ACCORDI PREVENTIVI DI
DIVORZIO:
LA PRIMA PICCONATA È DEL TRIBUNALE DI TORINO
Con questo
coraggioso provvedimento
il Tribunale di Torino assesta il primo colpo (giurisprudenziale) a quella
posizione proclamata e sempre strenuamente difesa dalla Cassazione, secondo cui
gli accordi raggiunti tra i coniugi in sede di separazione personale ed in
vista del futuro divorzio sarebbero nulli per contrarietà all’ordine pubblico e
per violazione dell’art. 160 c.c. Posizione, questa, che l’autore del presente
commento da molto tempo definisce invece come inattuale, sempre più isolata nel
panorama europeo e mondiale, non conforme alle regole del nostro vigente
ordinamento e «diseducativa».
Sommario:
1. L’inizio della
fine d’una «irragionevole ritrosia»? – 2. Il temuto
«mercimonio dello status». – 3. Il tradizionale richiamo all’art. 160 c.c. – 4. Validità della rinunzia agli assegni di separazione e di
divorzio. Considerazioni generali. – 5. Segue. Alimenti, mantenimento ed assegno
divorzile. – 6. Validità delle rinunzie preventive. – 7. L’inizio della fine o la fine dell’inizio?
1. L’inizio
della fine d’una «irragionevole ritrosia»?
Nella sua prefazione ad una recente
raccolta collettanea di studi sulla famiglia un autorevole civilista italiano
non esita a bollare come «irragionevole» la «ritrosia della giurisprudenza di
legittimità ad ammettere la validità dei contratti stipulati dai coniugi in
vista del divorzio» [1]. La notazione critica, se letteralmente rivolta alla
sola (e ben nota) posizione della Cassazione, ben potrebbe estendersi alla
giurisprudenza di merito, che, nelle sue poche manifestazioni edite, non ha
certo brillato, fino ad oggi, per la capacità d’individuare percorsi
alternativi al solco che, da tanti anni e con mano mai esitante, gli ermellini
persistono nel tracciare.
Chi scrive ha da sempre contestato questa conclusione,
da ultimo con un articolo comparso proprio sulle colonne di questa rivista
all’inizio del presente anno. Sarà pertanto opportuno, anche per evitare di
annoiare il paziente lettore, pur rimanendo all’interno del tradizionale
«armamentario obertiano» a difesa dei prenups
all’italiana, limitare il commento ad alcuni degli argomenti recepiti da questo
contributo giurisprudenziale, rinviando (anche per i necessari ulteriori
richiami) al predetto lavoro [2].
2. Il temuto
«mercimonio dello status».
La motivazione del provvedimento in esame dedica la
sua prima parte alla reiezione dell’usuale considerazione della nullità delle
intese in discorso collegata all’asserito condizionamento che le stesse
eserciterebbero sul comportamento delle parti nel futuro giudizio di divorzio e
all’asserito commercio dello status
di coniuge [3].
La decisione in commento pone in evidenza la
contraddittorietà di tale indirizzo rispetto alle decisioni della stessa
Cassazione in materia di accordi preventivi su altri significativi mutamenti di
status, costituiti dalla separazione
personale e dall’annullamento del matrimonio. Per non parlare, poi, della
situazione, del tutto speculare rispetto a quella qui considerata, della
previsione, mercé la stipula di una convenzione matrimoniale, delle conseguenze
patrimoniali di quell’altrettanto significativo futuro cambiamento di status costituito dal passaggio dalla
condizione di celibe e di nubile a quella di coniugato/a [4]. Sul punto si sottolinea la volontà del nostro
ordinamento diretta a sollecitare il soggetto, all’atto del matrimonio, a
«costruire» le proprie prospettive matrimoniali attraverso la stipulazione
delle convenzioni (pre)matrimoniali più idonee alla tutela dei suoi interessi
in relazione alle circostanze e alle esigenze di vita, stabilendo espressamente
che le convenzioni matrimoniali possano essere stipulate in ogni tempo (art.
162, terzo comma, c.c.) [5]. Non si riesce quindi ragionevolmente a spiegare per
quale motivo ciò non dovrebbe avvenire in relazione al divorzio.
Il giudice torinese pone poi anche l’accento sul fatto
che è lo stesso codice civile, che espressamente configura (cfr. art. 785 c.c.)
il matrimonio (e dunque un fatto, per definizione, strettamente attinente alla
vita personale oltre che costitutivo di uno status
familiae) alla stregua di una condizione sospensiva delle attribuzioni
patrimoniali gratuite effettuate (si badi: anche l’un l’altro dai promessi
sposi) in vista della celebrazione delle nozze [6]. Chiaro richiamo, questo, alla validità di clausole
«premiali» legate ad un comportamento personale di una delle parti, sulla scia,
del resto, di un’antichissima tradizione, risalente al diritto romano [7].
Appare pertanto evidente al decidente che altro è
dedurre ad oggetto del sinallagma negoziale l’impegno a tenere (o a non tenere)
un comportamento personale (sposarsi, divorziare, separarsi, domandare
l’annullamento del vincolo, ecc.) e ben altro è prevedere le conseguenze
patrimoniali di una scelta di tal genere, laddove il legislatore si preoccupa
di scongiurare soltanto il verificarsi della prima situazione, non certo della
seconda.
3. Il
tradizionale richiamo all’art. 160 c.c.
Notevole spicco all’interno del provvedimento viene
dato al ribaltamento del tradizionale approccio all’art. 160 c.c. Norma,
questa, che, a ben vedere, rappresenta l’unico concreto riferimento normativo
cui la tesi giurisprudenziale di legittimità qui combattuta suole fare
richiamo. Ora, il giudice torinese ben pone in luce l’irriferibilità della
disposizione alla materia della crisi coniugale, correttamente evidenziando la
radicale diversità del rapporto coniugale in fase fisiologica, da quello in
fase patologica.
Ciò che appare più interessante notare è che la stessa
Corte di legittimità sembra essere ben consapevole di ciò, allorquando, ad
esempio, si rifiuta (più che condivisibilmente) di applicare l’art. 162 c.c. ai
contratti della crisi coniugale, chiarendo che tali ultime intese non sono
riconducibili al paradigma delle convenzioni matrimoniali, le quali postulano
«il normale svolgimento della convivenza coniugale» ed hanno «riferimento ad
una generalità di beni anche di futura acquisizione» e non l’esigenza di
assetto dei rapporti personali e patrimoniali dei coniugi separati [8]. Anche per i supremi giudici pare dunque assodato che
i contratti della crisi coniugale [9], ed in particolare i negozi traslativi di diritti tra
coniugi in crisi, rimangono estranei alla tipologia delle convenzioni
matrimoniali [10], ancorché le rationes
decidendi s’incentrino talvolta su di un’esaltazione della contrapposizione
tra «fase fisiologica» e «fase patologica» del regime legale [11], talvolta sul carattere «programmatico» delle
convenzioni matrimoniali, di contro a quello attributivo del contratto
postmatrimoniale.
Ma non basta ancora. Non moltissimi anni or sono, una
decisione di legittimità, riconducibile alla penna del compianto collega
Massimo Bonomo, poneva in evidenza come l’obbligazione di mantenimento in sede
di separazione personale costituisca un’obbligazione, a ben vedere, del tutto
autonoma ed indipendente rispetto al dovere di contribuzione ex art. 143 c.c., con la conseguenza che
essa si deve reputare sorta ex novo
nel luogo in cui la separazione legale dei coniugi si è perfezionata, e non già
in quello (nella specie, diverso) della celebrazione del matrimonio. La
Cassazione ha così deciso che «all’obbligo del coniuge di contribuire ai
bisogni della famiglia, sussistente durante la convivenza coniugale, subentra,
con la cessazione di tale convivenza conseguente alla separazione personale,
ove ricorrano le prescritte condizioni (art. 156, primo comma, cod. civ.), un
obbligo di mantenimento, destinato al soddisfacimento dei bisogni individuali
dell’altro coniuge. Deve, pertanto, escludersi che, dopo la riforma,
l’obbligazione derivante dalla separazione sia la stessa che sussisteva durante
la convivenza coniugale» [12].
Questi spunti dimostrano come alla stessa Cassazione
non sfugga che (come ricordato da scrive già molti anni or sono) «la crisi coniugale
ha le sue leggi». Lo comprova ulteriormente, ad esempio, il fatto che già la
semplice proposizione della domanda di separazione (così come di annullamento,
di scioglimento o di cessazione degli effetti civili) giustifichi (cfr. art.
146 cpv. c.c.) la violazione del dovere di coabitazione; per non dire, poi,
dell’insegnamento della stessa Corte di legittimità, che negli anni Novanta
dello scorso secolo, sulla scorta della giurisprudenza di merito e della
dottrina prevalente, venne a statuire il principio dell’assoluta insussistenza
di un dovere di fedeltà tra separati [13].
Lo scrivente ha avuto modo più volte di ribadire che
lo studio dell’art. 160 c.c. non può prescindere dalla considerazione del
contesto storico in cui lo stesso è nato, né dalla sua collocazione
«topografica» all’interno del sistema delle norme in materia di rapporti
familiari.
Ora, la storia dell’art. 160 c.c. insegna che tale
norma è erede dell’art. 1379 c.c. 1865 («Gli sposi non possono derogare né ai
diritti che appartengono al capo della famiglia, né a quelli che vengono dalle
legge attribuiti all’uno o all’altro coniuge, né alle disposizioni proibitive
contenute in questo codice»), a sua volta mutuata da quell’art. 1388 code Napoléon che non poche discussioni
aveva sollevato in sede di lavori preparatori. Proprio in tale fase, di fronte
all’obiezione, secondo cui non sarebbe sembrato opportuno porre limiti
eccessivi alla libertà negoziale delle parti in sede di contrat de mariage venne risposto [14] che lo scopo della norma era unicamente quello di
«défendre toute stipulation qui rendrait la femme chef de la société
conjugale», privando il marito («celui à qui la nature a donné le plus de
moyens pour la bien gouverner») del diritto – spettantegli «par la nature même
des choses» – di essere di tale unione «le maître et chef».
L’argomento storico sembra dunque sconsigliare la
riferibilità della norma in esame alla fase patologica del rapporto coniugale:
anche una volta sostituita la «regola del capo» con quella della Gleichberechtigung, l’attenzione del
legislatore continua ad essere rivolta, nell’art. 160 c.c., alla fase di
normale svolgimento della vita coniugale, ciò che appare confermato – e si
viene così alla seconda argomentazione – anche dalla collocazione della norma
in oggetto, dettata all’interno di un insieme di disposizioni (quelle in
materia di regime patrimoniale della famiglia) miranti a disciplinare gli
effetti d’ordine economico dell’unione coniugale nella sua fase fisiologica.
Né d’altro canto sembra possibile seguire la
Cassazione nel suo ragionamento tendente ad estendere al «tipo legale di
matrimonio» (come tale comprensivo anche delle disposizioni attinenti alla fase
patologica) la copertura offerta dall’art. 160 c.c. sulla base della
considerazione secondo cui non avrebbe senso prevedere l’intangibilità dei
diritti e dei doveri previsti dalla legge per effetto del matrimonio e poi
consentirne una deroga in sede di divorzio. Invero, la condizione (personale,
sociale, ma anche giuridica) non solo degli ex coniugi, ma anche dei coniugi
separati è a tal punto diversa da quella dei coniugi in fase di «normale»
svolgimento del rapporto da giustificare (ma forse sarebbe più corretto dire:
da pretendere) un trattamento differenziato.
Tale necessità è stata avvertita da sempre: si pensi
ad esempio al fatto che già in diritto romano si era ritenuto di dover
escludere le donazioni divortii causa
dal tradizionale divieto di liberalità inter
coniuges [15].
4. Validità
della rinunzia agli assegni di separazione e di divorzio. Considerazioni
generali.
Nella decisione qui in commento non manca
poi un richiamo al tema della possibilità che un soggetto validamente rinunzi
ad un diritto futuro. Nella specie, infatti, l’accordo posto all’attenzione del
tribunale subalpino era proprio diretto a privare la moglie dell’assegno (già
di separazione) di cui la stessa aveva goduto sino all’inizio della procedura
divorzile.
Sia consentito qui aggiungere che il problema si
collega qui a quello, assai più vasto, della disponibilità delle prestazioni
patrimoniali postmatrimoniali inter
coniuges. L’argomento è, dunque, quello della disponibilità dei più
importanti diritti d’ordine patrimoniale che nascono dalla separazione
personale e dallo scioglimento del matrimonio: vale a dire del diritto al mantenimento
del coniuge separato (art. 156 c.c.) e dell’assegno di divorzio (art. 5,
l.div.). Al tema l’autore del presente commento ha dedicato un’apposita
trattazione, cui va fatto ancora una volta rinvio [16], presentando in questa sede una rapida sintesi delle
conclusioni in quella sede sviluppate.
Iniziando, dunque, della disponibilità del diritto al
mantenimento del coniuge separato, ex
art. 156 c.c., occorre ovviamente tenere conto, in primo luogo, del fatto che
qui ci si trova di fronte ad un matrimonio ancora esistente. Non stupisce,
pertanto, che l’obbligo in discorso sia prevalentemente inteso come una
semplice prosecuzione del dovere di contribuzione di cui all’art. 143 c.c.,
attribuendovi le caratteristiche proprie di quest’ultimo, prima tra tutte
quella dell’indisponibilità, con richiamo «obbligato» all’art. 160 c.c. La
giurisprudenza – dal canto suo – ha sempre mostrato, per lo meno nelle
enunciazioni di principio, una notevole rigidità sul tema in esame, già a
partire dalle pronunzie in materia di dovere di mantenimento disciplinato
dall’art. 145 c.c. 1942 [17], evidenziando peraltro sul punto una notevole serie
di contraddizioni nell’individuazione delle cause dell’invalidità degli accordi
di rinunzia e, soprattutto, nelle conseguenze ad esse riconnesse [18].
Ribadita la totale mancanza di elementi normativi che
impongano ad validitatem la verifica
giudiziale dei contratti conclusi in occasione della crisi coniugale, preme
ripetere in questa sede che più d’una sono le ragioni che militano a favore
della tesi contraria a qualsiasi possibilità per il giudice di intervenire nel
merito degli accordi concernenti il mantenimento tra coniugi separati.
E’ assolutamente pacifico, in primo luogo, che il
contributo al mantenimento ex art.
156 c.c. non può essere disposto ex
officio, ma va espressamente richiesto dal coniuge interessato [19], senza che alcuna disposizione consenta a chicchessia
di superare l’eventuale valutazione negativa operata dall’avente diritto circa
l’opportunità di proporre tale domanda [20]. Se si tiene poi ancora conto del contenuto e dei
limiti del controllo del tribunale in sede di omologa, in forza dell’art. 158
c.c., che significativamente menziona il solo contributo per il mantenimento
della prole [21], il quadro appare in tutta la sua completezza.
Per ciò che attiene poi specificamente all’assegno
divorzile, va rimarcato come il dibattito sulla relativa natura disponibile ha
caratterizzato la materia in esame sin dall’entrata in vigore della l.div.,
conoscendo alterne fasi e vicende, tanto in dottrina che in giurisprudenza.
L’opinione prevalente è così passata, da un’iniziale posizione piuttosto
«possibilista» ad una totale chiusura dopo l’entrata in vigore della l.
74/1987. In effetti tale legge è venuta ad incidere su entrambi gli argomenti
usualmente presi in considerazione al fine di risolvere il problema della
disponibilità del diritto all’assegno. Da un lato, infatti, essa ha specificato
che la corresponsione una tantum può avvenire solo «se ritenuta
equa dal tribunale», mentre dall’altro, con il famoso inciso relativo ai «mezzi
adeguati», essa ha indubbiamente esaltato (se non addirittura reso esclusivo)
il carattere assistenziale dell’assegno [22].
Soffermando ora l’attenzione sulla prima delle due
innovazioni sopra segnalate, e cioè sull’introduzione di un controllo, alla
stregua del criterio d’equità, della liquidazione una tantum dell’assegno
divorzile, notiamo che su di essa ha fatto leva una parte della dottrina per
desumere il carattere irrinunciabile del diritto [23]. Anche la giurisprudenza più recente si è dimostrata
sensibile a questo particolare argomento [24]. In senso contrario rispetto a quanto sopra
osservato, altri Autori hanno affermato che dalla previsione della valutazione
d’equità del tribunale si può trarre solo un’indicazione nel senso
dell’inammissibilità di una rinunzia preventiva, ma non di una rinunzia tout court [25].
Ma gli argomenti decisivi, in merito alla valutazione
d’equità dell’accordo sull’indennità una
tantum, sono ben altri. In primo luogo, invero, la predetta valutazione non
appare costituire una condizione di validità dell’intesa, bensì solo del
conseguente effetto preclusivo [26], come pare confermato dal secondo dei due periodi di
cui si compone il comma ottavo dell’art. 5 l.div., che, con il suo incipit («In tal caso…»), sembra volersi
collegare all’ipotesi prospettata nella parte finale del primo periodo, cioè
appunto quella dell’effettuata valutazione d’equità. Inoltre – e questa sembra
la considerazione dirimente – tale valutazione non risulta richiesta nel
procedimento di divorzio su domanda congiunta, bensì solo nella procedura
contenziosa, nel corso della quale le parti, eventualmente demandata al giudice
la decisione sull’an, raggiungano un
accordo in punto quantum [27].
Sull’altra novità della riforma del 1987, consistente
nell’accentuato rilievo che è venuta assumendo la componente assistenziale
dell’assegno di divorzio, si è invece basata altra parte della dottrina, sempre
per giungere alla conclusione della non disponibilità dell’assegno medesimo [28]. La tesi è stata immediatamente utilizzata dalla
giurisprudenza di legittimità per giungere ad affermare l’assoluta
indisponibilità del relativo diritto [29]. La conclusione che fonda il carattere indisponibile
dell’assegno di divorzio sulla natura assistenziale del medesimo solleva però
svariate perplessità.
Tanto per cominciare, il carattere assistenziale della
prestazione in discorso non esonera certo l’avente diritto dall’onere della
proposizione di un’apposita domanda, posto che tra coniugi, a differenza che
per i figli, l’assegno non è determinato d’ufficio, ciò che già di per sé
appare incompatibile con la tesi che vorrebbe l’assegno medesimo indisponibile.
A questo s’aggiunga che la tesi qui criticata cozza con la considerazione per cui
comunque il beneficiario potrebbe, per i più svariati motivi, accontentarsi di
un assegno inferiore rispetto a quello spettantegli per legge, senza che al
riguardo il tribunale – né il pubblico ministero – possano avere alcunché a
ridire [30].
5. Segue. Alimenti, mantenimento ed assegno
divorzile.
Alimenti e mantenimento sono – come noto – concetti
ben distinti tra di loro, al punto da non consentire una trasposizione (quanto
meno: una trasposizione meccanica e acritica) dei principi governanti ciascuna di
queste realtà giuridiche all’altra e viceversa [31]. In estrema sintesi, a parte i dati sistematici testé
evidenziati, rimane il fatto che gli innumerevoli, innegabili caratteri
differenziali della prestazione alimentare rispetto all’assegno di divorzio ed
al mantenimento del coniuge separato non consentono alcuna forma di estensione
– né per via di interpretazione estensiva, né per via di analogia – ai secondi
delle disposizioni dettate per la prima e tra queste, in maniera particolare,
di quella consacrata nell’art. 447 c.c., norma che si pone in netto contrasto
con un principio fondamentale dell’ordinamento, quale quello della libertà
contrattuale [32].
Sia poi concesso ribadire, in questa sede, che proprio
sul complesso di argomentazioni storiche, letterali e sistematiche testé
esposte [33] si fonda il convincimento della piena disponibilità
del contributo al mantenimento del coniuge separato e dell’assegno di divorzio.
E’ il potere concesso al giudice dall’art. 158 c.c. di rifiutare l’omologazione
nei soli casi di contrarietà degli accordi all’interesse dei minori ad
evidenziare che là dove il legislatore ha individuato – in questo particolare
tipo di rapporti – un diritto indisponibile, lo stesso legislatore ha concesso
al tribunale il potere di intervenire sulle intese delle parti, impedendo la
produzione dei relativi effetti. Il problema, dunque, non è certo solo [34] quello di concedere o negare l’ «azione pubblica» [35], bensì quello di comprendere che i poteri del giudice
non possono invadere la sfera degli accordi delle parti se non nei casi
tassativamente indicati dalla legge; casi tra i quali non rientra la mancata
previsione del contributo di mantenimento al coniuge separato o dell’assegno di
divorzio, così come non rientrano in tali fattispecie quantificazioni di
siffatte prestazioni in misura eventualmente non conforme a quella che sarebbe
stata la determinazione giudiziale in caso di procedimento contenzioso.
Tornando dunque all’art. 160 c.c. dovrà constatarsi
come il richiamo a tale disposizione con riguardo al mantenimento del coniuge
separato, e sovente anche all’assegno di divorzio, costituisca un vero e
proprio Leitmotiv in dottrina e
giurisprudenza [36]. Eppure non vi è dubbio che la norma in esame,
riferita ai diritti e ai doveri «previsti dalla legge per effetto del matrimonio» (corsivo dell’autore), non possa essere
in alcun modo invocata nel campo del divorzio, che del matrimonio rappresenta –
se ci si passa l’espressione – l’esatto rovescio [37]. Per quanto attiene invece più specificamente la
situazione di separazione, sembra che anche in questo caso l’art. 160 c.c. non
possa trovare applicazione per ragioni di carattere sia storico che
sistematico, che si sono sopra individuate [38].
La conclusione di cui sopra è avvalorata dal fatto che
gli stessi Autori che negano la disponibilità dell’assegno ammettono poi che le
parti possono invece determinarne di comune accordo l’ammontare e dunque
compiere su di esso quello che è un vero e proprio atto dispositivo [39]; atto dispositivo che – si badi – avviene al di fuori
di ogni tipo di controllo da parte dell’autorità giudiziaria, sia per quanto
attiene all’ammontare dell’assegno [40], sia per ciò che riguarda la determinazione della sua
decorrenza [41].
Quanto detto sembra tra l’altro smentire un altro
assunto caro ai fautori della natura indisponibile dell’assegno, secondo cui il
titolo dell’attribuzione andrebbe individuato nella legge [42]. Se, infatti, così veramente fosse, al giudice
competerebbe sempre il potere/dovere di controllare la rispondenza del quantum concordato ai criteri
predeterminati, ciò che invece non è. In quest’ottica va dunque valutata
l’introduzione della procedura di divorzio su domanda congiunta ad opera del
riformatore del 1987, vera e propria «spia» dell’accresciuto rilievo
dell’autonomia privata dei coniugi nella fase della crisi coniugale, alla quale
sono costretti a rendere atto di omaggio pure i sostenitori della tesi della
indisponibilità dell’assegno [43], posto che alla base di esso si colloca, quale
imprescindibile presupposto, un accordo di carattere transattivo che può
addirittura sottrarsi alla clausola rebus
sic stantibus.
Per completezza dovrà aggiungersi che ad alcuni degli
argomenti sopra sviluppati in senso favorevole alla disponibilità dei diritti
qui in discussione non sembra essere rimasta insensibile neppure la Corte di
cassazione. Nella già ricordata sentenza del 2001, ad esempio, si è addirittura
espressamente contestato che l’obbligazione di cui all’art. 156, comma primo,
c.c. «sia la stessa che sussistenza durante la convivenza coniugale» [44], cioè a dire che essa sia null’altro che
l’obbligazione di contribuzione ex
art. 143 c.c. Rilievo, questo, che dovrebbe far sorgere più di un dubbio sulla
meccanica riferibilità dell’art. 160 c.c. alla materia della crisi coniugale.
In maniera ancora più chiara, poi, diverse volte la
stessa Corte ha affermato, vuoi che «i rapporti patrimoniali tra i coniugi
separati hanno rilevanza solo per le parti, non essendovi coinvolto alcun
pubblico interesse, per cui essi sono pienamente disponibili e rientrano nella
loro autonomia privata» [45], vuoi che l’assegno di divorzio «costituisce oggetto
di un diritto disponibile», con la conseguenza che «il detto coniuge è gravato
dall’onere – non intaccato dai poteri officiosi spettanti al giudice – di
dedurre e dimostrare, con idonei mezzi di prova, riguardo all’an debeatur, quale fosse il tenore di
vita e quale deterioramento ne sia conseguito a seguito del divorzio, nonché,
riguardo al quantum debeatur, tutte
le circostanze suscettibili di essere valutate dal giudice alla luce dei
criteri legislativi stabiliti ai fini della determinazione dell’assegno, senza
che la sussistenza di un deterioramento siffatto possa desumersi dalla mera
circostanza di un sensibile divario di condizioni reddituali in danno del
coniuge richiedente» [46].
E’ più che evidente, poi, che le rinunce di cui qui si
è discusso non potranno invece dispiegare effetti nei confronti dell’obbligo
alimentare, caratterizzato, come noto, dall’indisponibilità [47], ma esistente soltanto tra coniugi e dunque destinato
a morire con la fine del vincolo matrimoniale.
6. Validità
delle rinunzie preventive.
Si accennava in apertura del § precedente
al fatto che la decisione in commento non trascura di farsi carico della
possibile obbiezione fondata sul carattere futuro del diritto cui, nell’accordo
in contemplation of divorce, una
parte rinunzia.
In proposito è noto che parte della dottrina nega che
un soggetto possa abdicare in via preventiva ad un diritto che non sia ancora
entrato nel suo patrimonio [48]. Si tenga presente che, più correttamente, dovrebbe
parlarsi nel caso di specie di «rifiuto», anziché di «rinunzia», atteso che,
secondo un orientamento piuttosto accreditato, mentre il primo attiene al
procedimento acquisitivo, la seconda si specifica come atto abdicativo di un
diritto in precedenza acquisito al patrimonio del soggetto [49]. La questione viene però usualmente posta nella
materia in esame in termini di «rinunzia»: sarà pertanto opportuno seguire
questa terminologia, al fine di evitare ulteriori confusioni in un campo già di
per sé quanto mai complesso.
Ora, il dubbio sull’ammissibilità della rinunzia ad un
diritto futuro è stato prospettato proprio in relazione al caso delle rinunzie
preventive all’assegno di divorzio, ma il discorso vale, ovviamente, con
riguardo ad ogni possibile diritto patrimoniale nascente dalla crisi coniugale
a beneficio dell’uno o dell’altro coniuge [50]. Su questo punto specifico la Cassazione non ha
ancora preso posizione, potendosi al riguardo annoverare solo un inciso nel
quale la Corte, dopo avere esposto i propri dubbi in proposito, ha
espressamente dichiarato di ... non volersi pronunciare [51].
Anche a prescindere dal tema specifico della rinunzia
all’assegno divorzile, le voci a sostegno della tesi della non configurabilità,
in generale, di rinunzie rispetto a diritti futuri prendono solitamente le
mosse dalla constatazione secondo cui, «stante la mancanza attuale del diritto
nel patrimonio del rinunziante, questi non è legittimato all’atto»,
aggiungendo, a contorno di tale argomento logico, il richiamo agli artt. 458 e
2937 cpv. c.c. [52]. Ma i riferimenti normativi appaiono poco probanti,
in quanto fondati su disposizioni dotate di sicuro carattere eccezionale
rispetto al principio generale sancito in materia contrattuale dall’art. 1348
c.c., secondo cui «La prestazione di cose future può essere dedotta in
contratto, salvi i particolari divieti della legge». Ora, la norma in esame,
facendo espressamente salvi «i particolari divieti della legge» rende chiaro,
nella maniera più esplicita, il fatto che dagli artt. 458 e 2937 cpv. c.c. non
può certo ricavarsi un principio d’ordine generale. Lo stesso argomento logico,
poi, si scontra con il citato art. 1348 c.c., avente sicuramente una valenza
generale, specie in materia contrattuale, come ulteriormente confermato dagli
artt. 1472 e 1938 c.c. Una volta venuti meno i richiami normativi, la semplice
enunciazione del principio secondo cui «presupposto necessario della rinuncia
dovrebbe essere l’appartenenza al patrimonio del rinunciante del diritto al
quale egli dichiara di abdicare» si risolve nell’imposizione d’un postulato
assolutamente indimostrato.
A ciò s’aggiunga che, come acutamente rilevato in
dottrina, la rinunzia ad un diritto di cui ancora non si è titolari assume, a
ben vedere, la natura di rifiuto del diritto medesimo: non cioè come esercizio
del diritto di cui non si è titolari, ma come opposizione a che quel diritto
possa entrare nel patrimonio del dichiarante, ovvero come esercizio del diritto
attuale a mantenere il proprio patrimonio nella situazione in cui si trova [53], non dissimilmente, del resto, a ciò che avviene nel
caso di rinunzia all’eredità, ex artt. 519 ss. c.c.
La giurisprudenza dal canto suo non offre appigli
sicuri, non solo perché risulta divisa [54], ma soprattutto perché il suo fondamento – come pure
rilevato – «non appare chiaro», posto che l’affermazione della non
rinunziabilità dei diritti futuri «trova il suo sostegno in sentenze emesse in
casi in cui era futura la norma (e non già la fattispecie costitutiva del
diritto), in cui si trattava di diritti limitatamente disponibili, e via
dicendo» [55], al punto da far ritenere le predette massime «più
appariscenti che probanti, perché utilizzate sempre per casi di specie» [56]. D’altro canto, che il predetto principio sia in via
di superamento anche da parte dei giudici di legittimità è confermato dal fatto
che le decisioni di carattere negativo appaiono per lo più assai più risalenti
rispetto a quelle di segno opposto, oltre che dalla circostanza che – come si è
visto – proprio sullo specifico problema qui in esame la Cassazione ha
preferito non pronunziarsi.
Miglior partito appare dunque, ancora una
volta, quello che aderisce ad una posizione che trae alimento da una solida
tradizione storica.
Nella più rilevante trattazione dell’epoca del diritto
comune specialmente dedicata al tema delle rinunzie [57] la renuntiatio
juris futuri veniva infatti presentata come ammissibile e, di fronte alle
critiche secondo cui lo jus futurum
non sarebbe negoziabile perché non ancora in
rerum natura, si ribatteva che «in jure futuro duo considerantur nempe
ipsum jus futurum, & spes». Ora, a differenza del primo elemento, «ipsa
spes, sive illud incertum praesens est, proindeque recte deducitur in
contractum». Da ciò derivava che «Expectatio quippe illa, quae pendet ex
quopiam futuro eventu, quae proprie dicitur spes, cum sit res quaedam prasens
distincta a jure ipso futuro certe ea deduci potest in contractum».
Conseguentemente, «Constat (…) jus futurum deduci posse in contractu proindeque
remitti posse. Sane renuntians juri futuro, sive potius spei non videtur se
privare jure futuro quod non habet, sed privat se expectatione, & spe quam
habet, ac videtur remittere rem aliquam praesentem (...). Et qui renuntiat spei
remittit id quod est in jure suo, & competit de praesenti, nempe spei
praesenti. Hinc remittens spem, ut aliquid detur, dicitur implevisse, atque
dicitur dare rem. Hoc est spem atque ideo pro ea remissione juste accipit».
Sin dai tempi di Baldo era del resto chiaro che una
netta distinzione andava compiuta tra i diritti futuri dipendenti ex mera voluntate alterius e quelli
semplicemente dipendenti ex futuro eventu.
In questo secondo caso siffatta spes avrebbe
potuto essere dedotta in contratto, possedendo la stessa una certa causa. Per tale ragione, mentre
non si sarebbe potuto disporre del patrimonio di un terzo vivente, in relazione
al quale il disponente ha solo una spes
succedendi legata alla mera voluntas del terzo, si sarebbe potuto
disporre di tutti i propri beni presenti e futuri: «quod intelligitur de spe
causata de praeterito, non de causanda de futuro» [58].
La conclusione si fondava a sua volta sull’autorità di
Bartolo [59], che, sulla validità di un accordo con cui un
soggetto avrebbe rinunziato ad un diritto quod
habet, vel habere sperat, o habere
potest, aveva chiarito che ciò che
rilevava per la validità dell’intesa era che il soggetto disponesse di un
diritto «quod quis habere sperat ex aliqua causa subsistente de praesenti»,
portando ad esempio proprio un passo del Digesto [60], che ammetteva la validità di accordi tra fidanzati
sulla dote, pur nel caso in cui tali soggetti non avessero avuto l’età per
contrarre le nozze, proprio perché in tal caso «spes est fieri matrimonium» [61]. Già agli antichi era pertanto ben chiaro che, di
regola (laddove una situazione futura non si presenti come ab initio impossibile) le posizioni giuridiche soggettive
patrimoniali legate ad eventi (anche personali o personalissimi) futuri ed
incerti, ma possibili, quali il matrimonio, l’acquisto di beni, o (perché no?)
il divorzio erano pienamente disponibili.
In definitiva, assolutamente preferibile appare il
parere della dottrina contemporanea più autorevole, secondo cui – in via
generale – «oggetto della rinuncia può essere in genere ogni diritto o ragione
anche futuri od eventuali, purché non siano assolutamente
indeterminabili» [62], con ulteriore conferma della conseguente
ammissibilità di una rinunzia preventiva ai diritti spettanti all’uno e/o
all’altro dei coniugi per effetto di un’eventuale crisi coniugale.
7. L’inizio
della fine o la fine dell’inizio?
In conclusione non potrà farsi a meno di evidenziare
l’accento posto dal tribunale sui concetti di correttezza e di buona fede.
Canoni, questi, che significano in primo luogo rispetto della parola data e
dell’affidamento sul carattere (evidentemente!) tombale dell’accordo stipulato
già nella fase di crisi dell’unione ed anzi, a ben vedere, nel momento supremo
di questa crisi, suggellato dal raggiungimento dell’intesa di separazione
consensuale (o, come nella specie, dell’intesa sulla presentazione di
conclusioni congiunte in sede di decisione con sentenza della causa di
separazione giudiziale).
Dopo il richiamo di rito al clamoroso revirement della giurisprudenza d’oltre
Manica sul tema dei prenuptial agreements
in contemplation of divorce [63] il provvedimento qui commentato sottolinea
esattamente come la posizione giurisprudenziale dominante in Italia appaia sostanzialmente
inadeguata all’evoluzione socio-culturale della concezione del matrimonio e
delle sue fasi, per così dire, di crisi irreversibile e conclusive.
Interessante, in questo contesto, l’accostamento
all’evoluzione di tutta la recente normativa nei più svariati settori – dalla
materia contrattuale al diritto bancario – ove la buona fede e la correttezza
costituiscono sempre più cardini inderogabili e principi per così dire di rango
superiore, laddove ritenere che, nell’ambito del diritto familiare, al
contrario, l’affidamento sulla parola data in sede di separazione non possa
esser minimamente preso in considerazione determina l’insopportabile
conseguenza (più volte stigmatizzata da chi scrive) secondo cui un accordo di
separazione, faticosamente concordato dopo mesi (o anni) di trattative e
obiettivamente inteso come solutorio dell’intero complesso dei rapporti nati da
un’unione sbagliata, possa essere accettato da una delle parti con la «riserva
mentale» di porre tutto nuovamente in discussione al momento del divorzio. Ciò
che, tra l’altro, determina l’assurda conseguenza di spingere la prassi a
rinvenire soluzioni al limite del lecito e comunque inutili o facilmente
frustrabili, quali, ad esempio, il rilascio di garanzie, o la stipula di
simulati contratti di mutuo, risolubili solo all’atto della conclusione della
futura procedura di scioglimento del vincolo.
Più che condivisibile, quindi, la conclusione del
ragionamento del giudice torinese, secondo cui: «Pare quindi possibile e
corretto affermare che ben possa essere ritenuto valido, anche alla luce della
vigente normativa e con una interpretazione aderente a quei canoni di
correttezza e di buona fede che, come detto, caratterizzano in modo stabile i
più recenti impianti normativi, un accordo quale quello stipulato nel caso di
specie dai coniugi in cui entrambe le parti, in piena autonomia e libertà,
convennero la cessazione della contribuzione da parte del marito al momento del
deposito della richiesta di divorzio».
Non rimane dunque se non chiudere queste brevi note
con l’auspicio che il granito di cui la giurisprudenza di legittimità pare
comporsi si sgretoli come neve al sole, sotto le picconate che altri giudici di
merito vorranno assestare, seguendo questo primo coraggioso esempio.
Riprendendo l’incipit di questo
commento, alla luce di una famosa battuta churchilliana, si deve sperare che,
per l’errato e diseducativo indirizzo giurisprudenziale oggi dominante, questa
decisione, se non l’inizio della fine, rappresenti quanto meno… la fine
dell’inizio.
[1] Così Busnelli,
Prefazione ad Aa. Vv., La famiglia e il diritto fra diversità
nazionali ed iniziative dell’Unione Europea, a cura di Amram e A. D’Angelo,
Padova, 2011, p. XIX.
[2] Cfr. Oberto,
Contratti prematrimoniali e accordi
preventivi sulla crisi coniugale, in Fam.
dir., 2012, p. 69 ss.
[3] Per i richiami cfr. Oberto,
I contratti della crisi coniugale, I, Milano, 1999, p. 483 ss.; Id., «Prenuptial agreements in
contemplation of divorce» e disponibilità in via preventiva dei diritti
connessi alla crisi coniugale, in Riv. dir. civ., 1999, II, p. 171
ss.; Id., Contratto e famiglia,
in Aa.Vv., Trattato del contratto, a cura di Roppo, VI, Interferenze,
a cura di Roppo, Milano, 2006, p. 253 ss.; Id.,
Gli accordi preventivi sulla crisi coniugale, in Familia, 2008,
p. 25 ss.; Id., Contratti prematrimoniali e accordi
preventivi sulla crisi coniugale, cit.
[4] Sul tema v. per tutti Oberto,
opp. locc. ultt. citt.
[5] Cfr. Oberto,
Contratti prematrimoniali e accordi
preventivi sulla crisi coniugale, cit., p. 83. Cfr. inoltre Doria, Autonomia privata e «causa»
familiare. Gli accordi traslativi tra i coniugi in occasione della separazione
personale e del divorzio, Milano, 1996, p. 178, nota 230; le conclusioni
tratte al riguardo da tale ultimo Autore sono limitate alla materia degli atti
traslativi; esse peraltro ben possono essere estese, più in generale, ad ogni
tipo di contratto concluso in occasione – o anche solo in vista – della crisi
coniugale.
[6] Così Oberto,
Contratti prematrimoniali e accordi
preventivi sulla crisi coniugale, cit., p. 84.
[7] Siffatte clausole non sembrano in grado di suscitare
obiezioni, posto che con esse l’esecuzione della prestazione di carattere
personale (la prosecuzione della convivenza more
uxorio oltre un certo limite temporale, la celebrazione delle nozze, la
prosecuzione della convivenza matrimoniale, la prestazione del consenso per il
divorzio su domanda congiunta, ecc.) non viene «garantita» dalla presenza di
una forma di coazione giuridica o dalla assicurazione del pagamento di una
penale da parte del soggetto eventualmente inadempiente, ma viene piuttosto
incoraggiata mediante la promessa di un premio da parte di colui che ha
interesse a che il beneficiario tenga quel certo comportamento, secondo una
regola che non sembra sconosciuta neppure al diritto romano: «Titio centum
relicta sunt ita, ut Maeviam uxorem, quae viduam est, ducat: conditio non
remittetur; et ideo nec cautio remittenda est. Huic sententiae non refgragatur,
quod si quis pecuniam promittat, si Maeviam uxorem non ducat, Praetor actionem
denegat: aliud est enim eligendi matrimonii poenae metu libertatem auferri,
aliud ad matrimonium certa lege invitari» (D. 35, 1, 71, 1). La tesi qui
esposta, proposta anche all’attenzione della dottrina tedesca (cfr. Oberto, Partnerverträge in
rechtsvergleichender Sicht unter besonderer Berücksichtigung des italienischen
Rechts, in
FamRZ, 1993, p. 7), sembra avere
riscosso consenso presso quest’ultima: cfr. Grziwotz,
Partnerschaftsvertrag, für die nichteheliche Lebensgemeinschaft,
München, 1994, p. 31; per una valutazione di tale impostazione «in termini
problematici» in Italia, cfr. Franzoni,
I contratti tra conviventi more uxorio, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1994, p. 749 s.; in senso decisamente
adesivo v. Ruggiero, Gli accordi prematrimoniali, Napoli,
2005, p. 157 ss. Per ulteriori approfondimenti cfr. Oberto, I regimi patrimoniali della famiglia di fatto, Milano, 1991, p. 197
s.; Id., Partnerverträge in rechtsvergleichender Sicht unter besonderer
Berücksichtigung des italienischen Rechts, cit., p. 7. V. inoltre Id., La promessa di
matrimonio tra passato e presente, Padova, 1996, p. 99.
[8] Cfr. Cass., 11 maggio 1984, n. 2887; Cass., 11
novembre 1992, n. 12110; Cass., 12
settembre 1997, n. 9034; per la giurisprudenza di merito v. App. Bologna, 29
gennaio 1980, in C.E.D. – Corte di
cassazione, Arch. MERITO, pd. 820052; per l’esclusione del carattere di
convenzione matrimoniale in relazione ai trasferimenti di diritti tra coniugi
in sede di separazione e divorzio v. anche Zoppini, Contratto, autonomia contrattuale, ordine
pubblico familiare nella separazione personale dei coniugi, Nota a Cass.,
23 dicembre 1988, n. 7044, in Giur. it., 1990, I, 1, c. 1321.
[9] Su questo concetto e per gli approfondimenti cfr. Oberto, I contratti della crisi
coniugale, I e II, cit., passim.
[10] Condivide la conclusione (già prospettata ed
argomentata in Oberto, I
contratti della crisi coniugale, I, cit., p. 683 ss.) Ieva, Le convenzioni matrimoniali, in Trattato di diritto di famiglia,
diretto da Zatti, III, Regime patrimoniale della famiglia, Milano, 2002,
p. 30.
[11] Questa è anche l’opinione di Morelli, Il nuovo
regime patrimoniale della famiglia, Padova, 1996, p. 61.
[12] Cass., 22 marzo 2001, n. 4099. V. inoltre Cass., 5
settembre 2008, n. 22394, secondo cui «Ai giudizi di modifica delle condizioni
economiche stabilite nella separazione, si applicano gli ordinari criteri di
competenza e, quindi, oltre al foro generale delle persone fisiche, è
competente anche il foro concorrente relativo alle obbligazioni; pertanto,
sussiste la competenza del tribunale che ha pronunziato o ha omologato la
separazione, nel cui circondario sono sorte le obbligazioni di cui si tratta».
[13] Sul punto v. per tutti D’Angeli,
Il mutamento del titolo della separazione
personale dei coniugi, Torino, 1994, p. 38 ss.; Lenti, Un addio senza
rimpianti al mutamento di titolo della separazione, nota a Cass., 17 marzo
1995, n. 3098, in Giur. it., 1996, I,
1, c. 67 ss.; per un riepilogo anteriore delle posizioni di dottrina e
giurisprudenza sulla sopravvivenza dei doveri coniugali in fase di separazione
cfr. Id., Modelli di separazione e mutamento del titolo, Milano, 1984, passim; Lagomarsino,
Sopravvivenza dell’obbligo della mutua
assistenza fra coniugi dopo i provvedimenti presidenziali, nota a Cass., 14
luglio 1994, n. 6612, in Fam. e dir.,
1994, p. 629 ss.; per una rassegna giurisprudenziale al riguardo v. anche Moglia, La separazione personale dei coniugi: panorama di giurisprudenza,
in Nuova giur. civ. comm., 1997, p.
372 ss.
[14] V. il resoconto della relativa seduta del Consiglio di
Stato in Jouanneau e Solon, Discussions du code civil dans le Conseil d’Etat, II, Paris, 1805,
p. 357.
[15] Oberto, I contratti della crisi coniugale, I,
Milano, 1999, p. 74 ss.
[16] Cfr. Oberto,
I contratti della crisi coniugale, I, cit., p. 387 ss.; Id., Sulla natura disponibile degli
assegni di separazione e divorzio: tra autonomia privata e intervento
giudiziale, in Fam. dir., 2003, p. 389 ss. (parte I), 495 ss. (parte
II); v. inoltre Al Mureden, Le rinunce nell’interesse della famiglia e
la tutela del coniuge debole tra legge e autonomia privata, in Familia, 2002, p. 990 ss.
[17] Per una completa ed attenta rassegna v. anche Zatti e Mantovani,
La separazione personale dei coniugi,
Padova, 1983, p. 310.
[18] Basti dire, a titolo d’esempio, che in molti casi la
Corte Suprema, pur riconoscendo al coniuge che avesse acconsentito, dopo la
pronuncia di separazione, all’erogazione di un assegno in misura inferiore
rispetto a quella giudizialmente fissata, il diritto di richiedere in ogni
tempo la prestazione stabilita dalla sentenza, riconosciuta la nullità della
rinunzia per violazione dell’art. 160 c.c., ha poi preteso che la parte
interessata richiedesse la prestazione patrimoniale proponendo domanda per
modifica delle condizioni della separazione (art. 710 c.p.c.) o del divorzio
(art. 9 l.div.), con richiamo, quindi alla regola rebus sic stantibus (nel senso che l’ex coniuge possa domandare
l’assegno non richiesto, o non ottenuto in sede di sentenza che abbia pronunziato
lo scioglimento del matrimonio, solo una volta che sia riuscito a dimostrare il
sopraggiungere di nuove circostanze v. Cass., 24 settembre 2002, n. 13860;
Cass., 24 settembre 2002, n. 13863; Cass., 25 agosto 2005, n. 17320). Il
ragionamento appare ictu oculi incongruente rispetto alla lamentata
violazione di regole d’ordine pubblico, atteso che, in tal modo, viene
attribuito valore alla rinunzia sino all’intervenuto verificarsi di un
mutamento nelle circostanze di fatto, mutamento che, tra l’altro, potrebbe
anche non verificarsi mai (cfr. Cass., 7 marzo 1978, n. 1116, in Foro it., 1978, I, c. 1143; v. inoltre
la giurisprudenza citata da Zatti e
Mantovani, La separazione personale dei coniugi, cit., p. 340 s.; per
un’analoga posizione dottrinale cfr. F.
Finocchiaro, Del matrimonio,
II, Art. 84-158, in Commentario del
codice civile a cura di Scialoja e Branca, Bologna – Roma, 1993, p. 469).
Altrettanto incompatibile con la tesi della nullità del patto di rinunzia al
diritto al mantenimento del coniuge separato appare poi quella tesi
giurisprudenziale che attribuisce efficacia al riconoscimento, da parte di uno
dei coniugi, di non avere diritto alla prestazione ex art. 156 c.c. Anche qui, invero, si postula il necessario
intervento di un mutamento delle condizioni economiche, quale condizione
indispensabile al fine di permettere l’attribuzione dell’assegno (Cass., 26
maggio 1967, n. 1146; nello stesso senso cfr. Cass., 26 ottobre 1968, n. 3564;
in precedenza v. anche Cass., 5 ottobre 1956, n. 3363, in Rep. Foro it., 1956, voce «Separazione
di coniugi», n. 130; Cass., 13 aprile 1960, n. 860; Cass., 30 gennaio
1961, n. 173; in dottrina cfr. Zatti,
I diritti
e i doveri che nascono dal matrimonio e la separazione dei coniugi, in Trattato
di diritto privato, diretto da
Rescigno, 3, Torino, 1982, p. 252 s.; anche Andrioli, Commento al
codice di procedura civile, IV, Napoli, 1964, p. 341, rileva che è
difficile conciliare le due proposizioni su cui si fonda questa giurisprudenza,
vale a dire la nullità della rinunzia al mantenimento e l’effetto meramente ex nunc della relativa revoca). Un
ragionamento identico a quello illustrato è poi rinvenibile anche in dottrina,
ove non è raro riscontrare solenni affermazioni circa la nullità di ogni
rinunzia, «appaiate» alla dichiarazione di piena validità del riconoscimento
dell’autosufficienza economica, atto che dovrebbe impedire la proposizione di
ogni domanda patrimoniale sino all’(eventuale) intervento di un mutamento delle
circostanze di fatto: cfr. per esempio De
Paola, Il diritto patrimoniale
della famiglia coniugale, I, Milano, 1991, p. 191, 193. Secondo le opinioni
qui esposte l’accordo ricognitivo della situazione di autosufficienza economica
e di insussistenza delle condizioni per la concessione dell’assegno è dunque
valido, con il solo limite dell’errore e della violenza, ciò che ne esclude
l’impugnabilità ogni qual volta la dichiarazione di autosufficienza economica
sia falsa, ma comunque liberamente voluta, al fine, magari, di costituire la
«contropartita» di un’utilità data o promessa dall’altra parte. In questo caso,
tutt’altro che infrequente, non si riesce però a comprendere quale sarebbe
allora la differenza tra «dichiarazione di autosufficienza» e rinunzia, cui
viene – nel pensiero qui esposto – attribuito l’effetto di paralizzare rebus sic stantibus (e dunque
potenzialmente anche per tutta la durata della vita «da separati») ogni pretesa
economica, ancora una volta in palese contrasto con la tesi della nullità per
contrasto con norme imperative. In verità, la ragione ultima delle
contraddizioni testé evidenziate risiede nel fatto che attribuire efficacia al
riconoscimento dell’inesistenza dei presupposti di un diritto implica pur
sempre la piena disponibilità di quest’ultimo, come appare del resto desumibile
dall’art. 2733 c.c.
[19] Cfr. per tutti De
Paola, Il diritto patrimoniale
della famiglia coniugale, I, cit., p. 191 s.; in giurisprudenza cfr. Cass.,
18 ottobre 1984, n. 5267; Cass., 23 luglio 1987, n. 6424. Sull’assegno di
divorzio v. Cass., 5 luglio 2001, n. 9058. Sul tema v. anche Cass., 22 novembre
2000, n. 15065, secondo cui il potere di disporre d’ufficio provvedimenti anche
diversi rispetto alle domande delle parti o al loro accordo vale esclusivamente
in relazione ai rapporti con la prole minorenne e costituisce pertanto «una
deroga alle regole generali sull’onere della prova, attribuendo al giudice
poteri istruttori d’ufficio per finalità di natura pubblicistica»; in senso
analogo a tale ultima pronuncia v. inoltre Cass., 23 marzo 2004, n. 5719.
[20] A quanto sopra detto s’aggiunga che, nella stessa
separazione contenziosa, il coniuge che ha ottenuto la dichiarazione d’addebito
contro l’altro non ha in alcun modo un diritto condizionato al mantenimento,
dovendo provare di non essere in grado di provvedere da sé al raggiungimento di
un tenore di vita identico a quello goduto durante la convivenza coniugale. Ciò
significa, dunque, che persino nella separazione con addebito, il diritto al
mantenimento è subordinato al suo effettivo esercizio – potendo mancare una
domanda formulata in tal senso – e alla prova che se ne fornisce (in questo
senso cfr. anche Pollice, Autonomia dei coniugi e controllo giudiziale
nella separazione consensuale: il problema degli accordi di contenuto
patrimoniale non omologati, in Dir.
giur., 1988, p. 116).
[21] Cfr., anche per gli ulteriori richiami, Oberto, I contratti della crisi coniugale, I, cit., p. 246 ss.
[22] Per i richiami cfr. Oberto,
I contratti della crisi coniugale, I, cit., p. 421 ss.
[23] A. e M. Finocchiaro, Diritto di famiglia, III,
Il divorzio, Milan, 1988, p. 448.
[24] Cass., 6 dicembre 1991, n. 13128, in Giust. civ., 1992, I, p. 1239, con nota
di L. Cavallo; Cass., 7 settembre
1995, n. 9416, in Dir. fam. pers,
1996, p. 931.
[25] Cfr. V. Carbone,
L’assegno di divorzio tra disponibilità
ed indisponibilità, Nota a Cass., 4 giugno 1992, n. 6857, in Corr. giur., 1992, p. 866; Id., Autonomia
privata e rapporti patrimoniali tra coniugi (in crisi), Nota a Cass., 22
gennaio 1994, n. 657, in Fam. dir.,
1994, p. 148 ss.
[26] In questo senso cfr. A.
e M. Finocchiaro, Diritto di famiglia, III, cit., p. 450; in giurisprudenza v. Trib. Perugia, 5 dicembre
1994, in Rass. giur. umbra, 1996, p.
46; Trib. Terni, 6 marzo 1995, ibidem,
p. 47, con nota di Canonico.
[27] Sul tema v. amplius
Oberto, I contratti della crisi coniugale, I, cit., p. 439 e II, cit., p.
826 s.; Id., Prestazioni «una
tantum» e trasferimenti tra coniugi in occasione di separazione e divorzio,
Milano, 2000, p. 20; nello stesso senso v. anche De Marzo, Divorzio su
domanda congiunta e equità degli accordi patrimoniali, in Fam. dir., 2000, p. 263; Rabitti, La prestazione una tantum nella
separazione dei coniugi, in Familia,
2001, p. 601; contra E. Quadri, Autonomia dei coniugi e intervento giudiziale nella disciplina della
crisi familiare, in Familia,
2005, p. 13.
[28] Cfr. per esempio Barbiera,
Il divorzio dopo la seconda riforma,
Bologna, 1988, p. 108.
[29] Cass., 4 giugno 1992, n. 6857, in Corr. giur., 1992, p. 863, con nota di V. Carbone; in Giur.
it., 1993, I, 1, c. 340, con nota di Dalmotto;
Cass., 16 novembre 1994, n. 9645, in Fam.
dir., 1995, p. 239, con nota di Padovini;
negli stessi termini cfr. inoltre Cass., 6 dicembre 1991, n. 13128, cit.,
nonché Cass., 7 settembre 1995, n. 9416, cit., entrambe relative a casi di
rinunzia preventiva.
[30] In questo senso cfr. anche V. Carbone, L’assegno
di divorzio tra disponibilità ed indisponibilità, Nota a Cass., 4 giugno
1992, n. 6857, in Corr. giur., 1992,
p. p. 865 s.; Id., Autonomia privata e rapporti patrimoniali
tra coniugi (in crisi), in Fam. dir.,
1994, p. 149.
[31] Proprio di questo vizio sembrano invece soffrire le
citate decisioni di legittimità (cfr. Cass., 6 dicembre 1991, n. 13128, cit.;
Cass., 4 giugno 1992, n. 6857, cit.; Cass., 16 novembre 1994, n. 9645; Cass., 7
settembre 1995, n. 9416, cit.; per la giurisprudenza di merito nel medesimo
senso v. per esempio Trib. Napoli, 16 marzo 1990, in Dir. giur., 1990, p. 483; ivi,
1992, p. 286, con nota di Metafora),
nel momento in cui enfatizzano l’opzione del legislatore per un assegno dai
caratteri più marcatamente assistenziali. Del resto, non fanno difetto nel
nostro ordinamento disposizioni che consentono la disponibilità di diritti
patrimoniali strettamente legati al mantenimento di un soggetto, al di là della
soglia alimentare, come risulta, ad esempio, dall’ammissibilità del sequestro o
del pignoramento delle retribuzioni dei lavoratori dipendenti privati e
pubblici nella misura del quinto, ex
art. 545 c.p.c., e dalla compensabilità di tali somme sempre nella stessa
misura, ex art. 1246, n. 3, c.c. (Comporti, Autonomia privata e convenzioni preventive di separazione, di divorzio
e di annullamento del matrimonio, in Foro
it., 1995, I, c. 116; alla lettura di tale contributo si fa rinvio anche
per la trattazione della questione relativa alla distinzione tra mantenimento
ed alimenti, distinzione contestata da E. Russo,
Le convenzioni matrimoniali. Artt. 159-166-bis, in Codice civile,
Commentario diretto da Schlesinger, Milano, 2004, p. 381 ss.). Sulla
distinzione tra mantenimento ed alimenti si veda anche Cass., 14 giugno 1999,
n. 5862, che nega alle cause attinenti al primo l’applicabilità dell’esclusione
dalla sospensione dei termini durante il periodo feriale, prevista dall’art. 3,
l. 742/1969.
[32] Le argomentazioni espresse dalla Cassazione in alcune
delle pronunce ricordate, tese ad esaltare il rilievo del carattere
assistenziale dell’assegno in ordine all’esclusione di ogni potere di
disposizione delle parti, si rifanno expressis
verbis alla teoria dottrinale della «solidarietà postconiugale». Autorevole
impostazione, quest’ultima, secondo cui sarebbe l’estinzione stessa del legame
a generare, alla stregua della coscienza sociale – che rifiuterebbe l’idea che
il divorzio «lasci abbandonato alla sua sorte il coniuge che sull’impegno
assunto col matrimonio ha fondato la propria famiglia e la propria vita» – il
«dovere giuridico di aiutare economicamente l’ex coniuge incapace di mantenere
il livello di vita matrimoniale» (Bianca,
Commento all’art. 5, l. 1°.12.1970, n.
898, in Commentario al diritto
italiano della famiglia, a Cura di Cian, Oppo e Trabucchi, VI, 1, Padova,
1993, p. 344 s.; in questa stessa ottica v. anche, più di recente, Auletta, Gli accordi sulla crisi
coniugale, in Familia, 2003, p.
65). La nozione di «solidarietà postconiugale» è stata però anche criticata
come un’espressione che non offrirebbe «nient’altro che un colorito espediente
verbale per tentare di conciliare l’inconciliabile» (E. Quadri, La Cassazione
«rimedita» l’assegno di divorzio, Nota a Cass., 2 marzo 1990, n. 1652, in Foro it., 1990, I, c. 1168; per
approfondimenti cfr. Oberto, I
contratti della crisi coniugale, I, cit., p. 448 ss.).
[33] E non certo solo – come vorrebbe E. Russo, Le convenzioni matrimoniali, cit., p. 333 ss. – su di una pretesa
«commistione di argomenti sostanziali e processuali».
[34] Come vorrebbe E. Russo,
Le convenzioni matrimoniali, cit., p.
335, sulla base di una parziale lettura dei lavori dello scrivente.
[35] Ma sul punto basterebbe già osservare che la nullità
di un contratto può essere dichiarata, con buona pace del prefato Autore (E. Russo, Le convenzioni matrimoniali, locc. ultt. citt.), anche in assenza
di un’apposita domanda e ciò – si insegna – proprio a tutela del carattere
indisponibile di determinati rapporti: cfr., tra l’altro, ex multis, Cass., 30 ottobre 1973, n. 2841, in Giur. it., 1974, I, 1, c. 1941; arg. inoltre ex art. 2969 c.c.
[36] Per i richiami cfr. Oberto,
I contratti della crisi coniugale, I, cit., p. 452 ss. Per una
successiva pronunzia di merito cfr. Trib. Piacenza, 6 febbraio 2003, in Arch. civ., 2004, p. 494, secondo cui
«In tema di patti modificativi degli accordi di separazione tra coniugi, è
nullo per contrasto con l’art. 160 c.c., applicabile anche ai contratti della
crisi familiare, l’accordo con il quale gli stessi decidano, con rinuncia ad
ulteriori pretese da parte di un solo soggetto, di definitivamente esonerare
per il futuro il coniuge onerato dalla corresponsione dell’assegno di
mantenimento a favore del coniuge più debole a fronte di un unico versamento una tantum».
[37] L’unico modo di far vivere tale disposizione in questo
settore si risolve infatti nel paradosso di chi, prospettando addirittura
un’estensione analogica dell’art. cit. (Dalmotto,
Indisponibilità sostanziale e disponibilità processuale dell’assegno di
divorzio, Nota a Cass., 4 giugno 1992, n. 6857, in Giur. it., I, 1,
c. 345), finisce con l’avvilupparsi in una vera e propria contradictio in adiecto, postulando una «similitudine di casi» (v.
art. 12 cpv. prel.) tra la materia degli effetti del matrimonio e quella degli
effetti del suo… venir meno. L’assunto in esame appare, oltre che illogico (nel
senso che, nel caso in esame, la norma di cui all’art. 160 c.c. «non sembra
bene invocata» si esprime anche Comporti,
Autonomia privata e convenzioni
preventive di separazione, di divorzio e di annullamento del matrimonio,
cit., c. 113; per un’interpretazione restrittiva dell’art. 160 c.c. come
limitato a quei soli diritti fondamentali di cui gode il coniuge come persona
cfr. G. Ceccherini, Separazione consensuale e contratti tra
coniugi, in Giust. civ., 1996,
II, p. 398; contrario all’estensione analogica della disposizione in esame è
anche G. Gabrielli, Indisponibilità preventiva degli effetti
patrimoniali del divorzio: in difesa dell’orientamento adottato dalla
giurisprudenza, in Riv. dir. civ., 1996, I, p. 699 s., che pure
afferma la nullità degli accordi preventivi di divorzio), del tutto in
contrasto con la concezione contemporanea dell’istituto matrimoniale. Del
resto, ritenere che il dovere di contribuzione rimanga inalterato addirittura
nonostante la pronuncia di divorzio, significa conservare, per quanto si può,
la mistica dell’indissolubilità, favorendo il ritorno alla tesi del carattere
pubblicistico del matrimonio.
[38] Cfr. supra,
§ 3; per lo sviluppo delle questioni cfr. Oberto,
I contratti della crisi coniugale, I, cit., p. 457 ss.
[39] Cfr. per esempio Scardulla,
La separazione personale tra i coniugi e il divorzio, Milano,
1996, p. 547.
[40] Sulla possibilità, da parte dei coniugi, di stabilire
liberamente l’ammontare dell’assegno di divorzio cfr., tra i tanti, Bianca, Commento all’art. 5, l. 1°.12.1970, n. 898, cit., p. 358; Scardulla, La separazione personale
tra i coniugi e il divorzio, cit., p. 538; Bonilini,
L’assegno post-matrimoniale,
in Bonilini e Tommaseo, Lo scioglimento del matrimonio, Art.
149, in Comm. Schlesinger,
Milano, 1997, p. 516; Cass., 18 maggio 1983, n. 3427.
[41] Bianca, Commento all’art. 5, l. 1°.12.1970, n. 898,
cit., p. 359; Bonilini, L’assegno post-matrimoniale, cit., p.
517.
[42] In questo senso cfr. Scardulla,
La separazione personale tra i coniugi e il divorzio, cit., p.
547.
[43] Cfr. per esempio Bonilini,
L’assegno post-matrimoniale, cit., p.
530 s.
[44] Cass., 22 marzo 2001, n. 4099, cit.
[45] Così Cass., 23 luglio 1987, n. 6424, cit.
[46] Cfr. Cass., 1 dicembre 1993, n. 11860; Cass., 3
novembre 2004, n. 21080; Cass., 10 giugno 2005, n. 12283.
[47] La precisazione (lo si chiarisce per non offendere
l’intelligenza del paziente lettore) si rende necessaria a seguito del
fraintendimento in cui cade Bargelli,
L’autonomia privata nella famiglia legittima: il caso degli accordi in
occasione o in vista del divorzio, in Riv. crit. dir. priv., 2001,
p. 303 ss., la quale (forse per tener fede al titolo della rivista su cui lo
scritto compare…) critica lo scrivente, attribuendogli impropriamente l’intento
di «considerare risolto il problema dei patti sulle conseguenze del divorzio in
base alla semplice constatazione del carattere patrimoniale della prestazione»,
rimproverandolo altresì di non aver svolto un’analisi sufficientemente attenta
dell’indisponibilità dell’obbligazione alimentare tra separati e divorziati
(cfr. Ead., op. cit., p. 313, nota 37). Ora, per i precedenti lavori dello
scrivente in cui si richiama la necessità del rispetto, nei contratti della
crisi coniugale, delle regole d’ordine pubblico e dei principi inderogabili
cfr., a mero titolo d’esempio, Oberto,
I contratti della crisi coniugale, I,
cit., p. 32, 249 ss.; II, cit., p. 1085 ss. Per un dettagliato approfondimento
delle questioni poste, in relazione ai contratti della crisi coniugale, dalle
norme in tema di alimenti v. Id., I contratti della crisi coniugale, II,
cit., p. 798 ss., 844 ss. Per la trattazione dello specifico tema degli accordi
sull’obbligazione alimentare tra separati cfr. Id.,
I contratti della crisi coniugale,
II, cit., da p. 844 a 851. Per la trattazione della questione circa
l’ammissibilità della costituzione ex
contractu tra divorziati di un obbligo alimentare (obbligo inesistente,
invece, ex lege, ciò che alla prefata
Autrice sembra essere sfuggito) cfr. Id.,
I contratti della crisi coniugale,
II, cit., da p. 851 a p. 861.
[48] Sul punto v. per tutti A. Bozzi, voce Rinunzia
(Diritto pubblico e privato), in Noviss.
dig. it., XV, Torino, 1968, p. 1141 s.; con posizione più sfumata cfr.
anche Macioce, voce Rinuncia (Diritto privato), in Enc. dir., XL, Milano, 1989, p. 941; contra,
per l’ammissibilità di tale rinunzia, Sacco
e De Nova, Il contratto, nel Trattato
di diritto civile diretto da Sacco, I, Torino, 1993, p. 288; Sicchiero, voce Rinuncia, in Dig. disc. priv.,
Sez.civile, XVII, Torino, 1998, p. 658 s.
[49] Così L. Ferri,
Rinunzia e rifiuto nel diritto privato,
Milano, 1960, p. 43; Santoro-Passarelli,
Dottrine generali del diritto civile,
Napoli, 1978, p. 218 s.; Macioce, op. cit., p. 927 ss.
[50] Cfr. Bonilini, L’assegno post-matrimoniale, cit., p.
531 s.; nel medesimo senso sembra anche orientata G. Ceccherini, op. cit.,
p. 402 s.
[51] V. Cass., 11 giugno 1981, n. 3777, in Foro it., 1981, I, c. 184; Giur it.,
1981, I, 1, c. 1553, con nota di Trabucchi;
Dir. fam. pers., 1981, p.
1025; Giust. civ., 1982, I, p. 724.
[52] Così testualmente A. Bozzi,
op. cit., p. 1142, cui si fa rinvio
anche per i richiami ai precedenti
dottrinali.
[53] Così Sicchiero,
op. cit., p. 659.
[54] Per una rassegna cfr. Macioce,
op. cit., p. 941, nota 93; v. inoltre
Sacco, Il contratto, Torino, 1975, p. 484, nota 9.
[55] Sacco, Il contratto, cit., p. 484.
[56] Sacco, Il contratto, cit., p. 507.
[57] Cfr. Gallerati,
Tractatus de renuntiationibus, II,
Genevae, 1678, p. 47 ss.
[58] «Qaedam est spes, quae dependet ex futuro eventu, non
ex mera voluntate alterius, & ista proprie appellatur spes: & ista
potest in contractum deduci (…). Proprie spes appellatur illa, quae proprie
habet certam causam: sed illa, quae non habet certam: ut spes succedendi homini
viventi, non appellatur proprie spes (…) & hoc facit ad quaestionem de
obligante omnia bona, quae habet, & sperat habere, quod intelligitur de spe
causata de praeterito, non de causanda de futuro»: Baldo degli Ubaldi, In
Primum, Secundum, & Tertium Cod. Lib.
Com., Venetiis, 1599, f. 116.
[59] Cfr. Bartolo da
Sassoferrato, In Secundam ff. novi
Partem, Venetiis, 1575, f. 46.
[60] Cfr. D., 12, 4, 8.
[61] Cfr. Bartolo da
Sassoferrato, op. loc. ultt. citt.:
«Probatur supra de condictio. ob causam. l. quod Servius, ubi donec matrimonium
contrahi potest, intelligitur ex causa subsistente de praesenti, ut ex sponsalibus
iam contractis»; v. inoltre la glossa in margine alla l. Quod Servius, D., De
condictione causa data, causa non secuta, in Digestum vetus seu pandectarum iuris civilis Tomus Primus, cum
lectionum florentinarum varietatibus, Venetiis, 1592, c. 1518.
[62] Così Barbero,
Sistema istituzionale del diritto privato
italiano, I, 1955, p. 325; nello stesso senso De Ruggiero e Maroi, Istituzioni di diritto civile, I,
Milano-Messina, 1965, p. 89. L’opinione appare inoltre conforme alla tesi della
più approfondita monografia in tema di rinunzie sotto il vigore del codice
abrogato: cfr. Atzeri (Vacca), Delle rinunzie secondo il codice civile italiano, Torino, 1910, p.
315 ss., 321 ss., che evidenziava come anche i diritti sottoposti a condizione
potessero formare oggetto di rinunzia, mentre, per quelli eventuali, la
rinunzia era vietata esclusivamente in relazione a quelli «pei quali la legge
ne ha espressamente vietata l’antecipata rinunzia».
[63] Sul caso Radmacher
v Granatino cfr. Oberto, Contratti prematrimoniali e accordi
preventivi sulla crisi coniugale, cit., p. 73 s.