E
ACCORDI PREVENTIVI
SULLA CRISI CONIUGALE *
Sommario: 1. Premessa. Qualche notazione di tipo storico. – 2. L’esperienza dei sistemi di common law. – 3. Altre esperienze straniere. –
4. La lezione del diritto europeo. – 5. La tesi italiana
della nullità, con particolare riguardo agli accordi preventivi sulle
conseguenze patrimoniali del divorzio. – 6.
Contraddizioni e contorsioni della giurisprudenza nostrana. – 7.
La piena validità delle intese preventive sulla crisi coniugale, anche
nell’odierno diritto italiano. – 8. Segue. Irrilevanza dell’art. 160 c.c. Ulteriori argomenti in favore
della tesi dell’ammissibilità. – 9. Validità degli accordi
preventivi sulla crisi coniugale e intervento del giudice. – 10.
Gli accordi preventivi nella prospettiva de
iure condendo. Contratti prematrimoniali e regime di comunione legale. – 11. Gli accordi preventivi nella prospettiva de iure condendo. Disamina del d.d.l.
S/2629 (XVI). Forma e contenuto dei patti prematrimoniali. – 12.
Gli accordi preventivi nella prospettiva de
iure condendo. Disamina del d.d.l. S/2629 (XVI). Gli effetti successori. I
rapporti con la prole. L’esclusione dell’assegno di divorzio e la norma
transitoria. – 13. Gli accordi preventivi nella
prospettiva de iure condendo. Il disegno di legge sulla introduzione degli
accordi matrimoniali e pre-matrimoniali presentato dall’A.M.I. (Associazione
Avvocati Matrimonialisti Italiani). – 14. Gli accordi
preventivi nella prospettiva de iure
condendo. La proposta sui patti prematrimoniali elaborata dal Notariato. – 15. Gli accordi preventivi nella prospettiva de iure condendo. Riflessioni sugli
effetti di un possibile annullamento del matrimonio.
1. Premessa. Qualche notazione di tipo storico.
Sino
ad una quindicina di anni fa il panorama della dottrina italiana non offriva un
gran numero di contributi dedicati allo studio dei contratti tra coniugi in
vista di una possibile crisi dell’unione. Gli studi e le decisioni sulle intese
di carattere preventivo, invero, apparivano – ed in buona parte continuano ad
apparire ancora oggi – essenzialmente incentrati sul tema dei patti sul futuro
divorzio tra coniugi separati [1]: profilo, quest’ultimo, che al primo è sicuramente
legato, ma che altrettanto indubitabilmente presenta alcune caratteristiche sue
proprie. Sul punto, una volta dimostrata la piena disponibilità delle
attribuzioni patrimoniali postmatrimoniali [2], va subito detto che il riconoscimento della
possibilità per i nubenti di accordarsi in vista di un’eventuale crisi
coniugale trova conforto, oltre che – come si vedrà – nella constatazione
dell’assenza di ostacoli in seno alla legislazione vigente, anche in alcune
riflessioni di carattere storico, sociologico e comparatistico, di cui si è
ampiamente trattato in altre sedi, alle quali si fa pertanto rinvio [3].
Nel
contesto di questo lavoro sarà sufficiente rammentare, per sommi capi, per ciò
che attiene ai profili storici, che già il diritto romano conosceva ed
ammetteva una svariata serie di patti che accompagnavano la costituzione della
dote e che ne disciplinavano la restituzione in caso di divorzio [4]. Del resto, anche solo sul piano terminologico è
interessante notare l’impiego al riguardo di espressioni quali «pactum
conventum ante nuptias» (cfr. D. 23, 4, 17; D. 23, 4, 28), o «post nuptias»
(cfr. D. 23, 4, 28), destinate a transitare pressoché inalterate nei sistemi di
common law, per designare – ancora a diversi secoli di distanza –
proprio gli accordi preventivi (o successivi) alle nozze contenenti, tra
l’altro, la regolamentazione ex ante dei rapporti economici tra gli ex
coniugi soluto matrimonio [5].
Pacta
nuptialia di questo genere si rinvengono poi anche con una certa frequenza
durante tutta l’evoluzione del diritto comune, allorquando la separatio thori aveva sostituito il
divorzio come causa di restituzione dell’apporto dotale collegata alla crisi
della famiglia [6]. Basti qui ricordare due casi risolti nel XVI e nel
XVII secolo.
Il
primo, deciso dalla Rota Romana nel 1595, aveva tratto ad un accordo stipulato
in sede di pactum nuptiale, nel quale
si era previsto che «in eventum separationis tori» il marito avrebbe
annualmente versato alla moglie una certa somma di denaro e che, in caso di
mancato versamento per un anno, la moglie avrebbe potuto «agere ad
restitutionem totius dotis», ciò che puntualmente avvenne, con conseguente
accoglimento della domanda di restituzione della dote [7].
Ancora
più interessante la fattispecie decisa nel 1612 dal Concistorium del Regno di Sicilia in applicazione delle
consuetudini di Messina, ove per determinati tipi di matrimonio (detti «alla
latina») vigeva un regime di comunione universale legale; la sentenza confermò
la validità di una singolare clausola che escludeva la comunione «casu (quod
absit) di separatione di matrimonio, tanto senza figli come nati figli, &
quelli morti in minori età, vel maiori ab intestato», stabilendo altresì che,
in tale ultima ipotesi, «detta sposa non possa disponere, nisi tantum di unzi
trenta» [8]. Qualcosa, tra l’altro, di molto simile a ciò che
avviene ancor oggi Oltralpe con la c.d. «clausola alsaziana», con la quale le
coppie che optano in Francia per il regime di comunione universale possono
stabilire che, in caso di scioglimento per divorzio, ognuno dei coniugi
riprenderà gli apporti alla comunione [9].
2. L’esperienza dei sistemi di common law.
Dal
punto di vista comparatistico è sin troppo noto il successo che negli Stati
Uniti riscuotono ormai da svariati anni i prenuptial
agreements in contemplation of divorce, al termine di un’evoluzione storica
[10], sicuramente non esente da contraddizioni, nella
quale ha giocato un ruolo determinante il passaggio dal sistema dello
scioglimento del matrimonio basato fondamentalmente sulla colpa alla regola del
no fault divorce. Gli echi di quella
giurisprudenza e di quell’atteggiamento, anche culturale, nei confronti dei
vantaggi connessi alla definizione in via preventiva di una possibile crisi
coniugale [11] sono giunti – in questo mondo globalizzato – persino
nel nostro per molti versi arretrato Paese, anche se da noi ciò ha fatto premio
è stata piuttosto l’attenzione legata alle vicende di personaggi dello
spettacolo o comunque notori [12].
Al
di là dei confini degli States, analoga
evoluzione in senso favorevole alla validità delle intese in discorso s’è
manifestata in svariati altri ordinamenti di common law [13]. Così in Gran Bretagna – ove peraltro già nei primi
anni del XIX secolo una celebre monografia dedicata ai rapporti tra coniugi [14] non esitava a dichiarare sustainable e suscettibile di riconoscimento in our courts of justice ogni «agreement entered into in
contemplation of a future separation» – sembrano ormai definitivamente superate
le difficoltà emerse nel corso del XX secolo, collegate all’idea che tali
contratti, in quanto diretti in qualche modo a favorire il divorzio, fossero
«against public policy and void» [15], anche alla luce della
considerazione secondo cui i giudici d’oltre Manica sembrano oggi assai più
restii d’un tempo a procedere ad una allocazione e divisione del patrimonio
accumulato durante la convivenza o alla previsione di assegni o attribuzioni
patrimoniali d’altro genere in presenza di precisi accordi, i quali vengono
intesi come «evidence of the parties
intentions», di cui la corte non può non tenere conto [16].
Studiando
con maggior approfondimento l’evoluzione del sistema britannico, si può infatti
scoprire che la vera ragione per cui per svariati decenni gli accordi
prematrimoniali furono visti con sospetto Oltre Manica andava rintracciata, più
che in un preconcetto sfavore, nel ruolo assolutamente predominante che quei
sistemi attribuiscono al giudice, a sua volta vincolato a principi cogenti
posti a tutela di interessi considerati di rilevanza generale. In effetti la
casistica giurisprudenziale inglese, nel corso di tutto il Novecento, conferma
il dato, deducibile a livello legislativo, che in linea generale, sino a non
molto tempo fa, per il sistema britannico, i prenuptial agreements, erano privi di efficacia. Il primo caso del
Ventesimo secolo avente ad oggetto l’applicazione di un siffatto accordo fu
esaminato dalla House of Lords nel
1929; in quell’occasione venne stabilito che un accordo stipulato prima delle
nozze non potesse impedire al coniuge avente diritto di chiedere, durante il
giudizio di divorzio, l’attribuzione di un assegno di mantenimento, sulla base
del rilievo che l’imposizione al marito dell’obbligo di mantenere la moglie era
rivolto a tutelare non solo costei ma anche i terzi che entrassero in contatto
con lei. Sempre con la stessa sentenza si affermava poi la contrarietà
all’ordine pubblico (public policy)
dell’esclusione della giurisdizione statale che l’applicazione dell’accordo
avrebbe comportato [17].
Altri
esempi di questo indirizzo si possono ritrovare nella giurisprudenza inglese
degli anni successivi, che quasi sistematicamente ignorava in sede di
separazione e divorzio quanto pattuito dai coniugi prima della celebrazione del
matrimonio. In Miller v Miller, ad
esempio, la House of Lords aveva
riconosciuto alla moglie un assegno assai superiore a quanto era stato
preventivamente concordato col marito (7.5 milioni di sterline contro 275.000).
Forse in questo caso sulla decisione dei giudici ha influito anche il fatto che
la sottoscrizione dell’ accordo era stata «imposta» alla moglie come unica
condizione per convolare a nozze, che a sua volta era per la predetta l’unica
condizione per tenere il bambino concepito con l’allora partner [18]. Nel successivo caso Ella v Ella l’indirizzo di cui sopra cominciò a mostrare evidenti
segni di cedimento. Qui si diede infatti corso ad un accordo prematrimoniale
relativamente alla questione della scelta della giurisdizione competente: le
parti in causa avevano doppia cittadinanza, inglese ed israeliana, ed avevano
convenuto che in caso di divorzio a doversi esprimere sarebbe stato il giudice
israeliano. Dopo che la moglie aveva adito la giurisdizione britannica, il
marito eccepì l’esistenza della predetta clausola del prenuptial agreement e chiedeva, ottenendo ragione, che il giudizio
fosse devoluto alla competenza esclusiva del giudice israeliano [19].
Ulteriori passi avanti vennero compiuti poi nel 2008
con la decisione del Privy Council
sul caso MacLeod v MacLeod [20], ove si affermò la validità di un postnuptial agreement, in relazione al
quale si ritenne di abbandonare la tradizionale considerazione, ancora
affermata per i prenuptial agreements,
secondo cui tali tipi di intese sarebbero contrari all’ordine pubblico. Per gli
accordi raggiunti dopo la celebrazione del matrimonio, ancorché in vista del
divorzio, infatti, si rilevò che le parti hanno «undertaken towards one another
the obligations and responsibilities of the married state. A pre-nuptial
agreement is no longer the price which one party may extract for his or her
willingness to marry. There is nothing to stop a couple entering into
contractual financial arrangements governing their life together». Se ne
concluse pertanto per la validità di un accordo stipulato durante la vita
matrimoniale «for the time when the parties were together, but also with
respect to the arrangements made for them to live separately», anche se per
tali ultimi arrangements, questi
furono considerati «subject to the court’s powers of variation». L’evoluzione
sin qui illustrata era espressione, in qualche modo, di un crescente livello di
insoddisfazione tra gli interpreti circa la posizione negativa sulla validità
delle intese in discorso [21].
Ma
la rivoluzione copernicana si è operata con il caso Radmacher v Granatino [22], in cui, nel
2009, la Court of Appeals ha letteralmente demolito ogni limite
al riconoscimento anche nel Regno Unito degli ante-nuptial contracts. Qui, partendo dalla considerazione per cui
«the civil law jurisdictions of Europe generally employ notarised marital
property regimes to regulate both the property consequences of marriage and
divorce, the common law jurisdictions attach no property consequences to
marriage and rely on a very wide judicial discretion to fix the property
consequences of divorce», Lord Thorpe
punta tutto sul «doppio argomento» (à la fois comparatistico e
internazionalistico) per cui la coppia in oggetto era formata da un cittadino
francese e da una cittadina tedesca e che, ove la questione della validità
dell’accordo prematrimoniale (stipulato in Germania ed in forza del quale il
marito non avrebbe potuto vantare alcuna pretesa d’ordine patrimoniale in caso
di divorzio) fosse stata affrontata da un giudice tedesco o da uno francese,
essa sarebbe stata sicuramente risolta in modo positivo [23].
Ancora una volta, innovazione e tradizione si
sposano nelle parole di parole di Lord Justice Thorpe: «the judge should give
due weight to the marital property regime into which the parties freely
entered. This is not to apply foreign law, nor is it to give effect to a
contract foreign to English tradition. It is, in my judgment, a legitimate
exercise of the very wide discretion that is conferred on the judges to achieve
fairness between the parties to the ancillary relief proceedings» [24].
La decisione d’appello è stata poi confermata nel
2010 dalla Corte Suprema del Regno Unito, che è venuta così a sanzionare in via
definitiva la validità degli accordi in discussione anche in quel Paese [25]. La motivazione di tale
arresto accantona in via definitiva i dubbi sollevati dal giudice che aveva
deciso la causa in primo grado, fondati essenzialmente sull’assenza di una disclosure
circa gli assets delle parti (ed in particolare della moglie, fornita di
un patrimonio di gran lunga più consistente di quello del pur benestante
marito), nonché sull’allegata mancanza di un independent legal counsel.
Su quest’ultimo punto, infatti, pur rimarcando che il marito «did not take the
opportunity to seek independent advice», la corte pone in evidenza come il
contratto prematrimoniale fosse stato, sì, redatto in Germania ed in lingua
tedesca da un notaio tedesco, ma che quest’ultimo, pur non avendo predisposto
una traduzione scritto, aveva oralmente tradotto in inglese (lingua, questa, di
cui il marito aveva piena padronanza) i termini dell’accordo all’atto della sua
sottoscrizione, avvertendo nel dettaglio il marito delle conseguenze negative
per quest’ultimo in caso di rottura dell’unione [26]. Anche sul punto della disclosure,
le parti avevano rinunziato espressamente a quest’ultima («…we waive the
possibility of having a schedule of our respective current assets appended to
this deed»), aggiungendo poi un chiarissimo atto di rinunzia ad ogni pretesa
postmatrimoniale [27].
Poste queste premesse, la corte enuncia
solennemente la seguente regola, valevole tanto per i prenuptial che per
i postnuptial agreements: «The court should give effect to a nuptial
agreement that is freely entered into by each party with a full appreciation of
its implications unless in the circumstances prevailing it would not be fair to
hold the parties to their agreement» [28]. Quanto alla possibile
iniquità dell’accordo, su di essa plana la solita cortina di incertezza ed
ambiguità, propria del common law, a tratti anche più fitta delle nebbie
del Tamigi. Qualche pista interpretativa viene comunque indicata. Così, sono
richiamati i tre fondamentali elementi, già individuati in alcuni precedenti
casi (White v White, Miller v Miller e McFarlane v McFarlane),
dello «stato di bisogno» («needs»), dell’«indennizzo» («compensation») e della
«condivisione» («sharing»), che possono più facilmente rendere iniquo un
accordo prematrimoniale. Ciò potrebbe verosimilmente accadere qualora il
giudice dovesse ritenere la presenza di uno squilibrio eccessivo rispetto ad
uno stato di bisogno di una delle parti, ovvero rispetto all’entità delle
rinunzie da uno effettuate per la vita matrimoniale o ancora al contributo
fornito durante il ménage. Resta comunque il fatto che, laddove ciascuna
parte potesse soddisfare adeguatamente i propri bisogni, le esigenze di equità
potrebbero non richiedere che l’accordo sia disatteso [29].
Per quanto
attiene invece all’Australia, vi è da notare che il tema degli accordi
preventivi è affrontato e positivamente risolto dalla legislazione da molto
tempo con riguardo alla posizione dei conviventi more uxorio. Già nel 1984 il De Facto Relationships Act del
Nuovo Galles del Sud aveva stabilito (art. 44) che un accordo di convivenza
potesse essere «made in contemplation of the termination of a domestic relationship».
Proprio tale disposizione (ora inserita nel Property (Relationships) Act)
ha, in tempi più recenti, contribuito a determinare l’introduzione per via
legislativa dell’ammissibilità della stipula di prenuptial agreements,
conclusi anche eventualmente in contemplation of divorce, per effetto
della riforma di cui al Family Law
Amendment Act 2000 in vigore in Australia dal 1° gennaio 2001 [30]. Si è, invero, constatato al riguardo che «it seemed
‘illogical’ that parties to a de facto relationship may have contractual
rights or entitlements enforceable by a court, whereas agreements by parties
who intend to marry will generally after marriage not be recognised as binding
or enforceable by the Family Court» [31].
3. Altre esperienze straniere.
Non
potrà poi tacersi che un atteggiamento favorevole verso la validità di intese
preventive sulle conseguenze del divorzio è riscontrabile ormai pure in
numerosi sistemi dell’Europa continentale. Il caso più significativo è
rappresentato dalla Germania, ove dottrina
e giurisprudenza, sulla scorta di una radicata tradizione storica [32], da sempre avallano [33] la costante pratica dei coniugi (o meglio, dei notai) di predeterminare, in
sede di stipula degli Eheverträge,
gran parte degli effetti di un possibile divorzio tra le parti, vuoi dettando i criteri per la
determinazione del nachehelicher
Unterhalt (vale a dire dell’assegno divorzile) [34], vuoi rinunziandovi in toto, vuoi ancora escludendo ogni
forma di Versorgungsausgleich (cioè della liquidazione delle aspettative pensionistiche
conseguente allo scioglimento del regime legale della Zugewinngemeinschaft), così
come l’eventuale ricorso delle parti a quella Abänderungsklage che, ai sensi del § 323 ZPO, consentirebbe (conformemente a quanto da noi previsto dagli
artt. 710 c.p.c. o dall’art. 9 l.div.) la modifica giudiziale di un’eventuale
prestazione di mantenimento, per effetto di successive variazioni della
situazione economica delle parti in considerazione della quale la prestazione
era stata prevista [35].
Interessante
risulta poi anche il raffronto con altre esperienze geograficamente e
culturalmente piuttosto vicine alla nostra: dal Codi de familia catalano, che disciplinando il contenuto dei capítols matrimonials (art. 15),
espressamente stabilisce che in essi «hom pot determinar el règim econòmic
matrimonial, convenir heretaments, fer donacions i establir les estipulacions i
els pactes lícits que es considerin convenients, àdhuc en previsió d’una
ruptura matrimonial» [36], ad una storica decisione del Tribunale Supremo
Federale elvetico, che ha espressamente escluso che per i contratti di
matrimonio sia richiesta una «nachträgliche Genehmigung im Scheidungsverfahren»
[37], all’opinione comunemente condivisa dalla dottrina
austriaca, sulla base del disposto del § 80 EheG
[38], secondo cui gli accordi sulla Unterhaltspflicht in caso di divorzio non debbono necessariamente
essere stipulati in sede di procedura di scioglimento dell’unione, ma ben
possono essere conclusi «sogar schon vor der Eingehung der Ehe» [39].
Si
noti infine che, come già posto in luce in altra sede, alcuni segnali
d’apertura in questo senso si vanno profilando da tempo anche in un sistema
che, come quello francese, appare da sempre piuttosto chiuso alla possibilità
di predeterminare tramite accordi conclusi in via preventiva an e quantum
di prestazioni postdivorzili, stante anche il dato costituito dall’art. 232 del
Code Civil, che consente al giudice
di negare l’omologazione dell’accordo di divorzio nel caso in cui esso non
salvaguardi in maniera sufficiente gli interessi «di uno dei coniugi» [40]. Non andrà peraltro trascurato che quello stesso
ordinamento permette ai coniugi, sul versante dei regimi patrimoniali, un’ampia
gamma di intese tramite le quali costoro possono, tra l’altro, aménager il regime legale di comunione
in contemplazione di un possibile divorzio [41], prevedendo, in base ad una tradizione risalente al droit coutumier [42], l’inserimento di clausole che vanno dalla
attribuzione (a titolo sia gratuito che oneroso) di beni personali di un
coniuge al coniuge superstite [43], all’assegnazione, all’atto dello scioglimento, di
beni comuni, previo pagamento di una somma di denaro predeterminata [44], o alla facoltà per l’uno o l’altro dei coniugi di
prelevare, sempre in occasione dello scioglimento, determinati beni a titolo
gratuito [45], o, ancora, alla possibilità di prestabilire la
divisione della massa (o di parte di essa) in parti non uguali [46], o, infine, all’attribuzione dell’intera massa ad uno
solo dei coniugi, con diritto, per l’altro ad ottenere una somma a titolo
forfetario [47].
Venendo
al significato che i sopra evidenziati elementi comparativi potrebbero assumere
per l’esperienza italiana, va tenuto conto del fatto che, se si eccettua la citata
disposizione catalana, nessuno degli ordinamenti continentali, nei quali si
ammette la validità di intese preventive sulle conseguenze della crisi
coniugale, contiene disposizioni ad hoc,
mentre la conclusione favorevole viene desunta [48], in buona sostanza, da regole non molto dissimili
dalle nostre, con particolare riguardo al principio di libertà negoziale. Per
ciò che attiene, poi, all’esperienza dei sistemi di common law, neppure l’argomento del superamento del principio del
divorzio per colpa dovrebbe lasciare indifferenti gli interpreti italiani,
anche se si tratta di un tema che da noi – a differenza che negli Stati Uniti –
non sembra essere stato preso in grande considerazione. In effetti, il
possibile contrasto tra la regola della colpa e la predeterminazione delle
condizioni di un’eventuale futura crisi coniugale risulta avvertito solo da una
parte assai ridotta (e, oltre tutto, molto risalente) della dottrina
continentale [49]. L’abbandono da quasi un quarto di secolo, anche nel
nostro Paese, della regola che voleva, quale necessario presupposto della
separazione legale, la sussistenza della colpa di uno dei coniugi s’accompagna
dal 1987 alla corale affermazione del carattere eminentemente (se non
addirittura esclusivamente) assistenziale dell’assegno di divorzio, con
conseguente perdita di ogni rilievo di un’eventuale responsabilità del
naufragio dell’unione. Una volta spezzata (quasi) ogni forma di collegamento
tra «colpa» e conseguenze economiche della crisi coniugale [50] può dirsi che anche da noi, esattamente come negli
Stati Uniti, non è più consentito negare rilievo ad un’intesa preventiva per il
solo timore che questa potrebbe consentire ad un coniuge di trascurare le sue marital obligations e di buy himself out of the marriage.
A
quanto sopra illustrato s’aggiunga ancora che un uso dello strumento della
convenzione matrimoniale in contemplation
of divorce, piaccia o non piaccia, ha già fatto in qualche modo ingresso
nel costume degli Italiani. Ci si intende qui riferire al vertiginoso aumento
del numero delle coppie che optano per il regime di separazione dei beni [51]. Il fenomeno non può trovare una sua spiegazione se
non nella crescente consapevolezza, da parte di vasti strati della popolazione,
del serio rischio che corre oggi la famiglia italiana di andare incontro (e, in
molti casi, assai presto) ad una crisi, e nel timore di dover venire un giorno
a «fare i conti» con i complessi meccanismi giuridici legati allo scioglimento
del regime legale. Estremamente significativo al riguardo è il fatto che, come
dimostrato dai dati statistici [52], l’incremento delle opzioni per il regime di
separazione vada di pari passo, per aree geografiche, con quello dei tassi di
«separazionalità» e «divorzialità» del nostro Paese [53].
4. La lezione del diritto europeo.
Conchiudendo
questa panoramica introduttiva non potrà farsi a meno di notare come l’
«impatto» dei nostri principi con accordi del genere di quelli qui in esame è
comunque destinato ad aumentare, in considerazione, da un lato, dell’incremento
dei matrimoni con cittadini stranieri (o, in ogni caso, delle unioni
caratterizzate dalla presenza di un elemento di estraneità), nonché,
dall’altro, del principio, introdotto dall’art. 30, l. 218/1995, secondo cui i
coniugi possono, a mezzo di una convenzione scritta, derogare al criterio
fissato per l’individuazione della disciplina applicabile ai rapporti personali
[54]. Questo significa che i contratti prematrimoniali
catalani, austriaci, tedeschi o inglesi ben potranno essere eseguiti in Italia,
non comportando il profilo dell’ordine pubblico internazionale, come si avrà
modo di vedere tra un attimo, alcun tipo di ostacolo.
A
quanto sopra s’aggiunga poi ancora che il Regolamento in tema di legge
applicabile alle cause transnazionali di separazione e divorzio (c.d. Roma III)
[55] prevede l’attribuzione di un ruolo senza precedenti
all’accordo delle parti. Un accordo, questo, la cui limitazione temporale viene
individuata «al più tardi al momento in cui è adita l’autorità giurisdizionale»
[56]. Ora, proprio la mancata fissazione di un dies a quo per il raggiungimento di
siffatta intesa (di cui, invece, come si è appena detto, viene con precisione
specificato il momento sino al quale la stessa può essere conclusa), autorizza
a ritenere che tali accordi possano essere stipulati già al momento della
celebrazione delle nozze [57]. Da ciò sembra derivare un’ulteriore conferma
dell’ammissibilità dei contratti prematrimoniali, se non addirittura un
incoraggiamento alla conclusione degli stessi [58].
La
predeterminazione del diritto applicabile sulla base di un’intesa anteriore,
anche di molto, al momento della controversia appare un dato ormai costante
nella normativa dell’U.E. Oltre ai casi già citati della legge applicabile alla
separazione e al divorzio, nonché della scelta della legge applicabile al
regime patrimoniale (secondo la menzionata proposta di regolamento del 2011),
potrà infatti farsi menzione dell’art. 8 del protocollo dell’Aia del 23
novembre 2007 relativo alla legge applicabile alle obbligazioni alimentari, a
sua volta richiamato dall’art. 15 del Regolamento U.E. n. 4/2009 sulle
obbligazioni alimentari. Secondo quest’ultimo principio, le parti possono
designare di comune accordo la legge applicabile al loro rapporto mediante
un’intesa che può essere conclusa, testualmente, «at any time». E in proposito
sarà appena il caso di ricordare che tra tali obbligazioni ricadono anche le
prestazioni assistenziali postmatrimoniali in sede di separazione e divorzio [59].
Proprio
con riguardo all’atto normativo comunitario del 2009 sulle obbligazioni
alimentari, dovrà ancora menzionarsi il fatto che qualsiasi contratto
prematrimoniale in vista della crisi coniugale in merito alla determinazione o
all’esclusione delle prestazioni di mantenimento, stipulato in un Paese che ne
ammetta la conclusione, beneficerà del trattamento previsto dall’art. 48 [60], con la conseguenza che, se contenuto in un documento
definibile come «atto pubblico» ai sensi dell’art. 2, n. 3 [61], sarà
riconosciuto in ogni altro Stato membro ed avrà la stessa esecutività delle
decisioni ai sensi del capo IV del citato Regolamento.
La
nostra giurisprudenza non ha ancora avuto modo, a quanto risulta, di esprimersi
circa la validità di accordi conclusi in sede di stipula delle convenzioni
matrimoniali in vista di un’eventuale crisi coniugale, se si eccettua una
pronunzia di legittimità che ha affermato la compatibilità con l’ordine
pubblico internazionale, ex art. 31
prel. (cfr. ora art. 16, l. 218/1995), di un accordo stipulato tra due coniugi
statunitensi residenti in Italia e diretto a regolamentare i reciproci rapporti
patrimoniali in vista del divorzio. Si trattava, per la precisione, di quello
che in America si definirebbe postnuptial
agreement, in quanto concluso in
contemplation of divorce, ma in costanza di matrimonio [62]. L’esame della motivazione della decisione non
evidenzia elementi ulteriori rispetto alla affermazione contenuta nella
massima. La compatibilità con le regole dell’ordine pubblico internazionale
forma oggetto di una dichiarazione piuttosto apodittica, che lascia deluso
l’interprete ansioso di conoscere perché mai principi così solenni come, per
esempio, quello della indisponibilità degli status,
su cui la soluzione negativa nel diritto interno viene fondata, non sarebbero
annoverabili tra quelli assolutamente irrinunciabili del nostro ordinamento,
quando lo stesso si viene a trovare in situazione «di collisione» rispetto a
sistemi stranieri. Si rafforza dunque il sospetto che, in realtà, neppure la
Corte Suprema sia poi così convinta (o per lo meno lo fosse, quella volta)
della bontà della tesi negativa.
Come
si è già rimarcato, la giurisprudenza italiana ha invece avuto più volte
occasione di pronunziarsi circa la validità delle intese che, in sede di
separazione consensuale, le parti raggiungono sull’assetto patrimoniale da dare
ad un eventuale (ma, a questo punto, probabile) futuro divorzio. Anche in
questo caso – come per quello del carattere disponibile o meno del contributo
al mantenimento del coniuge separato e dell’assegno di divorzio – si assiste ad
una significativa evoluzione del pensiero dei giudici di legittimità, da
concezioni più «liberiste» (o, quanto meno, più «possibiliste») a posizioni di
assai più rigida chiusura. Invero, dopo una serie di aperture nella
giurisprudenza degli anni Settanta dello scorso secolo [63], a partire da una decisione del 1981 la Corte di
legittimità comincia ad enucleare specifici profili di illegittimità degli
accordi in questione, tali da sconsigliarne l’adozione anche a chi volesse
attestarsi sulla tesi della validità delle rinunzie (successive) ai diritti
patrimoniali insorgenti dallo scioglimento del vincolo matrimoniale.
La
prima sentenza di tale «nuovo corso» concerne il caso di un accordo che
prevedeva il diritto per il marito separato di mantenere fermo per un certo
periodo l’ammontare dell’assegno dovuto alla moglie per il mantenimento di
quest’ultima e dei figli, a prescindere da un eventuale divorzio. Qui la Corte,
dopo aver negato la disponibilità dell’assegno divorzile per quanto si
riferisce alla sua componente assistenziale (come espressione del perdurare,
pur dopo lo scioglimento del vincolo, di un rapporto di solidarietà economica,
nel quale viene trasferito ciò che rimane del reciproco soccorso della vita
matrimoniale), stabilisce che, se conclusi prima della sentenza, gli accordi
sull’assegno di divorzio sono comunque nulli, anche se riferiti alle sole
componenti risarcitoria e compensativa [64]. E a questo punto la Cassazione presenta per la prima
volta l’argomento destinato a diventare negli anni a seguire il suo vero e
proprio «cavallo di battaglia» in questa materia: la tesi, cioè, che si basa
sull’asserito condizionamento del comportamento delle parti nel futuro giudizio
di divorzio e sull’asserito commercio dello status
di coniuge [65].
Quattro
anni più tardi, pronunziandosi su una rinunzia alla possibilità di chiedere la
revisione dell’assegno di divorzio, contenuta nell’atto di transazione
stipulato tra i coniugi separati, la Corte ribadisce che l’inoperatività di
tale negozio deve ricollegarsi alla più radicale ragione della sua nullità per
illiceità della causa, secondo quanto posto in luce dalla precedente decisione,
in considerazione del fatto che «gli accordi preventivi tra i coniugi sul
regime economico del divorzio prima che esso sia pronunziato hanno sempre lo
scopo o, quanto meno, l’effetto di condizionare il comportamento delle parti
nel giudizio concernente uno status,
limitandone la libertà di difesa» [66]. E’ chiaro dunque che, in questa particolare ottica,
gli accordi conclusi in sede di separazione consensuale possono assumere, al
massimo, rispetto alla successiva procedura di divorzio, il valore di mero
elemento indiziario [67], fornendo parametri sussidiari nella determinazione
dell’assegno relativo [68], laddove un’eventuale rinunzia all’assegno di
separazione non potrebbe comportare, automaticamente, una rinunzia anche
all’assegno di divorzio [69].
I
precedenti appena illustrati trovano ulteriore sviluppo nel corso dei primi
anni Novanta, durante i quali si ribadisce la nullità, per illiceità della causa,
dell’accordo tramite il quale i coniugi, in sede di separazione consensuale,
stabiliscono, per il periodo successivo al divorzio, a favore dell’uno il
diritto personale di godimento della casa di proprietà dell’altro [70], o escludono la facoltà di chiedere la revisione
dell’assegno di mantenimento, qualora sopravvengano giustificati motivi [71]. Ancora, vengono dichiarati invalidi quegli accordi
preventivi nei quali si prevede, sempre in caso di divorzio, la concessione in
godimento alla moglie di beni mobili ed immobili del marito [72], ancorché si tratti dell’assegnazione della casa
familiare [73], oppure viene fissata in anticipo la spettanza e
l’entità dell’assegno di divorzio [74], o, infine, viene decisa la vendita di un immobile
che le parti ritengono in comproprietà, con conseguente divisione del ricavato [75]. L’indirizzo più rigoroso continua quindi nel corso
degli anni Novanta sino ad oggi, definitivamente consolidandosi con altre
pronunce ispirate ai medesimi principi [76].
6.
Contraddizioni e contorsioni della giurisprudenza nostrana.
Tra
gli interventi meno remoti, ha destato una certa eco una decisione del 2000 [77] che, pur riaffermando il tradizionale principio della
nullità delle intese concluse in sede di separazione, con valore inteso dalle
parti come vincolante anche per il divorzio, ha nella specie riconosciuto
validità ad una di queste, così pervenendo al risultato paradossale di
trasformare la nullità per violazione di regole d’ordine pubblico in una sorta
di nullità relativa, la quale potrebbe essere fatta valere soltanto dal coniuge
che avrebbe diritto all’assegno, con buona pace di quanto disposto dall’art.
1421 c.c. E’ del resto innegabile che, se la causa è illecita, la nullità
colpisce l’intero atto; quest’ultimo non può essere lecito nei confronti di una
parte e illecito nei riguardi dell’altra, al punto che, secondo taluno, la
sentenza si porrebbe in violazione dell’art. 3 Cost., poiché avrebbe riservato
un trattamento differenziato a ciascuno dei coniugi [78].
Ad
ulteriore riprova degli sbandamenti cui può andare incontro la giurisprudenza
quando, nel tentativo di mitigare le conseguenze più inaccettabili di proprie
posizioni sbagliate, non esita a violare i più elementari principi
dell’ordinamento giuridico, una successiva (e assai meno nota) decisione del
medesimo anno [79] si è spinta ad affermare che tale forma di nullità
non solo potrebbe essere invocata esclusivamente dal coniuge avente diritto
all’assegno, ma dovrebbe essere fatta valere soltanto nell’ambito della
procedura di divorzio (e pertanto non successivamente alla relativa pronunzia),
così surrettiziamente introducendo una impropria forma di prescrizione, in
aperta violazione, questa volta, non solamente del principio di cui all’art.
1421 c.c., ma anche di quello ex art.
1422 c.c.
Gli
argomenti impiegati dalla Cassazione per fondare il suo indirizzo restrittivo
in materia di accordi preventivi in vista del divorzio hanno trovato il
conforto, oltre che della giurisprudenza di merito [80], di una parte della dottrina, la quale ha rilevato,
per esempio, che «permettendo [ai coniugi] di determinare la somma da pagare si
favorirebbe, indirettamente un loro accordo preventivo sulla conduzione del
procedimento di divorzio, diretto a favorire l’accoglimento della domanda» [81]. Altri studiosi hanno invece espresso punti di vista
assai divergenti da quelli della Cassazione. Come esattamente rilevato [82], le posizioni così fortemente restrittive della
giurisprudenza hanno completamente disatteso le aspirazioni di quella parte
della dottrina che invece vedeva, alla luce della nuova normativa, un
superamento del «principio dell’ordinamento italiano circa l’invalidità di un
accordo di tipo preventivo fra i coniugi sui rapporti patrimoniali successivi
al divorzio» [83]. A ciò potrà aggiungersi l’esatto rilievo secondo cui
risulta veramente peculiare l’ostinarsi a considerare un valore irrinunciabile
la libertà di difendersi nel giudizio di divorzio, cioè una libertà connessa ad
un potere che non esiste, nel senso che l’opposizione al divorzio, come si è
rimarcato, «costituisce una causa persa in partenza, perché la posizione di un
coniuge nei confronti dell’altro coniuge è una posizione di soggezione non
di diritto alla persistenza e vincolo», quasi che lo scioglimento del
matrimonio fosse una concessione operata dai giudici, non dipendente dalla
volontà delle parti, ma connessa alla attuazione di un interesse pubblico
superiore [84].
Su
di un diverso piano, poi, chi scrive non esita a qualificare la giurisprudenza
dominante come altamente «diseducativa», posto che questa finisce con il
promuovere il principio secondo cui proprio tra coniugi, cioè tra soggetti il
cui rapporto dovrebbe essere caratterizzato dal massimo livello di affidamento
nel rispetto della parola data, in realtà, pacta…
non sunt servanda. E dunque l’accordo di separazione, faticosamente
raggiunto dopo mesi (o anni) di trattative e obiettivamente inteso come
solutorio dell’intero complesso dei rapporti nati da un’unione sbagliata, potrà
essere accettato da una delle parti con la «riserva mentale» di porre tutto
nuovamente in discussione al momento del divorzio, così spingendo, tra l’altro,
la prassi a rinvenire soluzioni al limite del lecito e comunque inutili o
facilmente frustrabili, quali, ad esempio, il rilascio di garanzie, o la
stipula di simulati contratti di mutuo, risolubili solo all’atto della
conclusione en souplesse della futura
procedura di scioglimento del vicolo, e così via. Ciò che dimostra, se ancora
ve ne fosse bisogno, quanto perniciosa sia l’influenza nella materia di
influssi paternalistici, legati ad un concetto di persistenza del vincolo che,
se non può più essere concepita in termini di indissolubilità matrimoniale,
dovrebbe ancora intendersi nel senso di «indissolubilità patrimoniale» [85].
Più
in generale – e sul piano delle intese raggiunte addirittura in una fase
prenuziale, o comunque remota rispetto all’eventualità di una definitiva
rottura – deve approvarsi, poi, il rilievo di chi, riprendendo le osservazioni
dello scrivente, rimarca come la conclusione di intese preventive lenisce lo
smarrimento psicologico che può derivare ai coniugi dal timore, fondato o solo
paventato, di una situazione conflittuale, e, dall’altro sottrae al controllo
giurisdizionale una materia che la coscienza sociale avverte, istintivamente,
come inerente la sfera privata delle persone: il tutto, senza minare
ulteriormente l’istituto matrimoniale, più di quanto non abbia già fatto
l’introduzione del divorzio, evitando altresì di trattare i coniugi alla
stregua di soggetti incapaci [86].
Lasciando
la pars destruens del ragionamento
che si è tentato sin qui di portare avanti e rinviando alle apposite sedi per
un compiuto esame delle varie questioni, anche per quanto attiene alle svariate
contraddizioni in cui cade la giurisprudenza della stessa Corte di legittimità [87], varrà la
pena rammentare che gli accordi
preventivi circa le conseguenze della separazione e/o del divorzio non vedono
normalmente (né lo potrebbero), quale loro oggetto diretto, lo status coniugale, come avverrebbe se,
per esempio, le parti stipulassero impegni in termini quali «mi obbligo a non
divorziare», «mi impegno a non chiedere la separazione», «prometto di non far
valere alcuna eventuale causa di invalidità del nostro matrimonio», ecc. [88]. La contrarietà di un siffatto patto ai principi
dell’ordine pubblico non può oggi essere revocata in dubbio [89]. Ma ciò che l’opinione dominante si preoccupa di
impedire è che le determinazioni dei coniugi circa il loro stato (di persone,
appunto, coniugate o meno) siano anche solo indirettamente influenzate dagli
accordi economici in precedenza stipulati. Tale preoccupazione non ha però
ragione di sussistere, ogni qual volta le parti si limitano a prevedere le
conseguenze dell’eventuale scioglimento del matrimonio, senza impegnarsi a
tenere comportamenti processuali diretti ad influire sullo status coniugale.
Una
prima osservazione, a conforto di questa tesi, proviene da quella dottrina che
ha instaurato in proposito un interessante parallelo con la situazione
«antagonista» rispetto a quella qui in esame, vale a dire la celebrazione delle
nozze. Proprio con riguardo alla «purezza» della volontà matrimoniale, che non
potrebbe subire alcuna compressione, essendo salvaguardata la assoluta libertà
del soggetto in ordine alla celebrazione del matrimonio, si è osservato che
l’ordinamento consente che il soggetto si «induca» al matrimonio attraverso
motivazioni di ordine patrimoniale le quali, pur non essendo determinanti del
consenso, indubbiamente lo orientano e lo sorreggono. Anzi, l’ordinamento
sembra addirittura volere che il soggetto all’atto del matrimonio «costruisca»
le sue prospettive matrimoniali attraverso la stipulazione delle convenzioni
(pre)matrimoniali più idonee alla tutela dei suoi interessi in relazione alle
circostanze e alle esigenze di vita [90].
L’argomentazione
testé riferita costituisce il primo passo di un’analisi il cui punto cruciale
appare quello di vedere se e in che misura l’ordinamento tuteli la libertà
delle parti nelle loro determinazioni concernenti gli status o comunque gli aspetti indisponibili dei rapporti umani in
quanto attinenti alla sfera delle relazioni personali e sessuali, con
riferimento ai condizionamenti d’ordine economico che esse possono subire nelle
proprie decisioni. E’ noto che la tutela della libertà delle determinazioni dei
soggetti nella sfera personale e sessuale è rimessa dall’ordinamento alla
sanzione della nullità della causa per violazione dell’ordine pubblico o del
buon costume [91]. Peraltro la nullità consegue sempre al fatto che
l’aspetto personale sia portato dai soggetti a costituire parte integrante
della causa («io mi impegno a darti cento e tu ti impegni, in cambio, a
disconoscere la paternità di tuo figlio»): esso deve essere, cioè, preso
direttamente in considerazione dalle parti come oggetto di un preciso obbligo
che queste (errando, ovviamente) vorrebbero come giuridicamente vincolante e
quindi processualmente azionabile [92].
Ma
la dottrina più autorevole ammette – e da tempo – che un comportamento umano
non deducibile in obbligazione possa essere dedotto in condizione [93] e che tra siffatti comportamenti umani ben possa
rientrare anche la volontà di assumere uno status
[94]. Ciò in particolare si verifica quando le parti non
intendono con il loro negozio porre un vincolo, giuridicamente rilevante a
tenere o a non tenere quel certo comportamento, ma si limitano a prefigurare le
conseguenze di quest’ultimo, condizionandovi l’efficacia di un determinato impegno
di carattere patrimoniale. In questo modo può essere fatto sì che il
comportamento di carattere personale non formi oggetto di vincolo, ma venga –
di volta in volta – incoraggiato o scoraggiato a seconda che la promessa di
carattere patrimoniale agisca, in alternativa, quale «deterrente» o «premio»
per il fatto d’aver tenuto o meno quella certa condotta [95].
Rovesciando
ora per un momento la prospettiva in cui ci si è sino a questo punto collocati
e pensando alle pattuizioni dirette a costituire non già un deterrente, bensì
un incoraggiamento per la tenuta di un determinato comportamento, occorrerà
tenere presente quella clausola, in altre sedi definita «premiale» [96], consistente nell’accordo con cui – all’interno di un
contratto di convivenza – uno dei due partners
dell’unione libera promette all’altro l’adempimento di una prestazione
patrimoniale subordinata all’esecuzione di una prestazione non patrimoniale
dell’altra [97], oppure ancora nella promessa, effettuata da un
fidanzato (o da un terzo) all’altro di corrispondere a quest’ultimo una somma
di denaro nel caso di celebrazione delle nozze [98]. Lo stesso dovrebbe valere nel caso di donazione di
una somma di denaro o di un certo bene sospensivamente condizionata alla
circostanza che il matrimonio superi «indenne» un certo lasso di tempo.
Reciprocamente, per chi vede il divorzio come un’eventualità positiva, di
fronte ad una possibile crisi coniugale, dovrebbe avere un senso promettere la
corresponsione di una determinata utilità economica al (futuro) ex coniuge
«debole» al fine di invogliarlo, con l’assicurazione di un vantaggio economico,
a porre più volentieri fine all’unione («se, nel caso di crisi coniugale,
accederai senza porre condizioni alla mia richiesta di presentazione di ricorso
per divorzio su domanda congiunta mi obbligo sin d’ora a corrisponderti...») [99].
Proprio
con riguardo alle clausole «premiali» legate ad un comportamento personale di
una delle parti, potrà aggiungersi che un’ulteriore conferma viene dallo stesso
codice civile, che espressamente configura (cfr. art. 785 c.c.) il matrimonio
(e dunque un fatto, per definizione, strettamente attinente alla vita personale
oltre che costitutivo di uno status
familiae) alla stregua di una condizione sospensiva delle attribuzioni
patrimoniali gratuite effettuate (si badi: anche l’un l’altro dai promessi
sposi) in vista della celebrazione delle nozze.
Neppure
appare trascurabile il sistematico rifiuto, da parte della giurisprudenza di
legittimità, di estendere al di là dei suoi angusti limiti quella disposizione
(art. 636 c.c.) che, in materia di disposizioni mortis causa, fulmina di
nullità – proprio in quanto attinente ad un aspetto personalissimo – la
condizione «che impedisce le prime nozze o le ulteriori», al punto da affermare
la validità della clausola che subordina le attribuzioni testamentarie alla
condizione (generica) di contrarre matrimonio [100], o di contrarlo con «persona appartenente alla stessa
classe sociale dell’istituito» [101], ovvero ancora di non contrarlo con persona
determinata [102]. Il favore nei confronti di una clausola del genere
di quella sopra definita come «premiale», intesa nel senso testé chiarito,
emerge con evidenza anche in una decisione del 1992, che ha affermato la piena
validità della condizione ex art. 636
c.c., quando questa «non sia dettata dal fine di impedire le nozze ma preveda
per l’istituito un trattamento più favorevole in caso di mancato matrimonio, e,
senza per ciò influire sulle relative decisioni, abbia di mira di provvedere,
nel modo più adeguato, alle esigenze dell’istituito, connesse ad una scelta di
vita che lo privi degli aiuti materiali e morali di cui avrebbe potuto godere
con il matrimonio» [103].
In
conclusione sul punto, nemmeno l’art. 1354 c.c. può costituire un ostacolo in
ordine alla configurazione del regolamento preventivo dei rapporti nascenti da
un eventuale divorzio alla stregua di negozi sospensivamente condizionati
all’evento dello scioglimento o della cessazione degli effetti civili del
matrimonio, posto che la semplice predeterminazione delle conseguenze
patrimoniali di un futuro ed eventuale divorzio non sembra poter dispiegare, di
per sé, alcun effetto sulla spontaneità del comportamento attinente allo status.
Nessun
dubbio, poi, può sorgere con riguardo al carattere futuro delle posizioni di
cui un contratto prematrimoniale dispone. Ed invero, ai sensi dell’art. 1348
c.c., «la prestazione di cose future può essere dedotta in contratto, salvi i
particolari divieti di legge». La chiarezza di tale disposizione vale a
sgombrare il campo dalle perplessità che potrebbero riferirsi alle regole
desumibili dagli artt. 458 e 2937 cpv. c.c. Questioni, queste ultime,
sicuramente mal poste, in quanto il divieto di disporre della propria eredità
mercé un atto tra vivi e l’indisponibilità della prescrizione prima che si sia
compiuta si spiegano in ragione di criteri e considerazioni affatto particolari
ed attinenti, specificamente, agli istituti in parola. Infatti, il divieto di patti
successori trova fondamento nell’esigenza di tutelare al massimo la libertà
testamentaria, mentre la regola che impedisce una preventiva rinuncia alla
prescrizione si spiega con l’interesse generale su cui si basa l’istituto e con
lo sfavore del legislatore per l’inerzia rispetto all’esercizio di un diritto [104].
Anche
il «classico» richiamo all’art. 160 c.c., al fine di contrastare la tesi di chi
scrive, appare fuori luogo.
Come
ampiamente dimostrato in altra sede [105], l’unico modo di far vivere tale disposizione nel
campo del divorzio si risolve infatti nel paradosso della tesi che,
prospettando addirittura un’estensione analogica dell’art. cit. [106], finisce con l’avvilupparsi in una vera e propria contradictio
in adiecto, postulando una «similitudine di casi» (v. art. 12 cpv. prel.)
tra la materia degli effetti del matrimonio e quella degli effetti del suo ...
venir meno.
L’assunto
in esame appare, oltre che criticabile per le ragioni appena illustrate [107], del tutto in contrasto con la concezione
contemporanea del matrimonio. Come esattamente osservato già parecchi anni or
sono [108], ritenere che il dovere di contribuzione rimanga
inalterato addirittura nonostante la pronuncia di divorzio, «significa
conservare, per quanto si può, la mistica dell’indissolubilità», favorendo il
ritorno alla tesi del carattere pubblicistico del matrimonio, come atto al di
sopra della volontà dei singoli, in palese contrasto con il pensiero dominante,
oltre che con la giurisprudenza della stessa Corte di legittimità, che non ha
mancato di negare, nella maniera più radicale, che nel nostro ordinamento possa
attribuirsi al matrimonio effetti di tipo ultrattivo [109].
A chi scrive sembra poi che lo studio
dell’art. 160 c.c. non possa prescindere dalla considerazione del contesto
storico in cui lo stesso è nato, né dalla sua collocazione «topografica»
all’interno del sistema delle norme in materia di rapporti familiari: profili,
questi, la cui attenta considerazione deve senz’altro indurre ad escludere
l’operatività della norma in esame non solo in relazione alla fase
post-matrimoniale, bensì alla situazione di crisi coniugale nel suo complesso,
separazione compresa.
La
storia dell’art. 160 c.c. insegna che tale norma è erede dell’art. 1379 c.c.
1865 («Gli sposi non possono derogare né ai diritti che appartengono al capo
della famiglia, né a quelli che vengono dalle legge attribuiti all’uno o
all’altro coniuge, né alle disposizioni proibitive contenute in questo
codice»), a sua volta mutuata da quell’art. 1388 Code Napoléon che non
poche polemiche aveva sollevato in sede di lavori preparatori. Proprio durante
la discussione in seno al Consiglio di Stato, di fronte all’obiezione di
Cambacérès, secondo cui non sarebbe sembrato opportuno porre limiti eccessivi
alla libertà negoziale delle parti in sede di contrat de mariage, venne
risposto (da parte di Jean-Baptiste Treilhard) che lo scopo della norma era
unicamente quello di «défendre toute stipulation qui rendrait la femme chef de
la société conjugale», privando il marito («celui à qui la nature a donné le
plus de moyens pour la bien gouverner») del diritto – spettantegli «par la
nature même des choses» – di essere di tale unione «le maître et chef» [110].
Lo
spirito era dunque, in buona sostanza, ancora quello che aveva indotto, diversi
secoli prima, Ulpiano a riprovare come contra bonos mores tutti i patti
stipulati «contra receptam reverentiam, quae maritis exhibenda est» (v. D. 24,
3, 14).
In
questa direzione si mosse costantemente l’interpretazione della dottrina, sia
francese che italiana, che vedeva nelle disposizioni testé citate una regola
speciale dettata a tutela delle prerogative del marito come capo della famiglia
[111] e portava quale esempio della violazione di tale
principio «il patto in virtù del quale i figli nati da un matrimonio misto
dovessero essere educati nella religione della madre, o l’altro più frequente
che i maschi seguissero la religione del padre e le femmine la religione materna»,
con la conseguenza che, proprio per effetto del principio indicato, «se (...)
non ostante il patto il marito facesse educare i figli nella propria religione
la moglie non avrebbe azione per impedirlo; ove lo tentasse, il marito
allegando il suo diritto di patria potestà farebbe respingere la domanda» [112].
L’argomento
storico sembra dunque sconsigliare la riferibilità della norma in esame alla
fase patologica del rapporto coniugale: anche dopo la sostituzione della
«regola del capo» con quella della parità, l’attenzione del legislatore
continua ad essere rivolta, nell’art. 160 c.c., alla fase di normale
svolgimento della vita coniugale, né la parità può essere conseguita al prezzo
di ridurre i coniugi ad uno stato di semi-incapacità, mediante l’enunciazione
di divieti a contrarre, in pieno contrasto con la regola del pieno accordo
sulle «condizioni» (tutte le condizioni!) della separazione, che caratterizza
la soluzione non contenziosa della crisi coniugale (artt. 158 c.c., 711 c.p.c.)
[113].
Ciò
appare del resto confermato – e si viene così alla seconda argomentazione, di
tipo sistematico – anche dalla collocazione dell’art. 160 c.c., posto
all’interno di un insieme di articoli
(quelli in materia di regime patrimoniale della famiglia) miranti a
disciplinare gli effetti d’ordine economico dell’unione coniugale nella sua
fase fisiologica.
Tutto
al contrario, è lo stesso legislatore che, disciplinando le conseguenze
patrimoniali della crisi coniugale nel capo V, ci fa comprendere che la regola ex
art. 160 c.c., dettata in apertura del capo successivo, vale quale disposizione
generale (così infatti si intitola la Sezione I) in relazione alle sole norme
ivi contenute. Lo stesso uso del termine «sposi», anziché «coniugi» sembra del
resto deporre per una lettura della disposizione come riferita a quei diritti e
doveri che si presentano a chi sta per iniziare la propria vita di coppia e non
certo a chi s’appresta a scriverne l’epitaffio.
Concludendo
sul punto può dunque dirsi che gli argomenti storici, letterali, logici e
sistematici si oppongono, proprio con riguardo ai contratti prematrimoniali, al
dilagare dell’art. 160 c.c. e del relativo dogma dell’indisponibilità [114].
Un
ulteriore argomento che si trova con una certa frequenza in merito al tema
delle intese tra coniugi in vista di un futuro divorzio viene presentato quale
replica al rilievo secondo cui gli accordi di carattere preventivo sarebbero
stati implicitamente riconosciuti dal legislatore mediante l’introduzione del
procedimento su domanda congiunta. Qui, si obietta, le cose starebbero
diversamente, in quanto nello speciale procedimento previsto dall’art. 4,
sedicesimo (già tredicesimo) comma, l.div. le intese raggiunte dalle parti
sul relativo assetto economico «attengono ad un divorzio che
esse hanno già deciso di conseguire, e quindi non
semplicemente prefigurato» [115].
Ora,
non è agevole comprendere quale effetto possa dispiegare sul carattere
disponibile o meno del diritto la circostanza che il suo evento generatore (il
divorzio appunto) sia avvertito dalle parti come «sicuro», anziché inteso come
mero elemento condizionante l’efficacia dell’accordo; a meno che, in realtà, il
ragionamento qui criticato non celi la preoccupazione di garantire intatta la
libertà delle parti in ordine alle determinazioni concernenti lo status coniugale. Ma, anche qui, a parte
le obiezioni già sviluppate, rimane da chiedersi perché mai, se l’accordo può
essere raggiunto ... la sera precedente alla presentazione del ricorso
congiunto esso non potrebbe essere ugualmente concluso un mese prima, un anno
prima, ovvero addirittura prima della celebrazione delle nozze.
Se,
infatti, la preoccupazione del
legislatore fosse veramente quella di salvare la libertà del consenso sullo
stato personale, usque ad ... matrimonii
supremum exitum, andrebbe allora bandita ogni contrattazione sull’assegno
che precedesse anche solo d’un minuto la sentenza di divorzio. Solo due ex
coniugi sono in grado di trattare delle condizioni del loro divorzio in maniera
del tutto indipendente dalla presenza (o dal sospetto della presenza) di un
qualche condizionamento dell’assenso avente ad oggetto lo scioglimento del
vincolo all’effettuazione di una o più concessioni in sede di trattative sugli
aspetti patrimoniali [116]. Ne consegue che, se lo scopo perseguito dal
legislatore fosse veramente quello di rendere la decisione in ordine allo status del tutto svincolata da ogni
trattativa di tipo economico, allora non si spiegherebbe l’introduzione del
divorzio su domanda congiunta, nel quale le condizioni patrimoniali
(insindacabili, secondo l’opinione quasi unanime) vengono liberamente decise
prima che venga adottata in via definitiva, da parte del giudice, la decisione
sullo status [117].
In
definitiva, l’accordo in esame
presuppone pur sempre un atto dispositivo di diritti che alle parti competono
per effetto del divorzio, indipendentemente dal grado di «certezza» con cui
tale evento si prospetti; per non dire del fatto che, se è vero – come appare
innegabile – che il legislatore, con l’introduzione del divorzio su domanda
congiunta, ha inteso riconoscere una stretta interdipendenza tra gli accordi in
materia di conseguenze del divorzio e l’accelerazione della relativa procedura [118], occorre allora ammettere che l’ottica che associava
lo sfavore nei confronti della contrattazione privata alla preoccupazione di
assicurare la stabilità delle situazioni familiari è ormai definitivamente
superata [119].
In
chiusura di queste osservazioni non potrà farsi a meno di rilevare come, pure
in un contesto come quello italiano attuale, non facciano certo difetto
elementi evolutivi idonei a dimostrare l’esistenza di una tendenza favorevole
alla validità delle intese in oggetto. Come messo in evidenza da chi scrive in
altra sede, il varo di un istituto quale il patto di famiglia non può avere
altro significato se non quello di un chiaro indizio della volontà legislativa
di introdurre un effetto «moltiplicatore di negozialità endofamiliare». Va
evidenziata sul punto l’assoluta irrilevanza della sopravvenienza rispetto alle
eventuali rinunce espresse dai legittimari in sede di stipula del contratto in
esame, avuto riguardo ai diritti che – al momento dell’apertura della
successione del disponente – potrebbero loro competere per effetto degli atti
dispositivi gratuiti a vantaggio di uno solo (o solo di alcuni) di essi (e ciò
anche di fronte ai successivi mutamenti di valore dei cespiti aziendali,
dell’avviamento e in genere dei beni oggetto del patto di famiglia). Quanto
sopra, ovviamente, a prescindere dal fatto che la situazione patrimoniale del
disponente venga a mutare, magari radicalmente, al momento del suo decesso,
rispetto a quella presente all’atto della stipula del patto di famiglia. Ciò
significa che il discendente non assegnatario dell’azienda (o di quote sociali)
potrebbe essere indotto a sottoscrivere un patto di famiglia contenente una
rinunzia totale o parziale ai diritti che, come legittimario, gli
competerebbero su quei beni, qualora la successione si aprisse in quel momento,
«confidando» su di un residuo patrimonio del disponente che in quel momento si
presenta, anche a prescindere dall’azienda o dalle quote sociali oggetto del
patto, come particolarmente consistente. Ma siffatta rinunzia conserva intatto
il suo effetto (cioè quello di precludere irrimediabilmente la possibilità di
esperire l’azione di riduzione) anche nel caso in cui, per successive vicende,
il patrimonio del disponente dovesse, al momento del suo trapasso, magari molti
anni dopo la firma del patto di famiglia, sensibilmente contrarsi o addirittura
ridursi a zero.
L’insegnamento
che si trae dall’evidenziata indifferenza del legislatore rispetto alla
potenzialmente devastante portata della rinunzia di un soggetto a diritti la
cui concreta determinazione è rinviata nel tempo (e ad un tempo che può essere
anche molto remoto, rispetto al tempo della rinunzia), non sembra poter
rimanere senza effetto anche in altri campi, pure caratterizzati dalla presenza
di stretti vincoli familiari. Il parallelo più evidente è proprio quello con
gli accordi in esame. Qui, tra gli argomenti contrari, quelli sicuramente più
«ad effetto» fanno leva proprio sull’«ingiustizia» del principio che inchioda
le parti al rispetto d’un accordo stipulato magari molti anni prima, nella
vigenza di una situazione di fatto che può essere ben diversa rispetto a quella
in cui la crisi del rapporto viene successivamente a maturare e ad esplodere.
Ora, l’introduzione delle segnalate regole in tema di patto di famiglia sembra
voler dimostrare come, per il legislatore, l’esigenza di stabilità e di certezza
nel corso del tempo dei rapporti patrimoniali, all’interno del complesso e
mutevole intreccio dei legami familiari e delle alterne vicende che possono
intervenire, debba prevalere anche rispetto a considerazioni quali quella della
possibile incidenza di siffatte vicende su rinunce dai membri della famiglia
eventualmente espresse, magari molto tempo addietro, rispetto a diritti non
ancora maturati [120].
9. Validità
degli accordi preventivi sulla crisi coniugale e intervento del giudice.
A
confutazione della tesi della validità delle intese preventive sulla crisi
coniugale non sembrano convincenti le critiche mosse da parte della dottrina
alla proposta dello scrivente, imperniate sul rilievo secondo cui
l’avvicinamento del diritto di famiglia al diritto comune e dei contratti (ma
forse sarebbe più corretto parlare di una vera e propria «irruzione» del
diritto dei contratti nel campo giusfamiliare) dovrebbe accompagnarsi «ad una
sempre maggiore penetrazione di forti spinte solidaristiche ed equitative nella
disciplina generale dei rapporti contrattuali e di mercato» [121]. L’auspicio è sicuramente apprezzabile de iure condendo, pur se con il rispetto
di ben precisi limiti che garantiscano appieno l’affidamento dei contraenti nel
rispetto della «parola data», quale potrebbe essere, ad esempio, l’introduzione
– sulla scorta dei modelli australiano o statunitense – dell’obbligo delle
parti di previamente munirsi di un independent
legal counsel [122].
La
linea di tendenza appare del resto confermata, sul piano comparativo, dal
raffronto con l’esperienza tedesca, in cui la Unterhaltsrechtsreform, in vigore dal 1° gennaio 2008, è venuta ad
imporre il rispetto della forma dell’atto notarile per ogni accordo avente ad
oggetto l’assegno divorzile, allorquando l’intesa sia raggiunta in un momento
precedente al passaggio in giudicato della decisione sul divorzio [123]. Anche in questo caso la ratio legis è evidente: «die Beteiligten sollen dadurch vor
unbedachten Erklärungen bewahrt und ihnen die Tragweite der Vereinbarung vor
Augen gefürht werden» [124]. Il che, naturalmente, non intacca in alcun modo la
possibilità per i coniugi tedeschi di pattuire preventivamente, ad esempio, in
luogo dell’erogazione periodica di somme di denaro, la concessione di un
diritto di abitazione su di un appartamento dell’obbligato, ovvero la
corresponsione del mantenimento in natura; essi potranno inoltre prevedere la
revocabilità ad nutum della
prestazione, o, al contrario, disporne l’ultrattività, anche in caso di
passaggio del beneficiario a nuove nozze [125]; con le precisazioni che verranno tra poco
illustrate, sarà altresì ammissibile procedere ad una rinunzia pura e semplice
ad ogni Unterhaltsrecht.
La
conclusione peraltro si scontra, da noi, oggi inevitabilmente con i dati che de iure condito si sono illustrati.
Basti
dire che, di fronte alla disciplina in tema di divorzio su domanda congiunta,
la quale impone alle parti di presentarsi al giudice solo dopo che le stesse
abbiano già raggiunto un’intesa sulle condizioni relative ai loro rapporti
economici, parlare di un divorzio che le parti «hanno già deciso di conseguire
e, quindi, non semplicemente prefigurato» [126] significa ricorrere ad una pura finzione, atteso che
(come l’esperienza pratica dimostra quotidianamente) il consenso alla procedura
su domanda congiunta ben può essere barattato, fino all’ultimo istante prima
della firma dell’istanza, con più o meno estese concessioni della controparte,
in assenza delle quali lo scioglimento del matrimonio rischia di arrivare,
anziché subito, con diversi anni di ritardo. Il che evidenzia che, come sopra
già posto in evidenza, se il legislatore avesse veramente voluto rendere la
scelta sul divorzio del tutto avulsa da quella sulle relative condizioni
economiche, non avrebbe consentito alle parti di discutere queste ultime se non
dopo il passaggio in giudicato della decisione sullo scioglimento del vincolo.
Né
alla asseritamente necessaria attesa del «momento giurisdizionale» sembra
potersi assegnare il significato di una tappa indispensabile verso un controllo
giudiziale sul merito delle intese [127]. Se è vero che, come altrove dimostrato [128], nel divorzio su domanda congiunta gli effetti
d’ordine patrimoniale derivano direttamente dal contratto di divorzio concluso
dai coniugi, rispetto al quale la pronuncia del tribunale assume il mero
carattere di omologa, e se è vero che, come pure dimostrato [129], anche i contratti a latere rispetto alle procedure di divorzio hanno piena validità
ed efficacia, non si vede per quale ragione si debbano costringere le parti ad
attendere il momento in cui il tribunale non potrà far altro che ratificare le
intese raggiunte [130].
Neppure
appare possibile spostare il discorso sul piano dell’intervento successivo del
giudice, quanto meno (ancora una volta!) de
iure condito. Qui, esclusa, per evidenti ragioni, la possibilità per la
magistratura di civil law di
procedere ad una riallocazione delle risorse acquisite da ciascuno durante la
convivenza sulla base di criteri di ragionevolezza ed equità, ad instar di quanto avviene invece nei
sistemi di matrice anglosassone [131], magari tramite il ricorso – sovente praticato al di
là della Manica, tanto per le coppie coniugate quanto per quelle conviventi –
all’istituto del trust [132], si potrebbe a prima vista
ipotizzare un impiego delle clausole generali (in special modo ordine pubblico
e buona fede), al fine di «correggere» il contenuto di accordi preventivi che
dovessero manifestarsi come eccessivamente «squilibrati» in danno di uno dei
coniugi.
La proposta, avanzata anche nella dottrina italiana [133], prende lo spunto da un
paio di decisioni rese in Germania dal Bundesverfassungsgericht
e dal Bundesgerichtshof, a parziale
modifica di una giurisprudenza che, come detto, da sempre ammetteva l’assoluta
validità delle intese prenuziali sulla sorte dell’assegno di divorzio. Ora, le
due decisioni in questione [134], facendo leva sul concetto
di Sittenwidrigkeit (§ 138 BGB) – già richiamato da alcuni Autori e
da una parte della giurisprudenza in relazione ai casi in cui, ad esempio, un coniuge avesse sfruttato l’inesperienza o
un’eventuale situazione di particolare labilità psichica dell’altro, ovvero
avesse approfittato delle condizioni economiche particolarmente svantaggiate di
quest’ultimo, ovvero ancora in cui la rinunzia a vantaggi economici si fosse
posta quale «merce di scambio» per l’affidamento dei figli [135] – e recependo le istanze di una parte della dottrina
volte ad invocare una penetrante Inhaltskontrolle sul contenuto degli Eheverträge [136], hanno affermato la
possibilità per il giudice di ritenere nullo il contratto matrimoniale nel
quale sia contenuta una distribuzione degli oneri unilaterale e palesemente a
svantaggio della donna, se concluso prima del matrimonio, contestualmente alla
presenza di uno stato di gravidanza della donna medesima [137], ovvero di pervenire alle
medesime conseguenze «wo die vereinbarte
Lastenverteilung der individuellen Gestaltung der ehelichen Lebensverhältnisse
in keiner Weise mehr gerecht wird, weil sie evident einseitig ist und für den
belasteten Ehegatten bei verständiger Würdigung des Wesens der Ehe unzumutbar
erscheint» [138].
Così,
tale «evidente unilateralità» è stata ritenuta sussistente dal BGH in casi in cui la parte debole non
aveva la cittadinanza tedesca ed aveva difficoltà a comprendere la lingua di
quel Paese, ovvero temeva di perdere il diritto di soggiornare in Germania, o
ancora perché era incinta [139]; lo stesso è a dirsi per una pattuizione che
escludeva il nachehlicher Unterhalt
nel caso la parte beneficiaria avesse intrapreso una convivenza more uxorio [140]. Per converso, la rinunzia è stata ritenuta valida
anche in relazione al caso di malattia e vecchiaia, quando al momento della
stipula del contratto la malattia non era prevedibile o comunque al momento
della celebrazione delle nozze le aspettative pensionistiche erano maturate già
in modo considerevole, oppure ancora quando la parte debole riceveva il
mantenimento da parte della pubblica assistenza (Sozialhilfe) già da epoca anteriore al matrimonio [141].
L’avvicinamento,
in questo caso, dei giudici tedeschi al modo di ragionare dei loro colleghi di common law è reso evidente dal ricorso
all’idea del patto evident einseitig,
che, anche per assonanza linguistica, richiama quel requisito dell’essere so one-sided, che costituisce oltre
Oceano proprio il criterio per valutare se un prenuptial agreement in contemplation of divorce sia da ritenersi unconscionable, anche alla luce di
quanto disposto dall’Uniform Premarital
Agreement Act, ora adottato da svariati Stati dell’Unione [142]. Ma l’introduzione in Germania di un siffatto
controllo sul contenuto delle intese non ha mancato di sollevare gravi e
motivate perplessità, incentrate, da un lato, sul deficit di certezza nei rapporti giuridici dei soggetti coniugati
che il (parziale) revirement in atto
è venuto inopinatamente a portare e, dall’altro, sui timori per l’abbandono dei
tradizionali e radicatissimi principi di libertà contrattuale, sostituiti da
una nuova forma di incapacità di protezione: una vera e propria schützende Bevormundung, che
rischierebbe di riportare il diritto di famiglia tedesco, in un percorso a
ritroso rispetto a quello preconizzato dalla celebre frase di Maine, «from contract to status – wobei status
in diesem Fall nicht den Familienstatus, sondern den Schutzstatus kennzeichnet»
[143]. Quanto sopra appare del resto strettamente legato ad
un principio di assoluto rilievo nei sistemi di common law, vale a dire quello del necessario rispetto dell’obbligo
di dar luogo, in sede di stipula di contratto prematrimoniale, ad una «fair e
reasonable disclosure» [144], cioè una dichiarazione fedele circa i beni materiali
e finanziari di proprietà, che, in caso contrario, può determinare nella parte
sfavorita, il diritto di chiedere che l’accordo venga dichiarato unenforceable,
previa dimostrazione dell’altrui omissione.
Queste
perplessità sembrano trovare conferma nella considerazione dell’inidoneità
dello strumento giudiziale, nei sistemi di civil
law, ad incidere sul contenuto dei rapporti negoziali con strumenti di tipo
equitativo, non potendosi passare sotto silenzio – tra l’altro – che i diversi poteri di cui il giudice di common law dispone, rispetto a quello
della tradizione continentale, sono strettamente connessi ad una ben diversa
forma di legittimazione del primo, che, per profonde ragioni storiche e
culturali, non appare estensibile al secondo [145]. A ciò s’aggiunga che, pur non disconoscendosi la
crescente tendenza ad attribuire anche da noi al giudice il potere di
intervenire, grazie all’impiego delle clausole generali, sul contenuto delle
pattuizioni dei privati [146], rimane il fatto che, quanto meno a sommesso avviso
dello scrivente, la materia dell’Einseitigkeit,
cioè dell’ «unilateralità» dell’accordo nel senso sopra precisato, forma nel
nostro ordinamento precipuo oggetto dell’istituto della rescissione. Ne deriva
che il semplice elemento della obiettiva sproporzione tra le prestazioni non
può, di per sé solo, e in difetto di puntuali interventi normativi [147], essere invocato, neppure in un contratto della crisi
coniugale, per ottenere una modifica giudiziale degli accordi tra le parti,
pena la completa vanificazione di quanto disposto dagli artt. 1447 ss. c.c.
In
definitiva, e rinviando ancora una volta alle più volte citate specifiche
trattazioni per una completa disamina delle varie argomentazioni sul tema,
nessun serio ostacolo sembra frapporsi sulla strada della liceità, già de iure condito, delle intese
prematrimoniali sulle conseguenze patrimoniali di un’eventuale crisi coniugale.
La dimostrata ammissibilità, già de iure condito, delle intese preventive in vista di una possibile
crisi coniugale non esclude in alcun modo l’opportunità di un intervento
normativo che elimini le obiezioni ancora da troppe parti (immotivatamente,
come si è detto) sollevate. Il rischio è, come sempre, che l’incapacità del
moderno legislatore di esprimersi in maniera tecnicamente corretta (e, talora,
addirittura in maniera comprensibile) vanifichi il risultato perseguito. Si
tratta, però, di una sfida che va accettata, tanto più che oggi possiamo
confrontarci con una concreta proposta di legge, sicuramente condivisibile per
ciò che attiene alla ratio che la sorregge,
sebbene non poche siano le perplessità derivanti dall’armamentario normativo
predisposto.
Ci si intende qui riferire al d.d.l. S/2629 (XVI)
d’iniziativa dei senatori Filippi, Garavaglia e Mazzatorta, comunicato alla
Presidenza del Senato il 18 marzo 2011, recante il titolo «Modifiche al codice
civile e alla legge 1º dicembre 1970, n. 898, in materia di patti
prematrimoniali» [148].
Va detto in apertura di questo commento che appare per
lo meno curioso che l’occasione della (vagheggiata) introduzione dei patti
prematrimoniali si sposi con un argomento ben distinto da esso, quale la
sostituzione della comunione legale tra coniugi come regime patrimoniale legale
con la separazione dei beni. Chi scrive non ha certo lesinato critiche alla
farraginosità della disciplina che governa l’istituto disciplinato agli artt.
177 ss. c.c., proponendo anche un lungo cahier
de doléances sui mali che lo affliggono, con concrete proposte per un
rilancio della comunione coniugale [149]. Ma l’abbandono tout
court della comunione come regime legale – pur nella perdurante presenza
delle ragioni che lo sorreggono – determinerebbe un ingiustificato salto
indietro di trentasei anni, che finirebbe con l’allontanarci ulteriormente
dallo scenario europeo e mondiale [150].
L’operazione congegnata dal citato d.d.l. non appare
del resto scevra di conseguenze negative neppure sul piano della tecnica
legislativa. Si potrà notare, ad es., che nel sistema attuale la comunione
viene (correttamente) qualificata come «legale» non solo nella rubrica della
sezione terza (del capo VI, del titolo VI, del libro primo del c.c.), ma anche
nel testo degli artt. 168, ult. cpv., 171, ult. cpv., 194, primo comma, 210,
primo e terzo comma (oltre che nella rubrica di tale articolo). Se il d.d.l.
venisse approvato, i predetti richiami permarrebbero inalterati, continuando a
«puntare» ad un istituto che «legale» non sarebbe più, nel senso che la sua
operatività sarebbe disposta non più dalla legge, ma dalla espressa volontà dei
coniugi (con conseguente necessaria ridefinizione, tra l’altro, della linea di
demarcazione tra l’istituto regolato dagli artt. 177 ss. c.c. e quello previsto
dagli art. 210 ss. c.c.).
Né potrebbe giovare al riguardo l’adozione del
meccanismo congegnato dall’art. 162 cpv. c.c., così come novellamente envisagé dal d.d.l., per cui il regime
comunitario ex artt. 177 ss. c.c.
(ma, è da presumere, non quello ugualmente convenzionale ex artt. 210 ss. c.c.) si potrebbe instaurare anche solo per
effetto di una mera scelta all’atto della celebrazione delle nozze. Per carità:
anche qui nihil sub sole novi. Chi
scrive ha già avuto modo di illustrare ampiamente la proposta di cui al
progetto preliminare presentato il 27 settembre 1930 (relatore Francesco
Ferrara Sen.), il quale prevedeva, all’art. 236, che la convenzione costitutiva
del regime di comunione potesse «risultare sia dal contratto di matrimonio sia
da una semplice dichiarazione degli sposi all’atto della celebrazione del
matrimonio, da annotarsi nell’atto dello stato civile, a norma dell’art. 125». E
quest’ultima disposizione stabiliva che l’ufficiale dello stato civile, nel
caso i coniugi non avessero stipulato una convenzione matrimoniale, li avrebbe
dovuti avvertire «che essi possono eleggere il regime della comunione dei beni
con semplice dichiarazione contestuale».
La mancata adozione di quella proposta [151], specie se raffrontata all’attuale secondo comma
dell’art. 162 c.c., dimostra però che la semplice scelta di un regime è assai
più naturale allorquando il regime è quello che lascia inalterati i rapporti
«ordinari» che un soggetto normalmente intesse nella società (cioè, appunto, il
regime di separazione). Allorquando, invece, si opta per un regime destinato a
determinare profondi mutamenti negli effetti che l’agire per via negoziale
usualmente comporta, appare indispensabile uno strumento che, come la
convenzione matrimoniale per atto notarile, consenta di adattare il regime alle
necessità della coppia: onde il suggerimento di un’apertura della comunione
alla negozialità, sul modello di ciò che da secoli accade all’estero ed in
particolare in Francia [152].
Questa non è però la sede per affrontare il tema di
cui sopra: ciò che va qui ribadito è che la legge di introduzione (rectius: di riconoscimento di una preesistente
validità) dei patti prematrimoniali non è luogo in cui regolare i conti con il
regime legale. Anzi, rovesciando l’ottica del d.d.l., verrebbe da dire che
proprio la stipula di un patto prematrimoniale sugli assegni postmatrimoniali
può indurre la coppia ad accettare più volentieri un assetto comunistico delle
proprie relazioni patrimoniali, la cui ragione d’esistere come regime legale (a
dispetto degli sfracelli compiuti sul piano della tecnica legislativa dal
riformatore del 1975) è tutt’ora più che mai valida.
Il d.d.l. S/2629 si apre con una proposta di modifica dell’art.
156 c.c., in tema di contributo di mantenimento al coniuge separato, cui
dovrebbe essere aggiunto il seguente periodo: «A tal fine il giudice deve
tenere dei patti prematrimoniali di natura patrimoniale, eventualmente
stipulati ai sensi dell’articolo 162-bis,
e darne esecuzione». Ora, a parte il rilievo per cui sembra essere rimasto
nella penna del legislatore il sostantivo «conto» («… deve tenere [conto] dei
patti prematrimoniali…»), non si comprende perché il giudice venga chiamato a
«dare esecuzione» all’accordo raggiunto inter
partes. Il contratto ha, come noto, forza di legge tra le parti (art. 1372
c.c.) e non necessita certo, per la propria efficacia, dell’intervento del
giudice, il quale, al massimo, sarà chiamato a dichiararne la validità ed
efficacia, ma solo, beninteso, in caso di contestazioni. Per dare un senso alla
previsione occorre pensare al fatto che il giudice (il presidente nel contesto
dei provvedimenti ex art. 708 c.p.c.;
il g.i. e/o il collegio nel contesto delle misure ex art. 709-ter c.p.c.;
il collegio nell’emanare la sentenza definitiva di una procedura di separazione
contenziosa), anziché dichiarare (come dovrebbe) non luogo a provvedere per la
presenza di un accordo tra i contendenti, sia invece chiamato a trasfondere i termini
dell’accordo nel suo provvedimento, così attribuendo all’intesa un’efficacia di
titolo esecutivo.
Sulle modifiche envisagées
agli artt. 159 e 162 c.c. ci si è già intrattenuti nel § precedente. Qui sarà
il caso di aggiungere che quanto mai inopportuno appare il richiamo all’art.
160 c.c., norma che, come già accennato, appare, per ragioni storiche,
letterali, logiche e sistematiche, del tutto estranea al contesto della crisi
coniugale [153]. Il rischio concreto è che il riferimento a tale
articolo legittimi inaccettabili operazioni di retroguardia, dirette ad
effettuare intollerabili compressioni dell’autonomia negoziale.
Venendo a considerare ora la lett. d) del primo comma
dell’art. 1 del citato d.d.l. (art. 162-bis
c.c.), notiamo subito che del tutto ingiustificata appare la limitazione
temporale degli accordi al periodo che precede la celebrazione delle nozze.
Limitazione, si badi, che letteralmente emerge non solo dalla disposizione
testé citata, ma anche dal nuovo quinto comma dell’art. 162 c.c., che parla
della «stipula di patti prematrimoniali di natura patrimoniale prima della
celebrazione del matrimonio».
Ora, come l’esperienza di common law insegna, le ragioni che militano a favore dei prenuptial sono identiche a quelle che
devono indurre ad ammettere la liceità dei postnuptial
agreements. Ciò che rileva in entrambi i tipi di accordo è la tensione
verso la soluzione del problema legato alla crisi coniugale: che i coniugi
provvedano al riguardo al momento della celebrazione delle nozze, oppure ad
anni di distanza non sembra mutare significativamente i termini della
questione. E del resto, se alla negozialità si lascia spazio, da una parte,
prima della creazione del vincolo, nonché, dall’altra (come è già oggi pacifico
ed universalmente riconosciuto), all’atto della cessazione di quest’ultimo, non
si vede proprio per quale ragione non si dovrebbe fare altrettanto in relazione
a tutto quel periodo – lungo o corto che sia – che tra tali due eventi si
colloca. Vi è peraltro da ritenere che, pur in presenza di una specifica
disposizione e pur di fronte al dato letterale sopra evidenziato, anche i postnuptial agreements sarebbero
riconducibili per via di estensione analogica alla normativa in oggetto.
Il già citato art. 162-bis c.c. contempla poi una previsione formale non eccessivamente
rigorosa, atteso che per la validità degli accordi in oggetto si prevede la
(sola) forma scritta. Verrebbe da dire che ancora una volta ci troviamo di
fronte ad un legislatore che ignora (volutamente?) la ricca esperienza
straniera, di cui si è già riferito [154], la quale punta decisamente (v. la Germania) verso
l’atto notarile, oppure (v. i sistemi di common
law), per un independent legal
counsel. Ove poi si ponga mente al fatto che questo medesimo d.d.l. prevede
che con il contratto in discorso il coniuge potrebbe anche rinunziare alla sua
posizione di legittimario, la forma dell’atto pubblico notarile (con la
presenza di testimoni, in considerazione sia dell’affinità con le convenzioni
matrimoniali, sia dell’obiettiva «gravità» delle conseguenze) sembra imporsi
come necessitata de iure condendo,
per evidenti ragioni d’opportunità.
Non pago di quanto sopra, il d.d.l. in esame richiede,
al secondo comma dell’art. 162-bis
c.c., che il patto prematrimoniale sia «sottoscritto dalle parti, a pena di
nullità, e depositato presso l’Ufficio del registro, territorialmente
competente in ragione della residenza di uno dei contraenti». L’espressa
previsione della sottoscrizione risulta sicuramente ridondante rispetto a
quanto disposto dal primo comma del medesimo articolo, in materia di forma
scritta. Di fronte a siffatte disposizioni sorge il dubbio che al nostro
ineffabile legislatore non risulti chiaro che il requisito della forma scritta
per un contratto presuppone che il documento sia anche sottoscritto dalle
parti…
L’accanimento sulla necessità di registrazione, poi,
all’interno di una norma civilistica, potrebbe anche sottendere l’intento di
rendere siffatto elemento come rilevante sul piano (addirittura) della validità
del negozio.
Venendo alla
considerazione della sfera di operatività del citato art. 162-bis c.c. va detto che la previsione
appare, per un verso, troppo restrittiva e, per l’altro, addirittura
eccessivamente ampliativa.
Troppo restrittiva, atteso che, paradossalmente, il
testo non menziona l’unico caso in cui la nostra giurisprudenza ammette la
validità degli accordi preventivi, vale a dire quello dell’annullamento del
matrimonio [155].
Per converso, l’espressione «disciplinare i rapporti
patrimoniali in caso di separazione personale, di scioglimento o cessazione
degli effetti civili del matrimonio» appare idonea come tale ad abbracciare,
per l’appunto, tutti i possibili «rapporti patrimoniali», tra i quali si
collocano non solo le prestazioni a titolo di contributo di mantenimento di
separazione ovvero di assegno di divorzio, ma anche le relazioni giuridiche
connesse alla crisi coniugale, in primis
quelle attinenti al pregresso regime legale. Di primo acchito potrebbe allora
desumersi che, mercé l’intesa in oggetto (contratta, come si è detto, tra
l’altro, senza il necessario rispetto delle forme prescritte per le convenzioni
matrimoniali), i coniugi potrebbero anche prevedere regole sullo scioglimento
della comunione legale in deroga a quanto disposto dagli artt. da 191 a 197
c.c. [156], ivi compresa, ad es., una ripartizione non
egualitaria della massa comune. Il risultato va sicuramente al di là di quanto
(non) ipotizzato da chi, con mani inesperte, ha steso lo scampolo di prosa
normativa in commento. Non deve comunque escludersi, in linea di principio,
che, per una sorta di fenomeno di eterogenesi dei fini, le persistenti rigidità
del regime legale (che tanto male hanno procurato all’istituto ex artt. 177 ss. c.c.) possano
finalmente essere superate da una riforma tesa ad ammettere la validità dei
patti prenuziali sugli assegni postmatrimoniali.
Veramente rivoluzionaria appare poi la previsione del
terzo comma dell’art. 162-bis c.c., a
mente del quale «Il patto prematrimoniale può anche escludere il coniuge dalla
successione necessaria». Ulteriore ipotesi, questa, di erosione del divieto dei
patti successori, che segue di non molti anni l’introduzione del patto di
famiglia: questa volta peraltro in relazione alla posizione di legittimario nel
suo complesso e non solo con riguardo a determinati e specifici diritti, collegati
al trasferimento di aziende o di partecipazioni societarie. Ciò spiega perché,
almeno ad avviso di chi scrive, la forma dell’atto pubblico notarile (in
presenza di testimoni) diviene qui, de
iure condendo, un vero e proprio imperativo. E’ chiaro che in quest’ottica
il patto assume una valenza diversa da quella sua propria di accordo «in
contemplation of divorce», per assumere il significato di un vero e proprio
«patto di famiglia», allargato a materie non coperte ad oggi da tale istituto.
Allargando per un attimo la visuale storica vien da
dire anche ora: nihil sub sole novi.
Come già rimarcato da chi scrive in altra sede, sembrano qui riecheggiare gli
interrogativi che i giuristi romani si ponevano sull’applicabilità allo
scioglimento del matrimonio per morte delle clausole dei pacta nuptialia previste per il (solo) caso di scioglimento per
divorzio [157].
Il dubbio che la proposta riforma comporta è se per
caso i coniugi non possano reciprocamente (o anche solo unilateralmente)
rinunziare non solo alla successione necessaria, ma eventualmente anche alla
successione per testamento o addirittura ab
intestato, in tal modo escludendosi in
toto dalla successione. La formula letterale della disposizione («…può anche» [corsivo d.a.]) sembrerebbe
suggerire una risposta positiva. Non va del resto dimenticato che la
successione necessaria costituisce la tutela, per così dire, più «avanzata»
spettante a determinati soggetti: la possibilità di rinunziare ad essa,
legislativamente concessa, dovrebbe perciò necessariamente sottendere la
possibilità di rinunziare a qualsiasi altro diritto successorio. Va da sé,
peraltro, che un’eventuale clausola di esclusione del coniuge dalla successione
necessaria non comporterebbe di per sé la perdita dei diritti successori collegati
alla successione legittima, in difetto di un esplicito riferimento a
quest’ultima.
Discutibile risulta poi l’espressa menzione, di cui
all’ultimo comma dell’art. 162-bis
c.c., dell’impossibilità per le parti di trattare nei contratti prematrimoniali
dei «rapporti tra genitori e figli, che restano regolati dalla normativa
vigente». A tutela della prole minorenne rimarrebbe infatti comunque il canone
generale dell’esclusivo interesse di quest’ultima, onde qualsiasi accordo
(preventivo o meno) eventualmente lesivo di siffatto interesse non potrebbe che
essere dichiarato nullo. Senz’altro inopportuna va poi giudicata l’esclusione
in discorso per ciò che attiene alla prole maggiorenne, che ben avrebbe potuto
essere coinvolta negli accordi di cui qui si parla, sia in quanto già esistente
(p. es.: figli nati durante il periodo di convivenza more uxorio tra i nubendi, oppure figli nati dal matrimonio, se si
ammette – come appare ragionevole – la possibilità di stipulare un postnuptial agreement), sia in quanto «prevedibile»
ex ante, come esistente al momento
della futura ipotetica rottura tra i genitori.
La disposizione dell’art. 2 del d.d.l. («Il patto
prematrimoniale può anche escludere l’applicazione delle disposizioni in
materia patrimoniale previste dalla legge 1º dicembre 1970, n. 898») persegue
il lodevole intento di eliminare ogni dubbio circa il fatto che l’accordo può
anche azzerare l’assegno di divorzio. Vi è allora da chiedersi perché
altrettanto non sia espressamente previsto per la separazione (e per l’annullamento
del matrimonio). Più in generale rimane il fatto che la previsione risulta
ridondante rispetto a quanto già disposto dall’art. 162-bis, primo comma, c.c. Appare infatti chiaro che, in assenza di
disposizioni in deroga, un accordo diretto a «disciplinare i rapporti
patrimoniali in caso di separazione personale, di scioglimento o cessazione
degli effetti civili del matrimonio» può, evidentemente, «anche escludere
l’applicazione delle disposizioni in materia patrimoniale previste dalla legge
1º dicembre 1970, n. 898». Il fatto che analoga ovvietà non sia ripetuta per la
separazione (e per l’annullamento) legittima il dubbio che le prestazioni
patrimoniali ivi previste non possano essere ex ante escluse. Tale non auspicabile conclusione potrebbe anche
essere rafforzata dal già evidenziato improvvido (oltre che del tutto
improprio) richiamo all’art. 160 c.c., di cui al nuovo quinto comma dell’art.
162 c.c.
Nulla è stabilito poi con riferimento agli alimenti,
dovuti al coniuge separato (ma non all’ex coniuge), ai sensi dell’art. 433, n.
1, c.c. Il problema è quello di vedere se nel concetto di «disciplina dei
rapporti patrimoniali» in caso di crisi coniugale rientra anche la possibilità
per le parti di derogare ad una disposizione certamente imperativa quale quella
dell’art. 447 c.c.
La disposizione dell’art. 3 del d.d.l. vuole creare,
per il divorzio, una sorta di «concinnitas» con la separazione (ma non con
l’annullamento!) e con quanto per essa disposto dal novellando art. 156 c.c.,
secondo quanto previsto dall’art. 1, primo comma, lett. a), del d.d.l. in
esame. Resta comunque l’obiezione già sollevata. Se, infatti, l’art. 162-bis c.c. stabilisce che «I futuri
coniugi, prima di contrarre matrimonio, possono stipulare un patto prematrimoniale
in forma scritta diretto a disciplinare i rapporti patrimoniali in caso di
separazione personale, di scioglimento o cessazione degli effetti civili del
matrimonio», è evidente che esso consente alle parti anche di «escludere
l’applicazione delle disposizioni in materia patrimoniale previste» tanto dal
divorzio che dalla separazione, posto che il concetto di «disciplinare i
rapporti patrimoniali» non può non estendersi anche al predetto effetto
esclusivo. E’ chiaro, infatti, che una materia la si «disciplina» anche
stabilendo che per la stessa non si applica (ergo: «si esclude») quanto previsto per default dalla legge.
Venendo ora a considerare la norma transitoria (art.
4) del citato d.d.l. va rimarcato come questa si giustifichi solo nell’ottica
restrittiva che vorrebbe limitare i patti in oggetto a quelli conclusi solo
fino al momento (chissà perché) della celebrazione delle nozze. E’ dunque
necessario, anche per evitare dubbi di legittimità costituzionale, porre le
«vecchie coppie» su di un piano di parità con le nuove. In realtà, accogliendo
la tesi preferibile, circa la possibilità di concludere contratti
prematrimoniali in ogni momento, non si renderebbe necessaria alcuna
disposizione del genere, così ottenendosi, tra l’altro, una perfetta parità di
trattamento tra nuove e vecchie coppie. Introducendo il concetto di contratto
postmatrimoniale (in contemplation of
divorce, o, più esattamente per noi, in contemplazione della crisi
coniugale) si eviterebbe il vero e proprio controsenso di qualificare (come fa
il citato art. 4) alla stregua di un «patto prematrimoniale» quello che, a ben
vedere, «prematrimoniale» non è.
Il testo del «Disegno di legge sulla introduzione
degli accordi matrimoniali e prematrimoniali» presentato dall’A.M.I.
(Associazione Avvocati Matrimonialisti Italiani) il 20 luglio 2011 ha il pregio
di sottrarsi ad almeno alcune delle obiezioni sollevate nei §§ precedenti in
merito al d.d.l. S/2629 [158].
Lodevole appare, innanzi tutto, il fatto che tramite
esso non si sia tentato di operare surrettizi sovvertimenti del regime legale.
L’unica variazione sul punto, infatti, raccogliendo uno spunto dello scrivente [159] e adeguando la comunione nostrana al contesto
europeo, suggerisce la possibilità che il contratto prematrimoniale preveda una
deroga alla parità delle quote (cfr. art. 2, comma terzo, del d.d.l. A.M.I.,
che modifica l’art. 194 c.c., peraltro dimenticandosi dell’art. 210, terzo
comma, c.c.). Senz’altro condivisibile è poi l’idea di estendere la riforma non
solo ai prenuptial, ma anche ai postnuptial agreements, sebbene tale
corretta scelta perda poi gran parte del suo smalto per effetto di una
difformità nella disciplina delle due ipotesi, che, come si dirà tra breve, non
pare in alcun modo giustificata.
Ciò detto, non mancano neppure per tale proposta elementi
di perplessità, sovente comuni a quelli già illustrati in merito al d.d.l.
S/2629. Così, in primo luogo, essa ignora gli accordi in vista della pronunzia
di annullamento, mentre, per ciò che attiene agli accordi prematrimoniali, si
accontenta della (semplice) forma scritta, laddove sarebbe auspicabile, per le
ragioni illustrate, l’introduzione della necessità del ricorso all’atto
notarile in presenza di testimoni. L’atto notarile (ma non in presenza di
testimoni) è invece, inspiegabilmente, richiesto per i soli accordi in contemplation of divorce conclusi
dopo la celebrazione delle nozze (v., rispettivamente, gli artt. 162-quater e 162-quinquies c.c., introdotti dall’art. 1 della proposta A.M.I.).
Sempre in tema di requisiti formali, non si comprende
per quali ragioni ci si accanisca a pretendere che l’accordo prematrimoniale
sia sottoscritto «dinanzi all’ufficiale di stato civile tenuto alle
pubblicazioni ai sensi dell’art. 93 c.c.» (v. art. 162-quater, primo comma, cit.).
Altrettanto incomprensibile risulta la previsione che
impone agli sventurati nubendi di coniugarsi entro centottanta giorni dalla
sottoscrizione delle intese, pena l’invalidità (sotto quale specie: nullità,
annullabilità, rescindibilità; e poi, non sarebbe questo, semmai, un caso
classico d’inefficacia?) delle stesse (v. art. 162-quater, secondo comma, cit.). Il contratto diventa, in altre
parole, una sorta di «prodotto deperibile», né più e né meno di un vasetto di
yoghurt al supermercato. Un’ulteriore «forca caudina» è poi quella (art. 162-quater, ultimo comma, cit.) secondo cui
gli accordi prematrimoniali «devono essere stipulati almeno trenta giorni prima
del matrimonio» (questa volta non si capisce bene a pena di che cosa), quasi
che l’eccessiva vicinanza al giorno del
fatidico «sì» potesse in qualche modo nuocere alla purezza dell’intento delle
parti: un improbabile ritorno al nimius
amor di romana memoria? Quanto poi alla richiesta allegazione «all’estratto della pubblicazione fino alla
formazione dell’atto di matrimonio, del quale saranno parte integrante», il
requisito sembra rispondere più alla curiosità della «radio serva» di paese,
che a ragioni che abbiano a che vedere con una maturata riflessione delle
parti.
Nobile, certo, la disposizione a mente della quale
«Prima della sottoscrizione dell’accordo, i nubendi devono essere informati
circa il contenuto e le conseguenze del medesimo» (v. art. 162-quater, terzo comma, cit.): ma l’unica
informazione realmente utile ed efficace è quella che un professionista quale
il notaio o l’avvocato possono (rectius:
dovrebbero necessariamente) fornire. Mai come in questo caso sarebbe utile
tenere a mente una delle regole fondamentali della giuritecnica, quale quella
di evitare il ricorso a frasi passive. «Essere informati» è importante, ma un
legislatore serio deve anche assumersi la responsabilità di dirci chi tale
informazione dovrebbe impartire.
Come già
anticipato, per quale motivo i (soli) accordi conclusi in costanza di
matrimonio necessitino della forma dell’atto pubblico (art. 162-quinquies c.c., introdotto dall’art. 1
della proposta A.M.I.) rimane un mistero: mistero destinato ad infittirsi ove
si cerchi di comprendere perché tale atto andrebbe «annotato a margine» (ma le
annotazioni «a margine» non esistono più dal 2000…) dell’atto di matrimonio con
l’indicazione della data del contratto e del notaio rogante, posto che non si
tratta qui di convenzioni matrimoniali istitutive o modificative di regimi
patrimoniali. Del resto la disposizione – nel tentativo di fare (male) il verso
all’art. 162 c.c. – non stabilisce neppure a quali effetti tale formalità
andrebbe effettuata, per cui ben dovrebbe pensarsi (in questa ipotesi, per
davvero) ad un caso di pubblicità notizia.
Ridondante risulta poi la previsione dell’art. 162-ter c.c., a mente della quale «L’accordo
prematrimoniale deve essere redatto ed eseguito secondo buona fede», quasi che
norme come quelle degli artt. 1175, 1176, 1337, 1366 e 1375 c.c. non avessero
significato nella materia in esame… Ridondante e pericolosa anche la disposizione
dell’art. 162-sexies cpv. c.c.,
secondo cui «Il nubente o il coniuge possono chiedere l’annullamento
dell’accordo secondo le disposizioni previste dagli artt. 1427 ss. c.c.»:
esattamente come per il patto di famiglia [160], la maldestra prescrizione potrebbe instillare (a contrariis) l’idea che altre domande
di annullamento o diverse ragioni di invalidità non potrebbero essere fatte
valere. Inutilmente punitivo, oltre che tecnicamente scorretto, appare poi
anche stabilire (cfr. l’art. ult. cit.) che un fatto successivo all’accordo,
quale l’essere stato «condannato, con sentenza passata in giudicato, per uno
dei reati previsti dall’art. 3 legge n. 898/70 e successive modifiche ed
integrazioni» dovrebbe determinare l’«annullamento» del contratto e dunque un
rimedio riferibile ai vizi del sinallagma genetico e certo non a quelli del
sinallagma funzionale. E’ chiaro che, in questo caso, l’azione sarebbe comunque
esperibile soltanto dal coniuge «innocente» (lo si desume dall’espressione «...
qualora l’altro coniuge sia stato condannato…»), così tornandosi alla logica
antica della perdita per il coniuge «colpevole» degli avantages matrimoniaux [161].
Di rilievo
sarebbe l’imposizione di una disclosure
(cfr. art. 162-ter cpv. c.c., secondo
cui «I nubendi sono tenuti ad inserire nell’accordo ogni informazione utile in
ordine alla rispettiva situazione patrimoniale e reddituale»), se il
commendevole intento non venisse realizzato tramite una disposizione dai
contorni troppo vaghi e, quel che è peggio, sfornita di sanzione.
Non condivisibile appare poi l’ottica «processuale» e
«processualizzante» in cui la proposta si colloca. Come per il d.d.l. S/2629 –
nella deformata visione «pancontenziosa» che conforma e soggioga l’odierna
società «civile» – si ritiene che vi sia sempre e comunque «bisogno d’un
giudice» per attribuire ad un contratto efficacia vincolante, in barba a quanto
disposto dall’art. 1372 c.c. E spingendo tale ottica alle sue estreme
conseguenze si impone addirittura alla parte, «a pena di decadenza», di
allegare al ricorso introduttivo del giudizio «l’accordo pre-matrimoniale o
matrimoniale sottoscritto» (cfr. art. 155-sexies,
terzo comma, c.c., introdotto dall’art. 2 della proposta A.M.I.).
Al giudice competerà poi di «valutare fatti
sopravvenuti ove si sia verificato un significativo cambiamento del patrimonio
di entrambi tra il momento della stipula ed il momento dell’esecuzione
dell’accordo medesimo» (cfr. art. 155-sexies,
terzo comma, cit.). La previsione sembra conferire al giudice il potere di modificare
il contenuto dell’accordo, così sovrapponendo la propria determinazione alla
sovrana volontà negoziale: esattamente l’opposto di quanto perseguito
dall’accordo prematrimoniale (o matrimoniale che dir si voglia), che tende,
invece, a fornire certezza alle parti, inserendo di proposito un chiarissimo
marchio di aleatorietà (cfr. art. 1469 c.c.), proprio partendo dal presupposto
(ben noto alle parti e sul quale comunque il pubblico ufficiale rogante
dovrebbe attirare l’attenzione delle stesse) che, nel corso della vita
matrimoniale, si potranno realizzare anche avvenimenti assolutamente
straordinari ed imprevedibili, tali da alterare in modo sconvolgente e
definitivo gli assetti personali e patrimoniali esistenti all’atto della
stipula del contratto.
L’apice trionfale di questo certo non auspicabile
«paternalismo giudiziario», che dell’autonomia negoziale endofamiliare
costituisce la più lampante negazione, viene raggiunto dalla disposizione di
cui al comma 6-bis dell’art. 5 della
legge n. 898/70 (art. 4 della proposta A.M.I.), a mente del quale «Qualora i
coniugi producano in giudizio un accordo matrimoniale ovvero precedente il
matrimonio, il giudice ratifica gli accordi in merito all’assegno divorzile in
favore del coniuge più debole, salvo che il contributo economico stabilito non
garantisca al coniuge più debole mezzi economici adeguati alla sua
sussistenza». Si tratterebbe, se non erriamo, della prima volta in cui un
giudice sarebbe chiamato da un legislatore digiuno delle nozioni istituzionali
del diritto civile a «ratificare» un atto di autonomia privata. Cela va sans dire che lo stesso giudice
potrebbe, nella logica di questo non condivisibile sistema, «modificare» il
contenuto dell’accordo per adattarlo a quello che la proposta chiama il «mutamento
delle circostanze», così stravolgendo l’intento delle parti e pervenendo a
risultati diametralmente opposti a quelli che le stesse si erano prefissate di
conseguire.
Infine, la proposta modifica dell’art. 12-bis l. div. appare certamente
ridondante, posto che il potere di intervenire in via preventiva sull’indennità
di fine rapporto rientra sicuramente già nel novero dei «diritti patrimoniali
disponibili derivanti dal matrimonio per l’ipotesi di separazione coniugale
ovvero di scioglimento o cessazione degli effetti civili del matrimonio»,
giusta la previsione del testo proposto per il nuovo art. 162-bis, primo comma, c.c. L’espressa
contemplazione di tale facoltà avrebbe peraltro il pregio di eliminare ogni
possibile dubbio circa l’ammissibilità di intese che per molti aspetti già oggi
dovrebbero considerarsi consentite [162].
Rispetto alle due proposte di legge
esaminate nei §§ precedenti, la proposta sui patti prematrimoniali elaborata
dal Notariato e presentata nel 2011 al Congresso Nazionale del Notariato di
Torino [163] offre tutti i vantaggi derivanti dal fatto di essere
stata predisposta da esperti pienamente consapevoli di molte delle implicazioni
che la delicata operazione di inserimento di una novellazione normativa nel
senso auspicato comporta. Si sono così evitate le denunciate opzioni da vieto
«paternalismo giudiziario», che così negativamente gravano sugli altri d.d.l., risultando
qui chiaro che il compito del giudice non è già quello di intervenire in
presenza di accordi prematrimoniali, ma, tutto al contrario, di operare solo in
assenza di essi [164].
Gli accordi prematrimoniali (cfr. la versione proposta
dell’art. 162-bis c.c.) sono
stipulabili prima delle nozze, ma identiche pattuizioni possono essere concluse
durante il matrimonio sino al momento della presentazione del ricorso per
separazione personale (il che, ovviamente, non esclude la possibilità di una
consensualizzazione della separazione contenziosa, anche se l’operazione non ha
più la valenza di un accordo in
contemplation della crisi coniugale, essendo quest’ultima ormai in atto).
La forma richiesta, come suggerito dallo scrivente, e per le ragioni sopra
esaminate, è quella di cui all’art. 162 c.c. per ogni tipo di accordo, concluso
vuoi prima, vuoi dopo la celebrazione delle nozze.
Decisamente vasto il contenuto di tali possibili
intese, atteso che con esse «un coniuge può attribuire all’altro una somma di
denaro periodica o una somma di denaro una
tantum ovvero un diritto reale su uno o più immobili con il vincolo di
destinare, ai sensi dell’art. 2645 ter,
i proventi al mantenimento dell’altro coniuge o al mantenimento dei figli fino
al raggiungimento dell’autosufficienza economica degli stessi». Ancora, si
prevede saggiamente che «Nelle convenzioni un coniuge può anche trasferire
all’altro coniuge o ad un terzo beni o diritti destinati al mantenimento, alla
cura o al sostegno di figli portatori di handicap
per la durata della loro vita o fino a quando permane lo stato di bisogno,
la menomazione o la disabilità a causa dell’handicap».
Condivisibile risulta pure la scelta operata in merito
alle prestazioni alimentari (di cui, come detto, gli altri disegni di legge si
sono puramente e semplicemente dimenticati): si stabilisce così che «Tali
convenzioni possono anche contenere la rinuncia del futuro coniuge al
mantenimento da parte dell’altro, salvo il diritto agli alimenti ai sensi
dell’art. 433 c.c. e segg. e salvo il disposto di cui all’art. 143 c.c.». Non
pienamente condivisibile appare invece il principio secondo cui «In ogni caso
ciascun coniuge non può attribuire all’altro più di metà del proprio
patrimonio». Ed invero la regola sembra difficilmente coerente con un sistema
dal quale il tradizionale divieto di donazioni tra coniugi risulta ormai da
tempo [165] bandito.
La formulazione della norma sui possibili effetti
successori («In tali convenzioni, in deroga al divieto dei patti successori e
alle norme in tema di riserva del coniuge legittimario, possono essere previste
anche norme per la successione di uno o di entrambi i coniugi, salvi i diritti
degli altri legittimari») è poi certamente in grado di eliminare, a differenza
di quanto visto in relazione al d.d.l. S/2629 cit. ogni possibile incertezza
sull’applicabilità ad ogni tipo di successione. Essa non farebbe altro che
ricondurre i nostri contrats de mariage
alla funzione tradizionale che i pacta
nuptialia hanno svolto per secoli (pur in presenza del generale divieto, di
origine romana, di patti sulle successioni future), di predeterminare gli
effetti della trasmissione endofamiliare della ricchezza [166], sebbene in passato tale determinazione avesse ad
oggetto il trasferimento «in linea verticale» (essendo come noto il coniuge
escluso dalla successione), laddove qui si tratterebbe di escludere o arginare
il frazionamento «orizzontale», ciò che peraltro non potrebbe non sortire
effetti, per l’appunto, sulla successione «verticale».
Un elemento comune a tutte le proposte di legge sopra
esaminate è la mancanza di riferimenti agli accordi in vista di un possibile
annullamento del matrimonio. La frequenza con la quale siffatto rimedio viene
invocato in Italia, mercé l’impugnativa del matrimonio concordatario di fronte
ai tribunali ecclesiastici, sovente allo scopo di far venire meno gli effetti
di pronunce di separazione o divorzio, prima del relativo passaggio in
giudicato [167], induce ad una ulteriore riflessione circa gli
effetti che l’annullamento del vincolo potrebbe sortire su un eventuale patto
prematrimoniale stipulato in vista della separazione o del divorzio.
Sul punto sembra abbastanza evidente che, nel caso le
parti non procedessero ad una separazione e/o ad un divorzio, ma ottenessero
direttamente l’annullamento del vincolo, vuoi in sede civile, vuoi in sede
ecclesiastica, con successiva delibazione della decisione, il patto
prematrimoniale non stipulato con espressa previsione dell’ipotesi
dell’annullamento non potrebbe avere effetto, non essendosi verificata una
delle condizioni essenziali per la sua operatività (separazione o divorzio,
appunto). Nel caso peraltro dovesse intervenire una pronunzia di separazione
e/o una decisione sul divorzio, cui l’annullamento facesse seguito, ci si
potrebbe chiedere quale sarebbe la sorte delle attribuzioni patrimoniali nel
frattempo eventualmente effettuate in adempimento del contratto prematrimoniale
(si pensi ad un accordo che predeterminasse, come talora avviene all’estero,
l’ammontare delle somme dovute in caso di separazione e/o divorzio, magari
commisurandole al reddito del più abbiente dei coniugi; nulla quaestio, invece, nel caso di rinunzia al trattamento
postmatrimoniale).
In assenza di precedenti sul punto ci si potrà
riferire alle conclusioni da chi scrive già sviluppate con riguardo ad analoga
problematica, riferita però ai trasferimenti patrimoniali operati in sede di separazione
o di divorzio [168].
Al riguardo potrà rammentarsi che la
Cassazione si è trovata ad affrontare, ormai diversi anni or sono, il problema
concernente le conseguenze dell’annullamento del matrimonio sull’obbligazione
assunta da un coniuge di trasferire all’altro la proprietà di un bene immobile
a scopo di mantenimento, o di alimenti, per il periodo di separazione
antecedente alla dichiarazione di nullità del vincolo. La soluzione fornita a
tale interrogativo è quella secondo cui «La sopravvenuta dichiarazione di
nullità del matrimonio non estingue l’obbligazione assunta da un coniuge di
trasferire all’altro la proprietà di un bene immobile a scopo di mantenimento,
o di alimenti, per il periodo di separazione antecedente alla dichiarazione di
nullità del vincolo; né tale dichiarazione costituisce evento risolutivo di un
trasferimento già operato od evento ostativo all’adempimento dell’obbligazione
da parte del debitore ove sia stato incensurabilmente accertato dal giudice del
merito che l’attribuzione patrimoniale non sia stata implicitamente subordinata
(principio della presupposizione) alla persistente validità del matrimonio ma
alla esistenza di oneri economici nascenti dal vincolo nuziale, alla cui
regolamentazione le parti intesero provvedere» [169].
La motivazione è stata
fondata sui principi in tema di matrimonio putativo, in forza dei quali, come
noto, l’annullamento del negozio matrimoniale non può travolgere
retroattivamente gli effetti del vincolo: «Una volta inquadrata nell’àmbito
delle obbligazioni di mantenimento la promessa di trasferimento dell’immobile,
è palese che la dichiarazione di nullità del matrimonio, intervenuta dopo la
scadenza del termine per l’adempimento, non poteva assumere efficacia estintiva
dell’obbligazione, la quale trovava la sua causa nel negozio matrimoniale, che,
essendo soggetto alle norme sul matrimonio putativo (artt. 128 e 129 cod. civ.
e 18 della legge 27 maggio 1929 n. 847), manteneva la sua efficacia fino alla
pronunzia di nullità, con conseguente salvaguardia del diritto della [moglie]
di far valere il proprio diritto al mantenimento sulla base dell’accordo
intervenuto con il marito al fine di regolare i loro rapporti patrimoniali nel
periodo della separazione. In altri termini, la pronunzia di nullità del
vincolo matrimoniale non può comportare la caducazione in radice del diritto
della moglie al mantenimento, se la relativa pretesa sia riferita al periodo in
cui a carico del marito esisteva il relativo obbligo. E da tali principi non
può certo prescindersi nella fattispecie, la quale è caratterizzata
dall’assunzione di un’obbligazione di mantenimento che, alla stregua della
normativa sul matrimonio putativo, mantenne validità ed efficacia con
riferimento al periodo di separazione che precedette la pronunzia di nullità
del matrimonio».
La decisione sembra quindi presupporre il carattere
solutorio del negozio in esame, in relazione all’obbligo di mantenimento; ma,
anche volendo basare su di un’altra giustificazione causale, tra quelle in
altre sedi indicate [170],
l’attribuzione patrimoniale in discorso, la soluzione non cambierebbe,
trattandosi pur sempre di una vicenda che trova la sua fonte nel matrimonio
dichiarato invalido. Il vero problema, semmai, per la Cassazione, una volta
postasi nell’ottica del negozio solutorio, diviene quello dell’eventuale non
«congruità» (per eccesso o per difetto) del trasferimento rispetto al periodo
di separazione. Ma sul punto la Corte supera l’impasse, richiamando il principio secondo cui «con l’assetto di
interessi implicante l’estinzione totale e definitiva dell’obbligazione con
l’attribuzione definitiva di beni, i coniugi assunsero a proprio carico il
rischio economico della sopravvenienza di situazioni che avessero reso
l’attribuzione inadeguata, in difetto o in eccesso» [171]; il
che dimostra, se ancora ve ne fosse bisogno, che, in realtà, il fondamento
causale attribuito da tale decisione all’accordo traslativo non è tanto quello
del negozio solutionis causa, bensì
quello del definitivo assetto postmatrimoniale delle rispettive pretese,
secondo quanto altrove ampiamente illustrato [172].
A maggior ragione, dunque, la soluzione dovrebbe valere
con riguardo alle prestazioni effettuate in adempimento di un contratto
prematrimoniale, che trovano la loro ragion d’essere proprio in tale ultimo
negozio, certamente dotato di una sua causa autonoma. Ulteriore conforto alla
tesi qui esposta sembra venire dalla considerazione del ruolo che
l’annullamento del matrimonio svolge con riguardo alla comunione legale, ex art. 191 c.c. La previsione, invero,
dell’annullamento del matrimonio alla stregua di una causa di scioglimento, e
non già di invalidità del regime, induce a ritenere che nei rapporti
patrimoniali l’annullamento del vincolo non determini la cancellazione
retroattiva di quell’intreccio di relazioni giuridiche che avrebbero trovato
regolare svolgimento e continuazione in assenza della decisione in discorso. Ne
deriva che, fino al momento dell’annullamento del vincolo matrimoniale, le
prestazioni effettuate in adempimento del contratto prematrimoniale dovrebbero
ritenersi operative ed efficaci.
Un’ultima considerazione
merita essere sviluppata a chiusura di questo tema. Come osservato da un Autore
tedesco [173], nel caso di matrimonio concordatario, la conclusione
di un prenuptial agreement in
contemplation of divorce può essere visto come la prova del fatto che le
parti hanno consensualmente negato valore sacramentale al vincolo (bonum Sacramenti), escludendo
l’indissolubilità del loro legame. In tal modo la sola presenza di quell’accordo
potrebbe costituire la causa dell’azione di annullamento. Ci troveremmo così di
fronte ad una singolare ipotesi in cui l’esistenza stessa di un contratto
costituisce la ragione essenziale della sua stessa … inefficacia!
(*) Testo
della relazione presentata al congresso francoitaliano sul tema «Accordi
prematrimoniali, nuovo ambito d’azione per il notaio europeo?», organizzato dal
Comitato Francoitaliano dei Notariati Ligure e Provenzale - Pollenzo, 3 dicembre 2011.
[1] Al riguardo v. per esempio Comporti, Autonomia
privata e convenzioni preventive di separazione, di divorzio e di annullamento
del matrimonio, in Foro it., 1995, I, c. 105 ss. 113; Gabrielli, Indisponibilità preventiva degli effetti patrimoniali del divorzio: in
difesa dell’orientamento adottato dalla giurisprudenza, in Riv. dir. civ.,
1996, I, p. 699 ss.
[2] Il tema, che non può essere trattato in questa sede,
è sviluppato in Oberto, I contratti della crisi coniugale, I,
Milano, 1999, p. 387 ss.; Id., Sulla natura disponibile degli assegni di
separazione e divorzio: tra autonomia privata e intervento giudiziale, in Fam.
dir., 2003, p. 389 ss., 495 ss.; Id.,
Contratto e famiglia, in Aa. Vv., Trattato del contratto, a cura di Vincenzo Roppo, VI, Interferenze, a cura di Vincenzo Roppo,
Milano, 2006, p. 242 ss.; Al Mureden,
Le rinunce nell’interesse della famiglia e la tutela del coniuge debole tra
legge e autonomia privata, in Familia,
2002, p. 990 ss. A questi lavori si fa
rinvio anche per i necessari riferimenti dottrinali e giurisprudenziali.
[3] Per gli approfondimenti cfr. Oberto, I contratti della crisi coniugale, I, cit., p. 483 ss.; Id., «Prenuptial agreements in contemplation of divorce» e disponibilità in via preventiva dei diritti connessi alla crisi coniugale, in Riv. dir. civ., 1999, II, p. 171 ss.; Id., Contratto e famiglia, in Aa.Vv., Trattato del contratto, a cura di Roppo, VI, Interferenze, a cura di Roppo, Milano, 2006, p. 253 ss.; Id., Gli accordi preventivi sulla crisi coniugale, in Familia, 2008, p. 25 ss. V. inoltre Giaimo, I contratti paramatrimoniali in Common Law, Palermo, 1997, p. 31 ss. Per la dottrina successiva v. Balestra, Gli accordi in vista del divorzio: la Cassazione conferma il proprio orientamento, Commento a Cass., 14 giugno 2000, n. 8109 - Cass., 18 febbraio 2000, n. 1810, in Corr. giur., 2000, p. 1023 ss.; Angeloni, La cassazione attenua il proprio orientamento negativo nei confronti degli accordi preventivi di divorzio: distinguishing o perspective overruling?, in Contratto e impresa, 2000, p. 1136 ss.; Bargelli, L’autonomia privata nella famiglia legittima: il caso degli accordi in occasione o in vista del divorzio, in Riv. crit. dir. priv., 2001, p. 303 ss.; Di Gregorio, Divorzio e accordi patrimoniali tra coniugi, Nota a Cass., 14 giugno 2000, n. 8109, in Notariato, 2001, p. 17 ss.; Dellacasa, Accordi in previsione del divorzio, liceità e integrazione, Nota a Cass., 14 giugno 2000, n. 8109, in Contratti, 2001, p. 46; Ferrando, Crisi coniugale e accordi intesi a definire gli aspetti economici, Nota a Cass., 14 giugno 2000, n. 8109, in Familia, 2001, p. 245; Pazzaglia, Riflessioni sugli accordi economici preventivi di divorzio, in Vita notarile, 2001, p. 1017; Palmeri, Il contenuto atipico dei negozi familiari, Milano, 2001, p. 116 ss.; Al Mureden, Le rinunce nell’interesse della famiglia e la tutela del coniuge debole tra legge e autonomia privata, cit., p. 1014 ss.; Busacca, Autonomia privata dei coniugi ed accordi in vista del divorzio, in Diritto & Formazione, 2002, p. 57 ss.; Catanossi, Accordi in vista del divorzio e «ottica di genere». Uno sguardo oltre Cass. n. 8109/2000, in Riv. crit. dir. priv., 2002, p. 169 ss.; Marella, La contrattualizzazione delle relazioni di coppia. Appunti per una rilettura, in Riv. crit. dir. priv., 2003, p. 95 ss.; Coppola, Gli accordi in vista della pronunzia di divorzio, in G. Bonilini e F. Tommaseo, Lo scioglimento del matrimonio, Art. 149, in Comm. Schlesinger, Milano, 2004, 643 ss.; Coppola, Le rinunzie preventive all’assegno post-matrimoniale, in Famiglia, persone e successioni, 2005, p. 54 ss.; Al Mureden, I prenuptial agreements negli Stati Uniti e nella prospettiva del diritto italiano, in Fam. dir., 2005, p. 543 ss.; Ruggiero, Gli accordi prematrimoniali, Napoli, 2005, passim; Quadri, Autonomia dei coniugi e intervento giudiziale nella disciplina della crisi familiare, in Familia, 2005, p. 6 ss.; Maietta, Gli accordi prematrimoniali e gli accordi di convivenza. nel diritto italiano e negli altri ordinamenti, disponibile al sito web seguente: http://www.dirittoeprocesso.com/index.php?option=com_content&view=article&id=989:gli-accordi-prematrimoniali-e-gli-accordi-di-convivenza-nel-diritto-italiano-e-negli-altri-ordinamenti&catid=59:famiglia&Itemid=84; M. Romano e Sgroi, Gli accordi preventivi in vista della crisi coniugale. Come disciplinare i rapporti patrimoniali tra le parti, in Aa. Vv., Gli aspetti patrimoniali della famiglia. I rapporti patrimoniali tra coniugi e conviventi nella fase fisiologica ed in quella patologica, a cura di Giacomo Oberto, Padova, 2011, p. 25 ss.
[4] Per approfondimenti cfr. Oberto, Gli accordi sulle conseguenze patrimoniali della
crisi coniugale e dello scioglimento del matrimonio nella prospettiva storica,
nota a Cass., 20 marzo 1998, n. 2955, in Foro it., 1999, I, c. 1306 ss.;
Id., I precedenti storici del
principio di libertà contrattuale nelle convenzioni matrimoniali, in Dir. fam. pers., 2003, p. 535 ss. Sul
tema v. anche ampiamente Magagna, I
patti dotali nel pensiero dei giuristi classici. Per l’autonomia privata nei
rapporti patrimoniali tra i coniugi, Padova, 2002, passim.
[5] Cfr. sul punto e per ulteriori approfondimenti Oberto, I contratti della crisi coniugale, I, cit., p. 68 ss. Mutua
l’osservazione Ruggiero, op. cit., p. 116 ss.
[6] Cfr. Oberto,
Gli accordi sulle conseguenze patrimoniali della crisi coniugale e dello
scioglimento del matrimonio nella prospettiva storica, cit., c. 1319.
[7] Cfr. Bononien.
restitutionis dotis, 16 maggio 1595, riportata da Mantica, Decisiones
Rotae Romanae, Romae, 1618, p. 539 ss.: «Placuit Dominis, sententiam esse
confirmanda: quia cum convenerit, ut in eventum separationis tori, D.
Constantius teneretur D. Lisiae eius uxori praestare scuta 270, pro alimentis,
et si in solutione eorum cessaverit per annum, ipsa possit agere ad
restitutionem totius dotis: & D. Constantius dictam summam non solverit
anno 1589. necessario sequitur, quod dos eidem D. Lisiae debeat restitui»;
sulla base della rimanente parte della motivazione sembra possibile inferire
che l’accordo fosse stato addirittura concluso in sede di separazione di fatto,
in vista di una futura possibile separazione solemniter iudicio ecclesiae facta, evento che la Rota ritenne in
quel caso essersi verificato.
[8] Cfr. la sentenza del 20 giugno 1612 di cui riferisce Giurba, Decisionum novissimarum Consistorii Sacrae Regiae Conscientiae Regni
Siciliae volumen primum, Panormi, 1621,
p. 398 ss.
[9] Sulla clause
alsacienne v. i riferimenti in Oberto,
La comunione legale tra coniugi, I,
Milano, 2010, p. 386, nota 171; II, p. 1671, nota 198; nel senso che «Ne porte
pas atteinte au principe de l’immutabilité des conventions matrimoniales la
clause par laquelle, dans le cadre d’un régime de communauté universelle,
chaque époux reprendrait, en cas de dissolution de la communauté par divorce,
les biens tombés dans la communauté de son chef» v. App. Colmar, 16 maggio
1990, in Rép. Defrénois, 1990, p.
1361, con nota di Champenois; in JCP,
1991, éd. N., II, p. 17, con nota di Simler.
[10] Su cui cfr. Oberto,
I contratti della crisi coniugale, I, cit., p. 494 ss.; Id., «Prenuptial agreements in contemplation
of divorce» e disponibilità in via preventiva dei diritti connessi alla crisi
coniugale, cit., p. 180 ss. V. inoltre Giaimo,
I contratti paramatrimoniali in
Common Law, cit., p. 31 ss.; Al Mureden,
I prenuptial agreements negli Stati Uniti e nella prospettiva del
diritto italiano, cit., p. 543 ss.
[11] Basterà al riguardo effettuare una ricerca tramite Google sulla rete, oppure digitare
l’espressione prenuptial agreement
all’indirizzo www.wikipedia.org.
[12] Per un elenco di svariati casi di questo genere si fa
rinvio a Oberto, I contratti della crisi coniugale, I,
cit., p. 494 ss. Per ulteriori matrimoni tra c.d. «v.i.p.», in cui il tenore
del contratto prematrimoniale ha attirato un’attenzione di gran lunga superiore
rispetto all’interesse che un tempo destavano foggia e fattura dell’abito da
sposa, cfr., a mero titolo d’esempio, Orighi,
Il «patto dei soldi» tra Felipe e Letizia,
in La Stampa, 13 aprile 2004, p. 14; Pellagro, Kidman, il segreto delle nozze con Urban, ivi, 23 giugno 2006, p. 26. Si pensi che non molti anni or sono un
luminare dell’economia stipulò un accordo prematrimoniale nel quale dispose,
con sette anni d’anticipo, la
spartizione con la moglie di un eventuale ... premio Nobel, poi
effettivamente attribuitogli pochi giorni prima della scadenza della relativa
clausola (si tratta dell’economista americano Robert Lucas, premio Nobel per
l’economia 1995: cfr. l’articolo di Soria,
L’ex moglie scippa il Nobel, in La Stampa, 23 ottobre 1995, p. 13; per
un curioso «bestiario» in proposito si veda anche Wallman e McDonnell,
Cupid, Couples & Contracts. A Guide to Living Together, Prenuptial Agreements, and
Divorce, New York, 1994, p. 18, 23, sui c.d. «lifestyle» prenups). Anche
qui, peraltro, nihil sub sole novi,
posto che, a quanto pare, lo stesso Albert Einstein si impegnò a corrispondere
alla moglie Mileva quanto egli avrebbe potuto ricavare dall’eventuale
attribuzione del Nobel per la fisica, in cambio dell’impegno della consorte ad
accedere alla richiesta di divorzio (cfr. Isaacson,
The Intimate Life of Einstein, in Time, July 24, 2006, p. 47). Da notare,
poi, che ormai, a fare notizia, non è solo il contenuto il contenuto
dell’accordo, ma addirittura il semplice fatto che la «coppia celebre» annunzi
di non avere intenzione di stipulare un patto prenuziale: cfr. al riguardo
l’articolo redazionale dal titolo Carlo:
di Camilla ho piena fiducia, in La
Stampa, 29 marzo 2005, p. 15, che riporta l’informazione (a dire il vero,
assai poco credibile) secondo cui l’erede al trono d’Inghilterra e relativa
(seconda) consorte si sarebbero rifiutati di stipulare un accordo
prematrimoniale in occasione della celebrazione delle loro tanto attese nozze.
[13] Ma non solo: a puro titolo d’esempio, e salvo quanto
verrà chiarito nel § seguente sulle esperienze europee, si pensi alla proposta
di creazione di un matrimonio temporal
(o matrimonio con caducidad) nel
distretto di Città del Messico, secondo cui il matrimonio potrebbe essere
celebrato con durata predeterminata, con contorno di patti prematrimoniali
diretti a disciplinare non solo la vita in comune, ma anche le modalità e le
condizioni di scioglimento del vincolo: cfr. Manzo,
Messico, troppi divorzi. Ecco i matrimoni
a tempo, in La Stampa, 1 ottobre 2011, p. 17.
[14] Clancy, A Treatise of the Rights, Duties, and
Liabilities of Husband and Wife, at Law and in
Equity, First American, from the Third London Edition, New York, 1828, p. 421
ss.
[15] Cfr. ad esempio Davidson, Pre-nuptial agreements, in Recent Developments in English Family Law, Updated August 2004, già disponibile al
sito web seguente: http://www.cr-law.co.uk.
[16] Cfr. i cases di cui riferisce Davidson, op. loc. ultt. citt.; v. inoltre Leech,
“With All My Worldly Goods I Thee Endow”? The
Status of Pre-Nuptial Agreements in England and Wales, in Fam. L.Q., 34, 2000, p. 193 ss. Sul tema v. anche Panforti, Gli accordi
patrimoniali fra autonomia dispositiva e disuguaglianza sostanziale.
Riflessioni sul Family Law Amendment Act 2000 Australiano, in Familia,
2002, p. 156. Una riprova di quanto detto nel testo sta nel fatto che anche
oltre Manica abbondano (come negli Stati Uniti) formulari offerti online per la stipula di prenuptial o premarital agreements (cfr., a mero titolo d’esempio, i siti
seguenti: http://www.divorce-lawfirm.co.uk/Family-Law-Advice/prenuptial-agreement.aspx;
http://www.clickdocs.co.uk/prenuptial-agreement.htm;
http://www.divorce-online.co.uk/services/financial_agreement/prenuptial_agreement.asp).
[17] Hyman v Hyman
(1929) AC 601, su cui cfr. Lowe, Prenuptial agreements: the English position,
in InDret,vol.1, 2008, p. 5 s.
[18] Miller v Miller
(2006) UKHL 26.
[19] Ella v Ella
(2007) EWCA Civ 99, (2007) 2 FLR 35.
[21] Esprime con chiarezza la generale dissatisfaction per la situazione
precedente al revirement di cui verrà
dato immediatamente conto Cooke, Marital Property Agreements and the Work of
the Law Commission for England and Wales, in Aa. Vv., The Future of Family Property in Europe,
Cambridge, Antwerp, Portland, 2011, p. 103 ss. Il contributo in questione, che
non è aggiornato al caso Radmacher v
Granatino, riferisce degli sforzi della Law
Commission per individuare una serie di linee direttive che consentano di
attribuire enforceability ai prenuptial agreements, non senza
rimarcare (cfr. p. 108) come una delle principali difficoltà risieda proprio
nella mancanza, nel Regno Unito, di una figura analoga a quella del notaio
«latino».
[22] Cfr. Radmacher v Granatino, [2009] EWCA Civ 649, disponibile anche alla seguente pagina web: http://www.familylawweek.co.uk/site.aspx?i=ed36874. Sulla decisione in questione cfr. poi anche Oberto, La comunione legale tra coniugi, I, cit., p. 174 s., 204 s., 214, nota 709.
[23] In motivazione è dato
leggere, tra l’altro, che non tenere conto del fatto che la moglie era tedesca
e che il pre-nuptial agreement era stato stipulato in Germania, con
l’assistenza di un legale tedesco e che colà – così come in Francia – l’intesa
sarebbe stata ritenuta valida, «would be both unfair and unjust», atteso che
tali «foreign elements» andavano considerati «relevant», in quanto costituenti
«essential features». E più oltre si legge che «The parties entered into their
agreement with the help and advice of a German lawyer, under German law, making
an agreement which was familiar to the civil law under which both
parties and their families had grown up in Germany and France». La decisione,
dovuta alla penna di uno dei massimi esperti inglesi di diritto di famiglia (Lord
Justice Mathew Thorpe) ha avuto una vastissima eco anche nella stampa
d’opinione: cfr. ad es. Malingre, Les
riches britannique divorceront plus tranquillement, in Le Monde, 5-6
juillet 2009, p. 7.
[24] Cfr. Radmacher
v Granatino, cit., n. 53.
[25] Cfr. Radmacher
(formerly Granatino) v Granatino (Rev 4) [2010] UKSC 42 (20 October
2010), disponibile in http://www.bailii.org/cgi-bin/markup.cgi?doc=/uk/cases/UKSC/2010/42.html&query=title+(+radmacher+)&method=boolean.
[26] Dalla motivazione emerge inoltre (cfr. punto n. 97)
quanto segue: «The agreement stated
(in recital 2) that (a) the husband was a French citizen and, according to his
own statement, did not have a good command of German, although he did,
according to his own statement and in the opinion of the officiating notary (Dr
Magis), have an adequate command of English; (b) the document was therefore
read out by the notary in German and then translated by him into English; (c)
the parties to the agreement declared that they wished to waive the use of an
interpreter or a second notary as well as a written translation; and (d) a draft
of the text of the agreement had been submitted to the parties two weeks before
the execution of the document».
[27]
Cfr. il punto n. 99 della motivazione
della decisione della Supreme Court: «Clause 5 provided for the mutual waiver
of claims for maintenance of any kind whatsoever following divorce:
“The waiver shall apply to the fullest extent permitted by law even
should one of us – whether or not for reasons attributable to fault on that
person’s part – be in serious difficulties.
The notary has given us detailed advice about the right to maintenance
between divorced spouses and the consequences of the reciprocal waiver agreed
above.
Each of us is aware that there may be significant adverse consequences
as a result of the above waiver.
Despite reference by the notary to the existing case law in respect of
the total or partial invalidity of broadly worded maintenance waivers in
certain cases, particularly insofar as such waivers have detrimental effects
for the raising of children and/or the public treasury, we ask that the waiver
be recorded in the above form (…)
Each of us declares that he
or she is able, based on his or her current standpoint, to provide for his or
her own maintenance on a permanent basis, but is however aware that changes may
occur.”». Per un commento alla decisione v. anche Todd e Mitchell,
Accordi prematrimoniali in Inghilterra e Galles: l’impatto della sentenza
sul caso Radmacher vs Granatino, in AIAF, 2011, p. 58 ss.
[28] Cfr. il
punto n. 75 della motivazione.
[29] Cfr. i punti
n. 81 e 82 della motivazione: «81. Of the three strands identified in White
v White and Miller v Miller, it is the first two, needs and
compensation, which can most readily render it unfair to hold the parties to an
ante-nuptial agreement. The parties are unlikely to have intended that their
ante-nuptial agreement should result, in the event of the marriage breaking up,
in one partner being left in a predicament of real need, while the other enjoys
a sufficiency or more, and such a result is likely to render it unfair to hold
the parties to their agreement. Equally if the devotion of one partner to
looking after the family and the home has left the other free to accumulate
wealth, it is likely to be unfair to hold the parties to an agreement that
entitles the latter to retain all that he or she has earned. 82. Where,
however, these considerations do not apply and each party is in a position to
meet his or her needs, fairness may well not require a departure from their agreement
as to the regulation of their financial affairs in the circumstances that have
come to pass».
[30] Su cui v. per tutti Panforti,
Gli accordi patrimoniali fra autonomia
dispositiva e disuguaglianza sostanziale. Riflessioni sul Family Law
Amendment Act 2000 Australiano, cit.,
p. 149 ss., 153 ss.
[31] Cfr. la relazione sul Bills Digest No. 88 1999-2000, Family Law Amendment Bill 1999, preparato nel 1999 dal Department of the Parliamentary Library del Parliament of Australia, consultabile all’indirizzo web seguente:
http://www.aph.gov.au/library/pubs/bd/1999-2000/2000bd088.htm#Passage.
[32]
Significativi al riguardo i dati emergenti dall’analisi storica condotta da Roßdeutscher, Privatautonomie im Scheidungsrecht, Frankfurt am Main, 1995, in
partic. p. 20 ss., 63 ss. Con ogni probabilità il tradizionale favore da sempre
mostrato in Germania per tale tipo di accordi trova le sue origini, da un lato,
nella concezione protestante del matrimonio e nell’introduzione del divorzio da
epoca assai più remota che non da noi e, dall’altro, nell’influsso del diritto
romano, nel quale, come si è dimostrato (cfr. Oberto,
I contratti della crisi coniugale, I,
cit., p. 66 ss.; Id., I precedenti
storici del principio di libertà contrattuale nelle convenzioni matrimoniali,
cit., p. 535 ss.), i patti dotali in vista del divorzio erano ampiamente
conosciuti e praticati (per i richiami alla giurisprudenza tedesca che nel XIX
secolo proprio sulle fonti romane fondava le decisioni in materia v. Roßdeutscher, Privatautonomie im Scheidungsrecht, cit., p. 3 ss.). In un simile contesto non desta stupore che lo
stesso Hegel (cfr. Hegel, Grundlinien der Philosophie des Rechts,
Leipzig, 1930, p. 147), definisse lo scopo degli Ehepakten come proprio quello «gegen den Fall der Trennung der Ehe
durch natürlichen Tod, Scheidung u. dergl. gerichtet und Sicherungsversuche zu
sein, wodurch den unterschiedenen Gliedern auf solchen Fall ihr Anteil an dem
Gemeinsamen erhalten wird».
[33] Peraltro con
le precisazioni che si rendono necessarie dopo due sentenze pronunziate non
molti anni or sono e di cui verrà dato conto oltre: cfr. infra, § 4.
[34] Per un’ampia
trattazione al riguardo cfr. Wönne,
Vereinbarungen zum Ehegattenunterhalt,
in Aa. Vv., Das
Unterhaltsrecht in der familienrechtlichen Praxis, a cura di Dose, München,
2011, p. 1184 ss.
[35] Sul punto non
si può che rinviare all’analisi offerta in Oberto,
I contratti della crisi coniugale, I,
cit., p. 529 ss.; Id., «Prenuptial
agreements in contemplation of divorce» e disponibilità in via preventiva dei
diritti connessi alla crisi coniugale, cit., p. 189 ss.
[36] Cfr. inoltre l’art. 3 della legge aragonese n. 2/2003, del 12 febbraio 2003 (de Régimen Económico Matrimonial y Viudedad), la quale stabilisce che «Los cónyuges pueden regular sus relaciones familiares en capitulaciones matrimoniales, tanto antes como después de contraer el matrimonio, así como celebrar entre sí todo tipo de contratos, sin más límites que los del principio “standum est chartae”», con una previsione comunemente interpretata come ammissiva degli accordi in vista del divorzio Cfr. Martín Casals e Ribot, Neue Entwicklungen im Bereich des Familienrechts in Spanien, in FamRZ, 2004, p. 1436. Sul tema v. anche Ferrer i Riba, Familienrechtliche Verträge in den spanischen Rechtsordnungen, in Aa. Vv., From Status to Contract? – Die Bedeutung des Vertrages im europäischen Familienrecht, a cura di Hofer, Schwab e Henrich, Bielefeld, 2005, p. 271 ss. Significativo è il fatto che la legislazione catalana è l’unica in Europa che, analogamente a quanto accade, secondo quanto già segnalato, in Australia, espressamente ammette la validità di intese preventive anche nel contesto degli accordi tra conviventi (sul tema cfr. Oberto, I contratti di convivenza tra autonomia privata e modelli legislativi, in Contratto e impresa/Europa, 2004, p. 70).
[37] Cfr. BG 4 dicembre 2003, in BGE 5C.114/2003 (E. 3.2.2.), citata da Hausheer, Vertragsfreiheit im Familienrecht in der Schweiz, in Aa. Vv., From Status to Contract? – Die Bedeutung des Vertrages im europäischen Familienrecht, a cura di Hofer, Schwab e Henrich, cit., p. 83. La pronunzia è disponibile al sito web seguente:
[38] «Die Ehegatten können
über die Unterhaltspflicht für die Zeit nach der Scheidung der Ehe
Vereinbarungen treffen. Ist eine Vereinbarung dieser Art vor Rechtskraft des
Scheidungsurteils getroffen worden, so ist sie nicht schon deshalb nichtig,
weil sie die Scheidung erleichtert oder ermöglicht hat; sie ist jedoch nichtig,
wenn die Ehegatten im Zusammenhang mit der Vereinbarung einen nicht oder nicht
mehr bestehenden Scheidungsgrund geltend gemacht hatten oder wenn sich
anderweitig aus dem Inhalt der Vereinbarung oder aus sonstigen Umständen des
Falles ergibt, dass sie den guten Sitten wiederspricht».
[39] Cfr. Susanne Ferrari, Die Bedeutung
der Privatautonomie im österreichischen Familienrecht, in Aa. Vv., From Status to Contract? – Die Bedeutung des Vertrages im
europäischen Familienrecht, a cura di Hofer, Schwab e Henrich, cit., p. 97
ss., 109.
[40] Sull’argomento cfr. per tutti Oberto, I contratti
della crisi coniugale, I, cit., p. 545 ss.
[41] Espressamente in questo senso v. App. Colmar, 16 maggio 1990, cit., secondo
cui «Ne porte pas atteinte au principe de l’immutabilité des conventions
matrimoniales la clause par laquelle, dans le cadre d’un régime de communauté
universelle, chaque époux reprendrait, en cas de dissolution de la communauté
par divorce, les biens tombés dans la communauté de son chef». Per una valutazione positiva al riguardo cfr. Cornu, Les régimes matrimoniaux, Paris, 1995, p. 206, 694 s. Anche la
stampa di informazione sembra avvertire la chiara correlazione tra la
possibilità di stipulare le clausole di cui si dirà tra breve nel proprio contrat de mariage e prevenirsi contro
le conseguenze negative di un possibile divorzio: cfr. Guinot, Prévoir son divorce pour réussir son mariage, in Le
Figaro, 30 avril 2007, disponibile al sito web seguente: http://www.lefigaro.fr/pratique-patrimoine/20070430.WWW000000414_prevoir_son_divorce_pour_reussir_son_mariage.html.
[42] Per un approfondimento del tema delle clausole
accessorie al regime di comunione in vista dello scioglimento del matrimonio
nel diritto consuetudinario francese (préciput, forfait de communauté, reprise de l’apport de la femme) si
fa rinvio a Oberto, I contratti
della crisi coniugale, I, cit., p. 87 ss.; Id.,
Gli accordi sulle conseguenze patrimoniali della crisi coniugale e dello
scioglimento del matrimonio nella prospettiva storica, cit., c. 1314 ss.; Id. La
comunione legale tra coniugi, I, cit., p. 52 ss. L’argomento è anche
ripreso da Ruggiero, op. cit., p. 223 ss.
[43] La clausola, impropriamente definita clause commerciale, costituisce
eccezione al divieto dei patti successori: cfr. artt. 1390 s. Code Civil (cfr. Terré e
Simler, Droit civil, Les régimes
matrimoniaux, Paris, 1994, p. 534 ss.).
[44] Si tratta della clausola conosciuta in Francia come
di prélèvement moyennant indemnité
(art. 1497 Code Civil), su cui v. Terré e Simler,
op. cit., p. 542 ss.
[45] Si tratta della clausola detta di préciput (art. 1497 Code Civil) su cui cfr. Terré
e Simler, op. cit., p. 546 ss., i quali osservano
che essa «rompt l’égalité dans le partage». Il termine préciput può essere tradotto come «prelievo», anche se la dottrina
sotto il c.c. 1865 si esprimeva in termini di «precapienza» (cfr. Finocchiaro-Sartorio, La comunione dei beni tra coniugi nella
storia del diritto italiano, Milano-Palermo-Napoli, 1902, p. 238).
[46] Si tratta delle clausole
dette di stipulation de parts inégales
e di attribution de la totalité de la
communauté au survivant (cfr. art. 1497 Code
Civil) su cui v. Terré e Simler, op. cit., p. 549 ss.
[47] La clausola, detta di forfait de communauté, ammessa espressamente dal Code prima della riforma del 1965 (sulla
scorta, come si è detto, della tradizione del droit coutumier), è ritenuta valida ancora oggi: cfr. Terré e Simler,
op. cit., p. 541; Cornu, op. cit., p. 715.
[48] Come già posto in evidenza nel dettaglio in relazione
al caso tedesco: cfr. Oberto, I contratti della crisi coniugale, I,
cit., p. 529 ss.; Id., «Prenuptial
agreements in contemplation of divorce» e disponibilità in via preventiva dei
diritti connessi alla crisi coniugale, cit., p. 189 ss.
[49] Potrà citarsi in proposito l’opinione di uno dei
primi commentatori del Code Napoléon,
il quale affermava l’immoralità della clausola con cui il coniuge, nel
contratto di matrimonio, avesse rinunziato al diritto di revocare, in caso di
divorzio, le donazioni effettuate all’altro, invocando al riguardo (peraltro a
torto: cfr. Oberto, Gli accordi sulle conseguenze patrimoniali
della crisi coniugale e dello scioglimento del matrimonio nella prospettiva
storica, loc. cit.) l’autorità delle fonti romane: «Serait-il permis aux
époux qui font au profit l’un de l’autre
des donations par contrat de mariage, de renoncer à la révocation de ces
libéralités, dans le cas du divorce? Le mariage est destiné à être perpétuel dans sa
durée ; la prévoyance du divorce, consignée dans le traité nuptial même, serait
une chose indécente. Promettre d’avance l’impunité à l’époux qui se rendrait
coupable par la suite ; lui assurer une partie de la fortune de l’autre, pour
prix de ses infidélités ; abolir la peine prononcée par la loi, pour encourager
aux délits qu’elle réprouve, ce serait essentiellement blesser la morale : une
pareille clause serait donc absolument nulle (1133, 1172). Chez les Romains,
cette clause était reprouvée comme immorale, quoiqu’ils permissent de faire des
donations pour cause de divorce même, dans l’acte de séparation des époux : quae tamen sub ipso divortii tempore, non
quae ex cogitatione quandoque futuri divortii fiant (L. 12, ff. de donation. inter vir. et uxor., lib.
24, tit. I)» (cfr. Proudhon, Cours du droit français, I, Paris, 1810,
p. 324).
[50] Permane, è vero, ancora la separazione con addebito,
il cui rilievo sta però scemando, anche nella pratica.
[51] Oberto, I
contratti della crisi coniugale, I, Milano, 1999, p. 558 ss.; per analoghe
considerazioni v. anche Sesta, Titolarità
e prova della proprietà nel regime di separazione dei beni, in Familia, 2001, p. 871 ss.; cfr. inoltre Oberto, Il regime di separazione dei
beni tra coniugi, Artt. 215-219, in Comm. Schlesinger, Milano, 2005, p. 9 ss.
[52] «Il secondo fattore è l’aumento del numero delle
separazioni legali e dei divorzi, che ha fatto nascere, in un numero crescente
di coppie, il timore che anche il loro matrimonio possa finire nell’aula di un
tribunale. Così, è la paura di dover cedere metà del patrimonio familiare ad
un coniuge con cui ci si è accorti in ritardo di non riuscire a vivere che
spinge molti sposi a preferire il regime della separazione dei beni e molti dei
loro genitori a consigliarli in questo senso (...). E’ significativo, da questo
punto di vista, che gli strati della popolazione che sono alla testa del
mutamento del regime patrimoniale sono anche quelli che corrono più rischi di
rompere il matrimonio con un divorzio: i più secolarizzati, i più ricchi e i
più istruiti delle regioni settentrionali» (cfr. Barbagli, Sotto lo
stesso tetto: mutamenti della famiglia in Italia dal XV al XX secolo, Bologna, 1988, p. 105 s.). Le considerazioni di cui sopra sono pienamente confermate
dai dati ISTAT relativi all’anno 2003, su cui v. la nota seguente.
[53] Si noti in proposito che le rilevazioni ISTAT
concernenti l’anno 2003 dimostrano in modo irrefutabile l’avvenuto «sorpasso»,
a livello nazionale, dell’opzione per il regime di separazione rispetto alla
comunione, posto che per i matrimoni celebrati in quell’anno, il regime di
comunione è stato scelto solo dal 44,7% delle unioni (con punte minime del
24,9% in Valle d’Aosta e del 29,4% in Piemonte): cfr. Istat, Matrimoni,
separazioni e divorzi 2003, Roma,
2006, p. 9, 50, 86 (tavole 1.1, 2.10, 2.11, 2.20). Per i dati più recenti cfr. Oberto,
La comunione dei beni tra coniugi, I, cit., p. 372 ss.
[54] Cfr. anche artt. 16-19 della proposta sul Regolamento
in materia di regimi matrimoniali (Proposal
for a Council Regulation on jurisdiction, applicable law and the recognition
and enforcement of decisions in matters of matrimonial property regimes).
[55] Cfr. il Regolamento (UE) n. 1259/2010 del Consiglio
del 20 dicembre 2010, relativo all’attuazione di una cooperazione rafforzata
nel settore della legge applicabile al divorzio e alla separazione personale,
disponibile online al sito web seguente: http://eur-lex.europa.eu/LexUriServ/LexUriServ.do?uri=OJ:L:2010:343:0010:0016:IT:PDF.
[56] Cfr. art. 5, para. 2, Regolamento n. 1259/2010 cit.
Analogamente v. anche l’art. 4 della proposta sul Regolamento in materia di
regimi matrimoniali (Proposal for a
Council Regulation on jurisdiction, applicable law and the recognition and
enforcement of decisions in matters of matrimonial property regimes),
secondo cui «The courts of a Member State called upon to rule on an application
for divorce, judicial separation or marriage annulment under Regulation (EC) No
2201/2003, shall also have jurisdiction, where the spouses so agree, to rule on
matters of the matrimonial property regime arising in connection with the
application. Such an agreement may be concluded at any time, even during the
proceedings. If it is concluded before the proceedings, it must be drawn up in
writing and dated and signed by both parties. Failing agreement between the
spouses, jurisdiction is governed by Articles 5 et seq.»
[57] In questo senso cfr. anche Rimini, Arrivano i
patti prematrimoniali, in La Stampa,
23 novembre 2006, p. 25.
[58] Di «porta aperta agli accordi prematrimoniali»
parlano Velletti e Calò, La disciplina europea del divorzio, in Corr. giur., 2011, p. 733.
[59] Sul punto v. per tutti Oberto, Gli obblighi
di mantenimento e il recupero dei crediti alimentari in diritto comunitario: la
nozione comunitaria di «alimenti» e i principi in tema di competenza
giurisdizionale, in http://giacomooberto.com/milano2009/relazione.htm,
§ 2 e § 3.
[60] «Articolo 48
Applicazione del presente
regolamento alle transazioni giudiziarie e agli atti pubblici
1. Le transazioni
giudiziarie e gli atti pubblici esecutivi nello Stato membro d’origine sono
riconosciuti in un altro Stato membro e hanno la stessa esecutività delle decisioni
ai sensi del capo IV.
2. Le disposizioni del
presente regolamento sono applicabili, se del caso, alle transazioni
giudiziarie e agli atti pubblici.
3. L’autorità competente
dello Stato membro d’origine rilascia, su istanza di qualsiasi parte interessata,
un estratto della transazione giudiziaria o dell’atto pubblico utilizzando, a
seconda dei casi, il modulo di cui agli allegati I e II ovvero agli allegati
III e IV».
[61] «3) “atto pubblico”:
a) qualsiasi documento in materia di obbligazioni alimentari che sia stato formalmente redatto o registrato come atto pubblico nello Stato membro d’origine e la cui autenticità:
i) riguardi la firma e il contenuto dell’atto pubblico; e
ii) sia stata attestata da un’autorità pubblica o da altra autorità a tal fine autorizzata; o
b) qualsiasi convenzione in materia di obbligazioni
alimentari conclusa con le autorità amministrative dello Stato membro d’origine
o da queste autenticata».
[62] Cass., 3 maggio 1984, n. 2682, in Riv. dir. int. priv., 1985, p. 579; in Dir. fam. pers., 1984, p. 521:
«L’accordo, rivolto a regolamentare, in previsione di futuro divorzio, i
rapporti patrimoniali fra coniugi, che sia stato stipulato fra cittadini
stranieri (nella specie, statunitensi) sposati all’estero e residenti in
Italia, e che risulti valido secondo la legge nazionale dei medesimi
(applicabile ai sensi degli artt. 19 e 20 delle disposizioni sulla legge in
generale), è operante in Italia, senza necessità di omologazione o recepimento
delle sue clausole in un provvedimento giurisdizionale, tenuto conto che
l’ordine pubblico, posto dall’art. 31 delle citate disposizioni come limite
all’efficacia delle convenzioni fra stranieri, riguarda l’ordine pubblico
cosiddetto internazionale, e che in tale nozione non può essere incluso il principio
dell’ordinamento italiano, circa l’invalidità di un accordo di tipo preventivo
fra i coniugi sui rapporti patrimoniali successivi al divorzio, il quale
attiene all’ordine pubblico interno e trova conseguente applicazione solo per
il matrimonio celebrato secondo l’ordinamento italiano e fra cittadini
italiani».
[63] Per una analisi cfr. Oberto,
I contratti della crisi coniugale, I, cit., p. 562 ss.
[64] Cass., 11 giugno 1981, n. 3777, in Foro it., 1981, I, c. 184; in Giur it.,
1981, I, 1, c. 1553 con nota di Trabucchi;
in Dir. fam. pers., 1981, p.
1025; in Giust. civ., 1982, I, p.
724.
[65] Allo stesso anno del leading case testé riportato risale Cass., 5 dicembre 1981, n. 6461, secondo cui «l’accordo stipulato fra i coniugi anteriormente alla instaurazione del giudizio di divorzio (nella specie in sede di separazione consensuale) per l’assegnazione del godimento della casa di abitazione ad uno di essi, non è vincolante per il giudice che pronuncia lo scioglimento del matrimonio».
[66] Cass., 20 maggio 1985, n. 3080, in Giur. it., 1985, I, 1, c. 1456, con nota
di Di Loreto; in Dir.
fam.pers., 1985, p. 876; in Foro it.,
1986, I, p. 747, con nota di Quadri; in Giust.
civ., 1986, I, p. 188.
[67] Così infatti App. Genova, 10 novembre 1987, in C.E.D.
– Corte di cassazione, Arch. MERITO, pd. 880049; Uda, Sull’indisponibilità
del diritto all’assegno di divorzio, in Fam.
dir., 1995, p. 19 s.
[68] Cass., 25 maggio 1983, n. 3597; sul fatto che il
giudice del divorzio non è vincolato, in tema di assegno, da quanto stabilito
nel giudizio di separazione, poiché l’assegno di divorzio ha contenuti,
presupposti e modalità diverse, v. inoltre Cass., 21 maggio 1983, n. 3520, in Foro it., 1984, I, c. 229; Cass., 12
gennaio 1984, n. 246, in Dir. fam. pers.,
1984, p. 477; Cass., 28 ottobre 1986, n. 6312, in Dir. fam.pers., 1987, p. 135; in Foro it., 1987, I, c. 467, con nota di Quadri; in Giur. it., 1987, I, 1, c. 1406.
[69] Trib. Messina, 15 giugno 1985, in C.E.D. – Corte di cassazione, Arch.
MERITO, pd. 850440.
[70] Cass., 11 dicembre 1990, n. 11788, in Arch. civ., 1991, p. 417; in Giur. it., 1991, I, 1, c. 156; in Giur. it., 1992, I, 1, c. 156, con nota
di Cecconi.
[71] Cass., 2 luglio 1990, n. 6773.
[72] Cass., 1 marzo 1991, n. 2180.
[73] Ovvero della corresponsione di emolumenti ulteriori
rispetto a quelli giustificati da bisogni alimentari: Cass., 20 settembre 1991,
n. 9840, in Giur. it., 1992, I, 1, c.
1078, con nota di Carosone; in Dir.
fam.pers, 1992, p. 562.
[74] Cass., 6 dicembre 1991, n. 13128, cit.
[75] Cass., 4 giugno 1992, n. 6857, in Corr. giur., 1992, p. 863, con nota di
V. Carbone; in Giur. it., 1993, I, 1, c. 340, con nota
di Dalmotto.
[76] Cfr. Cass., 11 agosto 1992, n. 9494, in Giur. it., 1993, I, 1, c. 1495, con nota
di De Mare; Cass., 28 ottobre
1994, n. 8912, in Fam. dir., 1995, p. 14 con nota di Uda; Cass., 7 settembre 1995, n. 9416,
in Dir. fam.pers., 1996, p. 931;
Cass., 20 dicembre 1995, n. 13017, in Giust.
civ., 1996, I, p. 1694; Cass., 20 febbraio 1996, n. 1315; Cass., 11 giugno
1997, n. 5244, in Giur. it., 1998,
218, con nota di Ermini; in Vita
not., 1997, p. 848; Cass., 20 marzo 1998, n. 2955, in Corr. giur., 1998, p. 513 (segnalazione di V. Carbone). Cfr. inoltre, per le pronunzie
più recenti, Cass., 18 febbraio 2000, n. 1810; Cass., 9 maggio 2000, n. 5866;
Cass., 12 febbraio 2003, n. 2076, in Fam.
dir., 2003, p. 344. V. anche Cass., 9 ottobre 2003, n. 15064, secondo cui
«Ogni patto stipulato in epoca antecedente al divorzio volto a predeterminare
il contenuto dei rapporti patrimoniali del divorzio stesso deve ritenersi
nullo; è consentito, invece, che le parti, in sede di divorzio, dichiarino
espressamente che, in virtù di una pregressa operazione (ad es. trasferimento
immobiliare) tra di esse, l’assegno di divorzio sia già stato corrisposto una tantum, con conseguente richiesta al
giudice di stabilire conformemente l’assegno medesimo, ma in assenza di tale
inequivoca richiesta è inibito al giudice di determinare l’assegno
riconoscendone l’avvenuta corresponsione in unica soluzione. Del tutto diversa
è l’ipotesi in cui le parti abbiano già regolato i propri rapporti patrimoniali
e nessuna delle due richieda un assegno (tale regolamento, infatti, non
necessariamente comporta la corresponsione di un assegno una tantum, potendo le parti avere regolato diversamente i propri
rapporti patrimoniali e riconosciuto, sulla base di ciò, la sussistenza di una
situazione di equilibrio tra le rispettive condizioni economiche con
conseguente non necessità della corresponsione di alcun assegno), nel qual caso
l’accordo è valido per l’attualità, ma non esclude che successivi mutamenti
della situazione patrimoniale di una delle due parti possa giustificare la
richiesta di corresponsione di un assegno a carico dell’altra. (Nella
fattispecie la S.C. ha confermato la sentenza di merito la quale, escluso che i
coniugi avessero dichiarato l’avvenuta corresponsione una tantum dell’assegno di divorzio in virtù di una precedente
operazione di trasferimento immobiliare, aveva proceduto alla determinazione
dell’assegno medesimo su richiesta di modifica delle condizioni di cui alla
sentenza di divorzio presentata da uno degli ex coniugi)». In quest’ultima
decisione si ammette, dunque, che è sufficiente un richiamo da parte dei
coniugi (purché effettuato chiaramente ed in sede di procedura di divorzio) ad
una pregressa attribuzione una tantum,
intesa come esaustiva delle pretese ex
divortio, perché si produca l’effetto preclusivo di successive domande ai
sensi dell’art. 9 l.div. Il che significa, in buona sostanza, ancora una volta
ammettere – di fatto e a dispetto delle declamazioni di principio più volte
illustrate – la disponibilità dell’assegno divorzile.
[77] Cass., 14 giugno 2000, n. 8109, in Fam. dir.
2000, p. 429; in Corr. giur., 2000, p. 1021, con nota di Balestra; in Riv.
notar., 2000, II, p. 1221, con nota di Zanni;
in Giust. civ., 2000, I, p. 2217, con
nota di Giacalone; in Giur. it., 2000, p. 2229, con nota di Barbiera; in Nuova giur. civ. comm., 2000, I, p. 704, con nota di Bargelli; in Foro it., 2001, I, c. 1318, con note di E. Russo e di G. Ceccherini;
in Giust. civ., 2001, I, p. 457, con
nota di Guarini; in Familia, 2001, p. 243, con nota di Ferrando.
[78] Così M. Finocchiaro,
Sull’assetto dei rapporti patrimoniali
tra coniugi. Una rivoluzione annunciata solo dalla stampa, Nota a Cass., 14
giugno 2000, n. 8109, in Guida al diritto,
2000, n. 24, p. 43; v. inoltre Ruggiero,
op. cit., p. 83.
[79] Cass., 1 dicembre 2000, n. 15349, in Giust. civ., 2001, I, p. 1592.
[80] Cfr. ad es. Trib. Varese, 29 marzo 2010, in Fam. dir., 2011, p. 295, con nota di Patania; in Fam. dir., 2011, p. 919, con nota di Torre, ove il furore iconoclasta verso gli accordi in vista
del divorzio si spinge a negare validità ad un accordo con il quale gli
sventurati contendenti avevano avuto l’ardire di premettere all’intesa un «cappello»
del seguente letterale tenore «è specifico intento delle parti addivenire ad
una composizione convenzionale della complessa vertenza, trasformando il
procedimento instaurato in divorzio congiunto, dirimendo ogni questione
economica, passata, presente e futura con la presente scrittura conciliativa».
Qui più che spontaneo sorge il dubbio sulla circostanza se il tribunale
varesotto si sia interrogato sulla conciliabilità di questa soluzione con il
tenore letterale dell’art. 4, sedicesimo comma, l. div., che presuppone,
proprio per la proponibilità della domanda congiunta, che le parti abbiano già raggiunto un accordo (proprio come
le stesse s’erano azzardate a fare sul presupposto di un chiaro intento di
presentare tale domanda) «che indichi
anche compiutamente le condizioni inerenti alla prole e ai rapporti economici».
Ciò che pare vieppiù assurdo (e che mostra ancora una volta, se pure ve ne
fosse bisogno, l’insostenibilità della conclusione cui perviene la citata
decisione) è che il medesimo accordo, per ammissione dello stesso tribunale,
avrebbe dovuto essere considerato valido se solo si fosse trattato di «patti
“puri”, svincolati cioè dal divorzio e dunque, senza alcun riferimento,
esplicito od implicito, al futuro assetto dei rapporti economici conseguenti
alla eventuale pronuncia di divorzio». In altri termini, la mancata menzione
della causa dell’intesa (causa «definitoria» in maniera «tombale» della crisi
coniugale) avrebbe dovuto essere accuratamente taciuta, ancorché in tali
ipotesi, essa, anche se non menzionata, come direbbero i francesi, crève les yeux!
[81] Così Vincenzi
Amato, I rapporti patrimoniali, in
Commentario sul divorzio a cura di
Rescigno, Milano, 1980, p. 340 ss., in partic. 344, nota 45; si noti che,
peraltro, l’Autrice riconosce, per altro verso, la sostanziale disponibilità
dell’assegno.
[82] Cfr. Cavallo, Sull’indisponibilità dell’assegno di
divorzio, Nota a Cass., 6 dicembre 1991, n. 13128, in Giust. civ., I, 1992, p. 1243.
[83] Cfr. Quadri, La nuova legge sul divorzio, I, Profili patrimoniali, Napoli, 1987, p.
73; nello stesso senso, più di recente, v. anche Angeloni, Autonomia
privata e potere di disposizione nei rapporti familiari, Padova, 1997, p.
427 ss.
[84] Così E. Russo,
Le convenzioni matrimoniali, Artt. 159-166-bis, in Comm. Schlesinger, Milano, 2004, p. 425.
[85] Non per nulla sottolinea il carattere di maggiore
«laicità» proprio della via contrattuale nella soluzione delle questioni
patrimoniali familiari Marella, La contrattualizzazione delle relazioni di
coppia. Appunti per una rilettura, cit., p. 116.
[86] Coppola,
Gli accordi in vista della pronunzia di
divorzio, cit., p. 644.
[87] La quale ha in altre occasioni riconosciuto la validità – per esempio – di un impegno con cui uno dei coniugi, in vista di una futura separazione consensuale (e dunque non nel contesto di quest’ultima), prometteva di trasferire all’altro la proprietà di un bene immobile «anche se tale sistemazione patrimoniale avviene al di fuori di qualsiasi controllo da parte del giudice... purché tale attribuzione non sia lesiva delle norme relative al mantenimento e agli alimenti» (Cass., 5 luglio 1984, n. 3940, in Dir. fam.pers., 1984, p. 922). Ancora, potrà citarsi il caso in cui si è ammessa la validità di una transazione preventiva, con la quale il marito si obbligava espressamente, in vista di una futura separazione consensuale, a far conseguire alla moglie la proprietà di un appartamento in costruzione, allo scopo di eliminare una situazione conflittuale tra le parti (Cass., 12 maggio 1994, n. 4647, in Fam. dir., 1994, p. 660, con nota di Cei; in Vita not., 1994, p. 1358; in Giust. civ., 1995, I, p. 202; in Dir. fam.pers, 1995, p. 105; in Nuova giur. civ. comm., 1995, I, p. 882, con nota di Buzzelli; in Riv. notar., 1995, II, p. 953). Irrilevanti appaiono le obiezioni sollevate in proposito (cfr. Quadri, Autonomia dei coniugi e intervento giudiziale nella disciplina della crisi familiare, cit., p. 12) evidenziando l’ovvia differenza tra separazione e divorzio, rappresentata dalla perdurante esistenza del vincolo matrimoniale nella prima ipotesi, che si caratterizzerebbe così per il suo carattere di situazione «aperta», rispetto alla seconda. E’ infatti pacifico che anche la separazione dà vita ad uno status familiare: pertanto, se le intese preventive sono da considerarsi nulle in quanto dirette a «fare mercimonio» di uno status indisponibile al di fuori del momento solennizzato dalla instaurazione della relativa procedura di fronte al giudice, non si riesce a comprendere per quale ragione le obiezioni sollevate contro tali accordi in contemplation of divorce non dovrebbero poi valere se riferite alla separazione. Per non dire poi della giurisprudenza di legittimità favorevole agli accordi preventivi in tema di conseguenze economiche della pronunzia di annullamento del matrimonio (Cass., 13 gennaio 1993, n. 348, in Corr. giur., 1993, p. 822 con nota di Lombardi; in Giur. it., 1993, 1, 1, c. 1670 con nota di Casola; in Nuova giur. civ. comm., 1993, I, p. 950, con note di Cubeddu e di Rimini; in Vita notar., 1994, p. 91, con nota di Curti; in Contratti, 1993, p. 140, con nota di Moretti).
[88] Per un caso di questo genere cfr. Cass., 21 luglio
1971, n. 2374; sull’irrinunziabilità del diritto a chiedere la separazione v.
anche Cass., 6 marzo 1969, n. 714; per osservazioni analoghe a quelle qui
svolte cfr. Comporti, Autonomia privata e convenzioni preventive
di separazione, di divorzio e di annullamento del matrimonio, cit., p. 110;
Frezza, Diritto del divorziato alla pensione di riversibilità e convenzioni
preventive di divorzio, Nota a Corte cost., 17 marzo 1995, n. 87, in Dir. fam.pers., 1996, p. 31; per la
necessità di distinguere tra accordi aventi ad oggetto il condizionamento del
comportamento delle parti in un giudizio sullo status, nulli per illiceità della causa, ed accordi diretti solo a
concordare in prevenzione l’assetto economico dei rapporti conseguenti al
divorzio, in cui il condizionamento del comportamento processuale rileva,
semmai, alla stregua di un semplice motivo, v. Gabrielli,
Indisponibilità preventiva degli
effetti patrimoniali del divorzio: in difesa dell’orientamento adottato dalla
giurisprudenza, cit., p. 700 s. (che pure si dichiara contrario alla
validità degli accordi preventivi, per violazione dell’art. 160 c.c.).
[89] V., già sotto il vigore del codice abrogato, Bianchi, Del contratto di matrimonio, Napoli, 1907, p. 102; cfr. inoltre
Cass., 21 luglio 1971, n. 2374; Comporti,
Autonomia privata e convenzioni
preventive di separazione, di divorzio e di annullamento del matrimonio,
cit., p. 110.
[90] Doria, Autonomia
privata e «causa» familiare. Gli accordi traslativi tra i coniugi in occasione
della separazione personale e del divorzio, Milano, 1996, p. 178, nota 230;
le conclusioni tratte al riguardo dall’Autore sono limitate alla materia degli
atti traslativi; esse peraltro ben possono essere estese, più in generale, ad
ogni tipo di contratto concluso in occasione – o anche solo in vista – della
crisi coniugale.
[91] Per analoghe considerazioni relative ai contratti di
convivenza si fa rinvio a Oberto, I regimi patrimoniali della famiglia di
fatto, Milano, 1991, p. 193 ss.
[92] Sui rapporti tra vinculum
iuris ed azionabilità in via processuale della relativa pretesa cfr. per
tutti Oberto, La promessa di matrimonio tra passato e presente, Padova, 1996, p.
37 s. e nota 5.
[93] Sacco, Il contratto, Torino, 1975, p. 497 s.,
il quale porta l’esempio della promessa di una somma di denaro da un soggetto
all’altro a condizione che quest’ultimo scriva un’opera letteraria.
[94] Jemolo, Il matrimonio, in Tratt. Vassalli,
Torino, 1950, p. 54, secondo cui la volontà di assumere uno status è «suscettibile di essere eretta
a condizione di altro negozio giuridico», anche se inidonea a «formare a sé
oggetto di negozio».
[95] Qui il pensiero corre subito alla clausola penale, e alla disposizione, riflettente un principio di carattere certamente più generale, racchiusa nell’art. 79 c.c. Ma la clausola penale, proprio perché strumento di garanzia per l’adempimento di un’obbligazione, presuppone appunto l’esistenza di un impegno giuridicamente vincolante a tenere quel certo comportamento (positivo o negativo). La sussistenza di tale impegno – ancorché non formalmente enunciato dai contraenti – potrebbe proprio essere dedotta dal carattere «eccessivo» (secondo una valutazione da farsi, ovviamente, caso per caso) della prestazione patrimoniale promessa sotto la condizione che quel determinato evento si verifichi (o meno).
[96] Oberto, I
regimi patrimoniali della famiglia di fatto, cit., p. 197 s.; Id., Partnerverträge
in rechtsvergleichender Sicht unter besonderer Berücksichtigung des
italienischen Rechts, in FamRZ, 1993, p. 7.
[97] Per es.: «ti prometto che ti darò cento se mi sarai
fedele, se tra dieci anni coabiterai ancora con me, se tra cinque anni mi avrai
dato un figlio».
[98] Oberto, La promessa di matrimonio tra passato e
presente, cit., p. 99; per un caso del genere cfr. in giurisprudenza App.
Catanzaro, 31 gennaio 1936, in Calabria
giud., 1936, p. 75.
[99] Siffatte clausole non sembrano in grado di suscitare
obiezioni, posto che con esse l’esecuzione della prestazione di carattere
personale (la prosecuzione della convivenza more
uxorio oltre un certo limite temporale, la celebrazione delle nozze, la
prosecuzione della convivenza matrimoniale, la prestazione del consenso per il
divorzio su domanda congiunta, ecc.) non viene «garantita» dalla presenza di
una forma di coazione giuridica o dalla assicurazione del pagamento di una
penale da parte del soggetto eventualmente inadempiente, ma viene piuttosto
incoraggiata mediante la promessa di un premio da parte di colui che ha
interesse a che il beneficiario tenga quel certo comportamento, secondo una
regola che non sembra sconosciuta neppure al diritto romano: «Titio centum
relicta sunt ita, ut Maeviam uxorem, quae viduam est, ducat: conditio non
remittetur; et ideo nec cautio remittenda est. Huic sententiae non refgragatur,
quod si quis pecuniam promittat, si Maeviam uxorem non ducat, Praetor actionem
denegat: aliud est enim eligendi matrimonii poenae metu libertatem auferri,
aliud ad matrimonium certa lege invitari» (D. 35, 1, 71, 1). La tesi qui
esposta, proposta anche all’attenzione della dottrina tedesca (cfr. Oberto, Partnerverträge in
rechtsvergleichender Sicht unter besonderer Berücksichtigung des italienischen
Rechts, cit., p. 7), sembra avere riscosso consenso presso quest’ultima
(cfr. Grziwotz, Partnerschaftsvertrag, für die nichteheliche Lebensgemeinschaft,
München, 1994, p. 31; per una valutazione di tale impostazione «in termini
problematici» in Italia, cfr. Franzoni,
I contratti tra conviventi more uxorio, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1994, p. 749 s.; in senso decisamente
adesivo v. Ruggiero, op. cit., p. 157 ss.).
[100] Cass., 19 gennaio 1985, n. 150, in Foro it., 1985, I, c. 701; in Riv.
notar., 1985, II, p. 483.
[101] Cass., 11 gennaio 1986, n. 102, in Foro it., 1986, I, c. 936; in Giust. civ., 1986, I, p. 1009, con nota
di G. Azzariti; in Riv.
notar., 1986, II, p. 945; in Giust.
civ., 1987, I, p. 188, con nota di Schermi;
in Giust. civ., 1987, I, 1, p. 1484, con nota di De Cupis; nello stesso senso in dottrina
Rescigno, voce Condizione
(diritto vigente), in Enc. dir., VIII, Milano, 1961, p. 793;
G. Azzariti, Le successioni e le donazioni, Padova, 1982, p. 527.
[102] Cass., 19 gennaio 1985, n. 150, cit.
[103] Cass., 21 febbraio 1992, n. 2122, in Foro it., 1992, I, c. 2120; in Giust. civ., 1992, I, c. 1753, con nota
di Di Mauro; in Dir.
fam. pers., 1992, p. 989; in Riv.
notar., 1992, II, p. 198, con nota di Serino;
riconducibile allo stesso rationale
appare la precedente Cass., 4 marzo 1966, n. 641, in Giur. it., 1967, I, 1, c. 836; in Foro it., 1966, I, c. 414; in Giust.
civ., 1966, I, p. 1354, con nota di Cassisa.
[104] Così anche Ruggiero,
op. cit., p. 199.
[105] Cfr. Oberto,
I contratti della crisi coniugale, I,
cit., p. 452 ss.
[106] Dalmotto
Indisponibilità sostanziale e
disponibilità processuale dell’assegno di divorzio, Nota a Cass., 4 giugno
1992, n. 6857, in Giur. it., 1993, I,
1, c. 345.
[107] Nel senso che, nel caso in esame, la norma di cui
all’art. 160 c.c. «non sembra bene invocata», cfr. anche Comporti, Autonomia privata e convenzioni preventive di separazione, di divorzio
e di annullamento del matrimonio, cit., p. 113; Frezza, op. cit.,
p. 32; per un’interpretazione restrittiva dell’art. 160 c.c. come limitato a
quei soli diritti fondamentali di cui gode il coniuge come persona cfr. G. Ceccherini, Separazione consensuale e contratti tra coniugi, in Giust. civ., 1996 II, p. 398; contrario
all’estensione analogica della disposizione in esame è anche Gabrielli, Indisponibilità preventiva degli effetti patrimoniali del divorzio: in
difesa dell’orientamento adottato dalla giurisprudenza, cit., p. 699 s.,
che pure afferma la nullità degli accordi preventivi di divorzio.
[108] Con riferimento al dovere di mantenimento ex
art. 145 c.c. 1942 (cfr. Rossi Carleo, Pronuncia di divorzio e domanda di assegno,
Nota a Trib. Roma, 23 settembre 1974, in Giur.
it., 1975, I, 2, c. 701).
[109] Cfr. Cass., 9 gennaio 1976, n. 40; Cass., 6 novembre
1976, n. 4034; per analoghe considerazioni cfr. anche Doria, Autonomia privata e «causa» familiare. Gli accordi
traslativi tra i coniugi in occasione della separazione personale e del
divorzio, cit., p. 73 ss.; 184 s.
[110] V. il resoconto della relativa seduta del Consiglio
di Stato in L. Jouanneau, C. Jouanneau e Solon, Discussions du
code civil dans le Conseil d’Etat, I, Paris, 1805, p. 357.
[111] Cfr. per esempio E. Bianchi,
Trattato dei rapporti patrimoniali dei
coniugi secondo il codice civile italiano, Pisa, 1888, p. 64 ss.
[112] E. Bianchi,
op. cit., p. 70; analoghe
considerazioni in Fr. Ferrara
Sen., Teoria del negozio illecito nel
diritto civile italiano, Milano, 1902, p. 112.
[113] Condivide la soluzione, già proposta dallo
scrivente (cfr. Oberto, Le convenzioni
matrimoniali: lineamenti della parte generale, in Fam. dir.,1995, p. 601 ss.), Angeloni,
Autonomia privata e potere di
disposizione nei rapporti familiari, cit., p. 277 ss.
[114] L’espressione «dilagare dell’art. 160 c.c.» è tratta
da Olivero, L’indisponibilità dei diritti: analisi di una categoria, Torino,
2008, p. 107 ss.; l’espressione «dogma dell’indisponibilità» è tratta da Bernardi Fabbrani, I patti prematrimoniali: la necessità dell’intervento del legislatore,
relazione al Convegno La famiglia nel
terzo millennio. Convivenze, patti prematrimonali, scioglimento consensuale del
matrimonio, Alghero, 6 maggio 2006, p. 3.
[115] In questo senso cfr. Cass., 11 agosto 1992, n. 9494,
in Giur. it., 1993, I, 1, c. 1495,
con nota di De Mare; Stassano, Il divorzio. Commento sistematico alla legge 6 marzo 1987, n. 74 con
massimario di giurisprudenza, Milano, 1994, p. 30; Uda, Sull’indisponibilità
del diritto all’assegno di divorzio, in Fam.
dir., 1995, p. 19; Bonilini, L’assegno post-matrimoniale, in Bonilini e Tommaseo, Lo
scioglimento del matrimonio, in Codice
civile - Commentario, diretto da P. Schlesinger, Milano, 1997, p. 518.
[116] Cfr. Oberto,
I contratti della crisi coniugale, I,
cit., p. 618 ss. L’argomento non sembra lasciare neppure indifferente Torre, Transazione in vista di divorzio, Nota a Trib. Varese, 29 marzo
2010, in Fam. dir., 2011, p. 924.
[117] Anche Sala,
La rilevanza del consenso dei coniugi
nella separazione consensuale e nella separazione di fatto, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1996, p.
1100, argomenta la validità di accordi preventivi dall’esistenza dell’istituto
del divorzio su domanda congiunta e dal fatto che l’intervenuto accordo debba
constare dal ricorso.
[118] Cfr. Quadri, La nuova legge sul divorzio, I, Profili patrimoniali, cit., p. 74 s.;
nel medesimo ordine d’idee v. anche Sala,
op. cit., p. 1100.
[119] Busnelli
e Giusti, Le sort des biens et la pension alimentaire dans le divorce sans faute,
in Aa. Vv., Rapports
nationaux italiens au XIVº Congrès International de Droit Comparé, Milano, 1994, p. 93 ss., spec. 95.
[120] Cfr. Oberto,
Il patto di famiglia, Padova, 2006,
p. 7.
[121] Così Quadri,
Autonomia dei coniugi e intervento
giudiziale nella disciplina della crisi familiare, cit., p. 9.
[122] Sul punto v. Marston, Planning for Love: The Politics of Prenuptial Agreements, in Stanford Law Review, vol. 49, 1997, p.
887 ss. Sul requisito dell’independent legal or financial advice v.
inoltre Panforti, Gli accordi patrimoniali fra autonomia
dispositiva e disuguaglianza sostanziale. Riflessioni sul Family Law
Amendment Act 2000 Australiano, loc.
ultt. citt.
[123] «§ 1585c Vereinbarungen über den Unterhalt. – Die
Ehegatten können über die Unterhaltspflicht für die Zeit nach der Scheidung
Vereinbarungen treffen. Eine Vereinbarung, die vor der Rechtskraft der
Scheidung getroffen wird, bedarf der notariellen Beurkundung. § 127a findet
auch auf eine Vereinbarung Anwendung, die in einem Verfahren in Ehesachen vor dem
Prozessgericht protokolliert wird». La regola formale, se non è applicabile
alle intese raggiunte dopo il passaggio in giudicato della sentenza sul
divorzio, né agli accordi eventualmente stipulati in altra forma prima del 1°
gennaio 2008, vale sicuramente per le vorsorgende
Vereinbarungen, cioè per i contratti prematrimoniali stipulati (dopo il 1°
gennaio 2008), così come per quelli conclusi durante il rapporto matrimoniale
in vista di un possibile divorzio, ancorché la relativa procedura non abbia
ancora avuto inizio (in questo senso v. ad es.
Wönne, Vereinbarungen zum
Ehegattenunterhalt, in Aa. Vv., Das
Unterhaltsrecht in der familienrechtlichen Praxis, a cura di Dose, cit., p.
1185 s.).
[124] Cfr. Wönne, Vereinbarungen zum Ehegattenunterhalt, in Aa. Vv., Das Unterhaltsrecht in der
familienrechtlichen Praxis, a cura di Dose, loc. ult. cit.; secondo tale
Autrice, poi, il requisito formale dell’atto notarile investe ogni forma di
pattuizione preventiva sull’assegno divorzile e non soltanto la possibile rinunzia:
«Beurkundungspflichtig ist die gesamte Ausgestaltung des Unterhaltsanspruchs,
damit alle Verpflichtungen unterhaltsrechtlicher Qualität wie die Vereinbarung
des begrenzten Realsplittings oder Modificationen wie die Einräumung eines
Nuztungsrechts an der gemeinsamen Immobilie».
[125] Cfr. Wönne, Vereinbarungen zum Ehegattenunterhalt, in Aa. Vv., Das Unterhaltsrecht in der
familienrechtlichen Praxis, a cura di Dose, loc. ult. cit.
[126] Così Quadri,
Autonomia dei coniugi e intervento
giudiziale nella disciplina della crisi familiare, cit., p. 14, sulla
scorta di Cass., 11 agosto 1992, n. 9494, in Giur. it., 1993, I, 1, c. 1495 e Cass., 11 giugno 1997, n. 5244.
[127] Ciò sembra voler adombrare Quadri, Autonomia dei
coniugi e intervento giudiziale nella disciplina della crisi familiare,
cit., p. 14, che parla di assoggettamento degli accordi ad un controllo
giudiziale effettuato «alla luce degli assetti economici familiari
concretamente esistenti in tale momento (scil.:
al momento del divorzio)». Esplicitamente per un controllo giudiziale del
merito delle intese di divorzio su domanda congiunta si pronunzia Coppola, Gli accordi in vista della pronunzia di divorzio, cit., p. 659 s.; Ead., Le rinunzie preventive all’assegno post-matrimoniale, cit., p. 55
ss.
[128] Cfr. Oberto,
Contratto e famiglia, cit., p. 233
ss.
[129] Cfr. Oberto,
I contratti della crisi coniugale, I,
cit., p. 372 ss.
[130] Almeno fin tanto che non verrà adottato anche da noi un regime analogo a quello descritto dall’art. 232 del Code Civil francese, che consente al giudice di negare l’omologazione dell’accordo di divorzio anche nel caso in cui esso non salvaguardi in maniera sufficiente gli interessi «di uno dei coniugi». E ciò a differenza di quanto disposto dalla norma italiana in tema di divorzio su domanda congiunta, che tale intervento non solo non prevede, ma esclude, come appare ricavabile dal raffronto con quanto stabilito con riguardo alle condizioni relative alla prole minorenne. Quanto mai significativo appare, in questo contesto, che la riforma dell’art. 4 l.div. di cui alla l. 80/2005 abbia riproposto telle quelle la disposizione in esame, contenuta nel c. 13, ora 16, dell’art. cit.
[131] Sul tema cfr. per tutti Ronchese, Regno Unito:
una nuova regola sulla divisione dei beni dopo il divorzio, in Familia, 2002, p. 843 ss.
[132] Sul tema v. per tutti Oberto,
Il regime di separazione dei beni tra
coniugi, cit., p. 183 ss.
[133] Cfr. ad
esempio Bargelli, L’autonomia
privata nella famiglia legittima: il caso degli accordi in occasione o in vista
del divorzio, cit., p. 326 ss.
[134] Cfr. BverfG, 6 febbraio 2001, in FamRZ, 2001, p. 343, con nota di Schwab; in MDR, 2001, p. 392, con
nota di Grziwotz; la decisione è
edita in italiano in Familia, 2002,
p. 201, con nota di Geurts; per un
commento cfr. anche Bargelli, Limiti dell’autonomia privata nella crisi
coniugale (a proposito di una recente pronuncia della Corte Costituzionale
tedesca), in Riv. dir. civ.,
2003, I, p. 57 ss.; BGH, 11 febbraio
2004, in FamRZ, 2004, p. 601, con
nota di Borth; in NJW, 2004, p. 930; per un commento a
questa seconda decisione v. Nardone,
Autonomia privata e controllo del giudice
sulla disciplina convenzionale delle conseguenze del divorzio (a proposito
della sentenza della Corte Suprema Federale tedesca dell’11 febbraio 2004),
in Familia, 2005, p. 134 ss.
[135] Sul tema v. per tutti Oberto,
I contratti della crisi coniugale, I,
cit., p. 531 ss.; Id., «Prenuptial
agreements in contemplation of divorce» e disponibilità in via preventiva dei
diritti connessi alla crisi coniugale, cit., p. 191 ss. e successivamente
anche Bargelli, L’autonomia
privata nella famiglia legittima: il caso degli accordi in occasione o in vista
del divorzio, cit., p. 329 s.
[136] Cfr. ad esempio Schwenzer, Vertragsfreiheit im Ehevermögens- und Scheidungsfolgenrecht, in AcP, 1996, p. 11 ss.; Hess, Nachehelicher Unterhalt zwischen Vertragsfreiheit und sozialrechtlichem Allegemeinvorbehalt, in FamRZ, 1996, p. 981 ss, spec. 986 ss. Posizioni, queste, cui fa eco nel diritto nordamericano la valutazione del contratto alla luce dei principi di unconscionability, fairness, reasonableness, frustration, ecc. su cui v. Oberto, I contratti della crisi coniugale, I, cit., p. 501 ss.; Id., «Prenuptial agreements in contemplation of divorce» e disponibilità in via preventiva dei diritti connessi alla crisi coniugale, cit., p. 184 ss. e, successivamente, anche Bargelli, L’autonomia privata nella famiglia legittima: il caso degli accordi in occasione o in vista del divorzio, cit., p. 329; Al Mureden, I prenuptial agreements negli Stati Uniti e nella prospettiva del diritto italiano, cit., p. 549 ss. Per un accostamento tra il rationale della decisione della Corte costituzionale tedesca ed i principi dell’unconscionability v. Marella, La contrattualizzazione delle relazioni di coppia. Appunti per una rilettura, cit., p. 103 ss.
[137] Cfr. Cfr. BverfG, 6 febbraio 2001, cit.
[138] Cfr. BGH, 11 febbraio 2004, cit. Per una dettagliata
casistica cfr. Wönne, Vereinbarungen
zum Ehegattenunterhalt, in Aa.
Vv., Das Unterhaltsrecht in der familienrechtlichen Praxis, a cura di
Dose, cit., p. 1188 ss.
[139] Cfr., rispettivamente, BGH FamRZ 2006, 1097; BGH FamRZ
2007, 450, 1157; BGH FamRZ 2006, 1359; BGH 18. März 2009 – XII ZB 94/06, tutte citate in OLG Celle, 27 maggio 2009, in http://www.scheidungsfix.de/entscheidung/oberlandesgericht-celle/15-uf-409/wirksamkeit-einer-zu-einem-globalen-unterhaltsverzich;
cfr. anche Wönne, Vereinbarungen zum Ehegattenunterhalt,
in Aa. Vv., Das
Unterhaltsrecht in der familienrechtlichen Praxis, a cura di Dose, cit., p.
1193 s.
[140] Cfr. OLG
München FamRZ 2006, 1449, citata in Wönne, Vereinbarungen zum Ehegattenunterhalt, in Aa. Vv., Das Unterhaltsrecht in der
familienrechtlichen Praxis, a cura di Dose, cit., p. 1193.
[141] Per i riferimenti cfr. Wönne, Vereinbarungen
zum Ehegattenunterhalt, in Aa.
Vv., Das Unterhaltsrecht in der familienrechtlichen Praxis, a cura di
Dose, cit., p. 1192 s.
[142] Cfr. Brod, Premarital Agreements and Gender Justice, in Yale Law Review, 1994, vol. 6, p. 229, 276 ss.; Marston, Planning for Love: The Politics of Prenuptial Agreements, cit., p. 887 ss., 899 ss. Sul concetto di unconscionability e sull’Uniform Premarital Agreement Act v. Oberto, I contratti della crisi coniugale, I, cit., p. 501 ss., 509 ss.; Id., «Prenuptial agreements in contemplation of divorce» e disponibilità in via preventiva dei diritti connessi alla crisi coniugale, cit., p. 184 ss. e ora anche Al Mureden, I prenuptial agreements negli Stati Uniti e nella prospettiva del diritto italiano, cit., p. 547 ss.; Maietta, op. loc. ultt. citt.
L’Uniform Premarital Agreement Act (UPAA) del 1983 è stato ad oggi adottato da 26 degli States. Il punto centrale di tale normativa (cfr. Maietta, op. loc. ultt. citt.) è costituito dal concetto di unconscionability. Il termine unconscionability ed il relativo aggettivo unconscionable corrispondono in buona sostanza al concetto di iniquità, che nel sistema dell’UPAA, costituisce il principale limite all’efficacia degli accordi prematrimoniali. Secondo l’UPAA un prenuptial agreement non è eseguibile quando determini una situazione di iniquità, da valutarsi sia con riferimento al momento della stipulazione dell’accordo che a quello della sua esecuzione. Se la funzione del prenuptial agreement consiste nel consentire alla coppia che intende sposarsi di derogare al regime legale degli effetti soprattutto patrimoniali che scaturiscono dal matrimonio o dall’ipotetica crisi coniugale, tale deroga non può spingersi fino al punto da determinare soluzioni inique, in considerazione soprattutto delle esigenze di tutela del coniuge debole. La specificazione del concetto di unconscionability, è contenuta nelle disposizioni dell’UPAA, nonché nelle sentenze riguardanti la numerosa casistica giurisprudenziale. In base alla Section 6 dell’UPAA, una delle parti può astenersi dall’adempiere l’accordo se dimostra, alternativamente, di non aver fino a quel momento dato esecuzione allo stesso, o che lo stesso risulta iniquo al momento dell’esecuzione. Peraltro, secondo un’opinione diffusa in dottrina, il giudice dovrebbe limitarsi a dichiarare l’unconscionability solo in casi di palese iniquità, perché altrimenti si darebbe corso ad una concezione paternalistica del diritto, che è da ritenersi superata (cfr. Al Mureden, I prenuptial agreements negli Stati Uniti e nella prospettiva del diritto italiano, cit., p. 553). L’UPAA pone inoltre a carico delle parti di un prenuptial agreement un obbligo di «fair e reasonable disclosure», cioè una dichiarazione fedele circa i beni materiali e finanziari di proprietà, che se disatteso, può determinare nella parte sfavorita, il diritto di chiedere che l’accordo venga dichiarato «unenforceable», previa dimostrazione dell’altrui omissione. Il quadro sin qui delineato del contenuto dell’UPAA vale in generale, ma è necessario puntualizzare che la disciplina dei singoli Stati che l’hanno adottato non è affatto uniforme, variando sensibilmente da Stato a Stato il livello di iniquità capace di invalidare un premarital agreement nonché lo standard di financial disclosure richiesto. Così, ad esempio, in Texas non è affatto richiesta come requisito di validità di un prenuptial agreement una previa financial disclosure, che tuttavia rappresenta una condizione richiesta nella quasi totalità degli Stati che hanno adottato l’UPAA. Quest’ultimo espressamente prevede la facoltà per le parti di rinunciare alla disclosure e ammette che anche in assenza di disclosure, fair e reasonable, l’accordo possa essere efficace, qualora l’altra parte conoscesse, al momento della conclusione dell’accordo, la reale situazione di quella autrice di dichiarazione non veritiera, o avesse una ragionevole possibilità di conoscerla. In alcuni Stati poi l’unconscionability di un prenuptial agreement è determinata dalla disparità di potere di negoziazione che abbia spinto la parte con minore potere a concludere l’accordo contro la propria volontà o senza la conoscenza esatta dei suoi termini. Un ulteriore motivo di unconscionability, secondo l’UPAA si verifica quando l’accordo prenuziale prevede l’esclusione dell’obbligo di mantenimento e delle prestazioni alimentari ed una delle parti si ritrovi poi in stato di bisogno o di insufficienza di mezzi. Tale disposizione è esplicitamente rivolta ad evitare che la parte debole del rapporto ricorra all’assistenza statale, quando possa concretamente ricevere sostegno dal coniuge. In ipotesi del genere l’UPAA prevede che il giudice possa imporre, nonostante i termini dell’accordo, ad un coniuge di provvedere al sostentamento dell’altro. Va poi aggiunto che, per avere un quadro più preciso della funzione concretamente svolta dai prenuptial agreements negli Stati Uniti bisogna operare una distinzione, in base ai due diversi regimi patrimoniali previsti nei vari Stati: alcuni si basano sul regime della community of property, mentre altri seguono il modello della equitable distribution, in base al quale non vi sono beni da attribuire in comunione e al momento dello scioglimento del matrimonio il giudice può assegnare i beni in base ad un criterio di equità indipendentemente dall’intestazione formale degli stessi (sul punto si fa rinvio a Oberto, La comunione legale tra coniugi, I, cit., p. 181 ss.). A seconda che si considerino nel contesto dei common property states o degli equitable distribution states, i prenuptial agreements assumono ruoli diversi che consistono, nel primo caso, nel consentire ai nubendi di svincolarsi dal regime legale predefinito, nel secondo di sottrarsi alla discrezionalità del giudice. Questa distinzione è valida in generale, ma bisogna tenere conto del fatto che in alcuni Stati che adottano l’equitable distribution, non tutti i beni dei coniugi sono ad essa soggetti: la cosiddetta separate property, che comprende i beni personali, è infatti sottratta ad essa, mentre a ricadervi è la cosiddetta marital property. A questi requisiti di carattere sostanziale, cui è subordinata la validità del prenuptial agreement, si aggiungono poi quelli riguardanti la formazione del consenso: oltre alla violazione dell’obbligo di fair e reasonable disclosure il sistema americano prevede quale causa di nullità dell’accordo il ricorso all’inganno e alla violenza nella stipulazione dello stesso, nonché la mancata possibilità di consultare un legale prima della prestazione del consenso.
[143] Così Hofer,
Privatautonomie als Prinzip für
Vereinbarungen zwischen Ehegatten, in Aa.
Vv., From Status to Contract? – Die
Bedeutung des Vertrages im europäischen Familienrecht, a cura di Hofer,
Schwab e Henrich, cit., p. 16. Analoghe critiche in Coester-Waltjen, Liebe-Freiheit-gute
Sitten. Grenzen autonomer Gestaltung der Ehe und ihrer Folgen in der
Rechtsprechung des Bundesgerichtshofes, in Aa.
Vv., Festgabe aus der Wissenschaft, 50
Jahre Bundesgerichtshof, München, 2000, p. 1001; cfr. inoltre Koch, in NotBZ, 2004, p. 147 ss.; Langenfeld,
Zur gerichtlichen Kontrolle von
Eheverträgen, in DNotZ, 2001, p.
279, che, di fronte alle avvisaglie di un mutamento di giurisprudenza in senso
restrittivo verso la libertà dei coniugi, paventava una situazione di
«Entmündigung und Fremdbestimmung durch den Richter» (situazione che – come si
è detto in altra sede: cfr. Oberto,
Contratto e famiglia, cit., p. 120 s.
– si porrebbe anche in chiaro contrasto con l’intenzione dei redattori del BGB). A questi rilievi fanno poi
eco le osservazioni di un altro celebre studioso della materia (e notaio), che
sembrano smentire in maniera netta l’atteggiamento paternalistico delle Corti
(e, verrebbe da aggiungere, di una certa parte della dottrina italiana!): «Ich
beobachte im Beratungsgespräch eher eine „strukturelle Überlegenheit“ junger
Frauen, die ihre berechtigten Interessen durchzusetzen wissen. Die Margarete unserer Zeit ist ohne weiteres in der Lage, die
tradierten Vorstellungen eines Unternehmersohns, dessen Eltern auf Abschluss
eines Ehevertrages mit Gütertrennung und Unterhaltsverzicht bestehen (wie sie
ihn selbst geschlossen haben), eine entschiedene und deutliche Absage zu
erteilen, um zu sachgerechten vertraglichen Vereinbarungen zu gelangen (z.B.
Herausnahme der Unternehmensbeteiligung aus dem Zugewinnausgleich)» (cfr. Brambring, Die Ehevertragsfreiheit und ihre Grenzen, in Aa. Vv., From Status to Contract? – Die Bedeutung des Vertrages im
europäischen Familienrecht, a cura di Hofer, Schwab e Henrich, cit., p. 34,
che conclude affermando: «Ehevertragsfreiheit ist unverzichtbar, der „faire“
Ehevertrag beansprucht Rechtssicherheit»).
[144] Cfr. ad es. Fick
v Fick, ove la Corte Suprema del Nevada ha invalidato un prenuptial agreement per difetto di
piena disclosure prima della sottoscrizione dell’accordo (Fick v Fick, 109 Nev. 458, 851 P.2d 445 (1993): cfr. Willick e Cerceo, Matrimonial
Agreements: Requirements for Validity, disponibile al seguente sito web: www.willicklawgroup.com.
[145] Sul tema si rinvia a Oberto, Civil law e common law a confronto nell’ottica del giudice civile, in Contr. impr./Eur., 2005, p. 620 ss.
[146] Cfr. ad esempio Cass., 2 novembre 1998, n. 10926, in Foro it., 1998, I, c. 3081; Cass., 24
settembre 1999, n. 1055, in Giust. civ,
1999, p. 2929; per i necessari rinvii sul tema, che non è sviluppabile in
questa sede, v. Riccio, La clausola generale di buona fede è,
dunque, un limite generale all’autonomia contrattuale, in Contr. impr., 1999, p. 21 ss.; Meruzzi, Funzione nomofilattica della Suprema Corte e criterio di buona fede,
in Contr. impr., 2000, p. 25 ss.
[147] Sulla scorta di quanto, ad esempio, stabilito un tempo dagli artt. 1469-bis ss. c.c. e ora dagli artt. 33 ss. del codice del consumo.
[148] Si riporta qui di seguito il testo del d.d.l.,
composto di quattro articoli:
«Art. 1.
(Disciplina dei patti prematrimoniali)
1. Al codice civile sono apportate le seguenti
modificazioni:
a) all’articolo 156, primo comma, é aggiunto, in fine,
il seguente periodo:
«A tal fine il giudice deve tenere dei patti prematrimoniali
di natura patrimoniale, eventualmente stipulati ai sensi dell’articolo 162-bis, e darne esecuzione»;
b) all’articolo 159, le parole: «comunione dei beni
regolata dalla sezione III» sono sostituite dalle seguenti:
«separazione dei beni regolata dalla sezione V»;
c) all’articolo 162 sono apportate le seguenti
modificazioni:
1) al secondo comma, la parola: «separazione » é
sostituita dalle seguenti:
«comunione dei beni»;
2) dopo il quarto comma é aggiunto, in fine, il
seguente:
«Fatto salvo quanto stabilito dall’articolo 160, é
consentita, ai soggetti di cui allo stesso articolo, la stipula di patti
prematrimoniali di natura patrimoniale prima della celebrazione del matrimonio,
ai sensi dell’articolo 162-bis.»;
d) dopo l’articolo 162 é inserito il seguente:
«Art. 162-bis.
- (Disciplina dei patti prematrimoniali) – I futuri coniugi, prima di contrarre
matrimonio, possono stipulare un patto prematrimoniale in forma scritta diretto
a disciplinare i rapporti patrimoniali in caso di separazione personale, di
scioglimento o cessazione degli effetti civili del matrimonio.
Il patto prematrimoniale deve essere sottoscritto
dalle parti, a pena di nullità, e depositato presso l’Ufficio del registro,
territorialmente competente in ragione della residenza di uno dei contraenti.
Il patto prematrimoniale può anche escludere il
coniuge dalla successione necessaria.
La presente normativa non si estende ai rapporti tra
genitori e figli, che restano regolati dalla normativa vigente».
Art. 2.
(Opzione di scelta nei casi di scioglimento del
matrimonio)
1. Il patto prematrimoniale può anche escludere
l’applicazione delle disposizioni in materia patrimoniale previste dalla legge
1º dicembre 1970, n. 898.
Art. 3.
(Disciplina dei casi di scioglimento del matrimonio)
1. All’articolo 5, comma 6, della legge 1º dicembre
1970, n. 898, e successive modificazioni, é aggiunto, in fine, il seguente
periodo:
«A tal fine il giudice deve tenere conto dei patti
prematrimoniali eventualmente stipulati ai sensi dell’articolo 162-bis del codice civile e darne
esecuzione».
Art. 4.
(Norma transitoria)
1. Entro dodici mesi dalla data di entrata in vigore
della presente legge, coloro che abbiano contratto matrimonio prima della
medesima data possono stipulare un patto prematrimoniale di natura
patrimoniale, ai sensi degli articoli 162, quinto comma, e 162-bis del codice civile, introdotti
dall’articolo 1, lettere c), numero 2), e d) della presente legge».
[149] Cfr. Oberto,
La comunione legale tra coniugi, I,
cit., p. 380 ss.
[150] Per una panoramica si fa rinvio a Oberto, La comunione legale tra coniugi, I, cit., p. 171 ss.; Id., La
comunione coniugale nei suoi profili di diritto comparato, internazionale ed
europeo, in Dir. fam. pers.,
2008, p. 367 ss.
[151] Su cui v. in dettaglio Oberto, La comunione
legale tra coniugi, I, cit., p. 130 ss.
[152] Cfr. per tutti Oberto,
La comunione legale tra coniugi, I,
cit., p. 384 ss.
[155] Su cui per un accenno v. supra, § 3, nonché Oberto, I contratti
della crisi coniugale, II, Milano, 1999, p. 1446 ss.
[156] Sul tema in generale, che non può evidentemente
essere affrontato nella presente sede si fa rinvio a Oberto, La comunione
legale tra coniugi, II, cit., p. 1660 ss., 2010 ss.
[157] Per i richiami cfr. Oberto,
I contratti della crisi coniugale, I,
cit., p. 68 ss.; Id., Gli
accordi sulle conseguenze patrimoniali della crisi coniugale e dello
scioglimento del matrimonio nella prospettiva storica, cit., c. 1306 ss.
[158] Eccone qui di seguito il testo integrale, disponibile
alla pagina web seguente: http://www.ami-avvocati.it/leggi_articolo.asp?id_articolo=1255.
«Disegno di legge sulla introduzione degli accordi
matrimoniali e pre-matrimoniali
Art. 1 – Accordi prematrimoniali e matrimoniali
1. All’articolo 162 del codice civile, dopo il terzo
comma, è inserito il seguente: «Fermo quanto stabilito dall’art. 160 c.c., è
consentita la stipula di accordi prematrimoniali e matrimoniali, di natura
patrimoniale, rispettivamente prima e dopo la celebrazione del matrimonio. Tali
accordi sono disciplinati dagli artt. 162 bis
ss.».
2. Nel titolo VI, capo VI, sezione I, sono introdotti
gli artt. 162 bis – 162 sexies.
3. Art. 162 bis:
Accordi precedenti il matrimonio
L’accordo sottoscritto ai sensi del comma 4 dell’art.
162 regolamenta i diritti patrimoniali disponibili derivanti dal matrimonio per
l’ipotesi di separazione coniugale ovvero di scioglimento o cessazione degli
effetti civili del matrimonio.
Salvo quanto disposto dall’art. 160 c.c., può
includere disposizioni in materia di:
- divisione dei beni, godimento di determinati beni,
ripartizione del trattamento di fine rapporto lavorativo;
- risarcimento del danno per l’ipotesi di separazione
giudiziale con addebito;
- contributo al mantenimento.
4. Art. 162 ter:
Obblighi delle parti.
L’accordo prematrimoniale deve essere redatto ed
eseguito secondo buona fede.
I nubendi sono tenuti ad inserire nell’accordo ogni
informazione utile in ordine alla rispettiva situazione patrimoniale e
reddituale.
5. Art. 162 quater:
Forma ed efficacia.
Gli accordi prematrimoniali devono essere stipulati in
forma scritta. La loro sottoscrizione dovrà avvenire, a pena di nullità,
dinanzi all’ufficiale di stato civile tenuto alle pubblicazione ai sensi
dell’art. 93 c.c.
I patti prematrimoniali acquistano efficacia alla
celebrazione del matrimonio che dovrà avvenire, a pena di invalidità degli
accordi, entro centottanta giorni dalla loro sottoscrizione.
Prima della sottoscrizione dell’accordo, i nubendi
devono essere informati circa il contenuto e le conseguenze del medesimo.
Gli accordi prematrimoniali devono essere stipulati
almeno trenta giorni prima del matrimonio ed allegati all’estratto della
pubblicazione fino alla formazione dell’atto di matrimonio, del quale saranno
parte integrante.
6. Articolo 162 quinquies
: Accordi matrimoniali
In costanza di matrimonio, i coniugi possono stipulare
un accordo matrimoniale, disciplinato dagli artt. 162 bis, ter e quater, immediatamente efficace. La
forma dell’accordo matrimoniale è quella dell’atto pubblico a pena di nullità e
deve essere annotato a margine dell’atto di matrimonio con l’indicazione della
data del contratto e del notaio rogante.
7. Articolo 162 sexies:
Nullità ed annullamento
Le disposizioni contenute nei patti prematrimoniali e
matrimoniali inerenti l’affidamento ed il mantenimento dei figli sono nulle e
si hanno per non apposte.
Il nubente o il coniuge possono chiedere
l’annullamento dell’accordo secondo le disposizioni previste dagli artt. 1427
ss. c.c. ovvero qualora l’altro coniuge sia stato condannato, con sentenza
passata in giudicato, per uno dei reati previsti dall’art. 3 legge n. 898/70 e
successive modifiche ed integrazioni.
Art. 2 – Modifiche
connesse e conseguenti al codice civile
1. E’ introdotto il seguente comma 3° all’art. 155 sexies c.c.:
«Il giudice nell’emanazione dei provvedimenti
provvisori dovrà tenere conto, nella determinazione dell’assegno di
mantenimento in favore del coniuge più debole, di eventuali accordi
pre-matrimoniali e matrimoniali esistenti tra i coniugi. A tal fine, le parti
hanno l’onere di allegare al ricorso introduttivo del giudizio, a pena di
decadenza, l’accordo pre-matrimoniale o matrimoniale sottoscritto. Il giudice
potrà valutare fatti sopravvenuti ove si sia verificato un significativo
cambiamento del patrimonio di entrambi tra il momento della stipula ed il
momento dell’esecuzione dell’accordo medesimo».
2. Il comma 2 dell’articolo 156 c.c. è così modificato:
«L’entità di tale somministrazione è determinata in
relazione alle circostanze, ai redditi dell’obbligato ed agli eventuali accordi
matrimoniali e pre-matrimoniali esistenti».
3. Il comma 1 dell’art. 194 c.c. è così modificato:
«La divisione dei beni della comunione legale si
effettua ripartendo in parti uguali l’attivo e il passivo, salva diversa
pattuizione di cui agli articoli 162 bis
e ss.».
Art. 3 –
Modifiche connesse e conseguenti al codice di procedura civile
1. Il terzo comma dell’art. 706 c.p.c. è così
modificato:
«Il presidente, nei cinque giorni successivi al
deposito in cancelleria, fissa con decreto la data dell’udienza di comparizione
dei coniugi davanti a sé, che deve essere tenuta entro novanta giorni dal
deposito del ricorso, il termine per la notificazione del ricorso e del
decreto, ed il termine entro cui il coniuge convenuto può depositare memoria
difensiva e documenti. Al ricorso e alla memoria difensiva sono allegate le
ultime dichiarazioni dei redditi presentate nonché, a pena di decadenza,
eventuali accordi stipulati ai sensi degli artt. 162 bis ss. c.c.».
2. E’ introdotto il comma 6 dell’art. 711 c.p.c.
I coniugi in uno al ricorso potranno presentare gli
eventuali accordi stipulati ai sensi degli artt. 162 bis ss. c.c.
Art. 4 – Modifiche connesse e conseguenti alla legge
n. 898/70
1. L’art. 4, comma 6, della legge n. 898/70 è così
modificato:
«Al ricorso e alla prima memoria difensiva sono
allegate le ultime dichiarazioni dei redditi rispettivamente presentate nonché,
a pena di decadenza, eventuali accordi stipulati ai sensi degli artt. 162 bis ss. c.c.».
2. All’art. 5 della legge n. 898/70 è introdotto un
nuovo comma 6 bis:
«Qualora i coniugi producano in giudizio un accordo
matrimoniale ovvero precedente il matrimonio, il giudice ratifica gli accordi
in merito all’assegno divorzile in favore del coniuge più debole, salvo che il
contributo economico stabilito non garantisca al coniuge più debole mezzi
economici adeguati alla sua sussistenza. Il giudice potrà valutare fatti
sopravvenuti ove si sia verificato un significativo cambiamento del patrimonio
di entrambi tra il momento della stipula ed il momento dell’esecuzione
dell’accordo medesimo».
3. L’art. 12 bis,
comma 1 della legge n. 898/70 è così modificato:
«Il coniuge nei cui confronti sia stata pronunciata
sentenza di scioglimento o di cessazione degli effetti civili del matrimonio ha
diritto, se non passato a nuove nozze e in quanto sia titolare di assegno ai
sensi dell’art. 5, ad una percentuale dell’indennità di fine rapporto percepita
dall’altro coniuge all’atto della cessazione del rapporto di lavoro anche se
l’indennità viene a maturare dopo la sentenza, salvo eventuali accordi
stipulati ai sensi di cui agli articoli degli artt. 162 bis ss. c.c.».
[159] Cfr. Oberto,
La comunione legale tra coniugi, I,
cit., p. 386 s.
[160] Cfr. Oberto,
Il patto di famiglia, cit., p. 133 s.
[161] Sul punto cfr. Oberto,
La comunione legale tra coniugi, I,
cit., p. 800, II, cit., p. 1615 ss.
[162] Sul punto v. per tutti Oberto, I contratti
della crisi coniugale, II, cit., p. 1049 ss.
[163] Cfr. http://www.paolonesta.it/rassegna_stampa_quotidiana/2011/ottobre%202011/17-10-2011/Notai.doc.
[164] Cfr. ad es. la versione
proposta dell’art. 156, primo e quarto comma, c.c., a mente dei quali,
rispettivamente, «Qualora i coniugi non
abbiano stipulato una convenzione ai sensi dell’art. 162 bis c.c., il giudice, pronunziando la separazione, stabilisce a
vantaggio del coniuge cui non sia addebitabile la separazione il diritto di
ricevere dall’altro coniuge quanto è necessario al suo mantenimento, qualora
egli non abbia adeguati redditi propri» e «Il giudice che pronunzia la
separazione, in mancanza di apposita convenzione ai sensi dell’art. 162 bis c.c., può imporre al coniuge di
prestare idonea garanzia reale o personale se esiste il pericolo che egli possa
sottrarsi all’adempimento degli obblighi previsti dai precedenti commi e
dall’articolo 155».
[165] Cfr. Corte cost., 27 giugno 1973 n. 91, in Giur. it., 1974, I, 1, c. 18. E’ comunque ovvio che la norma di cui al d.d.l. non impedirebbe l’effettuazione di donazioni tra coniugi ben al di là del limite della metà del patrimonio di ciascuna delle parti, valendo il limite in discorso solo per i contratti pre- o postmatrimoniali.
[166] Cfr. Oberto, I precedenti storici del principio di libertà contrattuale nelle convenzioni matrimoniali, in Dir. fam. pers., 2003, p. 535 ss.
[167] Sul tema v. per tutti Ferrando e Querci, L’invalidità del matrimonio e il problema dei suoi effetti, Milano, 2007, p. 219 ss., 284 ss., 289 ss. In giurisprudenza v. ad es. Cass., 25 giugno 2003, n. 10055, secondo cui «Il passaggio in giudicato della sentenza dichiarativa della efficacia, nell’ordinamento dello Stato, della pronuncia ecclesiastica di nullità del matrimonio concordatario, determinando il venir meno del vincolo coniugale, travolge ogni ulteriore controversia trovante nell’esistenza e nella validità del matrimonio il proprio presupposto, e quindi comporta la cessazione della materia del contendere nel processo di divorzio che sia stato instaurato successivamente alla introduzione del procedimento diretto al riconoscimento della sentenza ecclesiastica». Peraltro la medesima Corte avverte che «Una volta che nel giudizio con il quale sia stata chiesta la cessazione degli effetti civili di un matrimonio concordatario venga accertata la spettanza, ad una delle parti, dell’assegno di divorzio, ed una volta che su di essa si sia formato il giudicato, la relativa statuizione si rende intangibile ai sensi dell’art. 2909 cod. civ. anche nel caso in cui successivamente ad essa sopravvenga la delibazione di una sentenza ecclesiastica di nullità del matrimonio» (cfr. Cass., 23 marzo 2001, n. 4202; Cass., 4 marzo 2005, n. 4795).
[168] Cfr. Oberto, Prestazioni «una tantum» e trasferimenti tra coniugi in occasione di separazione e divorzio, Milano, 2000, p. 208 ss.
[169] Cass., 5 luglio 1984, n. 3940, in Dir. fam. pers., 1984, p. 922.
[170] Cfr. Oberto, I contratti della crisi coniugale, I, cit., p. 627 ss.; Id., Prestazioni «una tantum» e trasferimenti tra coniugi in occasione di separazione e divorzio, cit., p. 91 ss.; Id., Contratto e famiglia, in Aa. Vv., Trattato del contratto, a cura di Roppo, VI, Interferenze, a cura di Roppo, Milano, 2006, p. 272 ss.
[171] Sempre secondo la
motivazione, «E’ poi irrilevante che, dopo un lasso di tempo non lungo, lo
stato di separazione personale sia stato superato dalla dichiarazione di
nullità del vincolo, poiché con l’assetto di interessi implicante l’estinzione
totale e definitiva dell’obbligazione con l’attribuzione definitiva di beni, i
coniugi assunsero a proprio carico il rischio economico della sopravvenienza di
situazioni che avessero reso l’attribuzione inadeguata, in difetto o in
eccesso».
[172] Cfr. Oberto, I contratti della crisi coniugale, I, cit., p. 700 ss.; Id., Prestazioni «una tantum» e trasferimenti tra coniugi in occasione di separazione e divorzio, cit., p. 119 ss.; Id., Contratto e famiglia, cit., p. 277 ss.
Nel senso testé indicato era in precedenza andata
anche una decisione di merito, secondo cui: «L’annullamento del matrimonio non
implica la decadenza di tutte le statuizioni contenute nel verbale di
separazione consensuale omologata, ma solo di quelle incompatibili con il venir
meno dello status di persona
coniugata. Di conseguenza le statuizioni economiche non strettamente attinenti
al vincolo coniugale permangono anche dopo l’annullamento del matrimonio.
Pertanto, deve ritenersi la persistenza dell’accordo stipulato tra le parti in
quella sede – nonostante la sopravvenienza della dichiarazione di annullamento
del matrimonio – in ordine alla vendita di un immobile di proprietà di uno dei
coniugi ed alla divisione del ricavato in parti uguali tra i coniugi stessi.
(Nella specie, è stato peraltro escluso che l’obbligazione fosse suscettibile
di esecuzione in forma specifica in quanto le parti avevano stabilito che la
vendita dovesse avvenire alle migliori condizioni concordate ed approvate
tempestivamente da esse)» (Trib. Roma, 31 gennaio 1978, in Giur. merito, 1980, p. 573). La decisione è stata criticata in
dottrina (A. e M. Finocchiaro, Diritto di famiglia, I,
Milano, 1984, p. 701 s.), facendosi rilevare al riguardo che, ferma restando la
tendenziale validità delle intese dirette a disciplinare i rapporti tra
separati, incomberebbe al coniuge che intenda farne venir meno gli effetti
dimostrare la loro attinenza allo status
di persona coniugata ormai travolta dalla pronunzia di nullità. Al contrario,
proprio per la loro già sottolineata sicura attinenza allo stato coniugale, gli
accordi in esame vanno ritenuti validi ed efficaci per effetto delle regole in
tema di matrimonio putativo, ovviamente a condizione che la parte che ne invoca
gli effetti fosse in buona fede (art. 128 c.c.) e sempre fatta salva
l’eventuale presenza di uno specifico accordo sul punto, in un senso o
nell’altro, nell’àmbito dell’intesa traslativa. Anche Sala, La rilevanza del
consenso dei coniugi nella separazione consensuale e nella separazione di fatto,
in Riv. trim. dir. proc. civ., 1996,
p. 1102 s. concede alle parti la possibilità di stabilire (espressamente) che
le pattuizioni intervenute in sede di separazione conserveranno automaticamente
rilevanza anche in ordine all’assetto patrimoniale dopo la dichiarazione di
nullità. La correttezza della soluzione riceve conferma dalla giurisprudenza
che ammette la piena liceità delle intese preventive sulle conseguenze di
un’eventuale declaratoria di invalidità del matrimonio: cfr., anche per i
richiami, Oberto, I contratti della crisi coniugale, II,
cit., 1999, p. 1449 ss.
Per ciò che attiene agli
effetti dell’annullamento del matrimonio sui rapporti patrimoniali relativi
alla prole – ancorché non in relazione a negozi traslativi – potrà citarsi,
innanzi tutto, Trib. Bolzano, 15 luglio 1986, in Giur. merito, 1988, I, p. 799, con nota di Dogliotti, secondo cui «L’assegno di mantenimento fissato
per i figli in sede di separazione coniugale è dovuto non solo per il periodo
trascorso fino alla data della sentenza dichiarativa di nullità del matrimonio,
ma anche per il periodo successivo, finché non venga diversamente provveduto».
Cfr. inoltre Cass., 11 ottobre 1983, n. 5887, in Giust. civ., 1984, I, p. 1569; in Giur. it. 1984, I, 1, c. 237; in Dir. eccl., 1983, II, p. 514: «La nullità del matrimonio
concordatario fra i coniugi, dichiarata con sentenza definitiva del tribunale
ecclesiastico e resa esecutiva agli effetti civili con ordinanza della corte d’appello, non
determina la cessazione
della materia del contendere
nel procedimento di appello pendente per ottenere la modificazione del
contributo dovuto da uno degli ex coniugi per il mutamento dei figli fissato in
sede di omologazione della separazione consensuale e la revoca del sequestro ex art. 156, comma ultimo c.c., in
quanto tale pronuncia di nullità del matrimonio non ne modifica sostanzialmente
il regime giuridico quanto ai provvedimenti nei confronti dei figli, atteso che
l’art. 129 c.c., stabilisce che, in caso di pronuncia di nullità del
matrimonio, si applica, per tali provvedimenti, l’art. 155 c.c., mentre è
irrilevante la circostanza che l’adeguamento riflette, nel giudizio di merito,
un assegno di mantenimento che gli ex coniugi avevano stabilito in sede di
separazione consensuale, essendo essenziale che la legge di riforma del diritto
di famiglia (l. 19 maggio 1975 n. 151) ha attribuito al giudice il potere di
rivedere in ogni tempo la misura e le modalità del contributo degli ex coniugi
per il mantenimento, l’istruzione e l’educazione dei figli, anche dopo la sentenza che dichiara la nullità del matrimonio».
[173] Cfr. Henrich, Die Privatautonomie im Eherecht und ihre Grenzen im europäischen Vergleich, in Aa. Vv., From Status to Contract? – Die Bedeutung des Vertrages im europäischen Familienrecht, a cura di Hofer, Schwab e Henrich, Bielefeld, 2005, p. 321: «Wenn gläublige Katholiken vor oder bei der Eheschlieβung eine Unterhaltsregelung für den Fall der Scheidung treffen, riskieren sie, dass ihre Ehe von den kirchlichen Gerichten für nichtig erklärt werden kann, weil sie ein Wesenselement der Ehe, nämlich die Unauflöslichkeit, ausgeschlossen hahen. Das dürfte mit ein Grund dafür sein, dass Unterhaltsvereinbarungen bei der Eheschlieβung für den Fall einer späteren Ehescheidung im christlichen Abendland bis in die jüngste Vergangenheit praktisch unbekannt waren».