar».
[36] Per la trattazione delle rispettive questioni con riguardo, rispettivamente, alla famiglia fondata sul matrimonio ed in regime di separazione dei beni, da un lato, ed alla famiglia di fatto, dall’altro, cfr. Oberto, Il regime di separazione dei beni tra coniugi. Artt. 215-219, in Il codice civile. Commentario fondato e già diretto da P. Schlesinger, continuato da F.D. Busnelli, Milano, 2005, p. 347 ss.; Id., I diritti dei conviventi. Realtà e prospettive tra Italia ed Europa, cit., p. 59 ss.
[37] Su cui v. già Oberto, I regimi patrimoniali della famiglia di fatto, cit., p. 280 s.
[38] Cfr. Oberto, I diritti dei conviventi. Realtà e prospettive tra Italia ed Europa, cit., p. 78 ss.
[39] Cfr. in particolare Angeloni, Autonomia privata e potere di disposizione nei rapporti familiari, Padova, 1997, p. 537 s.
[40] Sul tema cfr. Oberto, I diritti dei conviventi. Realtà e prospettive tra Italia ed Europa, cit., p. 161 s.
[41] Ecco le formule suggerite al riguardo, per iniziativa dello scrivente e con la fattiva collaborazione dei Notai Antonio Diener e Francesco Striano, dal Consiglio Nazionale del Notariato (cfr. Consiglio Nazionale del Notariato, Guida operativa in tema di convivenza. Vademecum sulla tutela patrimoniale del convivente more uxorio in sede di esplicazione dell’autonomia negoziale. Contratti di convivenza open day, 30 novembre 2013, cit., p. 34):
«10.1. I pagamenti relativi a spese non comuni, ove effettuati da un convivente con mezzi propri, ma a vantaggio dell’altro convivente, sono da considerarsi liberalità d’uso o di modico valore, se di importo non superiore ad Euro … per ogni pagamento; ove invece siano di ammontare maggiore, superando i singoli importi la somma di Euro …, essi dovranno intendersi quali mutui erogati da un convivente all’altro, da restituirsi alla scadenza di mesi … dalla loro erogazione, senza interessi [ovvero: maggiorati dell’interesse pari al … per cento (%) in ragione d’anno]. La medesima regola sarà applicabile ad ogni attribuzione patrimoniale effettuata da un convivente a vantaggio dell’altro, qualora la parte interessata non dimostri che l’attribuzione è avvenuta per un titolo differente.
10.2. Le parti, ai fini civilistici e fiscali, dichiarano che la presente convenzione si configura quale strumento negoziale atipico per dedurre in obbligazioni, suscettibili di valutazione patrimoniale, le rispettive condotte comportamentali determinate dal comune legame di convivenza e che la medesima convenzione pertanto: - non è stata posta in essere da parte di essi conviventi con alcun intento donativo o liberale; - esaurisce la disciplina delle obbligazioni reciproche indicate nel presente contratto e derivanti dal rapporto di convivenza, con conseguente esclusione di altre cause contrattuali tipiche od atipiche che non siano concordemente ed espressamente adottate per iscritto o siano meramente esecutive della presente convenzione».
[42] Regole sostanziali; per quelle processuali si fa rinvio quanto osservato in altra sede: cfr. Oberto, I diritti dei conviventi. Realtà e prospettive tra Italia ed Europa, cit., p. 114 ss.
[43] E’ noto che la piena equiparazione tra la prole un tempo definita legittima e quella un tempo definita naturale è stata operata dalla l. 10 dicembre 2012, n. 219 e dal successivo d.lgs. 28 dicembre 2013, n. 154, in vigore dal 7 febbraio 2014. Peraltro, sul tema specifico qui in discorso la perfetta e completa estensione delle regole attinenti a quella che oggi si chiama responsabilità genitoriale, in sede di crisi del rapporto coniugale o paraconiugale, era già stata realizzata per effetto dell’art. 4, l. 8 febbraio 2006, n. 54.
[44] Su cui v. le clausole proposte in Consiglio Nazionale del Notariato, Guida operativa in tema di convivenza. Vademecum sulla tutela patrimoniale del convivente more uxorio in sede di esplicazione dell’autonomia negoziale. Contratti di convivenza open day, 30 novembre 2013, cit., p. 22 e dallo scrivente commentate ivi, p. 23.
[45] Cfr. Consiglio Nazionale del Notariato, Guida operativa in tema di convivenza. Vademecum sulla tutela patrimoniale del convivente more uxorio in sede di esplicazione dell’autonomia negoziale. Contratti di convivenza open day, 30 novembre 2013, cit., p. 71; sul tema v. anche Oberto, I diritti dei conviventi. Realtà e prospettive tra Italia ed Europa, cit., p. 137.
[46] Il dubbio è sollevato da Gabrielli, Vincoli di destinazione importanti separazione patrimoniale e pubblicità nei registri immobiliari, in Riv. dir. civ., 2007, p. 321 ss. Contra Oberto, Le destinazioni patrimoniali nell’intreccio dei rapporti familiari, in Aa. Vv., Le destinazioni patrimoniali, a cura di R. Calvo e A. Ciatti, nel Trattato dei contratti, a cura di E. Gabrielli e P. Rescigno, Torino, 2014, p. 236 ss.
[47] Cfr. ad es. la proposta sui patti prematrimoniali elaborata dal Notariato e presentata nel 2011 al Congresso Nazionale del Notariato di Torino, già consultabile al sito web seguente: http://www.notariato.it/export/sites/default/en/highlights/news/archive/pdf-news/Le_proposte_del_notariato_011.pdf, ora disponibile nella pubblicazione Nuove regole tra affetti ed economica. Le proposte del Notariato. Accordi pre-matrimoniali, Convivenze, Successioni, edita dal Consiglio Nazionale del Notariato, Roma, 2011.
[48] Cfr. Consiglio Nazionale del Notariato, Guida operativa in tema di convivenza. Vademecum sulla tutela patrimoniale del convivente more uxorio in sede di esplicazione dell’autonomia negoziale. Contratti di convivenza open day, 30 novembre 2013, cit., p. 66 ss.
[49] Cfr. ad es. la già citata proposta sui patti prematrimoniali elaborata dal Notariato e presentata nel 2011 al Congresso Nazionale del Notariato di Torino; v. inoltre l’art. 162-bis, ottavo comma, c.c., vagheggiato in Oberto, Proposta di legge in tema di accordi preventivi sulla crisi coniugale, disponibile alla pagina web seguente: http://giacomooberto.com/proposta_di_legge_Oberto_accordi_in_vista_della_crisi_coniugale.htm; il contributo è stato pubblicato con il titolo Suggerimenti per un intervento in tema di accordi preventivi sulla crisi coniugale, in Fam. dir., 2014, p. 88 ss. Secondo tale possibile disposizione, «8. Un coniuge può anche trasferire, o impegnarsi a trasferire, all’altro coniuge o ad un terzo beni o diritti destinati al mantenimento, alla cura o al sostegno di figli portatori di handicap per la durata della loro vita o fino a quando permane lo stato di bisogno, la menomazione o la disabilità a causa dell’handicap».
[50] Cfr. Oberto, Le destinazioni patrimoniali nell’intreccio dei rapporti familiari, cit., p. 147 ss.
[51] Cfr. Cass., 21 dicembre 2012, n. 23713, in Fam. dir., 2013, p. 323 ss., con nota di Oberto.
[52]
Cfr. per tutti Oberto, Gli accordi patrimoniali tra coniugi in sede
di separazione o divorzio tra contratto e giurisdizione: il caso delle intese
traslative, dal 4 marzo 2009
disponibile al seguente indirizzo web:
https://www.giacomooberto.com/trasferimenti/taormina2009/relazione_oberto_taormina.htm.
[53] Cfr. art. 10, comma quarto, d.lgs. 14 marzo 2011, n. 23, così come modificato dal d.lgs. 12 settembre 2013, n. 104, in vigore dal 1° gennaio 2014, il quale prevede che, con l’entrata in vigore delle nuove modalità di tassazione dei trasferimenti immobiliari, siano «soppresse tutte le esenzioni e le agevolazioni tributarie, anche se previste in leggi speciali».
[54] Ed invero, la norma citata nel testo, sostanzialmente abrogata a partire dal 1° gennaio 2014, è stata inopinatamente «resuscitata» da una sorprendente lettura (tanto benevola per il contribuente e – sia chiaro! – sacrosanta sotto il profilo dell’opportunità, quanto radicalmente infondata sul piano tecnico-giuridico) fornita dalla circolare dell’Agenzia delle Entrate n. 2/E del 21 febbraio 2014, non per nulla del tutto carente in parte qua della benché minima motivazione. Si riporta qui la porzione rilevante del citato provvedimento amministrativo: «9.2 Procedimenti in materia di separazione e divorzio. L’articolo 19 della legge 6 marzo 1987, n. 74, dispone che “tutti gli atti, i documenti ed i provvedimenti relativi al procedimento di scioglimento del matrimonio o di cessazione degli effetti civili del matrimonio nonché ai procedimenti anche esecutivi e cautelari diretti ad ottenere la corresponsione o la revisione degli assegni di cui agli artt. 5 e 6 della legge 1° dicembre 1970, n. 898, sono esenti dall’imposta di bollo, di registro e da ogni altra tassa”. Come chiarito con la circolare 21 giugno 2012, n. 27, tali disposizioni di favore si riferiscono a tutti gli atti, documenti e provvedimenti che i coniugi pongono in essere nell’intento di regolare i rapporti giuridici ed economici ‘relativi’ al procedimento di scioglimento del matrimonio o di cessazione degli effetti civili dello stesso. Qualora nell’ambito di tali procedimenti, vengano posti in essere degli atti di trasferimento immobiliare, continuano ad applicarsi, anche successivamente al 1° gennaio 2014, le agevolazioni di cui alla citata legge n. 74 del 1987. L’articolo 10, comma 4, del decreto non esplica effetti con riferimento a tali disposizioni agevolative che assicurano l’operatività dell’istituto in argomento». Inutile ricordare che, in realtà, l’art. 10, comma 4, del d. lgs. n. 23/2011 dispone testualmente che «in relazione agli atti di cui ai commi 1 e 2 sono soppresse tutte le esenzioni e le agevolazioni tributarie, anche se previste in leggi speciali». Ora, «leggi speciali» non erano certo solo quelle che prevedevano esenzioni e agevolazioni esclusivamente in relazione agli atti ivi descritti (trasferimenti immobiliari), bensì tutte quelle che comportavano tali effetti in relazione quegli atti (i trasferimenti immobiliari, appunto), vuoi «isolatamente», vuoi nel contesto di esenzioni più ampie e diverse: proprio come previsto dall’art. 19 cit., la cui «specialità» era costituita non già dal fatto di concernere solo (tanto che siffatto avverbio, lo si ripete, nel citato art. 10 non compare!) la materia dei trasferimenti, bensì dalla circostanza di attenere ad una «materia speciale», quale il diritto tributario della crisi coniugale (e, dunque, inevitabilmente, anche il diritto tributario dei trasferimenti immobiliari in sede di crisi coniugale), rispetto alla «materia generale» costituita dal riordino della normativa fiscale sui trasferimenti immobiliari nel suo sconfinato complesso.
[55] Ovviamente le clausole dovranno tenere conto del necessario rispetto dei principi d’ordine pubblico: così, ad esempio, non sarebbe valido l’impegno a non porre in essere tout court una convivenza more uxorio: il tema è sviluppato in Oberto, Del «Galateo postmatrimoniale»: ovvero gli accordi sui comportamenti e sul cognome maritale tra separati e divorziati, in Riv. notar., 1999, p. 337 ss.
[56] Il tema è sviluppato in Oberto, I contratti della crisi coniugale, I, cit., p. 379 ss.; Id., Sulla natura disponibile degli assegni di separazione e divorzio: tra autonomia privata e intervento giudiziale, in Fam. dir., 2003, p. 389 ss., 495 ss.
[57] Cfr., a mero titolo d’esempio, Parkman, The Contractual Alternative to Marriage, in Northern Kentucky Law Review, 32 (2005), p. 125 ss.; v. inoltre Clemens e Jaffe, Drafting and
Litigating Prenuptial, Cohabitation, and Marital Settlement Agreements: Program
Material, Oakland (Ca), 1981, passim;
Fehlberg e Smyth, Binding Pre-Nuptial Agreements in
Australia: The First Year, in Int. Journal of Law, Policy and the Family, 16 (2002), p. 127
ss.; Mackay, Who Gets a Better Deal? Women and Prenuptial Agreements in Australia
and the USA, in University of Western
Sydney Law Review, 7 (2003), p. 109 ss.
[58]
Evidente è la commistione dei due profili, ad esempio, nelle argomentazioni di Radmacher v Granatino, [2009] EWCA Civ
649, disponibile anche alla seguente pagina web:
http://www.familylawweek.co.uk/site.aspx?i=ed36874,
su cui v. pure Oberto, La
comunione legale tra coniugi,
nel Trattato di diritto civile e
commerciale, già diretto da A. Cicu, F. Messineo e L. Mengoni, continuato
da P. Schlesinger, I, Milano, 2010, p. 174 s., 204 s., 214, nota 709.
Con tale decisione, nel 2009, la Court
of Appeals ha letteralmente demolito il precedente indirizzo
contrario al riconoscimento anche nel Regno Unito degli ante-nuptial
contracts. Qui, partendo dalla
considerazione per cui «the civil law jurisdictions of Europe generally
employ notarised marital property regimes to regulate both the property
consequences of marriage and divorce, the common law jurisdictions attach no
property consequences to marriage and rely on a very wide judicial discretion
to fix the property consequences of divorce», Lord Thorpe punta tutto sul «doppio argomento» (à la fois comparatistico
e internazionalistico) per cui la coppia in oggetto era formata da un cittadino
francese e da una cittadina tedesca e che, ove la questione della validità
dell’accordo prematrimoniale (stipulato in Germania ed in forza del quale il
marito non avrebbe potuto vantare alcuna pretesa d’ordine patrimoniale in caso
di divorzio) fosse stata affrontata da un giudice tedesco o da uno francese,
essa sarebbe stata sicuramente risolta in modo positivo. In motivazione è dato
leggere, tra l’altro, che non tenere conto del fatto che la moglie era tedesca
e che il pre-nuptial agreement era stato stipulato in Germania, con
l’assistenza di un legale tedesco e che colà – così come in Francia – l’intesa
sarebbe stata ritenuta valida, «would be both unfair and unjust», atteso che
tali «foreign elements» andavano considerati «relevant», in quanto costituenti
«essential features». E più oltre si legge che «The parties entered into
their agreement with the help and advice of a German lawyer, under German law,
making an agreement which was familiar to the civil law under which both
parties and their families had grown up in Germany and France».
[59]
O dal suo semplice «allentamento» rappresentato dalla separazione personale,
ancorché, assai curiosamente, gli scudi pur fieramente levati per il caso di
divorzio qui vengano piuttosto abbassati… Ed invero, la stessa Cassazione ha in
non poche occasioni riconosciuto la validità – per esempio – di un impegno con cui
uno dei coniugi, in vista di una futura separazione consensuale (e dunque non
nel contesto di quest’ultima), prometteva di trasferire all’altro la proprietà
di un bene immobile «anche se tale sistemazione patrimoniale avviene al di
fuori di qualsiasi controllo da parte del giudice... purché tale attribuzione
non sia lesiva delle norme relative al mantenimento e agli alimenti» (Cass., 5
luglio 1984, n.