ATTI DI DESTINAZIONE (ART. 2645-TER C.C.)
E TRUST:
ANALOGIE E DIFFERENZE
1.
Introduzione. 2. Brevi
considerazioni (e persistenti dubbi) sull’ammissibilità del trust interno. Il rilievo meramente
internazionalprivatistico della Convenzione de L’Aja. 3. Segue. Trust interno e Convenzione de L’Aja: alcune
schematiche considerazioni sulla legge regolatrice. 4. Impossibilità di fondare su disposizioni di
diritto interno la segregazione patrimoniale quale fenomeno generale. 5. Trust e negozio fiduciario. 6. L’atto di
destinazione ex art. 2645-ter c.c. di fronte al trust interno: prime reazioni e
impressioni. 7.
Meritevolezza di tutela degli interessi da realizzarsi con l’art. 2645-ter c.c. e causa tipica del trust. Meritevolezza del motivo del
negozio di destinazione. 8. Il tipo di
meritevolezza di tutela degli interessi da realizzarsi con l’art. 2645-ter c.c. 9. Profilo
«statico» e profilo «dinamico»: i rapporti tra vincolo di destinazione ed
effetto traslativo dei diritti. 10. Segue. Vicende traslative disposte
dall’autonomia delle parti in relazione all’art. 2645-ter c.c. 11. Segue. Il trasferimento alla scadenza
del vincolo. 12. Ulteriori
differenze tra la fattispecie descritta dall’art. 2645-ter c.c. e il trust:
beni oggetto del vincolo e durata di quest’ultimo; beneficiari nascituri e
«in catena di successione»; trust e
vincolo «di scopo». 13. Segue. Forma del trust e forma del vincolo ex
art. 2645-ter c.c. 14. Vincoli di
destinazione e crisi coniugale. 15. Vincoli
di destinazione ex art. 2645-ter c.c. e convenzioni matrimoniali. |
Chiunque s’accinga a trattare – anche solo
marginalmente e (come nel caso di
specie) senza alcuna pretesa di completezza – il tema degli atti di
destinazione ai sensi dell’art. 2645-ter
c.c. non può fare a meno di esordire rivolgendo una severa critica alla tecnica
legislativa adottata dalla novella. Una riforma che, come già è stato osservato
in dottrina [1], la nostra cultura giuridica non merita e che, oltre
a costituire il punto più basso [2] di un drafting
normativo ispirato sempre più a sciatteria e ignoranza dei principi
fondamentali, sembra dischiudere le porte ad una «terza fase» dei rapporti tra
normativa di fattispecie e normativa pubblicitaria. Dopo una prima «età dell’oro»
(almeno tale sembra, agli osservatori di questo oscuro presente!), nella quale
il codice disciplinava, da un lato, gli istituti concernenti le diverse materie
nei vari libri di rispettiva competenza e forniva poi le regole pubblicitarie
nel titolo primo del libro sesto, venne un’ «età del ferro», nella quale alla
creazione di nuovi istituti sostanziali non corrispondeva una (o corrispondeva
una non adeguata) disciplina pubblicitaria: le note e tormentate vicende della
pubblicità dei regimi patrimoniali della famiglia, così come riformata nel
1975, e del diritto di abitazione sulla casa familiare sono quanto mai
emblematiche al riguardo. Infine, ecco sopraggiungere una «terza età» (che, per
rispetto nei confronti del lettore, non qualificheremo ulteriormente), nella
quale il legislatore fornisce direttamente la disciplina pubblicitaria di
istituti che… si è dimenticato di disciplinare (o, per lo meno, di disciplinare
in maniera minimamente adeguata e nella sede appropriata)!
Certo, a ben vedere, un abbozzo di regolamentazione
sostanziale sembra essere dato dallo stesso articolo citato, ancorché in forma
assolutamente embrionale e del tutto asistematica, posto che, con una
disposizione, collocata nel libro sesto sulla tutela dei diritti, titolo I
(della trascrizione), capo 1 (della trascrizione degli atti relativi ai beni
immobili), sono state contemporaneamente dettate norme sulla trascrizione
relative, oltre che ai beni immobili, anche ai beni mobili registrati; sui
requisiti sostanziali di legittimità del vincolo di destinazione; sulla forma
dell’atto costitutivo del vincolo; sull’azione a tutela dell’osservanza del
vincolo; sugli utilizzi consentiti dei beni vincolati; sull’effetto di
segregazione rispetto ai creditori, e quindi in tema di espropriazione forzata [3]. Risponde quindi, forse, a verità la constatazione
secondo cui l’art. 2645-ter c.c. è, «prima ancora che norma sulla
pubblicità, e quindi sugli effetti, norma sulla fattispecie, che avrebbe
meritato dunque, previa scissione, di figurare in un diverso contesto, di
disciplina sostanziale» [4].
Ma la fattispecie (e una fattispecie di
tanto rilievo teorico e pratico!) è così male abbozzata da suscitare
immediatamente un’istintiva, viscerale, simpatia per una tesi iconoclasta,
quale quella affacciata dalla prima pronunzia di merito contenente (ancorché in
obiter) un espresso richiamo alla
novella: l’idea, cioè, secondo cui l’art. 2645-ter c.c. non introdurrebbe affatto nel nostro ordinamento un nuovo
tipo di negozio di destinazione, ma soltanto «un particolare tipo di effetto
negoziale, quello di destinazione (…) accessorio rispetto agli altri effetti di
un negozio tipico o atipico cui può accompagnarsi». La norma in esame non
conterrebbe dunque alcun indice da cui desumere l’avvenuta creazione di una
nuova figura negoziale, non essendone chiara né la natura unilaterale o
bilaterale, né il carattere oneroso o gratuito, né la presenza di effetti
traslativi o obbligatori [5].
Anche a chi scrive era sembrato di dover prospettare –
a tutta prima e a livello di mera ipotesi – una possibile interpretatio abrogans dell’art. 2645-ter c.c., in quanto diretto all’attribuzione di rilievo sul piano
delle sole formalità pubblicitarie ad un fenomeno (atto di destinazione per la
realizzazione di interessi meritevoli di tutela) che non è regolato dal diritto
«sostanziale» (inteso come contrapposto al «diritto pubblicitario») [6]. In alternativa si era anche pensato di suggerire la
possibilità di individuare quali, tra
gli istituti vigenti, sarebbero astrattamente idonei a dar luogo ad atti
qualificabili come «di destinazione per la realizzazione di interessi
meritevoli di tutela», pur non potendo gli stessi concretamente produrre tali
effetti, per la presenza di disposizioni in senso contrario. La portata della
novella avrebbe dunque potuto essere reperita nella deroga a quelle
disposizioni impeditive [7].
A ben vedere, le due tesi appena prospettate: quella,
cioè, radicalmente «negazionista» e quella «intermedia», che riferisce il
vincolo a figure sostanziali già esistenti, non appaiono però persuasive. Se è
vero, infatti, che la formulazione della norma non é felice né precisa, ciò non
sembra sufficiente a consentire all’interprete di ignorare le tracce di
disciplina sostanziale (dalla regola in tema di oggetto, a quelle sulla forma,
sulla durata, sulla meritevolezza degli interessi, sulla legittimazione ad
agire, sull’impiego dei beni e dei frutti e sui rapporti con i creditori) in
essa disseminate dal legislatore, sì da obliterarne l’evidente intento di
delineare, sia pure in modo tanto rozzo, i contorni di un nuovo istituto
giuridico [8].
Se ciò è vero, si pone dunque il problema di
raffrontare tale nuova figura negoziale con l’istituto che sembra, a tutta
prima, ad essa più affine, vale a dire con il trust, tanto più che proprio in questa direzione sembra puntare la
storia della genesi di questo malriuscito scampolo di prosa legislativa. In questo senso depone, invero, il fatto che
la terminologia pare ispirata ad alcune (peraltro ben più ponderate) proposte
di legge della XIV legislatura, che, sotto il titolo, rispettivamente, «Disciplina
della destinazione di beni in favore di soggetti portatori di gravi handicap per favorirne l’autosufficienza»
(cfr. la proposta contrassegnata dal N. 3972, presentata alla Camera dei
Deputati il 14 maggio 2003) e «Norme in materia di trust a favore di soggetti portatori di handicap» (cfr. la proposta contrassegnata dal N. 2377, presentata
alla Camera dei Deputati il 10 maggio 2002), miravano ad introdurre, a tutela delle persone disabili, la possibilità di
dar luogo ad un vincolo assai simile a quello che si attua negli ordinamenti di
common law con il trust, ma allo stesso tempo coerente
con il nostro sistema civilistico e fiscale e, quindi, di più immediata e
agevole fruibilità per i soggetti interessati [9].
2. Brevi considerazioni (e persistenti dubbi)
sull’ammissibilità del trust interno. Il rilievo meramente
internazionalprivatistico della Convenzione de L’Aja.
Non è questa la sede per ripercorrere nel dettaglio le
alterne vicende giurisprudenziali e le accanite dispute dottrinali
sull’ammissibilità del trust interno,
vale a dire di quel trust che non
presenta altri elementi di estraneità al di fuori del mero capriccio del
costituente, costituito dalla scelta dell’ordinamento giuridico di un paese che
conosce, per l’appunto, siffatto istituto. Sono del resto ormai più che noti i
problemi posti dai rapporti con il disposto dell’art. 2740 c.c., con il
principio del numerus clausus dei diritti reali, con quello della
tassatività delle ipotesi in cui è consentito creare enti dotati di autonomia
patrimoniale, con quello della tassatività delle fattispecie soggette a
trascrizione, o al profilo di un’eventuale antiteticità rispetto all’art. 2744
c.c., in relazione alla possibilità di costituire, tramite trust, nuovi
meccanismi di garanzia, alla potenziale frizione con i principi del nostro
sistema successorio, pur nell’àmbito delle clausole c.d. di salvaguardia di cui
agli artt. 15 e ss. della Convenzione: si pensi, in particolare, al divieto dei
patti successori [10] e di sostituzione fedecommissaria [11], all’inapponibilità di pesi e condizioni sulla
legittima e, più in generale, alle norme a tutela della successione necessaria [12].
Questi temi hanno, come noto, scatenato furibondi
dibattiti, sui quali – attesa anche la sconfinata quantità di contributi al
riguardo [13] – non è possibile in questa sede soffermarsi
compiutamente [14]. La controversia ha avuto una grande risonanza anche
nel web: molti sono ormai gli studi
ed i contributi disponibili online
sul tema, mentre alcuni siti sono stati addirittura interamente dedicati
all’argomento del trust in Italia [15].
Sarà sufficiente rammentare sommariamente in questa
sede che la costituzione nel nostro ordinamento di un trust, pur in
assenza di un qualsiasi obiettivo elemento di estraneità, appare immaginabile
solo a condizione che si fornisca alla convenzione de L’Aja del 1985,
ratificata con l. 16 ottobre 1989, n. 364 (entrata in vigore il 1° gennaio
1992) [16] una lettura che ne evidenzi il carattere di regola
non già di conflitto, bensì di diritto interno, applicabile anche ai casi in
cui non siano prospettabili collisioni tra diversi ordinamenti [17].
Ma proprio questa conclusione appare difficilmente
condivisibile. Per comprendere appieno il carattere internazionale della
Convenzione de L’Aja occorre porre mente ai seguenti rilievi. Innanzi tutto
essa è nata in seno alla Conférence de
I lavori preparatori della Convenzione
rendono evidente, del resto, come l’intenzione dei redattori non sia mai stata
quella di apprestare norme di diritto materiale uniforme per paesi che, come il
nostro, non conoscevano e non conoscono l’istituto del trust. Così alle obiezioni sollevabili da parte di quegli ordinamenti nei quali si
potrebbe temere «que les principes de leur système juridique ne soient ébranlés
par l’intrusion d’une institution étrangère quelque peu inquiétante» risponde
esplicitamente il rapport explicatif
lapidariamente chiarendo «qu’il n’a jamais été question d’introduire le trust
dans les pays de civil law, mais
simplement de fournir à leurs juges les instruments propres à appréhender cette
figure juridique». Ed è proprio qui, continua il rapport explicatif, che risiede l’interesse della Convenzione per
gli Stati che non conoscono il trust:
«L’institution n’étant pas prévue par leur droit matériel, ils ne possèdent pas
non plus de règles de droit international privé qui puissent la régir et ils en
sont réduits à chercher laborieusement à faire entrer les éléments du trust
dans leurs propres concepts. Au contraire,
Ulteriore conferma di quanto sopra viene dalla
comparazione con esperienze straniere di paesi di civil law. Si pensi al fatto che
Significativa appare poi anche
l’esperienza dei Paesi Bassi, che hanno, sì, ratificato la convenzione, ma
accompagnando la ratifica con una legge di applicazione di due norme, con le
quali si è statuito, da un lato, che, in senso negativo, non sono applicabili
ai trusts riconosciuti in base alla
Convenzione, le norme interne sul trasferimento di proprietà e quelle a tutela
dei creditori in caso di insolvenza; dall’altro, che, in senso positivo, il trustee può chiedere l’iscrizione della
sua qualità in qualsiasi altro modo, relativamente ai beni del trust, così riproducendosi la formula
dell’art. 12 della Convenzione. Si tratta in effetti proprio della disciplina
di quei due aspetti che ostacolano una normale applicazione della Convenzione [25].
3. Segue. Trust interno e
Convenzione de L’Aja: alcune schematiche considerazioni sulla legge
regolatrice.
E’ noto che, ai sensi
dell’art. 6 della Convenzione de L’Aja, il
trust è regolato dalla legge scelta
dal costituente. La scelta deve essere espressa, oppure risultare dalle
disposizioni dell’atto che costituisce il trust
o portandone la prova, interpretata, se necessario, avvalendosi delle
circostanze del caso. Qualora la legge scelta dal costituente non preveda
l’istituzione del trust o la
categoria del trust in questione,
tale scelta non avrà valore e verrà applicata la legge di cui all’articolo 7.
Chi scrive ha già avuto modo di chiarire che detta disposizione non comporta
necessariamente il riconoscimento della libertà di scelta di una legge
straniera in difetto di elementi di internazionalità della fattispecie, ma può
interpretarsi, invece, nel senso che detta libertà di scelta può esplicarsi nei
confronti di una legge di un ordinamento con il quale la fattispecie, pur
munita di oggettivi elementi di internazionalità, non presenti alcun
collegamento [26].
Del resto, proprio dall’ambito del
diritto internazionale privato, da cui
Come rilevato in dottrina, l’ambito di
applicazione del diritto internazionale privato va circoscritto alle
fattispecie che presentino elementi di internazionalità sulla base di un giudizio
ex ante, soltanto a seguito del
quale, accertata la ricorrenza del carattere internazionale della fattispecie,
può applicarsi la normativa di diritto internazionale privato e, quindi la
norma che legittima la facoltà di scelta di una legge straniera. Ritenere,
invece, che la legge straniera scelta dalle parti possa da sola fungere da
elemento di internazionalità che giustifica l’applicazione della normativa di
diritto internazionale privato significa operare una inversione concettuale
contraria ai principi della logica [27].
Al riguardo va anche detto che, se è
vero che
L’argomento sovente portato dai sostenitori della tesi
della ammissibilità del trust interno
si basa sul rigetto – in sede di lavori preparatori della Convenzione de L’Aja
– di una proposta tendente a legare la scelta della legge straniera
all’esistenza di un «lien [réel] avec la loi choisie», come si legge al
paragrafo 65 del rapport explicatif
più volte citato. Ma proprio la lettura di tale paragrafo nella sua interezza [28] rende evidente che il rigetto di tale proposta
s’accompagnò strettamente al rilievo secondo cui «l’opinion a prévalu qu’il
était préférable de réprimer les choix abusifs dans ce qui allait devenir
l’article 13». E’ chiaro, quindi, che la proposta, lungi dall’essere rigettata,
venne recepita, sebbene in un diverso articolo. Ora, ai sensi dell’art. 13, nessuno Stato è tenuto a riconoscere un trust i cui elementi importanti, ad
eccezione della scelta della legge da applicare, del luogo di amministrazione e
della residenza abituale del trustee,
sono più strettamente connessi a Stati che non prevedono l’istituto del trust o la categoria del trust in questione.
La disposizione, nonostante quanto sopra chiarito, ha
formato l’oggetto di letture diametralmente contrapposte: da un lato si è detto
che essa non impedisce la creazione di trusts
interni, purché essi non si connotino come abusivi. Di contro (ed in maniera
assai più coerente rispetto alla lettera della disposizione ed ai già citati
lavori preparatori) si è posto in luce come la disposizione in esame impedisca,
in realtà, la creazione di un trust
interno in quei paesi la cui legislazione non conosce tale istituto [29]. Tra queste due posizioni estreme può citarsene per
completezza una, per così dire, intermedia, secondo cui l’art. 13 cit.
consentirebbe al giudice, in assenza di una specifica previsione legislativa di
attuazione, come è al momento in Italia, di valutare se rifiutare il riconoscimento
al trust interno in base ai principi generali dell’ordinamento. Questi
principi precluderebbero l’esercizio della scelta di legge qualora essa
contrasti con il principio di buona fede e con la tutela di legittimi
interessi, sia insomma abusiva nel senso che sia finalizzata ad occultare a
legittimi creditori i beni di un patrimonio. Solo in questo caso, da verificare
volta per volta, un trust interno sarebbe certamente inammissibile [30].
Inutile dire che neppure tale ultima tesi sembra
trovare un appiglio letterale. Ecco, infatti, cosa chiarisce il rapport explicatif (ai NN. 123 s.)
relativamente all’art. 13 cit.: «123. La faculté prévue par l’article 13 est ouverte aux
juges de tous les Etats contractants, mais il est évident qu’il s’agit en fait
d’une clause de sauvegarde en faveur des Etats ne connaissant pas le trust. La
clause sera surtout utilisée par les juges qui estiment que la situation a été
abusivement soustraite à l’application de leur propre loi. Mais elle pourrait
également être utilisée par le juge d’un Etat ne connaissant pas le trust par
solidarité avec un autre Etat ne le connaissant pas non plus et auquel la
situation est objectivement rattachée. 124. On notera encore que cette
disposition permet au juge d’un Etat ne connaissant pas le trust de refuser la
reconnaissance du trust parce qu’il estime qu’il s’agit d’une situation
interne. En revanche, cette possibilité n’existe pas dans les Etats connaissant
le trust, mais ceux-ci ne semblent pas en éprouver le besoin».
Appare dunque sfatato il mito secondo cui i lavori
preparatori della Convenzione de L’Aja consentirebbero di riconoscere nella
stessa i caratteri di una norma di diritto sostanziale uniforme, essendo invece
chiara l’intenzione di considerare «abusiva» la scelta del ricorso ad una
legislazione straniera per dare vita ad un trust interno in un paese che
non conosca tale istituto. A conferma dei dubbi sull’accettabilità della tesi
che asserisce la validità dei trusts interni, andrà quindi ribadito che
proprio quei lavori preparatori della Convenzione cui i fautori di tale
opinione fanno richiamo [31] contengono, in realtà, il chiaro riferimento al
potere del giudice di dichiarare la nullità di un trust «parce qu’il
estime qu’il s’agit d’une situation interne» [32].
A ciò s’aggiunga che nemmeno l’argomento
[33] fondato sulla disparità di trattamento ingenerata
dalla soluzione che non ammette il trust interno rispetto alle
situazioni caratterizzate da un obiettivo elemento di estraneità (nelle quali
non vi è dubbio che la validità del trust debba essere riconosciuta)
appare convincente. Sembra infatti a chi scrive che scopo delle norme di
diritto internazionale privato sia (e si perdoni l’apparente paradosso) proprio
quello di creare disparità di trattamento, al fine di adattare la
soluzione alle peculiarità di una fattispecie obiettivamente caratterizzata da
elementi di estraneità e dunque obiettivamente diversa da quella in cui tali
elementi di estraneità sono assenti. In altre parole, è proprio l’eventuale
presenza di elementi di estraneità «oggettivi» (e dunque distinti dal mero
capriccio del settlor) ad imporre (ai
sensi del secondo, anziché del primo comma, dell’art. 3 Cost.) un trattamento
differenziato di situazioni obiettivamente diversificate.
Così, tanto per citare qualche caso esemplare, nessuno
dei sostenitori (tra i quali si annovera, in prima fila, e senza esitazioni,
chi scrive) della piena validità degli accordi prematrimoniali in vista del
divorzio, o dell’eliminazione di quell’inutile (rectius: utile solo per gli avvocati) Wartezeit per il divorzio costituita dalla necessaria separazione
legale triennale, si è mai sognato di argomentare l’auspicabilissimo avvento di
una situazione analoga a quella in vigore nei sistemi di common law sulla base della disparità di trattamento rispetto ai
cittadini stranieri, o comunque rispetto alle situazioni caratterizzate dalla
presenza di un obiettivo elemento di internazionalità. Eppure è ben noto che –
come riconosciuto anche dalla nostra Corte Suprema – proprio in questi casi,
tanto i prenuptial agreements in contemplation of divorce [34] che il divorzio immediato [35] sono perfettamente riconoscibili dal giudice
italiano, cioè da quello stesso giudice pronto a stracciarsi le vesti
allorquando la medesima situazione si presenta per un affare «di casa nostra».
D’altro canto, sarà sufficiente
riflettere sul fatto che l’argomento fondato sulla disparità di trattamento,
ove spinto alle sue estreme conseguenze, porterebbe puramente e semplicemente
all’inaccettabile risultato di una declaratoria di incostituzionalità di tutte
le norme di diritto internazionale privato [36].
4. Impossibilità
di fondare su disposizioni di diritto interno la segregazione patrimoniale quale fenomeno generale.
Ugualmente non persuasivo, a sommesso
avviso dello scrivente, appare poi il tentativo di fondare sulla normativa del
codice civile la possibilità di dar luogo a fenomeni di segregazione
patrimoniale al di là dei casi normativamente previsti. Si sono citate al
riguardo, per ricordare solo alcune fattispecie, le situazioni relative agli
acquisti del mandatario senza rappresentanza, la posizione del debitore che ha
costituito in pegno uno o più beni, la c.d. «fiducia statica» (che altro non è
se non il mandato senza rappresentanza fiduciae
causa) o il sequestro convenzionale [37].
Ora, secondo la tesi qui criticata, le
disposizioni relative agli istituti testé menzionati (cfr. artt. 1706, 1707,
1798, 1800 e 2786 c.c.) contemplerebbero la possibilità di dar luogo a fenomeni
molto simili all’effetto segregativo, proprio del trust, in deroga al disposto di cui all’art. 2740 c.c., norma –
come s’è detto – sovente invocata da chi s’oppone alla tesi dell’ammissibilità
dei trusts interni. In tutte queste
ipotesi avremmo situazioni di proprietà «a disposizione» di altri soggetti,
diversi dal proprietario e come tali «insensibili» al fenomeno descritto
dall’art. 2740 c.c. Inoltre si verificherebbe una sorta di «scollamento» tra
proprietà del bene e potere di gestione dello stesso.
Molte appaiono però le perplessità
sollevate da tale impostazione. A partire dal fatto che i fenomeni descritti,
ad esempio, dagli artt. 1706 e 1707 c.c. si spiegano semplicemente in base alla
considerazione per cui gli acquisti (mobiliari) del mandatario sono in realtà
immediatamente soggetti alla proprietà del mandante, alla luce della tesi, vuoi
del trasferimento diretto della proprietà in capo a quest’ultimo, vuoi del c.d.
«doppio trasferimento automatico». Non vi è dunque qui alcuna forma di
«scollamento» tra proprietà e potere di gestione: il mandatario ha quale unico
potere di «gestione» quello di consegnare il bene al mandante, visto che tale
bene è già di proprietà di quest’ultimo. Anche a voler contemplare la posizione
del mandante la situazione non cambia rispetto alle regole ordinarie: se proprietario
è il mandante i suoi creditori potranno soddisfarsi su tali beni e dunque non
vi è alcun fenomeno di segregazione simile a quello che si produce nel caso del
trust.
Per gli acquisti immobiliari vi è
invece, effettivamente, una proprietà (del mandatario: lo si desume dal fatto
che egli è tenuto a trasferire e non già semplicemente ad immettere nel
possesso) «a disposizione» del mandante e per questo il bene è sottratto alla
garanzia generica offerta ai creditori del mandatario dal patrimonio di quest’ultimo.
Peraltro, in questo caso, come negli altri citati (e fermo restando,
naturalmente, che la questione meriterebbe ben altro approfondimento,
impossibile nella presente sede), l’effetto
sembra invero porsi quale esclusiva conseguenza di precise disposizioni
di legge, in fattispecie che la legge stessa tassativamente descrive,
ricollegandole a ben precise dichiarazioni negoziali, inestensibili
analogicamente. Si noti poi che tutti i casi qui descritti traggono origine da
negozi bilaterali, laddove il trust
può dar luogo a segregazione anche in base a dichiarazioni unilaterali. In
altre parole, sembra che l’art. 2740 c.c. non possa subire deroghe se non nei
casi tassativamente previsti dalla legge, come del resto confermato proprio
dall’art. 2645-ter c.c.
Un’ulteriore riflessione si impone:
proprio il confronto con le ipotesi sopra indicate dimostra come nel nostro
ordinamento fattispecie lato sensu
assimilabili al trust presentino
rispetto a tale figura una differenza insormontabile: ci si riferisce alla
struttura stessa del trust, che
consiste in un vero e proprio sdoppiamento del diritto di proprietà,
sdoppiamento sconosciuto nel nostro ordinamento e tale da dar luogo ad una
nuova categoria di diritti reali, in contrasto con il principio d’ordine pubblico
della tassatività di questi ultimi [38].
La tesi sull’ammissibilità di un trust (non già «interno», in forza della
Convenzione de L’Aja, ma) «di diritto interno» (cioè in forza del diritto
materiale interno italiano) è stata anche difesa con forza da una pronunzia di
merito che, dopo aver correttamente dimostrato l’inapplicabilità al caso in
esame della Convenzione, riferibile solo al riconoscimento di trust connotati dalla presenza di un
obiettivo elemento di internazionalità, ha ritenuto che l’autonomia negoziale
dei privati sia in grado, ai sensi degli artt. 1322 e 1324 c.c., di dare
origine ad un trust anche in assenza
di un elemento di estraneità, allorquando il negozio istitutivo sia in concreto
preordinato al perseguimento di interessi meritevoli di tutela [39]. Rinviando alla attenta nota di commento per la
dettagliata confutazione di tale assunto [40], potrà sommariamente rilevarsi come, in
considerazione della natura straordinaria ed eccezionale del vincolo di
indisponibilità imposto con il perfezionamento del negozio destinatorio
costitutivo del trust, meritino di
essere condivise le conclusioni di chi ha affermato che il fenomeno della
funzionalizzazione del diritto dominicale può operare nelle sole ipotesi in cui
la destinazione sia stata espressamente autorizzata dal legislatore e non
invece nel caso in cui l’imposizione del vincolo – al di fuori degli schemi
tassativi di proprietà-funzione predisposti dalla legge – costituisca il mero
«precipitato» dell’autonomia privata [41]. Le conclusioni non possono mutare neppure dopo
l’introduzione dell’art. 2645-ter
c.c., posto che la disposizione – come si avrà modo di vedere tra breve –
delinea un fenomeno assai diverso dal trust.
5. Trust e negozio
fiduciario.
A quanto sopra si potranno poi aggiungere i dubbi
prospettati da una decisione di merito [42], nonché da una parte della dottrina, sul piano
causale del negozio traslativo concernente un trust non autodichiarato [43]. Muovendo, infatti, dalla
constatazione per cui, ai sensi dell’art. 4 della Convenzione de L’Aja, la
convenzione stessa non trova applicazione alle «questioni preliminari relative
alla validità dei testamenti o di altri atti giuridici, in virtù dei quali
determinati beni sono trasferiti al trusteee»,
e dunque al negozio di trasferimento dei beni in trust, si è osservato che, per la validità di tale atto traslativo,
nel caso di un trust interno,
dovranno comunque trovare applicazione le norme della legge italiana. Si è in
proposito contestato che il nostro ordinamento possa ammettere un negozio
traslativo a causa esterna fiduciaria, e si è sul punto negato che nell’ipotesi
in esame la giustificazione causale dell’atto di trasferimento si possa trovare
nel contratto con il quale il fiduciario si è obbligato ad acquistare la
proprietà del bene che il fiduciante intende trasferirgli, quale mezzo per
adempiere la fiducia [44].
Si è in particolare espressa
opinione contraria, in dottrina, sull’ammissibilità della causa fiduciae quale causa sufficiente a trasferire la proprietà
dal fiduciante al fiduciario, sia con riferimento alla fiducia cum amico, sia con riguardo a quella cum creditore. Sotto entrambi i profili viene in considerazione il
medesimo ostacolo, costituito dal limite che l’autonomia privata incontra nella
costruzione di diritti e vincoli reali diversi da quelli direttamente previsti
dalla legge e nel perseguimento di obiettivi volti ad ostacolare la libera
circolazione dei beni, a porre divieti di alienazione ovvero ad effettuare la
dissociazione permanente tra titolarità del bene e suo godimento (donde, ad
esempio, l’inderogabilità della disciplina relativa alla necessaria
temporaneità dell’usufrutto) [45].
Nella medesima direzione
vanno i rilievi di chi ha osservato che «il trasferimento di un bene che venga
successivamente vincolato ad uno scopo al di fuori delle ipotesi sancite dal
legislatore non sembra ammissibile nel nostro ordinamento. (…) Dunque o la
causa di destinazione si ritiene sussistente ed idonea a sorreggere il
trasferimento (…) ovvero manca una giustificazione al trasferimento del bene
che realizzerebbe una ingiustificata sottrazione dei beni dal patrimonio del
disponente idonea a cagionare una illecita riduzione della garanzia generica
del suo patrimonio» [46]. Il rilievo risponde anche
all’osservazione [47] secondo cui la causa del
trasferimento dei beni al trustee
andrebbe individuata nell’attuazione dello scopo del trust, senza necessità di ricorrere ad alcuna causa esterna. Così,
se fosse vero che esiste una causa unitaria che caratterizza la vicenda che
trae origine dall’istituzione del trust
[48] e se fosse vero che, sotto
il profilo causale, il trust non
ammette una rigida separazione tra atto istitutivo e atto attributivo,
trattandosi (come si evincerebbe, secondo taluno, forse anche dall’art. 2 della
Convenzione de L’Aja) di un rapporto giuridico che può essere anche realizzato
attraverso atti separati ma comunque inscindibili sotto il profilo causale,
allora occorrerebbe ammettere che l’interprete si vedrebbe costretto a tornare…
back to square one e a trovarsi di
fronte nuovamente il problema (questa volta «raddoppiato») dell’idoneità (rectius: dell’inidoneità) della
Convenzione a valere come norma di diritto materiale uniforme, anziché solo
come regola di diritto internazionale privato.
Ma, per tornare
all’impostazione «dualistica», espressa con la nota e immaginifica metafora
della «rampa di lancio» (vale a dire il contratto o il testamento che
trasferisce i beni al trustee, così
permettendo al trust di venire in
essere e lanciandolo nel mondo del diritto) e del «razzo» (cioè del trust in sé, che ha vita autonoma ed
indipendente dal negozio che ha costituito, per così dire, la «provvista» della
sua creazione), conformemente, del resto, agli elementi ricavabili dalla
lettura del rapport explicatif della
Convenzione [49], va ammesso che la
questione appare quanto mai spinosa, anche perché tocca direttamente il
principio del numero chiuso dei diritti reali. Proprio per questa ragione, ad
esempio, Pugliatti escludeva l’ammissibilità della causa fiduciae e della proprietà fiduciaria [50]. Di contro si potrebbe però
obiettare che la causa esterna nella fiducia potrebbe forse rinvenirsi in un
mandato senza rappresentanza tra fiduciante e fiduciario, configurando, quale
negozio che il mandatario-fiduciario si obbliga ad eseguire per conto del
mandante, proprio il successivo (ri)trasferimento al mandante o ad un terzo. A
ciò s’aggiunga che oggi il d. lgs. 21 maggio 2004, n. 170, emanato in
attuazione della direttiva 2002/47/CE relativa ai contratti di garanzia
finanziaria, riconosce espressamente il «trasferimento della proprietà di
attività finanziarie con funzione di garanzia» e ciò addirittura con espressa
deroga al divieto del patto commissorio (cfr. art. 6 d.lgs. cit.).
L’atto traslativo – pur
privo in sé di supporto causale –
s’appoggerebbe, dunque, ad una causa esterna o praeterita. E del resto il negozio traslativo a causa esterna non
pare tout court incompatibile con il
nostro ordinamento. Come si è esattamente rilevato in dottrina, l’art. 1376
c.c. agevola le parti, ma non può vincolarle contro la loro stessa volontà [51]. Del resto, che il
principio consensualistico possa essere derogato si desume anche dal secondo
comma dell’art. 1465 c.c. (in materia di risoluzione del contratto per
impossibilità sopravvenuta della prestazione), che consente che l’effetto
traslativo o costitutivo sia differito fino allo scadere di un termine, nonché
dalla ammissibilità nel nostro ordinamento, della clausola che eleva il
pagamento del prezzo a condizione sospensiva di efficacia del contratto [52].
Varrà però la pena di
ribadire che, se le surriferite argomentazioni possono consentire di
giustificare (anche ai sensi e per gli effetti di cui all’art. 4 della
Convenzione de L’Aja) i trasferimenti che s’accompagnano ad un trust non autodichiarato, è la creazione
in sé di tale vincolo che continua a destare perplessità, atteso che la sola autonomia privata non può dar luogo ad
eccezioni rispetto al principio di cui all’art. 2740 c.c., norma che, pur in
presenza di numerose deroghe (e l’art. 2645-ter
c.c., come vedremo, ne rappresenta una vistosa), continua a mantenere il suo
carattere di inderogabilità [53], anche per evidenti motivi d’ordine pubblico. E’
chiaro, infatti, che se ai privati venisse concessa la facoltà di dar vita ad libitum a vincoli di
inespropriabilità, la garanzia patrimoniale generica rischierebbe di vedersi
ridotta ad una mera parvenza, scaricandosi sempre e comunque sui creditori
l’onere di esperire un’azione revocatoria, il cui esito favorevole – avuto
riguardo alle incertezze legate alle prove richieste dall’art. 2901 c.c., anche
in relazione agli atti gratuiti – non potrebbe certo darsi sempre per scontato.
Al riguardo, affermare, come fa una già ricordata
pronunzia di merito [54], che occorrerebbe distinguere tra «atti che mirano
esclusivamente a ridurre la responsabilità dell’individuo sottraendo,
volutamente, i beni alla garanzia dei creditori, ed atti che incidono sul
patrimonio del singolo, dando una specifica destinazione ai beni, senza però
sottrarli ai creditori» significa negare l’evidenza, posto che la riduzione
della garanzia patrimoniale generica è l’inevitabile portato di ogni vincolo di
inespropriabilità, a prescindere dalle intenzioni (magari ottime) che ne
determinano la costituzione e che l’eventus
damni è fenomeno obiettivamente
rilevante, mentre, dal punto di vista dell’elemento soggettivo (consilium fraudis), tutto ciò che conta
è la consapevolezza del pregiudizio (cfr. art. 2901 c.c.): consapevolezza che
ben può concorrere, senza perciò perdere di rilievo, con il più altruistico
degli intenti che possono muovere il costituente.
Nemmeno appare percorribile la via fondata sull’esile
linea di demarcazione che si è ritenuto di dover tracciare tra negozio di
destinazione ed effetto di segregazione patrimoniale. Si è messo in evidenza al
riguardo che, mentre il patrimonio di destinazione sarebbe quella massa di beni
vincolata funzionalmente ad un preciso scopo, la separazione patrimoniale
rappresenterebbe un mero profilo, che pur accede alla destinazione, ma della
quale rappresenta un effetto, peraltro non necessario né coessenziale al suo
profilo funzionale [55]. Ora, se è vero che lo sforzo tendente a fornire
autonoma dignità al negozio di destinazione annovera ormai una discreta serie di
pregevoli studi [56], non pienamente convincenti appaiono i tentativi di
svincolare tale negozio dall’effetto «separatorio» ad esso strettamente
collegato, posti in essere anche al fine di liberarsi dalla necessità di fare i
conti con la regola scolpita dall’art. 2740 c.c. [57].
A parte, invero, il rilievo pratico (inesistente) di
un vincolo di destinazione avulso dalla separazione patrimoniale, non potrà
dimenticarsi che, come pure osservato in dottrina, «il vincolo di destinazione
costituisce la fattispecie rilevante in un doppio senso. Da un alto, viene
posto un limite alla utilizzabilità dei beni facenti capo al titolare, in
quanto destinati a svolgere una particolare funzione, e, dall’altro si crea una
diversità di regimi giuridici, all’interno dei beni costituenti il patrimonio
individuale del soggetto stesso» [58]. E ciò appare tanto più vero se si pensa al fatto che
anche una mera destinazione funzionale, avulsa (in thesi) dall’effetto separativo (o segregativo, che dir si
voglia) appare incompatibile con la norma codicistica più volte citata (art.
2740 c.c.), per la semplice ragione che quest’ultima, a sua volta, contiene in primis una funzionalizzazione del
patrimonio (e dunque un vincolo di destinazione ex lege), nella sua interezza, alla soddisfazione delle ragioni dei
creditori.
E’ dunque vero che, come pure è stato notato, la
creazione di un vincolo di destinazione, al di fuori dei casi normativamente
previsti (e l’introduzione proprio dell’art. 2645-ter c.c. viene al riguardo a presentare un formidabile argomento a contrario), comporterebbe il
frazionamento del patrimonio del disponente, il quale verrebbe a scomporsi in
distinte entità: da un lato, quella formata dall’insieme dei beni destinati
allo scopo; dall’altro lato, quella rappresentata dagli altri beni. I beni
destinati costituirebbero così un patrimonio separato, in deroga all’art. 2740
cpv. c.c. [59]. Né al riguardo vale osservare che contro gli atti
dispositivi idonei a diminuire la garanzia patrimoniale del debitore sarebbe
applicabile il (solo) rimedio dell’azione revocatoria [60], posto che la sussistenza, in una determinata
fattispecie, dei presupposti di applicabilità dell’art. 2901 c.c. non può certo
dar luogo ad una (del tutto anomala ed assolutamente non prevista) esclusione
di operatività per quella stessa fattispecie delle regole generali che
discendono dalla violazione in concreto di una o più norme imperative. Così,
tanto per fare un esempio, nessuno si sognerebbe di sostenere la validità di un
atto costitutivo di fondo patrimoniale ex
artt. 167 ss. c.c. tra conviventi more
uxorio [61], sol perché finalizzato a frodare le ragioni dei
creditori e pertanto revocabile ex
art. 2901 c.c.
6. L’atto di destinazione ex art. 2645-ter c.c. di fronte al trust interno: prime reazioni e impressioni.
Una parte della dottrina (di quella, in particolare,
favorevole alla tesi del trust
interno), posta di fronte alla novità costituita dall’introduzione dell’art.
2645-ter c.c., ad opera dell’art. 39-novies, l. 23 febbraio 2006, n. 51 [62], ha ritenuto di dover immediatamente esaltare le
affinità tra i due istituti qui in esame, concludendo per una coincidenza quasi
totale [63] o, quanto meno, parziale [64] tra gli stessi, evidenziando altresì che la novella
comporterebbe la soluzione in senso positivo dell’annosa questione della
trascrivibilità del trust [65]. Qualche Autore si è addirittura spinto a sostenere
che, a seguito della riforma, il nostro Stato non potrebbe più essere
annoverato tra quelli che «non prevedono l’istituto del trust» e
conseguentemente l’art. 13 della Convenzione de L’Aja non potrebbe più «essere
invocato per negare il riconoscimento ad un trust interno» [66].
Le conclusioni cui il presente scritto tenta di
pervenire sono, come si vedrà, ben diverse. Ma prima di cercare di analizzare
in maniera analitica le differenze tra trust
e atto destinazione ex art. 2645-ter c.c. sarà opportuno gettare un primo
sguardo d’insieme al tenore della disposizione da ultimo citata, che recita
testualmente quanto segue: «Gli atti in
forma pubblica con cui beni immobili o
beni mobili iscritti in pubblici registri sono destinati, per un periodo non superiore a novanta anni
o per la durata della vita della persona fisica beneficiaria, alla realizzazione di interessi meritevoli
di tutela riferibili a persone con disabilità, a pubbliche amministrazioni, o
ad altri enti o persone fisiche ai sensi dell’articolo 1322, secondo comma,
possono essere trascritti al fine di rendere opponibile ai terzi il vincolo di
destinazione; per la realizzazione di tali interessi può agire, oltre al conferente, qualsiasi interessato anche durante la
vita del conferente stesso. I beni conferiti e i loro frutti possono essere
impiegati solo per la realizzazione del fine di destinazione e possono
costituire oggetto di esecuzione, salvo quanto previsto dall’articolo 2915,
primo comma, solo per debiti contratti per tale scopo».
Nel testo sopra virgolettato si sono
evidenziati in corsivo i punti di divergenza (sicura, o, quanto meno,
prospettabile) rispetto al trust.
Appare quindi evidente che (almeno in termini di numero di caratteri!) oltre la
metà della disposizione in esame risulta incompatibile (o pone seri problemi di
coordinamento) con l’istituto del trust.
Più che giustificata sembra dunque, anche solo sulla base di un’indagine
sommaria e compiuta prima facie, la
posizione di chi, pur collocandosi tra i fautori dell’ammissibilità del trust interno, avverte – invitando alla
prudenza – l’impossibilità di istituire un trust
secondo la legge italiana, costituita dal solo art. 2645‑ter c.c., posto che la norma de qua «non disciplina affatto l’istituto
limitandosi a fornire i requisiti basilari che deve avere un atto di
destinazione (atipico) per essere trascritto e reso opponibile ai terzi».
Diversamente opinando, invero, si dovrebbe concludere che «in una sola norma il
legislatore italiano è riuscito a concentrare secoli di tradizione giuridica di
common law e una moltitudine di leggi e di pronunce giurisprudenziali
che hanno riguardato il trust. In altri termini, un trust retto dalla legge
italiana potrà essere variamente classificato e denominato, ma – nella sostanza
– sarà tutto fuorché un trust!» [67].
7. Meritevolezza di tutela degli interessi da
realizzarsi con l’art. 2645-ter c.c. e causa tipica del trust. Meritevolezza del motivo del negozio di
destinazione.
Passando ad esaminare partitamente i diversi profili
di differenza tra i due istituti dovremo concentrare in primo luogo
l’attenzione su quello che di essi appare – ad avviso di chi scrive – più evidente:
al punto da impedire di riconoscere all’art. 2645-ter c.c. la natura anche solo di mero frammento di trust, per l’ontologica ed insanabile
diversità tra i due istituti. Ci si intende qui riferire alla necessaria
presenza di uno scopo coincidente con la «realizzazione di interessi meritevoli
di tutela riferibili a persone con disabilità, a pubbliche amministrazioni, o
ad altri enti o persone fisiche ai sensi dell’articolo 1322, secondo comma»,
c.c.
Diciamo subito che la sottolineatura in questione viene
a tal punto marcata dal legislatore da non consentire dubbi sul fatto che
l’atto istitutivo del vincolo debba obbligatoriamente contenere espressa
menzione dello scopo, tanto che non manca chi parla al riguardo di una
necessaria expressio finis [68], che fornisce la giustificazione del vincolo di
destinazione impresso ai beni e che come tale deve essere contenuta anche
formalmente nell’atto istitutivo [69].
Né sul punto varrebbe obiettare che l’immeritevolezza,
cui fa richiamo per il contratto in generale l’art. 1322 cpv. c.c., sarebbe
ipotesi ormai di scuola e che il requisito menzionato da tale articolo
verrebbe, in buona sostanza, confuso con l’assenza di illiceità [70].
Sia consentito ribattere, in primo luogo, che non
risponde in alcun modo a verità l’opinione diffusa, secondo cui la
giurisprudenza di legittimità non
avrebbe mai dichiarato un contratto atipico lecito, ma immeritevole di tutela [71]. Una ricerca, anche sommaria, negli archivi della
Cassazione mostra, ad esempio, che non mancano certo le ipotesi in cui
Sul dibattito ha forse troppo pesato, in questi ultimi
anni, quell’indirizzo dottrinale che – predicando la perfetta sovrapponibilità
tra meritevolezza e liceità, sottolineando come sarebbe, anzi, opportuno che i
due giudizi non venissero distinti, potendo altrimenti condurre la valutazione
di meritevolezza ad esiti perigliosi, ovvero ad una eccessiva restrizione
dell’agire dei privati per mezzo del contratto [74] – ha prodotto il risultato di ridurre sovente l’art.
1322 cpv. c.c. a svolgere, in maniera del tutto impropria, un ruolo meramente
ancillare, nelle argomentazioni giurisprudenziali, rispetto agli artt. 1418 e
1343 c.c. [75].
Senza dubbio, contro una valorizzazione dell’art. 1322
cpv. c.c. ha giocato il sospetto dell’esistenza di un’ipoteca sulla norma di
tipo, per così dire, «ideologico»: è nota la posizione al riguardo di Betti,
volta a reclamare un severo controllo sulla causa del contratto non solo in
termini di liceità, bensì anche di funzionalità sociale dell’interesse
perseguito [76], laddove tale funzionalità ben si sarebbe potuta
intendere (per lo meno nel disegno originario del codice) come collegata
proprio alle norme corporative, cui faceva espresso richiamo la versione di quel
medesimo articolo varata nel 1943 [77]. Onde anche ricorrenti timori atteggiamenti dirigisti
[78] o, quanto meno, paternalistici del legislatore [79]. Paradossalmente, il tema della distinzione tra
liceità e meritevolezza del contratto è stato sviluppato, in tutt’altra
direzione, specie negli anni ’60 e ’70 del secolo scorso, nella più generale
direzione della «funzionalizzazione» e comunque dei limiti da porre
all’autonomia privata, sovente di stampo solidaristico, direzione rivolta ad
accreditare una specifica lettura del dettato costituzionale (in particolare
l’art. 41, commi secondo e terzo) riguardo all’autonomia dei privati [80].
Ora, proprio il dato storico di queste contrapposte
letture della norma in esame ne conferma la validità, evidenziando la capacità di
quest’ultima di adattarsi alle evoluzioni sociali e politiche, in modo da
assicurare che l’esplicazione della libertà contrattuale si ponga con queste
pur sempre in sintonia [81].
D’altro canto, può darsi per assodato che il requisito
di cui all’art. 1322 cpv. c.c. si riferisce alla sola materia dei contratti
atipici, posto che la meritevolezza di tutela viene garantita, per i contratti
nominati, dal semplice fatto che il legislatore ha ritenuto di prevederli e
disciplinarli [82]. A questo punto si potrebbe allora rimarcare che
l’art. 2645-ter c.c., ancora a
prescindere dal «tormentone dottrinale» circa la sua riferibilità (anche) allo
schema contrattuale [83], costituisce figura sicuramente tipica [84], giudicata a
priori nel tipo come meritevole di tutela, a condizione che meritevole di
tutela sia l’interesse perseguito in concreto, di volta in volta, dal
costituente (o conferente, che dir si voglia).
L’osservazione sembra dunque rendere evidente la
necessità di riferire la meritevolezza, con riguardo agli atti di destinazione,
non già al tipo negoziale individuato dal legislatore – cioè a dire il vincolo,
così come disciplinato (in maniera certo rozza, illogica, contraddittoria: ma
pur sempre disciplinato) dall’art. 2645-ter
c.c. – bensì allo scopo in concreto e di volta in volta perseguito dal
«conferente». In altri termini, ciò che sembra qui far capolino è, a ben
vedere, il concetto (non già di causa, tipizzata dal legislatore, ma) di
motivo, il quale, a differenza che nella disposizione testamentaria (cfr. art. 626
c.c.) e nella donazione (cfr. art. 788 c.c.), rileva non solo in caso
d’illiceità [85], ma, prima ancora, addirittura nell’ipotesi di sua
immeritevolezza.
Sul punto non deve trarre in inganno l’assonanza di
formulazioni tra gli artt. 1322 cpv. c.c. e 2645-ter c.c., né il fatto che il secondo richiami espressamente il
primo, non potendosi valutare le due disposizioni in modo avulso dai contesti
in cui sono inserite. Da un lato, infatti, si pone la norma generale, che
riferisce la meritevolezza a quei contratti la cui causa, invece di essere
dettata dal legislatore, è «plasmata» dalla volontà delle parti, con la
conseguenza che meritevole dovrà essere proprio lo «schema astratto»,
rispondente vuoi a tipizzazioni esistenti nella prassi – la «tipicità sociale»
evocata soprattutto da Betti [86] – vuoi a quei casi in cui la funzione negoziale viene
«forgiata nella specie dalle parti», allorquando esse agiscono regolando i
propri interessi «attraverso contratti che non trovano riscontro in uno schema sufficientemente
tipizzato» [87].
Di contro si presenta la disposizione in tema di
vincoli, che prevede un negozio la cui causa è già predefinita dal legislatore
(la costituzione, cioè, di un vincolo di destinazione dotato delle
caratteristiche e degli effetti descritti dall’art. 2645-ter c.c.) e per la quale il controllo di meritevolezza va pertanto
effettuato non già sulla funzione negoziale, descritta dalla norma, ma sugli
obiettivi perseguiti in concreto da chi quel vincolo vuole creare.
La considerazione rende ragione – se ancora ve ne
fosse bisogno – della necessità, sopra evidenziata, di un’expressio finis, sulla
base di un giudizio che non può essere demandato se non (in prima istanza) al
pubblico ufficiale che redige l’atto [88] e, in ultima analisi, in caso di contestazione, al
giudice.
Il riferimento alla necessità per il pubblico
ufficiale di valutare la meritevolezza di tutela dell’interesse e di
esplicitare tale profilo nell’atto ha già creato non poco allarme nella classe
notarile, la quale teme riflessi sotto il profilo della responsabilità ex art.
Ora, non vi è dubbio che l’atto di vincolo rispondente
a interesse non meritevole di tutela sia nullo, con le note conseguenze che
alla nullità la giurisprudenza (forse troppo) meccanicamente riallaccia per ciò
che attiene alla responsabilità disciplinare del notaio [91]. Peraltro esso, a ben vedere, non può dirsi
«espressamente proibito dalla legge», posto che la proibizione, che dal sistema
si ricava, la si ottiene solo per via indiretta, quale portato dell’assenza di
un elemento fondamentale, e non già per effetto di un espresso divieto.
L’asprezza della conclusione ricavabile dall’analisi dei precedenti
giurisprudenziali può peraltro mitigarsi alla luce di quella giurisprudenza che
sembra volere «che la nullità risulti in modo inequivoco» [92]. Si può quindi ragionevolmente affermare che, quanto
meno ogni volta in cui il giudizio di meritevolezza appaia opinabile e legato a
valutazioni soggettive, l’art. 28 cit. non potrà trovare applicazione [93], dovendosi senz’altro condividere l’opinione secondo
cui al notaio spetta non un controllo
di meritevolezza, ma, piuttosto, un controllo di non manifesta immeritevolezza [94], laddove competerà al
giudice, in caso di successiva contestazione, pronunziarsi sulla positiva
sussistenza di una situazione di meritevolezza.
Dunque ecco stagliarsi una prima, fondamentale,
differenza della fattispecie descritta dall’art. 2645-ter c.c. rispetto al trust.
Se, invero, si ammettesse il trust
interno [95], occorrerebbe anche ammettere che ci si troverebbe di
fronte ad una figura tipica, per la quale la valutazione di meritevolezza è
stata effettuata una volta per tutte, «a monte» (come si direbbe oggi), dal
legislatore, il quale avrebbe così ritenuto di conformarsi ai modelli di trust previsti dai vari ordinamenti che
tale figura conoscono, in quanto richiamati dal capriccio dei costituenti nei
rispettivi atti costitutivi. Ma è chiaro che nessun notaio, in sede di stesura
dell’atto, e nessun giudice, in sede di contestazione, una volta data per
ammissibile la costituzione di un trust
interno, potrebbero mai permettersi di vagliare la meritevolezza del motivo per
il quale esso è stato creato (al di là, è ovvio, della liceità della causa,
che, come si è detto, è cosa che si pone su di un piano ben diverso). Così,
tanto per portare un esempio, l’intento del professionista di evitare, mercé la
segregazione del suo patrimonio in trust,
che un giorno eventuali propri clienti insoddisfatti (e vincitori di ipotetiche
cause di responsabilità nei suoi riguardi) si fiondino sul frutto dei suoi
risparmi, sebbene non illecito, appare (quanto meno a chi scrive) del tutto
immeritevole di tutela, epperò inidoneo a determinare per ciò solo una
declaratoria di nullità dell’atto [96].
Tutto al contrario, nel caso dell’art. 2645-ter c.c., il controllo di meritevolezza
del motivo risulta essenziale per la validità del vincolo e ne costituisce un
elemento strutturale.
Non debbono trarre in inganno al riguardo le opinioni
di coloro i quali, nel timore che l’ammissione del trust interno possa essere contrastata da argomenti che fanno perno
sulla frode ai creditori, s’affrettano a precisare che un giudizio di
meritevolezza è comunque necessario in base al disposto dell’art. 13 della
Convenzione de L’Aja [97]. Norma, questa, la cui portata, come si è avuto modo
di vedere, risulta ben diversa, anche alla luce dei menzionati lavori
preparatori [98].
In ogni caso appare – quanto meno a chi scrive –
contraddittorio, per chi ammette la validità del trust interno, sottoporre quest’ultimo ancora a valutazione di
meritevolezza. Una volta che si sia detto che
Ne esce confermato, dunque, che l’art.
2645-ter c.c. contiene in sé un primo
elemento (la meritevolezza di tutela degli scopi perseguiti con il vincolo) che
lo rende assolutamente incompatibile con il trust,
posto che per la sussistenza di quest’ultimo, una volta che lo si sia ritenuto
ammissibile nel nostro ordinamento, nessun giudizio di meritevolezza – né del
tipo negoziale, né degli scopi perseguiti – è richiesto [99].
8. Il tipo di meritevolezza di tutela degli interessi
da realizzarsi con l’art. 2645-ter c.c.
La diversità della fattispecie
(malamente) delineata dall’art. 2645-ter
c.c. rispetto al trust emerge ancora
più evidente se si cerca di rispondere alla domanda su quale sia il tipo di meritevolezza
richiesto. Qui va subito detto che la dottrina contraria ad appiattire tale
valutazione su di un mero apprezzamento di non illiceità si divide tra chi
afferma la necessità che lo scopo realizzi un fine di utilità sociale, o di
pubblica utilità, che dir si voglia [100], e chi sostiene, in alternativa, che lo scopo –
ancorché non rispondente a tali ultimi fini – potrebbe limitarsi a meritare un
generico «apprezzamento positivo» [101]. L’unico punto su cui sembra esservi convergenza di
vedute è che la meritevolezza non può
consistere nella pura e semplice salvaguardia del patrimonio del costituente da
azioni esecutive dei propri creditori [102].
La tesi della rispondenza a pubblica
utilità trova un preciso addentellato nel dibattito relativo alle fondazioni di
famiglia e pare confermata dalla durata del vincolo, che, potendosi estendere
fino a novanta anni, riferisce la finalità destinatoria necessariamente
all’interesse di terzi diversi dal conferente [103]. Se ne è così concluso che il vincolo potrà bensì
avvantaggiare anche una singola persona fisica, ma non come tale, quanto
piuttosto a condizione che lo scopo della destinazione sia il mezzo per
realizzare anche una diversa finalità di pubblica utilità, come è, ad esempio,
per le c.d. fondazioni di famiglia di cui all’art. 28, terzo comma, c.c. e per
le erogazioni testamentarie di cui all’art. 699 c.c., là dove il criterio della
pubblica utilità è richiamato, onde deve in ogni caso potersi ravvisare un
interesse mediato della collettività [104].
Si è poi anche osservato in proposito che lo scopo di
pubblica utilità aveva un tempo il fine di giustificare, con il perseguimento
di un interesse superiore, il limite alla libera circolazione dei beni e al
libero sfruttamento delle risorse economiche, che il vincolo di destinazione
posto con l’erezione della fondazione comporta. Egualmente detto scopo
nell’art. 699 c.c. assolve alla funzione di giustificare la limitazione del
divieto di annualità successive posto dall’art. 698 c.c. Pertanto la pubblica
utilità può ora, in punto di meritevolezza pretesa dall’art. 2645-ter c.c.,
giustificare non tanto il vincolo di destinazione anche di novanta anni, visto
il mutato orientamento del legislatore, quanto la limitazione della
responsabilità e quindi la soccombenza dell’interesse del creditore in punto
azione esecutiva [105].
Ma, a ben vedere, in dottrina vi è chi
ha prospettato una lettura ancora più rigorosa, fondata sulla valorizzazione
dell’espressa menzione dei disabili, da un lato, e delle pubbliche
amministrazioni, dall’altro. In quest’ottica si è rilevato che «La menzione dei
disabili permea di sé l’intera norma e ne costituisce la chiave di lettura,
secondo un parametro di comparazione, un “concetto relazionale”, che richiede una particolare caratura
dell’interesse in esame» [106]. In questo senso sembrano deporre anche i precedenti
della norma, ispirata ad alcune
(peraltro ben più ponderate e già ricordate) proposte di legge della XIV
legislatura, che, sotto il titolo, rispettivamente, «Disciplina della
destinazione di beni in favore di soggetti portatori di gravi handicap per favorirne
l’autosufficienza» (cfr. la proposta contrassegnata dal N. 3972, presentata
alla Camera dei Deputati il 14 maggio 2003) e «Norme in materia di trust a favore di soggetti portatori di handicap» (cfr. la proposta
contrassegnata dal N. 2377, presentata alla Camera dei Deputati il 10 maggio
2002), miravano ad introdurre, a tutela
delle persone disabili, la possibilità di dar luogo ad un vincolo assai simile
a quello che si attua negli ordinamenti di common
law con il trust [107].
Più che legittimo appare quindi il
dubbio che meritevoli di tutela ex
art. 2645-ter c.c. possano solo
essere, tra gli scopi di utilità sociale, quelli improntati al canone della
solidarietà [108]. Se è vero come è vero che le osservazioni di cui
sopra costituiscono una forte motivazione «per una rigorosa cernita degli
interessi da tutelare» [109] e che
Accanto a tali ipotesi ben potranno collocarsi quelle
dell’avviamento ad una professione o ad un’arte (arg. ex art. 699 c.c.), o della previdenza o dell’assistenza in ambito
lavorativo (arg. ex art. 2117 c.c.) [115].
Come si è già ricordato, poi, il progetto di legge n.
3972 (Camera Deputati) della XIV Legislatura prevedeva la destinazione
negoziale intesa a favorire l’autosufficienza economica dei soggetti portatori
di gravi handicap, ai sensi della
Legge 5 febbraio 1992 n. 104 e successive modificazioni e il mantenimento, l’istruzione e il sostegno
economico dei discendenti. Del resto, la conferma, desumibile dall’art. 439,
secondo comma, c.c., della rilevanza sociale dell’educazione e dell’istruzione
della prole è data dalla non assoggettabilità a collazione, ai sensi dell’art.
742 c.c., delle spese di «educazione» e di quelle per «l’istruzione artistica e
professionale» nella misura ordinaria. Ne consegue che sicuramente meritevole
di tutela sarà da ritenersi la destinazione finalizzata al sostegno dei
disabili, nonché all’educazione, istruzione e avviamento al lavoro di soggetti,
anche determinati [116].
Si è poi anche esattamente rilevato che la normativa
sull’impresa sociale (d.lgs. 24 marzo 2006, n. 155) consente di ampliare le
ipotesi sicure di possibile destinazione negoziale [117]. Del resto, una visione selettiva degli interessi
qualificati da quella meritevolezza che può sorreggere la destinazione, deve
essere coordinata con l’intero corpo ordinamentale. Ne segue che l’art. 10,
d.lgs. 4 dicembre 1997, n.
Ancora, dovrà rimarcarsi che un diverso canone di
approccio, offerto dalla norma, è quello relativo al soggetto beneficiario
della destinazione; in questo caso la semplice riferibilità ad un soggetto con
determinate caratteristiche consente, di per sé sola, la possibilità della
destinazione negoziale; ragionando sui parametri normativi della l. 10 agosto
1991, n. 266 e della l. 8 novembre 1991, n. 381, è sicuramente meritevole
l’interesse teso ad arrecare benefici a persone svantaggiate in ragione di
condizioni fisiche, psichiche, economiche, sociali e familiari; componenti di
collettività estere non ancora integrate (sans
papiers); invalidi fisici, psichici e sensoriali; ex degenti di istituti
psichiatrici; tossicodipendenti; alcoolisti; minori in età lavorativa in
situazioni di difficoltà finanziarie; condannati ammessi alle misure
alternative al carcere; altri soggetti che si trovano in situazioni di
emarginazione o in condizioni di rischio e di insicurezza sociale come gli ex
detenuti, i giovani in cerca di primo impiego da più di due anni, le persone
escluse dal processo produttivo dopo i quaranta anni, le donne sole con figli a
carico, gli anziani in stato di indigenza, gli extracomunitari, i profughi e
gli esuli politici e così via [119].
Un altro rimarcabile punto di differenziazione tra le due
figure in esame attiene a quella dialettica tra profilo «statico» e profilo
«dinamico» che caratterizza il trust
nei rapporti tra vincolo di destinazione ed effetto traslativo dei diritti. E’
noto infatti che, a meno che si versi in ipotesi di trust autodichiarato [120], l’istituto di matrice anglosassone prevede
usualmente un trasferimento (dal settlor
al trustee) dei beni su cui il
vincolo viene a costituirsi, nonché la previsione di un ulteriore
trasferimento, una volta che le finalità del trust siano state realizzate, ad un soggetto determinato, che potrà
essere il settlor (ed in tal caso si
avrà un vero e proprio ritrasferimento), o, in alternativa, uno o più dei
beneficiari, che acquisteranno così la veste di beneficiari finali [121].
Se volgiamo l’attenzione all’art. 2645-ter c.c., scopriamo che la disposizione
contiene le seguenti espressioni: «atti in forma pubblica con cui beni immobili
o beni mobili iscritti in pubblici registri sono destinati, per un periodo non
superiore a novanta anni o per la durata della vita della persona fisica
beneficiaria, alla realizzazione di interessi meritevoli di tutela» e poco
sotto, «vincolo di destinazione». Ora, i concetti di «destinazione per un
determinato periodo» e di «vincolo» sono ben distinti da quello di «trasferimento
di un diritto». Un bene può essere vincolato ad un scopo senza essere
trasferito ad un soggetto diverso dal suo titolare, come avviene, ad esempio,
nel fondo patrimoniale su beni dei coniugi o nel trust autodichiarato, nel quale è lo stesso costituente a porsi
quale trustee. Vincolo di
destinazione significa che il bene può essere amministrato solo in vista della
realizzazione di quello scopo e che risponde ai soli creditori i cui diritti si
fondano su atti di gestione compiuti in vista della realizzazione dello scopo
medesimo. Ma tutto ciò, con il trasferimento dal costituente al trustee, che pure caratterizza il trust non autodichiarato, nulla ha a che
vedere.
La prima e provvisoria conclusione alla quale sembra
potersi pervenire sul punto è che la norma novellamente introdotta nel codice
civile si limita a prevedere la costituzione di un vincolo in maniera del tutto
avulsa dal fatto che in vista di tale vincolo sia stato effettuato un
trasferimento del diritto sul bene da vincolarsi, ovvero che le parti
pattuiscano un ritrasferimento in capo al trasferente, o un trasferimento
ulteriore, una volta che il vincolo sia giunto a scadenza. In questo senso
sembra anche orientata la circolare n. 5/2006 della Direzione dell’Agenzia del
Territorio, del 7 agosto 2006 [122], la quale rimarca, testualmente, che «Quanto ai
profili di merito, sembra opportuno ribadire preliminarmente la circostanza che
detti atti di destinazione producono soltanto effetti di tipo “vincolativo”.
Come già in parte accennato, infatti, i beni oggetto degli atti di
destinazione, pur venendo “segregati” rispetto alla restante parte del
patrimonio del “conferente” – al fine di garantire la realizzazione degli
interessi meritevoli di tutela cui è preordinato il vincolo – restano comunque
nella titolarità giuridica del “conferente” medesimo».
Nonostante ciò, molti interpreti concordano nel
ritenere che l’art. 2645-ter c.c.
possa anche prevedere un momento traslativo. Più esattamente, mentre alcuni
sembrano dare tale effetto quasi per scontato [123], altri cercano di fornire dimostrazioni al riguardo,
sovente appoggiandosi alle ambiguità della formulazione normativa.
Così si è affermato che siffatta conclusione trarrebbe
conferma dal fatto che il testo «considera normale l’eccedenza della durata del
vincolo rispetto alla vita del disponente, perché chiama “conferente” il
disponente e, infine, perché consente a terzi interessati di agire per
l’attuazione della finalità dell’ “atto di destinazione” anche dopo la morte
del “conferente”». Non solo. La legge, oltre a parlare di «conferente» e di
«beni conferiti», attribuisce al conferente il potere di agire per
l’adempimento dello scopo, così facendo chiaramente intendere che, non
potendosi immaginare che il conferente convenga in giudizio se stesso, occorre
necessariamente concludere che la norma dà per scontato l’intervento di un
terzo soggetto, cui il diritto sul bene vincolato viene trasferito [124].
Cominciamo dal termine [125] «conferente» e da quello, ad esso riferito, «beni conferiti». Sotto il profilo strettamente etimologico andrà notato che il verbo confero deriva da cum-ferre: le espressioni in oggetto denotano dunque un atto traslativo (ferre) compiuto con altri soggetti. La conferma balza agli occhi sol che si ponga mente ai conferimenti del diritto societario (cfr. ad es. artt. 2253, 2343 ss., 2440 c.c.), o al conferimento per la costituzione di fondi di garanzia (art. 2548 c.c.), ma anche al conferimento negli ammassi (art. 837 c.c.) o al verbo «conferire» impiegato dalle norme (cfr. artt. 737, 739, 740, 751 c.c.) in tema di collazione (termine che deriva, a sua volta, proprio dal verbo conferre). La giurisprudenza impiega dal canto suo questa medesima terminologia per denotare l’inserimento, in comunione convenzionale tra coniugi, di uno o più beni che, in assenza di convenzione, sarebbero rimasti personali ex art. 179, lett. a), c.c. (
Altrettanto sicuramente può però rimarcarsi che, nel
linguaggio corrente, il verbo «conferire» e il sostantivo «conferimento» possono
essere riferiti anche ad una semplice sottoposizione a vincolo, a prescindere
dal fatto che ciò presupponga il trasferimento della proprietà sul bene
vincolato, come dimostrato da una florida messe di pronunzie di legittimità,
che, senza alcuna difficoltà, parlano di «conferimento» (e/o di «beni
conferiti») in fondo patrimoniale [127], come
del resto già si diceva per la dote (che pure si
sostanziava in un mero vincolo) [128] e – a quanto pare – si comincia a dire pure per il trust autodichiarato [129]. Quanto
sopra dimostra – anche senza supporre lapsus freudiani del legislatore [130] – che l’impiego dei termini in discorso non tradisce
necessariamente l’intento di richiamare una vicenda traslativa di diritti, ben
potendo riferirsi anche alla sola intenzione di denotare la costituzione di un
vincolo [131].
Per quanto attiene poi al fatto che il legislatore mostrerebbe di considerare normale l’eccedenza della durata del vincolo rispetto alla vita del disponente [132], va detto che non sussistono difficoltà nel riconoscere che il vincolo si trasmetta agli eredi del titolare del diritto vincolato: ma ciò non ha nulla a che vedere con la natura traslativa o meno del fenomeno descritto dall’art. 2645-ter c.c. Del resto non si riesce a comprendere perché un ipotetico trustee all’italiana ex art. 2645-ter c.c. dovrebbe essere dotato di una longevità maggiore di quella del costituente. Proprio l’ipotesi (pure essa «fisiologica») della premorienza di tale soggetto rispetto al momento di cessazione del vincolo, ben lungi dal risolvere il problema adombrato, pone, anzi, il quesito della trasmissibilità agli eredi di quest’ultimo.
Venendo alla legittimazione attiva concessa al
conferente medesimo, si è asserito [133] che anche tale elemento confermerebbe gli effetti
traslativi (o anche traslativi) della vicenda descritta nell’art. 2645-ter c.c., poiché non avrebbe senso
legittimare il costituente ad agire contro se stesso. Ne deriverebbe una
necessaria scissione tra «conferente» ed un soggetto distinto, che finirebbe
con lo svolgere funzioni analoghe a quelle di un trustee. Ma, a parte il rilievo che, negli ordinamenti di common law, il settlor non ha generalmente azione contro il trustee, onde si porrebbe un’ulteriore distinzione tra la figura in
esame ed il trust [134], si può però obiettare, in primis, che il riferimento all’azione del costituente ben può
intendersi come riferita ad un’actio
mandati del costituente stesso contro il mandatario che il medesimo abbia
eventualmente incaricato di attuare lo scopo [135]. D’altra parte, come messo in luce in dottrina, «la
previsione di una sistematica legittimazione attiva del conferente potrebbe (…)
anche indicare che il conferente, essendo sempre altresì gestore del fondo
destinato, ha il potere di attivarsi per la realizzazione del fine di
destinazione contro qualunque soggetto terzo che tenti di impedirla» [136].
Concludendo sul punto, ben può concordarsi con chi
afferma che la norma non pare offrire elementi testuali decisivi in un senso o
nell’altro, poiché utilizza ora termini neutri al riguardo (beni «destinati»;
«vincolo di destinazione»; «fine di destinazione»), ora termini ambivalenti, in
quanto evocano l’immagine di un trasferimento di beni («conferente»; beni
«conferiti») ma vengono inseriti in un contesto in cui mai viene menzionata
l’esistenza di un soggetto gestore che sia diverso dal soggetto autore della
destinazione [137].
10. Segue. Vicende traslative disposte dall’autonomia
delle parti in relazione all’art. 2645-ter c.c.
La conclusione di cui sopra – secondo cui costituzione
di un vincolo e trasferimento del diritto sul bene già vincolato, o da
vincolarsi, sono vicende radicalmente distinte tra di loro, mentre l’art. 2645-ter c.c. sembra far riferimento alla
sola prima delle due, con conseguente differenziazione rispetto al trust – non risolve ancora di per sé
l’ulteriore quesito circa la possibilità che le parti autonomamente e in base
ai principi di autonomia privata prevedano un trasferimento in vista
dell’attuazione del vincolo medesimo. La questione rievoca gli accaniti
dibattiti sull’idoneità del consenso a riprodurre nel diritto italiano questo
effetto, tipicamente conosciuto dagli atti costitutivi di trust (almeno, di quelli non autodichiarati) nel diritto
anglosassone. Ad essa vi si è già fatto cenno [138] e in questa sede non si potrà far altro che rilevare
come l’esistenza di un articolo quale il 2645-ter c.c., ancorché non delineante di per sé una fattispecie
traslativa, può ora porsi quale idonea causa al trasferimento operato in
funzione del vincolo di destinazione meritevole di tutela e costituito con il
rispetto delle regole previste dalla disposizione.
In altre parole, mentre in precedenza il trasferimento
in funzione della costituzione di un vincolo da trust, non coperto dall’operatività della Convenzione de L’Aja, per
effetto del disposto del suo art. 4, non poteva ritenersi sorretto da idonea
causa, se non ricorrendo alla controversa tesi della causa fiduciae, può ora dirsi che la translatio dominii compiuta in funzione della costituzione di un
vincolo quale quello (malamente) descritto dall’art. 2645-ter c.c. sia giustificata, proprio perché diretta a porre in essere
un vincolo (questa volta espressamente) riconosciuto dalla legge. Trattasi
dunque di trasferimento causalizzato dall’art. 2645-ter c.c., in quanto posto in essere per raggiungere lo scopo
meritevole di tutela e perché attuato verso un soggetto incaricato, in base ad
un apposito mandato (e/o di un contratto d’opera, visto che il più delle volte
non si tratterà certo solo di porre in essere atti giuridici) di porre in
essere tutti i comportamenti ritenuti idonei al fine di ottenere il
conseguimento dello scopo sperato [139].
Ammettere che
l’autonomia delle parti possa attuare il trasferimento ad un mandatario
«attuatore del vincolo» ex art. 2645-ter c.c. non significa però ancora che
l’istituto qui in oggetto possa sovrapporsi al trust, specie se si pone mente all’estensione della separazione
patrimoniale che il trust suole
produrre nei sistemi di common law.
Basti pensare, a titolo d’esempio, che, una volta ammessa questa forma di
trasferimento, non può certo dirsi che rispetto a tale «attuatore» si producano
gli effetti che l’art. 11, secondo comma, lett. c), della Convenzione de L’Aja
prevede in capo al trustee, vale a
dire che (secondo quanto previsto dalla maggior parte delle leggi straniere
richiamate nell’atto costitutivo del trust)
«i beni del trust non facciano parte del regime
matrimoniale o della successione
dei beni del trustee». Come rilevato in dottrina [140], si tratta di un complemento importantissimo del
regime di separazione patrimoniale, a cui consegue l’esclusione del bene vincolato dalla comunione legale dei beni, nonché
dalla successione per causa di morte del trustee, coerentemente con la natura di «proprietà nell’interesse
altrui» di quest’ultimo.
In diritto italiano un
tale effetto non è previsto dalla legge, cosicché – nel caso in cui il vincolo
di destinazione ex art. 2645‑ter
c.c. sia accompagnato dal trasferimento della proprietà, fiduciae
causa, ad un terzo –
si porrà il problema della sua eventuale inclusione nel regime di comunione
legale dei beni del fiduciario, nonché quello della trasmissione agli eredi del
fiduciario medesimo in caso di sua morte. Per quanto concerne il regime
patrimoniale, la dottrina ha sostenuto l’esclusione
della proprietà fiduciaria, ed in genere degli acquisti meramente «strumentali»
e «non definitivi» dalla comunione legale dei beni [141], ma si tratta di opinione
assolutamente non convincente, in assenza di
una disposizione espressa che tale esclusione sancisca, di fronte al principio
generale stabilito dall’art. 177, lett. a), c.c. D’altro canto la
giurisprudenza di legittimità ha già avuto modo di affermare [142] l’inopponibilità dell’interposizione reale al coniuge
dell’interposto in comunione legale con quest’ultimo. Al coniuge è dunque stato
riconosciuto il diritto di esperire proficuamente l’azione di annullamento ex art. 184 c.c. di un preliminare volto
al trasferimento del bene dall’interposto all’interponente [143].
Ancora più grave è il
problema della successione per causa
di morte del fiduciario: in assenza di disposizioni di legge che tale
successione escludano, alla morte del proprietario del bene gli subentreranno i
suoi eredi, i quali saranno tenuti in quanto tali all’osservanza delle
disposizioni del mandato fiduciario, con possibili inconvenienti, connessi se
non altro all’inesistenza di un rapporto di fiducia tra il disponente ed i
suddetti eredi, e salvo il disposto dell’art. 1722, n. 4, c.c. [144].
11. Segue. Il trasferimento alla scadenza del
vincolo.
Strettamente collegato al momento traslativo è quello
dell’eventuale ritrasferimento del diritto dominicale – una volta trascorso il
periodo di durata, o che si sia verificata la morte del beneficiario – dall’
«attuatore» al costituente, o a un terzo, ovvero ancora dallo stesso
costituente (e contemporaneamente «attuatore», o dagli eredi di quest’ultimo)
ad un terzo. E’ noto che questo aspetto è uno dei profili salienti dei trusts, che sovente prevedono proprio la
duplice figura del beneficiario immediato e del beneficiario finale: il primo
dei quali è costituito dal soggetto che s’avvantaggia del vincolo di durata,
mentre il secondo (che può anche coincidere con il primo) è la persona cui andrà
trasferita la proprietà dei beni (già) vincolati [145].
Ancora una volta i sostenitori della ammissibilità del
trust interno non sembrano mostrare
dubbi sulla liceità di una siffatta pattuizione [146], al punto da spingersi ad ipotizzare la
trascrivibilità immediata, nel caso di mandato senza rappresentanza ad
acquistare, del «vincolo di
destinazione dei beni a beneficio del mandante. Senza, quindi, necessità
di attendere l’eventuale inadempimento del mandatario al fine di trascrivere la
domanda di esecuzione in forma specifica dell’obbligo di ritrasferimento», così
«assicurando al mandante una tutela reale almeno a partire dal momento in cui
l’acquisto è effettuato ad opera del mandatario» [147].
Ma, a parte il dubbio [148] che la novella si occupi veramente del mandato senza
rappresentanza e della causa fiduciae,
tutto quanto si può ricavare (e con una certa fatica!) dall’art. 2645-ter c.c. – come si è visto – è
l’ammissibilità di un trasferimento strumentale ad un vincolo e non certo
quella di un vincolo strumentale ad un trasferimento. Il vincolo di cui si
discute, infatti, per la sua intrinseca temporaneità non può esaurirsi se non
in un impiego del bene perché il suo reddito realizzi scopi meritevoli di
tutela denunziati nell’atto costitutivo: tale impiego non può dunque risolversi
in un’attribuzione del diritto dominicale (o di altri diritti reali) una volta
esaurita la funzione per cui il vincolo era stato creato.
Rimane pertanto evidenziata un’ulteriore ragione di
distinzione della fattispecie descritta dall’art. 2645-ter c.c. rispetto al trust,
nel quale, come già ricordato, il fenomeno del ritrasferimento al settlor o del trasferimento ad un
soggetto distinto dal trustee
costituisce un elemento naturale del trust
non autodichiarato [149]. Un elemento che peraltro viene sovente a porre, con
riguardo alla nostra legislazione, seri problemi di compatibilità con taluni
istituti del diritto successorio (e di ammissibilità stessa del trust, ai sensi dell’art. 15 della
Convenzione de L’Aja): la clausola di ritrasferimento, se legata alla morte del
trustee, potrebbe invero incorrere in
nullità per violazione del divieto dei patti successori e, se contenuta in una
disposizione mortis causa, per
violazione delle regole che vietano, in linea di massima, la creazione di un ordo successivus.
12. Ulteriori differenze tra la fattispecie descritta
dall’art. 2645-ter c.c. e il trust: beni oggetto del vincolo e durata di quest’ultimo; beneficiari
nascituri e in catena di successione; trust e vincolo «di scopo».
Altre notevoli differenze tra la fattispecie descritta
dall’art. 2645-ter c.c. e il trust attengono a svariati profili, che
verranno qui brevemente illustrati.
Il primo concerne l’individuazione dei beni che di
tali istituti possono costituire oggetto. Non si dubita, invero, che il trust consenta di creare vincoli di
destinazione non solo su beni immobili o mobili registrati, ma anche su
qualsiasi altro tipo di cosa [150]. Una certa incertezza sembra regnare sulle modalità
da seguire per pubblicizzare il vincolo di destinazione da trust su beni non registrati, suggerendosi, da parte di taluno, che
alla segregazione giuridica si accompagni anche la «segregazione fisica» [151], laddove da parte di altri si ritiene di far leva sulle
regole che governano l’opponibilità ai terzi nel processo esecutivo [152]: tra queste dovrebbe campeggiare il requisito
dell’atto avente data certa anteriore al pignoramento, secondo quanto disposto
dall’art. 2915 c.c. per i vincoli di indisponibilità su beni diversi da quelli
immobili o mobili registrati [153].
Analogamente si è tentato di estendere la sfera di
applicabilità dell’art. 2645-ter c.c.
anche a beni diversi da quelli indicati dalla norma, sottolineandosi come il
vincolo potrebbe avere ad oggetto pure beni mobili non registrati, purché
idonei ad una qualche forma di pubblicità [154]; a sostegno di questa conclusione si è aggiunto che
«una soluzione che non consentisse di estendere anche ai beni mobili la
ammissibilità dell’assoggettamento al vincolo di destinazione sarebbe
senz’altro da respingere in una realtà come quella odierna in cui la ricchezza
mobiliare svolge un ruolo da sicura protagonista nel traffico dei mercati» [155]. Di contro a queste argomentazioni si pone comunque
il fatto, innegabile, che il proposto ampliamento non potrebbe attuarsi certo
per via di interpretazione estensiva, richiedendo esso invece una vera e
propria estensione analogica, vietata dal carattere eccezionale dell’istituto,
che si pone in deroga all’art. 2740 c.c.
Ulteriore profilo di differenza rispetto al trust è costituito dalla limitazione del
vincolo a novanta anni o alla vita del beneficiario. La ratio di siffatta limitazione nell’art. 2645-ter c.c. va ricercata nell’esigenza – avvertita peraltro, ad
esempio, in tema di disciplina del diritto di usufrutto – di non «intaccare» in
profondità il diritto di proprietà svuotandolo, in concreto, del suo effettivo
contenuto con un vincolo di durata eccessivamente lunga, con grave nocumento
per le esigenze di mercato e della produttività, oltre che della circolazione
della ricchezza in genere [156]. Sembra d’altro canto esservi concordia di opinioni nel ritenere che, nel caso in cui
nell’atto di destinazione sia indicato un limite di durata superiore ai novanta
anni o non sia previsto alcun limite di durata, si assisterà al fenomeno della
sostituzione ex lege della clausola invalida con quella legale [157].
Esaminando ora la
questione sul versante del trust, va
ricordato che, sebbene svariati ordinamenti di common law pongano limiti temporali alla durata del vincolo [158], il fondamento e le ragioni attuali di tali limiti
sono contestati, e proprio per ciò in molte legislazioni straniere il limite di
durata è stato abolito, consentendosi così anche un trust perpetuo [159].
In qualche modo
collegato a questo argomento è l’interrogativo circa la possibilità di
prevedere come beneficiari persone
fisiche che non siano ancora nate nel momento in cui viene creato il vincolo di
destinazione. Qui, mentre per il trust non sembrano sussistere problemi [160], si è prospettata, in
relazione all’art. 2645-ter c.c. l’estensibilità analogica degli artt.
462 e 784 c.c., con la conseguenza che beneficiario potrebbe essere sia una
persona vivente al momento della costituzione del vincolo, sia il nascituro che
risulti concepito a quel momento, sia infine il figlio nascituro non concepito
di persona vivente a quel momento [161]. Ma la conclusione appare
inaccettabile, presupponendo l’estensione analogica di ben due principi
eccezionali: vale a dire, da un lato, quello che, nel campo delle successioni e
delle donazioni, attribuisce la capacità giuridica a soggetti non ancora nati,
in violazione della regola scolpita nell’art. 1 c.c. e, dall’altro, quello che,
mercé l’art. 2645-ter c.c., consente di creare vincoli di destinazione
in violazione dell’art. 2740 c.c.
Un ulteriore problema,
pure collegato all’individuazione dei beneficiari e che evidenzia una
sostanziale differenza della norma codicistica rispetto al trust, concerne l’ammissibilità della designazione di una pluralità
di beneficiari, pacificamente ammessa nell’istituto di common law, ove si concede che l’atto istitutivo contenga
l’indicazione di beneficiari in «catena di successione», in caso di morte dei
precedenti [162], peraltro in violazione del principio del divieto dei
patti successori (se contenuto in un atto inter
vivos) e della sostituzione fedecommissaria (se contenuto in un
testamento), in caso di applicabilità del diritto italiano ex art. 15 della Convenzione de L’Aja. Proprio queste
considerazioni, unitamente al dato letterale, consistente nel fatto che l’art.
2645-ter c.c. si esprime al
singolare, e a quello teleologico (desumibile dall’intento del legislatore di
evitare vincoli perpetui o comunque di durata eccessiva), inducono ad escludere
che la disciplina in tema di atti di destinazione consenta la designazione di
una pluralità di beneficiari in «catena di successione», in caso di morte dei
precedenti [163].
Restando in tema di beneficiari, potrà evocarsi il
quesito circa il «trust di scopo»,
vale a dire quel trust che non è
destinato ad avvantaggiare una o più persone identificate o identificabili: si
tratta, più precisamente, di quei trusts
rispetto ai quali non può esistere, per come il rapporto è configurato, alcun
soggetto legittimato ad agire per tutelare un interesse proprio [164]. L’esempio più classico è costituito nel diritto
inglese dal trust c.d. charitable: l’unico, tra l’altro, tra i trusts ordinari, ad essere esente dal
limite di durata [165]. Ebbene, se osserviamo la situazione sul versante
dell’art. 2645-ter c.c. dobbiamo
concludere che l’espresso riferimento normativo all’azione del soggetto
beneficiario lascia intendere che è
necessaria la presenza di un beneficiario determinato. Ciò impedisce la
costituzione di un vincolo a
destinazione generica come, per esempio, la cura dei disabili o dei poveri, a meno che non sia cura dello
stesso conferente individuare un soggetto che si faccia portatore di questi
interessi, per es., la direttrice di un determinato istituto. In concreto
sembra quindi non ammissibile un «atto di destinazione di scopo», che presenti
caratteristiche analoghe ai «trusts di
scopo» [166].
13. Segue. Forma del trust e forma del vincolo ex art.
2645-ter c.c.
Anche in tema di forma
si registrano notevoli differenze tra i due istituti qui a raffronto. E’ noto
infatti che l’art. 3 della Convenzione de L’Aja dichiara riconoscibile un trust contenuto in un mero atto scritto,
senza imporre il ricorso ad un atto pubblico [167], mentre l’art. 2645-ter c.c. richiede, per l’appunto, proprio questa solennità. Potrà
ricordarsi che, al riguardo, si è da taluno prospettato che la forma pubblica
sia richiesta solo per la trascrizione dell’atto e non già per la sua
intrinseca validità [168]. Sembra peraltro intrinsecamente contraddittorio
affermare, da un lato, che si può creare il vincolo con scrittura privata,
mentre, dall’altro, il solo veicolo idoneo a rendere il vincolo opponibile ai
terzi sarebbe la forma pubblica. Se il vincolo potesse, invero, essere
validamente costituito per scrittura privata, il costituente sarebbe
legittimato a proporre domanda giudiziale ex
art. 2652, n. 3 c.c., così comunque ottenendo – mediante questo barocco
artificio – l’effetto costitutivo del vincolo.
Più convincente appare
dunque l’opinione di chi argomenta il carattere ad validitatem della forma scritta sulla base del raffronto con i
principi in tema di pubblicità del contratto preliminare. Si rileva così che l’art. 2645-bis
c.c. prevede, sì, la trascrizione del contratto preliminare, ma, poiché tale
contratto non pretende la forma dell’atto pubblico, la norma si premura di
precisare al primo comma che la trascrizione è possibile a condizione che esso
risulti da atto pubblico o da scrittura privata con sottoscrizione autenticata
o accertata giudizialmente. Di contro, il silenzio dell’art. 2645-ter
c.c. sul punto non può significare che – essendo questa norma anche norma sulla
fattispecie – la previsione dell’atto pubblico attiene alla forma dell’atto
medesimo, onde inutile diventerebbe la precisazione, contenuta viceversa
all’art. 2645-bis, n. 1, c.c., circa la forma necessaria per la
trascrizione» [169].
La questione della
forma sollecita un approfondimento sul carattere necessariamente (o meno)
notarile dell’atto pubblico cui l’art. 2645-ter
c.c. fa richiamo. Il fatto che l’art. cit. non menzioni espressamente
l’intervento di un notaio consente di fare tesoro di quella evoluzione
dottrinale e giurisprudenziale, che, a partire dai lavori dello scrivente, ha
portato a riconoscere natura a tutti gli effetti di atto pubblico ex art. 2699 c.c. al verbale d’udienza
di separazione consensuale o di divorzio su domanda congiunta [170].
Dovrà dunque ritenersi
consentito, nell’ambito di un contratto della crisi coniugale, proporre al
cancelliere, sotto la direzione (art. 130 c.p.c.) del giudice (vuoi
monocratico, vuoi collegiale, a seconda dei casi) la creazione di un vincolo
nell’interesse di uno dei coniugi e/o dei figli (maggiorenni o minorenni che
siano), o anche, a seconda dei casi, di taluni soltanto di essi. Il tutto,
naturalmente, a condizione che il complesso delle condizioni concordate
soddisfi il canone irrinunciabile dell’interesse dei minori eventualmente
coinvolti e sul presupposto (non richiesto tanto dalla legge, quanto dalle
necessità pratiche e dalla complessità del sistema) che le parti stesse siano
sul punto adeguatamente assistite e consigliate. Il relativo verbale costituirà
dunque titolo idoneo per la trascrizione, anche ai sensi dell’art. 2645-ter c.c.
Da un punto di vista
più generale, anzi, non è escluso che – anche al di fuori dei procedimenti di
separazione e di divorzio – il cancelliere, sotto la direzione del giudice,
possa ricevere la costituzione di un vincolo di destinazione, purché siffatta
costituzione s’inquadri in una di quelle attività negoziali che il cancelliere
è espressamente chiamato dalla legge a documentare. Ci si intende qui riferire
in particolare al verbale di conciliazione giudiziale (e in proposito si noti
che l’art. 185 c.p.c. prevede, al capoverso, che in caso di conciliazione
giudiziale, si formi «processo verbale della
convenzione conclusa»; cfr. inoltre art. 88 disp. att. c.p.c.), il quale
ben potrà contenere un siffatto negozio, nel quadro di un più ampio accordo
transattivo, sempre a condizione, beninteso, che il vincolo risponda ad
interessi meritevoli di tutela, secondo quanto specificato a suo tempo [171]. Così, ad esempio, si potrà stabilire che l’attore
rinunzia agli atti processuali ed all’azione, in cambio dell’impegno del
convenuto a costituire su determinati immobili un vincolo di destinazione in
favore di una certa fondazione benefica o del figlio disabile dell’attore
medesimo.
14. Vincoli di destinazione e crisi coniugale.
L’argomento discusso
nella parte conclusiva del paragrafo precedente, sull’idoneità del verbale di
separazione consensuale o di divorzio su domanda congiunta a costituire
l’indispensabile supporto formale di un vincolo di destinazione ex art. 2645-ter c.c., induce inevitabilmente alla trattazione del ruolo, di un
certo interesse pratico, che l’istituto in esame può svolgere nell’ambito della
crisi coniugale.
Lo spunto appare
avvalorato dalla considerazione dei rilievi critici che lo scrivente ha avuto
modo di rivolgere all’utilizzo del trust
in questo delicato settore [172], secondo quanto invece suggerito da diverse voci.
Così, per esempio, si è affermato che il trust
potrebbe costituire uno strumento di estrema importanza allo scopo di
intervenire efficacemente nella genesi della crisi della coppia, e quindi, nel
momento antecedente l’inizio del procedimento di separazione o divorzio o in un
secondo momento, successivo alla conclusione di questi procedimenti, una volta
che la volontà delle parti (in sede consensuale) o la determinazione del
giudice (in sede contenziosa) abbiano imposto un contributo di mantenimento o
un assegno a carico di un coniuge [173].
L’effetto segregativo
proprio del trust consentirebbe di
opporre il vincolo ai creditori del disponente, così garantendo il pagamento
delle prestazioni periodiche in favore del coniuge e/o alla prole anche di
contro a possibili azioni esecutive di terzi, fatte salve, beninteso, eventuali
domande revocatorie [174]. A ciò s’aggiunga che il trasferimento del bene al trustee, nel caso di immobili, titoli
azionari o altri beni soggetti a forme di pubblicità, comporta formalità che da
sole impediscono atti di disposizione illegittimi: chiunque sia il trustee (il coniuge obbligato o un
terzo) sarebbero pertanto prevenuti atti di disposizione in danno degli
interessi protetti [175].
Ove si dovesse ammettere
il trust interno e, in ogni caso, per il trust creato in
situazioni caratterizzate dalla obiettiva presenza di un elemento di
estraneità, siffatto vincolo potrebbe essere costituito nell’ambito dello
stesso negozio di separazione consensuale, di separazione di fatto, o di
divorzio su domanda congiunta: le parti verrebbero così a porre in essere lo
strumento attraverso il quale determinare le modalità di adempimento degli
obblighi ex artt. 155 ss., 156 c.c.,
5 e
Si è poi anche
rimarcato che «l’istituzione di un trust
avrebbe una valenza estremamente garantista relativamente ai diritti alimentari
o di mantenimento vantati da coniuge e prole, in quanto consentirebbe di
isolare le risorse del coniuge obbligato al mantenimento, o agli alimenti,
affinché non possano essere distolte dall’adempimento di queste obbligazioni».
Il primo positivo effetto sarebbe infatti quello di evitare qualsiasi conflitto
fra i creditori del coniuge obbligato e i creditori della prestazione
alimentare, posto che questi ultimi sarebbero pienamente garantiti [177]. Siffatte indicazioni sono già state recepite nella
prassi, che annovera verbali di separazione omologati, contenenti la previsione
di trusts [178].
Ora, se non vi è
dubbio che il trust – sempre,
ovviamente, a condizione che lo si ritenga ammissibile nella versione «interna»
e salvo l’eventuale esperimento dei rimedi revocatori – consente il vantaggio
di una separazione patrimoniale, in grado di tutelare adeguatamente i creditori
delle prestazioni postmatrimoniali nei confronti dei possibili creditori
dell’obbligato, altrettanto condivisibile non appare l’affermazione secondo la
quale l’ordinamento civilistico italiano non offrirebbe alternative
all’istituto di matrice anglosassone per il raggiungimento di siffatta finalità
di garanzia del coniuge separato e della relativa prole.
Si è avuto modo di evidenziare in altre sedi [179] quanto possa dirsi articolato il complesso sistema di
garanzie apprestato dall’ordinamento per l’adempimento degli obblighi derivanti
dalla separazione o dal divorzio: basti pensare all’obbligo di prestare idonea
garanzia reale o personale, all’iscrizione dell’ipoteca giudiziale ai sensi
dell’articolo 2818 c.c., al sequestro di parte dei beni del coniuge obbligato,
all’ordine ai terzi, tenuti a corrispondere anche periodicamente somme di
danaro all’obbligato, che una parte di esse venga versata direttamente agli
aventi diritto (ex artt. 156, quarto, quinto e sesto comma, c.c., 8,
primo, secondo e settimo comma, l.div.), alla distrazione dei redditi ed
all’azione diretta esecutiva ex art. 8, terzo, quarto, quinto e sesto
comma, l.div., al decreto ex art.
148, secondo, terzo, quarto e quinto comma, c.c., ai rimedi (malamente)
apprestati dall’art. 709-ter c.p.c.
In proposito, va detto che il rilievo secondo il quale i limiti del sistema di
garanzia così delineato emergerebbero proprio nelle ipotesi in cui il soggetto
debitore non sia, invece, intestatario di beni, non vale ad attribuire alcuna
specifica ragione di preferenza all’istituto del trust [180]: in mancanza, invero, di una titolarità di beni in
capo al coniuge obbligato, non sarebbe evidentemente possibile neppure
l’istituzione di un trust o il
conferimento di beni da parte di quest’ultimo [181].
A ciò s’aggiunga che nulla esclude che, in considerazione del
carattere negoziale (e, per ciò che attiene agli accordi di carattere
patrimoniale, contrattuale), delle intese in discorso, possano trovare
applicazione le garanzie e gli strumenti di induzione all’adempimento previsti
in generale dal codice: dalla fideiussione, all’ipoteca volontaria (si pensi
alle intese concluse nell’ambito di una separazione di fatto, ove l’art. 2818
c.c. non può, evidentemente, trovare applicazione), alla clausola penale, alla
caparra confirmatoria [182].
Un altro vantaggio
offerto dal trust viene poi indicato in
quello di evitare «l’interferenza indebita degli interessati e le spiacevoli
situazioni, anche psicologiche e morali, che spesso vengono a crearsi» [183]: un vantaggio che, peraltro, le parti pagherebbero
assai caro, posto che appare assai difficile reperire un trustee disposto a prestare gratuitamente la propria attività,
specie in siffatte situazioni, normalmente, dal punto di vista dei rapporti
umani, assai poco gradevoli. Vi è del resto
da chiedersi se questo ruolo di «intermediario» non possa essere svolto
(come lo è stato per anni con successo, per lo meno in presenza di operatori
caratterizzati da professionalità e da un sufficiente grado di distacco
rispetto all’emotività delle parti) dagli stessi legali e/o da strutture di
mediazione familiare. D’altro canto, la prassi mostra come sovente sia
designato quale trustee uno dei
coniugi: il che comprova come la necessità della presenza di siffatto
«mediatore» non sia, a ben vedere, avvertita con assoluta urgenza [184].
Se, dunque, il vero
problema è quello di poter vincolare un determinato patrimonio in vista della
soddisfazione degli obblighi oggetto del contratto della crisi coniugale, va
preso atto che ai «tradizionali» rimedi cui si è appena accennato viene ora ad
aggiungersi lo strumento delineato dall’art. 2645-ter c.c., di sicura applicazione (anche nelle situazioni non
caratterizzate dalla presenza di un elemento di internazionalità) ai casi di
specie. L’intento di garantire l’adempimento delle obbligazioni assunte nella
predetta sede, o di sopperire alle necessità abitative del residuo nucleo
familiare, appare infatti senza dubbio meritevole di tutela.
Sotto il profilo
fiscale vi è, infine, da ribadire che le attribuzioni patrimoniali operate nel
quadro di un ipotetico trust
postconiugale (ovviamente, sempre a condizione che si ritenga ammissibile –
come invece qui si nega – il trust
interno) ricadrebbero comunque [185], ove «relative» ad un procedimento di separazione o
divorzio, sotto il disposto dell’art.
15. Vincoli di destinazione ex art. 2645-ter c.c. e
convenzioni matrimoniali.
In qualche modo legate alle riflessioni che, nel
paragrafo che precede, si è cercato di svolgere sulla forma e sul ruolo degli
atti ex art. 2645-ter c.c. nello scenario della crisi
coniugale, appaiono altre considerazioni, attinenti a possibili impieghi
dell’istituto in discorso nel campo familiare. Una volta chiarito, infatti, che
cosa si debba intendere per «atto pubblico» ai sensi della norma citata, si
pone immediatamente il quesito circa la necessità o meno della presenza di
testimoni. Al riguardo va ricordato che l’attuale versione dell’art.
Sul punto sarà appena il caso di
premettere che il problema non avrebbe, con ogni probabilità, neppure ragione
di porsi, qualora si dovesse ritenere di limitare in via tassativa le
convenzioni matrimoniali a quelle regolate nel capo sesto del titolo sesto del
libro primo del codice. Ma è noto che la tesi ormai prevalente afferma il
carattere atipico delle convenzioni e dei relativi regimi patrimoniali [191]: se dunque all’autonomia negoziale è concesso di
liberamente dar vita a convenzioni matrimoniali disegnanti regimi diversi da
quelli previsti dagli artt. 159 ss. c.c., a maggior ragione sarà consentito ai
coniugi di avvalersi di strumenti negoziali tipici (ancorché non previsti da
norme tipicamente giusfamiliari) per conseguire il risultato di ottenere un
regime divergente da quelli legislativamente nominati come tali.
L’ostacolo potrebbe essere, semmai, un
altro. Se, invero, dovesse seguirsi quell’opinione dottrinale secondo cui la
convenzione può dar vita solo ad una scelta tra un regime comunitario o un
regime separatista [192], con assoluta esclusione di qualsiasi altro tipo di
effetto, vuoi reale, vuoi obbligatorio, non potrebbe esservi spazio per una
convenzione matrimoniale che si limitasse invece a porre, nell’interesse della
famiglia, vincoli su beni già nella titolarità dell’uno e/o dell’altro dei coniugi
o di terzi. Ed in effetti i sostenitori di quella tesi si vedono, per coerenza,
costretti a negare la natura di convenzione matrimoniale del negozio inter vivos costitutivo di fondo
patrimoniale, così come la natura di regime, propria dell’istituto ex artt. 167 ss. c.c. [193]. Questa tesi, però, appare chiaramente smentita non
solo – se ci si passa l’espressione – dalla «topografia» [194] e dalla «toponomastica» [195] legislative, ma anche dal fatto che, per i beni
sottoposti a tale vincolo, vigono regole (di «regime») difformi rispetto a
quelle valevoli per la comunione legale: il negozio che al fondo dà vita è
pertanto riconducibile alla definizione che del concetto di convenzione
matrimoniale risulta estrapolabile dall’art. 159 c.c., come di quel negozio idoneo
a dar luogo ad un regime patrimoniale della famiglia [196].
Il fatto è che occorre intendersi sul concetto di
regime: se per tale si dovesse ritenere esclusivamente la regola che assegna
alla proprietà comune o personale dei coniugi i futuri ed eventuali acquisti, è
chiaro che la convenzione ex artt.
167 ss. c.c. non apparirebbe idonea all’uopo, posto che il vincolo del fondo –
e, oggi, quello ex art. 2645-ter c.c. – non può per definizione
costituirsi se non su beni predeterminati. Seguendo dunque il principio secondo
cui la convenzione matrimoniale è necessariamente fonte di un regime
patrimoniale della famiglia (arg. ex
art. 159 c.c.), se ne dovrebbe concludere che tale non potrebbe essere
l’accordo diretto a costituire un fondo patrimoniale. Ma la disciplina della
comunione legale dimostra che il concetto di «regime» non si esaurisce nella
regola del coacquisto; essa si risolve anche in una serie di precetti e di
vincoli che vengono ad influenzare la «vita» stessa dei beni nel corso
dell’unione matrimoniale: dall’amministrazione all’alienazione, al pignoramento
e, più in generale, alle vicende che coinvolgono terzi creditori e/o aventi
causa.
E puntuale giunge, anche sul punto, la conferma
dall’analisi storica, dalla quale si ricava che l’espressione régime (dal latino regere: governare, amministrare), utilizzata per secoli in Francia
per contrapporre il régime en communauté
(proprio delle regioni di droit coutumier)
a quello dotal (caratteristico delle
regioni di droit écrit), e dunque
nell’accezione, generalissima, di «regola», dopo la codificazione napoleonica
venne intesa dalla dottrina come «l’ensemble des règles qui régissent
l’association conjugale quant aux biens» [197]. Regole che, come icasticamente posto in evidenza
dalla dottrina contemporanea d’Oltralpe, attengono non solo ad una question de propriété, ma anche ad una question de pouvoirs [198].
Se così stanno le cose, è evidente che anche la
convenzione costitutiva del fondo patrimoniale, in quanto diretta a dettare regole
speciali di amministrazione, vincoli e «vita» di beni della famiglia, in
(parziale) deroga ai principi propri della comunione (o della separazione dei
beni), viene a costituire proprio uno di quei possibili negozi in deroga al
regime legale che l’art. 159 c.c. raggruppa sotto l’espressione «diversa
convenzione» [199].
Ne discende dunque ulteriormente che, per identiche
ragioni, alle stesse conclusioni deve pervenirsi con riguardo ad un vincolo
costituito ex art. 2645-ter c.c. nell’interesse della famiglia.
La meritevolezza dell’interesse, per le ragioni solidaristiche già evidenziate [200], è di tale evidenza da consentire, ad avviso dello
scrivente, anche quella che a taluno potrà sicuramente parere una forzatura, ma
che in realtà si pone quale risultato di una semplice interpretazione estensiva
dell’espressione «altri enti», magari valorizzando quell’indirizzo che ormai
unanimemente vede tanto la famiglia legittima come quella di fatto alla stregua
di quelle «formazioni sociali» riconosciute dall’art. 2 Cost. E’ chiaro infatti
che individuare quale beneficiario del vincolo di destinazione la famiglia nel
suo complesso (ed analogo discorso potrebbe valere, ovviamente, per la famiglia
di fatto), eviterebbe la necessità di un riferimento specifico ai membri attuali
del nucleo in considerazione, e, conseguentemente, il ricorso a non agevolmente
ipotizzabili atti di revoca e/o modifica, qualora il nucleo medesimo avesse ad
ampliarsi o ridursi.
Ai sensi dell’art. 2645-ter c.c. sarà quindi ipotizzabile la costituzione di un vincolo
nell’interesse della famiglia più «forte» di quello da fondo patrimoniale, per
via dell’opponibilità nei confronti di tutti i creditori dei coniugi, anche a
prescindere dalla ricorrenza delle condizioni, per così dire, «soggettive»
descritte dall’art. 170 c.c., nonché per la diversa ripartizione dell’onus probandi
delle condizioni «oggettive».
La formulazione di tale ultima norma, invero, impone,
per l’opponibilità del vincolo al creditore, non solo l’obiettiva estraneità
del credito ai bisogni della famiglia, ma anche la conoscenza, in capo al
creditore, di tale estraneità. Stato soggettivo, questo, il cui onere
probatorio ricade sul debitore [201]. Al contrario, l’art. 2645-ter c.c. si limita a stabilire che «I beni conferiti e i loro
frutti possono essere impiegati solo per la realizzazione del fine di
destinazione e possono costituire oggetto di esecuzione, salvo quanto previsto
dall’articolo 2915, primo comma, solo per debiti contratti per tale scopo». Ciò
significa, in primo luogo, che sul debitore non graverà l’onere di fornire
alcuna prova (e sovente si tratta di vera e propria probatio diabolica) sullo stato soggettivo del creditore al momento
della nascita del rapporto obbligatorio e, in secondo luogo, che spetta al
creditore dimostrare che il debito è stato contratto «per la realizzazione del
fine di destinazione», posto che qui tale fatto viene descritto in positivo,
quale elemento costitutivo della fattispecie rappresentata dalla realizzazione in executivis della pretesa creditoria,
laddove l’art. 170 c.c. si riferisce ad un elemento impeditivo (descritto in
negativo: «l’esecuzione … non può avere luogo…»), che individua inevitabilmente
il debitore quale soggetto onerato [202].
Per queste ragioni non appaiono condivisibili le
affermazioni di chi afferma che la norma in tema di destinazione è analoga
all’art. 170 c.c. [203]. Tesi, questa, che può accettarsi, a tutto concedere,
solo limitatamente ai crediti nascenti ex
delicto, in relazione ai quali, come esattamente rilevato in dottrina [204], l’obbligazione nasce indipendentemente dalla
conoscenza o conoscibilità del vincolo di destinazione, oltre che al di fuori
di qualsiasi scelta del creditore, mancando una situazione affidante che giustifichi la limitazione della
responsabilità [205]. Così, pur in assenza di una norma analoga all’art.
2447-quinquies, terzo comma, c.c., dovrà affermarsi che, come per il
fondo patrimoniale [206], così nella fattispecie in esame i beni vincolati
rispondono ove siano fonte di danni, perché, in entrambi i casi, è il vincolo di
destinazione, quale elemento distintivo, a fornire il criterio di riferimento
per stabilire le categorie di creditori interessate dalla vicenda destinatoria [207].
Altro effetto è sicuramente quello – lasciando da
parte, ovviamente, l’ipotesi della revocatoria – dell’esclusione dei beni
vincolati dalla eventuale massa fallimentare, se non in relazione a quei debiti
contratti «per la realizzazione del fine di destinazione»: ciò in forza del
generale riferimento, nella norma in esame, ai «terzi», a prescindere dalla
sede nella quale (e dalle modalità con cui) essi facciano valere i loro
diritti, nonché avuto riguardo a quella già ricordata parte della disposizione
secondo la quale «I beni conferiti e i loro frutti possono essere impiegati
solo per la realizzazione del fine di destinazione e possono costituire oggetto
di esecuzione, salvo quanto previsto dall’articolo 2915, primo comma, solo per
debiti contratti per tale scopo». Tale effetto, derivando direttamente
dall’art. 2645-ter c.c., non
abbisogna di alcuna estensione analogica dell’art. 46, primo comma, n. 3, r.d.
16 marzo 1942, n. 267, così come modificato dal d.lgs. 9 gennaio 2006, n. 5,
che, per il fondo patrimoniale, prevede l’inclusione dei relativi beni nella
massa fallimentare nel caso di ricorrenza delle condizioni di cui all’art. 170
c.c., inapplicabile, come si è detto, al caso di specie. Inapplicabile appare
inoltre, per la sua specialità, l’art. 155, r.d. cit., che attribuisce al
curatore, nel caso di patrimonio
destinato ad uno specifico affare, ex
art. 2447-bis c.c., l’amministrazione
del patrimonio medesimo.
D’altro canto,
per ciò che attiene agli eventuali atti dispositivi, se il vincolo ai sensi
dell’art. 2645-ter c.c. può sembrare
a tutta prima più «debole» di quello da fondo patrimoniale, avuto riguardo alla
non necessità di autorizzazione giudiziale per gli atti ex art. 169 c.c. in presenza di figli minorenni, è anche vero che
la regola appena citata risulta, quanto meno secondo l’opinione dominante,
derogabile [208]. Inoltre, l’effettuazione della pubblicità rende
comunque il vincolo di destinazione ex
art. 2645-ter c.c. opponibile verso
ogni subacquirente, a differenza di quello che accade allorquando i coniugi si
siano riservati la facoltà di alienazione dei beni del fondo patrimoniale senza
autorizzazione (ovvero quando, in presenza della necessità di autorizzazione,
quest’ultima sia stata rilasciata), posto che, in tal caso, il terzo acquista
il bene certamente libero dal vincolo.
Il ricorso all’art. 2645-ter c.c. permette poi anche la costituzione di un vincolo
nell’interesse della famiglia al di là delle ipotesi in cui l’istituto ex artt. 167 ss. c.c. è consentito: a
parte la già ricordata ammissibilità di un vincolo in favore di un ménage di fatto [209], i costituenti potranno derogare a quanto stabilito
dall’art. 171 c.c., stabilendo ad esempio che il vincolo non cessi (ed anzi,
questa sarà la regola, atteso il principio che autorizza una durata dello
stesso per novanta anni o per tutta la vita della persona fisica beneficiaria)
in caso di annullamento, scioglimento o cessazione degli effetti civili del
matrimonio, pur in assenza di figli minori.
Non sembra che significative obiezioni possano
insorgere avuto riguardo al carattere essenzialmente unilaterale dell’atto
costitutivo del vincolo. La questione è già stata affrontata dallo scrivente
con riguardo al trust, rispetto al
quale si era osservato che le più approfondite trattazioni in materia
evidenziano come – a parte la questione della dinamica contrattuale esistente
nel mondo dei trusts – anche per il
diritto inglese dall’accettazione del trustee
(ancorché eventualmente in forma implicita) non possa prescindersi, prevedendo
del resto l’equity procedure per
sostituire un trustee che sia mancato
e per nominare un altro trustee qualora
quello indicato dal disponente non abbia accettato [210]. Se ne era quindi concluso che, per diritto italiano, un accordo che vedesse
un coniuge (o un terzo) costituire beni in trust,
nominando trustee l’altro, andrebbe
qualificato alla stregua di un negozio bilaterale e dunque di una «convenzione
matrimoniale», se diretto alla creazione di un regime patrimoniale,
intendendosi per tale (come, del resto, già specificato sopra), non solo l’insieme delle regole che precostituiscono la
sorte di una serie indeterminata
d’acquisti (determinabili unicamente ex
post), compiuti dai coniugi, bensì anche l’insieme di quelle regole che
precostituiscono (e qui il fondo patrimoniale docet) l’eventuale separazione patrimoniale di una certa massa determinata di beni apportati ad onera matrimonii ferenda, oltre che
le regole per la loro amministrazione ed alienazione.
Allo stesso modo potrà dunque riconoscersi nella
creazione del vincolo ex art. 2645-ter c.c., alle condizioni predette, la
natura di convenzione matrimoniale, allorquando il negozio costitutivo
nell’interesse della famiglia assuma una struttura bilaterale o plurilaterale
(si pensi alla costituzione di un vincolo su beni di entrambi i coniugi e/o di
terzi, sulla base di un accordo tra tutti i soggetti coinvolti) e pertanto
possa qualificarsi come «convenzione», cioè accordo di due o più soggetti.
Probabilmente alle medesime conclusioni potrà pervenirsi anche in relazione ad
una manifestazione puramente unilaterale di volontà, posto che la già più volte
evidenziata strettissima connessione esistente tra i concetti di convenzione
matrimoniale e di regime patrimoniale della famiglia può forse consentire di
ampliare la prima delle due nozioni al punto da comprendere ogni tipo di atto
idoneo, secondo la legge, a dar vita ad un regime, a prescindere dalla
struttura unilaterale, bilaterale o plurilaterale dell’atto stesso.
Il riconoscimento ad un vincolo di destinazione
nell’interesse della famiglia della natura di convenzione matrimoniale
comporterà quindi la necessità di applicare allo stesso, oltre alle
disposizioni sulla presenza dei testimoni ex
art.
[1] Cfr. ad esempio i rilievi di Schlesinger, Atti
istitutivi di vincoli di destinazione. Riflessioni introduttive, testo
dattiloscritto della relazione agli atti del convegno organizzato da Paradigma
a Milano il 22 maggio 2006, p. 1, secondo cui «Il livello tecnico della disposizione,
valutata tra le peggiori degli ultimi tempi (in una graduatoria particolarmente
abbondante di supposti primati), non richiede commenti, essendo evidente quanto
si presenti numerosa la serie di dubbi ed incertezze delle possibili
interpretazioni (per chi non giunge addirittura a prospettare radicali nullità
o illegittimità costituzionali dell’intera norma). Ad avviso di Gazzoni, Osservazioni sull’art. 2645 ter, disponibile alla pagina web seguente: http://www.judicium.it/news_file/news_glo.html, (l’articolo è pubblicato anche in Giust. civ., 2006, II, p. 165 ss.; le
citazioni di questo lavoro nel presente scritto si riferiscono al testo online), § 1, la riforma appare
«a tal punto extravagante rispetto ai principi che disciplinano la materia, da
suscitare più problemi di quanti, forse, non ne risolva»; per osservazioni
critiche sulla formulazione della norma v. inoltre Petrelli, La trascrizione degli atti
destinazione, dattiloscritto agli atti del Convegno organizzato a Firenze
dalla Associazione Italiana Giovani Notai il 24 giugno 2006 sul tema «Gli atti
di destinazione e la trascrizione dopo la novella» (l’articolo è pubblicato
anche in Riv. dir. civ., 2006, II, p.
161 ss.; le citazioni di questo lavoro nel presente scritto si riferiscono al
dattiloscritto), p. 2; Fanticini,
L’articolo 2645-ter del codice civile: “Trascrizione di atti di
destinazione per la realizzazione di interessi meritevoli di tutela riferibili
a persone con disabilità, a pubbliche amministrazioni, o ad altri enti o
persone fisiche”, in Aa. Vv., La
tutela dei patrimoni, a cura di Montefameglio, Santarcangelo di Romagna,
2006, p. 327 ss. Sembra invece voler difendere la formulazione della
disposizione in esame, rilevando, tra l’altro, che «la destinazione per sua
natura non può essere imbrigliata in uno schema procedimentale precostituito»
M. Bianca, Il nuovo art. 2645-ter c.c.
Notazioni a margine di un provvedimento del giudice tavolare di Trieste, in
Giust. civ., 2006, II, p. 187 ss.,
189.
Per i primi commenti sull’art. 2645-ter c.c. v. anche Bartoli, Prime riflessioni sull’art. 2645 ter c.c. e sul rapporto fra negozio di destinazione di diritto interno e
trust, in Corr. merito, 2006, p.
697 ss.; M. Bianca, L’atto di destinazione: problemi applicativi,
testo dattiloscritto agli atti del Convegno sul tema «Atti notarili di
destinazione dei beni: Articolo 2645 ter
c.c.», organizzato a Milano dal Consiglio Notarile di Milano il 19 giugno 2006;
De Nova, Esegesi dell’art. 2645 ter cod. civ., testo dattiloscritto agli atti del Convegno sul tema «Atti notarili di
destinazione dei beni: Articolo 2645 ter
c.c.», cit.; de Donato, Elementi dell’atto di destinazione,
testo dattiloscritto agli atti del Convegno sul tema «Atti notarili di
destinazione dei beni: Articolo 2645 ter
c.c.», cit.; D’Errico, Trascrizione del vincolo di destinazione,
testo dattiloscritto agli atti del Convegno sul tema «Atti notarili di
destinazione dei beni: Articolo 2645 ter
c.c.», cit.; Di Sapio, Patrimoni segregati ed evoluzione normativa:
dal fondo patrimoniale all’atto di destinazione, Relazione tenuta al
convegno di studi su Attualità e problematiche in materia di donazioni,
patrimoni separati e fallimento organizzato dal Comitato Regionale fra i
Consigli Notarili Distrettuali della Puglia, tenutosi a Pozzo Faceto, Fasano
(Brindisi) il 23-24 giugno
[2] Anche Petrelli,
La trascrizione degli atti destinazione,
cit., p. 2, rileva che la «novellazione del codice civile (…) sembra davvero,
con quest’ultimo intervento, aver raggiunto il limite più basso».
[3] Così Petrelli,
La trascrizione degli atti destinazione,
p. 2. Come osserva Gazzoni, Osservazioni sull’art. 2645 ter, cit., §
1: «La fretta con la quale l’art. 2645 ter c.c. è stato formulato rende
ancora più criticabile l’operazione. Credo che sia ben difficile trovare un
giurista disposto a difendere la norma, almeno sul piano tecnico. Innanzi tutto
essa è mal concepita: nel contesto della trascrizione è stata “paracadutata”
una disciplina che, per quanto riguarda il profilo pubblicitario, si sarebbe
dovuta limitare a dettare una o due regole, del tipo di quelle dettate
dall’art. 2649 c.c., norma per certi versi funzionalmente analoga. Viceversa
l’art. 2645 ter c.c. è, prima ancora che norma sulla pubblicità, e
quindi sugli effetti, norma sulla fattispecie, che avrebbe meritato dunque,
previa scissione, di figurare in un diverso contesto, di disciplina
sostanziale». Rileva la presenza, nella norma in esame, di una disciplina di
«natura sostanziale» anche M. Bianca,
Il nuovo art. 2645-ter c.c. Notazioni a margine di un
provvedimento del giudice tavolare di Trieste, cit., p. 189.
[4] Così Gazzoni,
Osservazioni sull’art. 2645 ter,
cit., § 1. Diverso è il parere di Di
Sapio, op. cit., p. 27, ad avviso
del quale il legislatore avrebbe «giocato a un gioco diverso da quello che una
certa parte della dottrina si aspettava praticasse», dando per presupposta
l’ammissibilità degli atti di destinazione e limitandosi a prevedere una norma
che «serve solo a superare il principio di tipicità degli atti soggetti a
trascrizione». Rimane comunque il fatto che, a sommesso avviso dello scrivente,
un legislatore che si rispetti dovrebbe specificamente enunciare l’esistenza
degli istituti giuridici che vuole assumersi la responsabilità (anche politica)
di creare e non limitarsi a darne per scontata – in forma del tutto ellittica e
quasi en passant – l’esistenza.
[5] Cfr. Trib. Trieste, 7 aprile
[6] Cfr. anche Oberto,
Il patto di famiglia, Padova, 2006,
p. 13 s., nota 23.
[7] Così Oberto,
op. loc. ultt. citt.
[8] Così anche Bartoli, Prime riflessioni sull’art. 2645 ter c.c. e sul rapporto fra negozio di
destinazione di diritto interno e trust, cit., p. 697, nota 4.
[9] Per un’analisi di questi progetti di legge (e di
altri riferentisi al trust) si rinvia
a Santoro, Il trust in Italia, Milano, 2004, p. 305 ss. e, nella sezione
dedicata ai «materiali», p. 463 ss.
Come osserva Schlesinger,
Atti istitutivi di vincoli di
destinazione. Riflessioni introduttive, cit., p. 1 s. «La nuova
disposizione in esame era già stata affacciata in una proposta di legge
presentata in Parlamento il 14 maggio 2003, ma con previsione limitata alla
sola destinazione a favore di soggetti portatori di gravi handicap (rimasta poi nel testo finale solo quale prima ipotesi tra
le varie contemplate dalla norma), indirizzata a favorire l’autosufficienza di
persone “disabili”. Successivamente
l’inserimento nel codice civile proprio di un nuovo articolo 2645-ter, come alla fine avvenne, secondo
quanto si è già anticipato, fu proposto nel luglio 2005, con l’approvazione alla
Camera dei Deputati del Disegno di legge governativo n. 5736 (intitolato “Piano di azione per lo sviluppo economico,
sociale e territoriale”, anch’esso costituito da ben 38 articoli su
svariatissimi temi, privo di uno specifico baricentro e di qualsiasi organica
finalità), il cui articolo 34, esso pure valutabile come extravagante (e forse
pure … stravagante !), inserito sotto la rubrica “Trascrizione degli atti di destinazione”, già stabiliva che “Dopo l’articolo 2645-bis del codice civile” si sarebbe aggiunto
nel codice un nuovo articolo, contrassegnato con il numero 2645-ter, intitolato “Trascrizione di atti di destinazione”, simile, ma ancora ben
diverso dal testo poi divenuto legge, prevedendo allora quali possibili
beneficiari soltanto persone fisiche, ma non più i soli disabili, senza
peraltro la successiva estensione, alla fine, a chiunque, tanto persone fisiche
che giuridiche. Tuttavia, trasmesso al Senato, a luglio 2005, il progetto
approvato dalla Camera, il programmato “Piano
di azione per lo sviluppo” non è divenuto legge ed è quindi decaduto con la
chiusura della legislatura. Ecco perché, in sede di conversione in legge del
D.L. 273/2005, fra le numerose aggiunte fu ripresa anche l’idea di inserire nel
codice un nuovo articolo 2645-ter per
consentire la trascrivibilità “di atti di
destinazione per la realizzazione di interessi meritevoli di tutela riferibili
a persone con disabilità, a pubbliche amministrazioni, o ad altri enti o
persone fisiche”, il cui testo, tuttavia, fu ampiamente rimaneggiato
rispetto al precedente disegno di legge che lo contemplava, sebbene,
francamente, sia davvero difficile rendersi conto delle ragioni che hanno
ispirato sia l’intera norma, sia la sua estensione a qualsiasi beneficiario,
individuo o ente, e senza che siano stati previsti solo fini meritevoli di
particolare attenzione (come poteva essere se si fossero contemplati soltanto,
ad es., handicappati o pubbliche amministrazioni)».
[10] Sul rapporto tra trusts
e divieto dei patti successori cfr. Rescigno,
Trasmissione della ricchezza e divieto
dei patti successori, in Vita notar.,
1993, p. 1281; Calò, Dal probate al family trust, riflessi ed
ipotesi applicative in diritto italiano, Milano, 1996, p. 101 ss.; Miranda, Trust e patti successori: variazioni sul tema, in Vita not., 1997, p. 1578 ss.; Gambaro,
voce Trusts, in Noviss. dig. it., Torino, 1999, p. 459 ss.; F. Pene Vidari, Trust e divieto dei patti successori, in Riv. dir. civ., 2000, p. 851 ss.; Lupoi,
Trusts, Milano, 2001, p. 663; Bartoli, Il trust, Milano, 2001, p. 667 ss.
[11] Sul rapporto tra trusts e sostituzione
fedecommissaria, cfr., fra gli altri, Palazzo,
I trusts in materia successoria, in Vita not., 1996, p.
671 ss.; Lupoi, Trusts, cit., p. 553 ss.; Amenta, Trusts a protezione di
disabile, in Trusts att. fid.,
2000, p. 618 ss.
[12] Sul tema cfr., anche per i richiami dottrinali e
giurisprudenziali, Di Landro,
Trusts per disabili. Prospettive applicative, in Dir. fam. pers.,
2003, p. 166 ss.
[13] Rileva Lupoi,
Perché i trust in Italia, in Aa. Vv.,
Il trust nel diritto delle persone e della famiglia. Atti del
convegno. Genova, 15 febbraio
[14] Sul tema cfr. ex
multis Lupoi, Il
trust nell’ordinamento giuridico italiano dopo la convenzione dell’Aja del 10
luglio
[15] Il principale è, come noto, quello dell’associazione
«Il trust in Italia», disponibile al sito web
seguente: http://www.il-trust-in-italia.it.
Per ulteriori ragguagli si fa rinvio a Oberto,
Il trust familiare, dal 10 giugno 2005 disponibile al seguente indirizzo web:
http://utenti.lycos.it/giacomo305604/milano11giugno2005trust/relazionemilano.htm;
Id., Trust e autonomia negoziale nella famiglia, in Fam. dir., 2004, p. 201 ss., 310 ss.
[16] Su cui cfr., ex multis, Piccoli, L’avanprogetto di
convenzione sul «trust» nei lavori della Conferenza di diritto internazionale
privato de L’Aja ed i riflessi di interesse notarile, in Riv. not.,
1984, p. 844 ss.; Lupoi, Introduzione
ai trusts. Diritto inglese, Convenzione dell’Aja, Diritto italiano,
Milano,
[17] Il dubbio è posto e superato da Calvo, La tutela dei beneficiari nel
«trust» interno, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1998, p. 51 ss., cui
si fa rinvio anche per ulteriori richiami. Per l’ammissibilità del trust interno cfr. in dottrina Lupoi, Il trust nell’ordinamento
giuridico italiano dopo
[18] Cfr. la pagina web
seguente: http://www.hcch.net/index_fr.php?act=text.display&tid=4.
In tale
pagina è lo stesso istituto a precisare che «L’instrument principal utilisé
pour atteindre le but poursuivi par
[19] Cfr. Gambaro,
Convenzione relativa alla legge sui
trusts ed al loro riconoscimento. Note introduttive, II, Il trust in Italia, in Nuove leggi civ. comm., 1993, p. 1216.
[20] Cfr. in tal senso, tra gli altri, Malaguti, Il futuro del trust in Italia, in Contr. e impr., 1990, p. 997 ss.; Lenzi,
Operatività del trust in Italia, in Riv. not., 1995, 1381 ss.; Broggini, Il trust nel diritto internazionale privato, cit., p. 11 ss.; Castronovo,
Trust e diritto civile italiano, in Vita not., 1998, p. 1323 ss.; Id., Trust e fiducia nel diritto internazionale privato, in Europa e dir. priv., 1998, p. 399 e ss.;
Saturno, La proprietà nell’interesse altrui, Napoli, 1999; Rescigno, Notazioni a chiusura di un seminario sul trust, in Europa e dir. priv., 1998, p. 453 e ss.;
Ragazzini, Trust interno e ordinamento giuridico italiano,
in Riv. notar., 1999, p. 296 ss.; De Angelis, Trust e fiducia nell’ordinamento italiano, in Riv. dir. civ., 1999, II, p. 361; Gazzoni,
Tentativo dell’impossibile (osservazioni
di un giurista non vivente su trust e
trascrizione), cit., p. 11 ss; Id.,
In Italia tutto è permesso, anche quel
che è vietato (lettera aperta a Maurizio Lupoi sul trust e su altre bagattelle), cit., p. 1247
ss.; Id., Il cammello, il leone, il fanciullo e la trascrizione del trust,
cit., p. 1107 ss.; Nuzzo, Il trust interno privo di flussi e formanti, in Banca, borsa, tit. cred., 2004, I, p. 427 ss.; Id., E
luce fu sul regime fiscale del trust, cit., p. 248 ss.; Castronovo, Il trust e «sostiene Lupoi», cit., p. 441 ss.; Schlesinger, Il trust nell’ordinamento
giuridico italiano, in Quaderni di
Notariato, n. 7, 2002; Falzea,
Introduzione e considerazioni conclusive, in Aa.
Vv., Destinazione di beni allo scopo. Strumenti attuali e tecniche
innovative, Atti della giornata di studio, organizzata dal Consiglio
Nazionale del Notariato (Roma, 19 giugno 2003), Milano, 2003, p. 23; V. Mariconda, Contrastanti decisioni sul trust
interno: nuovi interventi a favore, ma sono nettamente prevalenti gli argomenti
contro l’ammissibilità, in Corr. giur.,
2004, p. 57 ss.; Galluzzo, Autonomia negoziale e causa istitutiva di un
trust, nota a Trib. Velletri, 29 giugno
Per la giurisprudenza favorevole a ritenere che la
sussistenza di un conflitto di leggi nello spazio costituisca il presupposto
essenziale per il riconoscimento del trust stipulato in Italia cfr., ad
esempio, App. Napoli, 27 maggio
[21] Cfr., testualmente, von Overbeck, Rapport explicatif sur
[22] Testo reperibile al sito http://www.senat.fr/index.html,
digitando la parola fiducie nella
finestra «recherche sur le site». Sul progetto di legge cfr. Neri, La via francese al recepimento del trust: un nuovo progetto di legge
sulla fiducie, in Trusts att. fid.,
2006, p. 69 ss.
[23] Disponibile
all’indirizzo web seguente: http://droitdutrust.online.fr/.
[24] «Cette convention
reconnaît la difficulté pour les pays de droit civil d’adapter leurs concepts
juridiques ou de changer leur droit interne pour appréhender le statut et les
pouvoirs du trustee, la nature des intérêts des bénéficiaires dans les droits
du trust et les positions respectives du constituant, du trustee et des
bénéficiaires. Les pays de droit civil risquent ainsi, en adoptant la
convention, de reconnaître le trust seulement comme une matière du droit
international privé sans l’introduire dans leur droit interne. D’autre part,
différents milieux professionnels, spécialement le notariat et les
entrepreneurs privés, réclament l’introduction en droit français de
l’institution du trust ou d’une institution similaire. Ainsi, avec la
ratification de
[25] Sul tema cfr. Moja,
Il trust nell’esperienza di alcuni paesi
di civil law ed il ruolo della legge di San Marino, disponibile
all’indirizzo web seguente:
[26] Cfr. Oberto,
Trust e autonomia negoziale nella
famiglia, cit., p. 201 ss.; Id.,
Il trust familiare, cit., §§ 3 ss.
[27] Così Santoro,
op. cit., p. 54.
[28] «65. Les experts de
Il peut ne pas être tenu compte de ce choix lorsque il
n’y a aucun lien [réel] avec la loi choisie.
Cette idée a rencontré
une certaine sympathie, mais on a reproché au texte de ne pas fournir au juge
critères assez précis. L’opinion a prévalu qu’il était préférable de réprimer
les choix abusifs dans ce qui allait devenir l’article 13 ou encore au moyen
d’une réserve selon une proposition dont la conférence était alors saisie (Doc.
trav. No 28). Aussi la proposition précitée a-t-elle été rejetée à une nette
majorité».
[29] Sul tema v. Santoro,
op. cit., p. 98 ss.
[30] Così Malatesta,
Il trust nel diritto
internazionale privato e processuale italiano, al seguente sito web: http://www.assotrusts.it/Pagine/trustcast.htm.
[31] Cfr. ad es. Trib. Bologna, 1 ottobre
http://www.filodiritto.com/notizieaggiornamenti/20ottobre2003/TBOlegittimitatrustinterno.htm;
per la dottrina v. Lupoi, Trusts, cit., p. 520 ss.; S.M. Carbone, Trust interno e legge
straniera, in Aa. Vv., Il trust nel diritto
delle persone e della famiglia. Atti del convegno. Genova, 15 febbraio
[32] Cfr. von
Overbeck, Rapport explicatif sur
[33] Su cui cfr. Calvo,
op. loc. ultt. citt.; cfr. inoltre Lipari,
Fiducia statica e trusts,
cit., p. 75; Lupoi, Legittimità
dei trusts interni, ivi, p. 41; Calò,
Dal probate al family trust, riflessi ed ipotesi applicative
in diritto italiano, cit., p. 99, nota 86.
[34] Cfr. Oberto,
I contratti della crisi coniugale, I,
Milano, 1999, p. 483 ss.; Id., «Prenuptial
Agreements in Contemplation of Divorce» e disponibilità in via preventiva dei
diritti connessi alla crisi coniugale, in Riv. dir. civ., 1999, II,
pag. 171 ss.; Id., Contratto e famiglia, in Aa. Vv.,
Temi e problemi del contratto, a cura
di Roppo, Milano, 2006 (in corso di stampa), cap. IV, §§ 6 ss.
[35] Cfr. da ultimo Cass., 25 luglio 2006, n. 16978; v.
inoltre Cass., 10 novembre 1989, n. 4769; Cass., 28 maggio 2004, n. 10378.
[36] Cfr. Oberto,
Trust e autonomia negoziale nella
famiglia, cit., p. 207; a conclusioni analoghe perviene anche Galluzzo, op. cit., p. 703 (cui si fa rinvio anche per ulteriori richiami).
[37] I rilievi sono stati presentati da Lupoi nel corso
del convegno dal titolo «Autonomia patrimoniale e segregazione patrimoniale nel
trust», organizzato dall’Associazione Avvocati del Distretto di Torino e
dall’Associazione «Il trust in Italia», svoltosi a Torino il 24 gennaio 2004;
per un approccio riconducibile alla stessa ratio
cfr. anche Lupoi, Trusts, cit., p. 551 ss.
[38] Cfr. Ragazzini,
Trust «interno» e ordinamento giuridico
italiano, in Riv. notar., 1999,
p. 279 ss., 299 ss.
[39] Cfr. Trib. Velletri, 29 giugno 2005, cit.
[40] Cfr. Galluzzo,
op. cit., p. 695 ss., spec. 699 ss.
[41] Cfr. C.M. Bianca,
Diritto civile, V, Milano, 1994, p.
412; nello stesso senso v. anche Galluzzo,
op. cit., p. 701.
[42] Cfr. Trib. Belluno, 25 settembre 2002, cit.
[43] Cfr. in particolare per tutti gli stringenti rilievi
di V. Mariconda, Contrastanti decisioni sul trust interno:
nuovi interventi a favore, ma sono nettamente prevalenti gli argomenti contro
l’ammissibilità, cit., p. 57 ss.
[44] Cfr. V. Mariconda,
op. loc. ultt. citt.
[45] Cfr. V. Mariconda,
op. loc. ultt. citt. L’Autore precisa
peraltro che altro discorso è quello del trasferimento che il fiduciario faccia
a favore del fiduciante, in relazione al quale viene in considerazione, quale
causa sufficiente a sorreggere il trasferimento, quella desumibile dagli artt.
1706 cpv., 651, 627, 2034, 2058 c.c.
[46] Così Nivarra,
Il trust e l’ordinamento italiano, in Aa.
Vv., Mandato fiducia e trust,
esperienze a confronto, a
cura di Alcaro e Tommasini, Milano, 2003, p. 23; cfr. inoltre Castronovo, Il trust e «sostiene
Lupoi», cit., p. 449; Galluzzo,
op. cit., p. 701.
[47] Cfr. De Nova,
Trust: negozio istitutivo e negozi dispositivi, in Trusts att. fid., 2000, p.
162 ss., spec. p. 168. Così anche
[48] In questo
senso cfr. ad esempio Di Ciommo,
Ammissibilità del trust interno e
giustificazione causale dell’effetto traslativo, Nota a Trib. Parma, 21
ottobre 2003 e Trib. Bologna, 1° ottobre
[49] Cfr. in particolare von
Overbeck, Rapport explicatif sur
[50] Pugliatti,
Fiducia e rappresentanza indiretta, in
diritto civile - Metodo, teoria, pratica, Milano, 1951, p. 201 ss. Per una
rivisitazione della teoria tradizionale (contraria alla proprietà fiduciaria
per il timore di uno «sdoppiamento del diritto») sulla base di considerazioni
legate non già alla pienezza del diritto, ma alla sicurezza nella circolazione
giuridica cfr. Montinaro, Trust e negozio di destinazione allo scopo,
Milano, 2004, p. 170 ss.; l’A. sottolinea altresì la valenza meramente
obbligatoria del pactum fiduciae, con
conseguente irrilevanza della mala fede del terzo, impossibilità di
trascrizione e inestensibilità interpretativa degli artt. 1707 c.c. e
[51] Così Chianale, Obbligazioni di dare e atti traslativi solvendi
causa, in Riv. dir. civ., II, 1989,
p. 246 ss.; Id., Obbligazioni di dare e trasferimento della
proprietà, Milano, 1990, p. 48 ss., cui si fa rinvio anche per ulteriori
richiami dottrinali; analoghe considerazioni anche in Sacco, in Sacco
e De Nova, Il contratto, nel Trattato di
diritto civile diretto da Sacco, II, Torino, 1993, p. 56; Di Majo, Causa e imputazione negli atti solutori, in Riv. dir. civ., I, 1994, p. 782, il quale rileva che la causa solvendi non intende porsi in
concorrenza con la «regola consensualistica», che trova il suo baricentro
nell’art. 1376 c.c., ma, anzi, per così dire, affiancarla su terreni sui quali
quella regola non è destinata a trovare applicazione; cfr. inoltre Scalisi, Negozio astratto, in Enc.
dir., XXVIII, Milano, 1978, p. 52 ss.; Sciarrone
Alibrandi, Pagamento traslativo e
art. 1333 c.c., in Riv. dir. civ., II, 1989, p. 525 ss.; Maccarone, Considerazioni d’ordine generale sulle obbligazioni di dare in senso
tecnico, in Contr. e impr., 1998,
p. 626 ss., 679 ss.; sulla distinzione storica tra titulus e modus adquirendi
cfr. Chianale, Obbligazioni di dare e trasferimento della
proprietà, cit., p. 103 ss.; sull’applicazione specifica del tema della
causa praeterita ai trasferimenti
immobiliari e mobiliari tra coniugi in crisi cfr. De Paola, Il diritto
patrimoniale della famiglia coniugale, I, Milano, 1991, p. 238, nota 242; Maccarone, Obbligazione di dare e adempimento traslativo, in Riv. notar., 1994, I, p. 1330 ss., Oberto, I trasferimenti mobiliari e immobiliari in occasione di separazione e
divorzio, in Fam. dir., 1995, p.
165 s.; Id., I contratti della
crisi coniugale, II, Milano, 1999, p. 1211 ss.; Id., Prestazioni «una tantum» e trasferimenti tra coniugi
in occasione di separazione e divorzio, Milano, 2000, p. 3 ss.; Id., I
trasferimenti patrimoniali in occasione della separazione e del divorzio,
in Familia, 2006, p. 181 ss.; Id., Contratto
e famiglia, cit., cap. V, §§ 7-9.
[52] Così Maccarone,
Obbligazione di dare e adempimento
traslativo, cit., p. 1334; Id.,
Considerazioni d’ordine generale sulle
obbligazioni di dare in senso tecnico, cit., p. 679.
[53] Sul punto, nel medesimo senso, e anche per
approfondimenti e ulteriori rinvii, v. Galluzzo,
op. cit., p. 704 ss. L’Autore rileva,
tra l’altro, che la tesi qui criticata si risolve in una interpretatio
abrogans dell’art. 2740 c.c. che vieta tout court ogni forma di
limitazione della responsabilità che non sia prevista dalla legge: «non si
vede, infatti, per quale motivo, se ai privati fosse davvero concesso di realizzare
liberamente ipotesi di separazione atipiche, venga conservata nel nostro codice
una norma che, invece, chiaramente vieta di realizzare nuove forme di
limitazione di responsabilità al di fuori delle fattispecie ammesse dalla
norma».
[54] Trib. Velletri, 29 giugno 2005, cit.
[55] In questo senso cfr. Franco,
op. cit., p. 315 s., nota 3.
[56] Confortini,
Vincoli di destinazione, in Dizionario di diritto privato, a cura di
Irti, I, Milano, 1980, p. 871 ss.; Alpa,
Destinazione dei beni e struttura della
proprietà, in Riv. notar., 1983,
I, p. 6 ss.; Fusaro, voce Destinazione (vincoli di), in Dig. disc. priv., Sez. civ., V, Torino,
1989, p. 321 ss.; Id., Vincoli temporanei di destinazione e
pubblicità immobiliare, in Contr. e
impr., 1993, p. 820 ss.; Id., “Affectation”, “Destination” e vincoli di
destinazione, in Aa. Vv., Scritti
in onore di Rodolfo Sacco. La comparazione giuridica alle soglie del terzo
millennio, II, Milano, 1994, p. 455 ss.; Id.,
I vincoli contrattuali di destinazione
degli immobili, in Aa. Vv., I
contratti del commercio, dell’industria e del mercato finanziario, Trattato
diretto da Galgano, III, Torino, 1995;
[57] Cfr. ex multis
Palermo, Ammissibilità e disciplina del negozio di destinazione, in Aa. Vv.,
Destinazione di beni allo scopo. Strumenti
attuali e tecniche innovative, cit., p. 243 ss., 250 ss.
[58] Messinetti,
Il concetto di patrimonio separato e la c.d. «cartolarizzazione» dei
crediti, in Riv. dir. civ., 2002, II, p. 101.
[59] Cfr. Zoppini,
Autonomia e separazione del patrimonio nella
prospettiva dei patrimoni separati della società per azioni, in Riv. dir. civ., 2002, I, p. 545 ss., 561
s.
[60] Così, invece, Palermo,
Ammissibilità e disciplina del negozio di
destinazione, cit., p. 250 s.
[61] Sull’utilizzo, invece, dell’art. 2645-ter c.c. per dar vita ad un regime
analogo a quello del fondo patrimoniale nell’ambito della famiglia di fatto
cfr. de Donato, Elementi
dell’atto di destinazione, cit., p. 6 s.; Fanticini, op. cit.,
p. 342 ss.; Oberto, Famiglia di fatto e convivenze: tutela dei
soggetti interessati e regolamentazione dei rapporti patrimoniali in vista
della successione, in Fam. dir.,
2006 (in corso di stampa).
[62] Di conversione con modifiche del d.l. 30 dicembre 2005, n. 273 («Recante definizione e proroga di termini,
nonché conseguenti disposizioni urgenti. Proroga di termini relativi
all’esercizio di deleghe legislative»).
[63] Cfr. Petrelli,
La trascrizione degli atti destinazione,
cit., p. 1 ss., spec. 34 ss. (secondo l’Autore «sembra che gli elementi
essenziali, caratterizzanti il trust “convenzionale”, ricorrano anche nella
fattispecie in esame»: cfr. p. 35).
[64] Cfr. Lupoi, Gli “atti di destinazione” nel nuovo art.
2645-ter cod. civ. quale frammento di
trust, cit. p. 172: «in breve, direi che l’ “atto di destinazione” è
un frammento di trust; tutto ciò che è nell’ “atto di destinazione” è anche nei
trust, ma i trust si presentano con una completezza di regolamentazione e una
collocazione nell’area della fiducia che l’ “atto di destinazione” non
presenta». Lo stesso Autore, prima dell’entrata in vigore dell’art. 2645-ter c.c. aveva del resto lucidamente
tracciato la linea di demarcazione tra il fenomeno del trust e la destinazione ad uno scopo eventualmente posta in essere
sulla base dei principi di diritto interno dell’autonomia privata: «come la
giurisprudenza ha perfettamente compreso, i trust
selezionano interessi meritevoli di tutela e li proteggono meglio di quanto
faccia o possa fare il nostro diritto interno; per questa ragione è destinata a
rimanere esercitazione accademica la pur interessante tesi di chi vorrebbe
ricondurre i trust al nostro
tradizionale strumentario, avvalendosi del principio dell’autonomia privata.
Infatti, un trust è molto più di un
atto di segregazione. Da un lato, esso vive in un quadro di riferimento che non
è possibile riprodurre convenzionalmente; dall’altro, se si guarda alla
selezione degli interessi, esso è essenzialmente rivoluzionario per la ragione
che sovverte le priorità tipiche del nostro ordinamento, senza tuttavia
violarne i principi fondamentali. Sta qui, a ben vedere, la chiave di lettura
dell’enorme interesse che i trust
stanno suscitando» (cfr. Lupoi, I trust nel diritto civile, Torino,
2004, p. 266).
[65] Cfr. Petrelli,
La trascrizione degli atti destinazione,
cit., p. 40: «Il nuovo art. 2645‑ter
c.c. non incide sulla questione dell’ammissibilità del trust interno, cioè del
trust regolato da legge straniera in assenza di altri “elementi di estraneità”:
questione di natura squisitamente internazionalprivatistica, da risolversi alla
luce degli argomenti interpretativi già sviluppati dalla dottrina e dalla
giurisprudenza. Tale disposizione sembra, invece, risolvere definitivamente il
problema della trascrivibilità del trust, contenendo una norma che – oltre a
legittimare espressamente la trascrizione di atti di destinazione – prevede
testualmente ed in linea generale il “fine di rendere opponibile ai terzi il
vincolo di destinazione”, e dispone specificamente la preclusione
dell’esecuzione forzata sui beni oggetto di vincolo, salvo che per debiti
contratti per lo scopo di destinazione». Contra
D’Errico, Trascrizione del vincolo di destinazione, cit., p. 2: «le
caratteristiche strutturali, effettuali e rimediali del trust, diverse da
quelle del negozio di destinazione, ne impediscono la riconducibilità nella
categoria generale dell’art. 2645 ter
c.c., e conseguentemente impediscono di ottenerne la trascrizione utilizzando
questo percorso normativo. Trattandosi di vicende incompatibili, – da una parte
la destinazione negoziale tipizzata di cui all’art. 2645 ter c.c., dall’altra il trust disciplinato dalla Convenzione de
L’Aja, – non si potrebbe argomentare dall’una per stabilire quale sia la
disciplina dell’altra, men che meno in punto di trascrizione, là dove il
principio di tipicità (art. 2672 c.c.) osta ad applicazioni analogiche o
interpretazioni estensive, perché, come ammonisce
[66] Cfr. Risso e
Muritano, Il trust: diritto
interno e Convenzione de L’Aja. Ruolo e responsabilità del notaio, Studio approvato dal Consiglio
Nazionale del Notariato il 10 febbraio 2006. Nel senso che l’art. 2645-ter c.c. costituirebbe «il completamento
normativo (finora mancante) della previsione dell’art. 12 della convenzione
dell’Aja del 1985 relativa alla legge applicabile ai trusts e al loro
riconoscimento» v. Molinari, Gli effetti della trascrizione dell’atto di
destinazione nei confronti dei creditori e dei terzi aventi causa, testo
dattiloscritto della relazione agli atti del convegno organizzato da Paradigma
a Milano il 22 maggio 2006, cit., p. 2, nota 4. Anche secondo Del Federico, Trust interno e regime fiscale
degli atti di destinazione per la realizzazione di interessi meritevoli di
tutela ai sensi del nuovo articolo 2645-ter del codice civile,
disponibile alla pagina web seguente:
http://www.delfederico.it/ita/pub/pubblicazioni62.htm,
«La norma in argomento sembrerebbe configurare la prima applicazione nel nostro
ordinamento giuridico dell’Istituto del trust, in quanto si può attribuire un
vincolo di destinazione specifico a beni immobili e mobili registrati per
destinarli ad interessi meritevoli di tutela. Si può individuare, così, per il
nostro ordinamento la prima figura di trust interno, seppur il vincolo di cui
all’art. 2645-ter non coincida
esattamente con il concetto di trust e si debba ritenere ben più simile a
quello del fondo patrimoniale».
[67] Cfr. Fanticini,
op. cit., p. 347. Anche M. Bianca, Il nuovo art. 2645-ter c.c.
Notazioni a margine di un provvedimento del giudice tavolare di Trieste,
cit., p. 187, afferma che «sarebbe non corretto dire che l’art. 2645-ter, anche se non nomina il trust, in realtà lo introduce».
[68] De Nova,
Esegesi dell’art. 2645 ter cod. civ., cit., p. 1: «Lo scopo deve essere necessariamente indicato nell’atto
di destinazione, che non può essere atto astratto (potremmo parlare di expressio finis)».
[69] In questo senso v. anche Fanticini, op. cit.,
p. 333, secondo cui la forma solenne impone al notaio rogante di esplicitare
nell’atto pubblico l’interesse meritevole di tutela, «il che fornisce anche la
giustificazione del vincolo di destinazione impresso ai beni». Contra, nel senso che la forma solenne
sarebbe richiesta solamente ai fini dell’opponibilità, v. gli Autori citati infra, § 13.
[70] In questo senso v. Fanticini,
op. cit., p. 335, il quale cita
Cass., 5 gennaio 1994, n. 75. Secondo l’Autore, tale sentenza riporta ad
assenza di meritevolezza quella che sembrerebbe essere l’inidoneità in concreto
della causa negoziale. Sempre secondo l’Autore, Cass., 20 settembre 1995, n.
9975, sanziona con la nullità per immeritevolezza di tutela un negozio che
limitava le possibilità del socio di liberarsi delle proprie quote, ritenendolo
però anche in concreto contrasto con il principio dell’ordinamento che vieta
l’assunzione di obbligazioni di durata indeterminata.
[71] Cfr. ad es. Gazzoni,
Osservazioni sull’art. 2645 ter,
cit., § 3, secondo il quale dal 1942 ad oggi una sola sentenza avrebbe
dichiarato un contratto atipico lecito, ma immeritevole di tutela; l’Autore
cita in proposito App. Milano, 29 dicembre
[72] Cfr. ad esempio Cass., 23 febbraio 2004, n.
[73] Così Cass. 6 febbraio 2004, n.
Per una sintesi della giurisprudenza in tema di meritevolezza cfr. Urciuoli,
Liceità della causa e meritevolezza dell’interesse nella prassi
giurisprudenziale, in Rass. dir. civ., 1985, p. 752 ss.; Gardani Contursi-Lisi, Contratti
atipici, I, in Giurisprudenza sistematica di diritto commerciale, diretta da Bigiavi, Torino, 1997,
p. 81 ss.; Breccia, La causa,
in Alpa, Breccia e Liserre, Il contratto in generale,
III, nel Trattato di diritto privato, diretto da Bessone, XIII, Torino, 1999, p. 97 ss.
[74] Secondo Roppo,
Il contratto, Trattato di diritto privato, diretto da Iudica e Zatti, Milano, 2001, p. 425:
«Si obietterà che in questo modo l’art. 1322, secondo comma, diventa un inutile
doppione dell’art. 1343. Se anche fosse, una norma inutile perché ripetitiva
sarebbe pur sempre preferibile a una norma con significati ripugnanti al
sistema». Nello stesso senso v. anche Ferri,
Meritevolezza dell’interesse e utilità sociale, in Riv. dir. comm.,
1971, II, p. 81 ss. Sul tema v. anche Velluzzi,
Commento a Trib. Brindisi, 21 giugno
2005, cit., p. 888 ss., anche per ulteriori rinvii.
[75] Sul punto cfr. per tutti De Nova, voce Leasing, in Dig. disc. priv., sez.
civ., X, Torino, 1993, p. 466.
[76] Betti, Teoria generale del negozio giuridico,
Torino, 1950, p. 190 ss.
[77] Estremamente significative appaiono sul punto le
parole della Relazione al Re del Ministro Guardasigilli per l’approvazione del
testo del codice civile (n. 613), secondo cui la funzione economico-sociale che
caratterizza la causa del contratto dovrebbe essere «non soltanto conforme ai
precetti di legge, all’ordine pubblico e al buon costume, ma anche per i
riflessi diffusi dall’art. 1322, secondo comma, rispondente alla necessità che
il fine intrinseco del contratto sia socialmente apprezzabile e come tale meritevole
della tutela giuridica (n. 603)». E il n. 603, cui fa espresso rinvio il passo
appena citato, contiene le affermazioni seguenti: «603. ‑ Se si traggono
le logiche conseguenze dal principio corporativo che assoggetta la libertà del
singolo all’interesse di tutti, si scorge che, in luogo del concetto
individualistico di signoria della volontà, l’ordine nuovo deve accogliere
quello più proprio di autonomia del volere. L’autonomia del volere non è
sconfinata libertà del potere di ciascuno, non fa del contratto un docile
strumento della volontà privata; ma, se legittima nei soggetti un potere di
regolare il proprio intereresse, nel contempo impone ad essi di operare sempre sul
piano del diritto positivo nell’orbita delle finalità che questo sanziona e secondo
la logica che lo governa (art. 1322, comma primo). Il nuovo codice, peraltro,
non costringe l’autonomia privata a utilizzare soltanto i tipi di contratto
regolati dal codice, ma le consente di spaziare in una più vasta orbita e di
formare contratti di tipo nuovo se il risultato pratico che i soggetti si
propongono con essi di perseguire sia ammesso dalla coscienza civile e
politica, dall’economia, nazionale. dal buon costume e dall’ordine pubblico
(art. 1322, comma secondo): l’ordine giuridico infatti non può apprestare
protezione al mero capriccio individuale, ma a funzioni utili, che, abbiano una
rilevanza sociale, e, come tali, meritino di essere tutelate dal diritto. Si
pensi per esempio, ad un contratto col quale alcuno consenta, dietro compenso,
all’astensione da un’attività produttiva o a una esplicazione sterile della propria attività, personale
o a una gestione antieconomica o distruttiva di un bene soggetto alla sua
libera disposizione, senza una ragione socialmente plausibile, ma solo per
soddisfare il capriccio o la vanità della controparte. Un controllo della
corrispondenza obiettiva del contratto alle finalità garantite dall’ordinamento
giuridico è inutile se le parti utilizzano i tipi contrattuali legislativamente
nominati e specificamente disciplinati: in tal caso la corrispondenza stessa è
stata apprezzata e riconosciuta dalla legge col disciplinare il tipo
particolare di rapporto e resta allora da indagare (…) se per avventura la
causa considerata non esista in concreto o sia venuta meno. Quando il contratto
non rientra in alcuno degli schemi tipici legislativi, essendo mancato il
controllo preventivo e astratto della legge sulla rispondenza del tipo nuovo di
rapporto alle finalità tutelate, si palesa invece necessaria la valutazione del
rapporto da parte del giudice, diretta ad accertare se esso si adegui ai postulati dell’ordinamento giuridico».
[78] Cfr. Di Sapio,
op. cit., p. 27.
[79] Sul tema cfr. Cosentino,
Il paternalismo del legislatore nelle
norme di limitazione dell’autonomia dei privati, in Quadrimestre, 1993, p. 119 ss., 132 s.; v. inoltre Caterina, Paternalismo e antipaternalismo nel diritto privato, in Riv. dir. civ., 2005, II, p. 771 ss.
[80] Cfr. ad es. Barcellona,
Intervento statale e autonomia privata
nella disciplina dei rapporti economici, Milano, 1969, p. 220 ss., 225; Lucarelli, Solidarietà e autonomia privata, Napoli, 1970, p. 170 ss.; Nuzzo, Utilità sociale e autonomia privata, Milano, 1975, p. 97 ss.; Costanza, Meritevolezza dell’interesse e equilibrio contrattuale, in Contratto e impresa, 1987, p. 428.
[81] Più che apprezzabili appaiono pertanto i tentativi
che la dottrina più recente ha effettuato per dimostrare l’autonomia del
giudizio di meritevolezza rispetto a quello di liceità (su cui v., anche per i
richiami, Velluzzi, Commento, cit., p. 889 s.). Così, vi è
chi sostiene, ad esempio, che la «valutazione di meritevolezza ha la finalità,
ben diversa, di escludere dalla tutela espressioni di autonomia privata che
mirino a risultati palesemente futili, privi di rilievo» (Cataudella, I contratti. Parte
generale, Torino, 2001, p. 187 s.). Seguendo questa direzione altra
dottrina estende il controllo di meritevolezza alle manifestazioni della
libertà contrattuale «lecite e ammesse ma sprovviste di tutela (incoercibili) e
infine a quelle tutelabili tra le parti ma non anche rispetto ai terzi
danneggiati» (Di Marzio, Il
contratto immeritevole nell’epoca del postmoderno, in Aa. Vv., Illiceità, meritevolezza,
nullità. Aspetti problematici dell’invalidità contrattuale, a cura di Di
Marzio, Napoli, 2004, p. 141), con un evidente richiamo al tema del «contratto
futile». Non è mancato anche chi ha ritenuto immeritevole il contratto che non
si rivela in grado di realizzare gli stessi interessi che esso esprime (cfr. Gentili, Merito e metodo nella
giurisprudenza sulle cassette di sicurezza: a proposito della meritevolezza di
tutela del contratto «atipico», in Riv. dir. comm., 1989, I, p. 221
ss., 234 s.).
[82] La dottrina limita tradizionalmente l’ambito di applicazione
del controllo di meritevolezza ai contratti atipici: cfr. al riguardo le
riflessioni di Messineo, Dottrina generale del contratto (artt. 1321
– 1469 cod. civ.), Milano, 1952, p. 225; Scognamiglio,
Dei contratti in generale. Disposizioni
preliminari. Dei requisiti del contratto. Art. 1321-1352, Bologna-Roma,
1970, p. 42 s.; Mirabelli, Dei
contratti in generale, Torino
1980, p. 31; Sacco, in Sacco e De
Nova, Il contratto, nel Trattato di diritto civile diretto da
Sacco, II, Torino, 1993, p. 446 ss. Contra C.M. Bianca, Diritto
civile, III, Il contratto, Milano 1984, p. 450.
[83] Sul tema v. per tutti
Gazzoni, Osservazioni sull’art.
2645 ter, cit., § 1 ss.; cfr. inoltre De
Nova, Esegesi dell’art. 2645 ter cod. civ., cit., p. 1 ss.; M. Bianca,
L’atto di destinazione: problemi
applicativi, cit., p. 1 ss.; Spada,
Il vincolo di destinazione e la struttura
del fatto costitutivo, cit., p. 1 ss.
[84] Nel senso che «la fattispecie delineata dal
legislatore ha una propria tipicità, sia pure affatto particolare» v. anche Gazzoni, Osservazioni sull’art. 2645 ter, cit., § 2. Il medesimo Autore,
peraltro, poco oltre, sembra contestare siffatta tipicità, affermando che, «Nel
nostro caso (…) si assisterebbe ad un ben strano fenomeno, per cui la tipicità
riguarderebbe il modello, ma non il contenuto, nel senso cioè di tipizzare lo
schema, rinviando però poi all’autonomia privata il compito di riempire lo
schema stesso di qualsivoglia regolamento disciplinare. Questa non è la
tipicità dei diritti reali e nemmeno in verità quella dei contratti, là dove,
in virtù dell’art. 1322¹ c.c., i privati possono bensì liberamente operare
all’interno della disciplina del tipo, ma rispettando le norme imperative e
restando comunque vincolati a tutte le norme non derogate». In realtà, non sembra
possibile legare la tipicità di una figura negoziale al livello di dettaglio
della normativa dettata al riguardo, potendosi riconoscere come tipico quel
negozio di cui il legislatore descrive fattispecie ed effetti, anche se in modo
sommario (e, purtroppo, anche confuso, misterioso e/o contraddittorio), proprio
come avviene nel caso in esame. Non sembra poi possibile operare una
distinzione tra atto nominato e atto tipico, secondo l’avviso di chi propone di
ritenere che il negozio in questione sia, per l’appunto, nominato (in quanto
espressamente previsto dal legislatore), ma non tipico, per il difetto di
disciplina al riguardo. Come si è già avuto modo di vedere (cfr. supra, § 1) un abbozzo
di disciplina della fattispecie, per quanto embrionale, vi è. Il fatto è che
bisogna ammettere che il legislatore ha inserito in un atto tipico, a struttura
potenzialmente anche bilaterale, una valutazione di meritevolezza che
normalmente è riservata ai contratti atipici. Solo che questa valutazione non
si riferisce, come si dirà subito nel testo, al tipo, ma al motivo perseguito
dal costituente.
[85] E a condizione che si tratti del solo determinante e
che emerga dall’atto; si vedano in proposito anche gli artt. 647, terzo comma,
e 794 c.c. in tema di onere illecito e impossibile nelle disposizioni
testamentarie e nelle donazioni, nonché l’art. 1345 c.c. in materia di motivo
contrattuale illecito.
[86] Cfr. Betti,
Teoria generale del negozio giuridico,
Torino, 1950, p. 190 s., secondo cui «La configurazione per tipi non si opera di necessità mediante qualifiche
tecnico-legislative: essa può operarsi anche mediante rinvio a quelle che sono
le concezioni dominanti nella coscienza
sociale dell’epoca nei vari campi dell’economia, della tecnica e della
morale. Codesta appare infatti la via preferibile appena il bisogno di tutela
giuridica dell’autonomia privata si faccia sentire in una sfera così ampia da
far divenire le denominazioni tradizionali inadeguate e insufficienti ad
esaurirne il campo. Allora, al posto della rigida tipicità legislativa
imperniata sopra un numero chiuso di denominazioni subentra un’altra tipicità,
che adempie pur sempre il compito di limitare e indirizzare l’autonomia
privata, ma, a paragone di quella, è assai più elastica nella configurazione
dei tipi e in quanto si opera mediante rinvio alle valutazioni economiche o
etiche della coscienza sociale, si potrebbe chiamare tipicità sociale». Aderisce a questa impostazione anche Scognamiglio, op. loc. ultt. citt.
[87] Così Scognamiglio,
op. cit., p. 43. Si noti che tanto
questo Autore, come quelli sopra citati (cfr. in particolare Messineo, op. loc. ultt. citt.; Mirabelli,
op. loc. ultt. citt.; Sacco,
in Sacco e De Nova, op. loc.
ultt. citt.) espressamente riferiscono la valutazione di meritevolezza ex art. 1322 cpv. c.c. alla causa del
contratto atipico.
[88] Cioè al notaio e, come si avrà modo di vedere oltre
(cfr. infra, §§ 13
s.), talora anche al cancelliere, sotto la direzione del giudice. Nel senso
che compete al notaio, come pubblico ufficiale rogante l’atto, la valutazione
sulla meritevolezza di tutela, v. Petrelli,
La trascrizione degli atti destinazione,
cit., p. 16 (secondo cui «la necessaria valutazione di meritevolezza degli
interessi valorizza il ruolo del notaio. In assenza di meritevolezza l’atto non
sarà ricevibile»). Anche secondo Franco,
op. cit., p. 323, il notaio è «il
soggetto deputato naturalmente alla valutazione in ordine alla meritevolezza
degli interessi che si intendono realizzare»; per Nuzzo, Atto di
destinazione, interessi meritevoli di tutela e responsabilità del notaio,
cit., p. 6 «spetta al notaio valutare la meritevolezza dell’interesse alla
destinazione, salvo il successivo controllo del giudice al quale i creditori si
rivolgano contestando la liceità dell’atto o l’esistenza dell’interesse
meritevole di tutela o esercitando le azioni revocatorie».
[89] L’espressione sarebbe stata pronunziata da Busnelli
nel corso del convegno su Liberalità e prassi negoziale, organizzato dal
Comitato Regionale Notarile della Calabria, tenutosi a Tropea il 9 e 10 giugno
2006, secondo quanto riferito da Di Sapio,
op. cit., p. 28, nota 85.
[90] Cfr. Di Sapio,
op. cit., p. p. 29.
[91] Ai sensi dell’art.
[92] Cfr. ad esempio Cass., 11 novembre 1997, n. 11128,
cit., secondo cui «In tema di responsabilità disciplinare dei notai, il
divieto, imposto dall’articolo 28 comma primo n. 1 della legge 16 febbraio
1913, n. 89, sanzionato con la sospensione a norma dell’art. 138 comma secondo
di ricevere atti “espressamente proibiti dalla legge” attiene ad ogni vizio che
dia luogo ad una nullità assoluta dell’atto, con esclusione, quindi, dei vizi
che comportano l’annullabilità o l’inefficacia dell’atto (ovvero la stessa
nullità relativa) ed è sufficiente che la nullità risulti in modo inequivoco».
[93] Secondo Petrelli,
La trascrizione degli atti destinazione,
cit., p. 16, «Più delicato e da verificarsi caso per caso è il profilo
dell’applicabilità dell’art.
[94] Di Sapio,
op. cit., p. 29.
[95] E’ evidente che, in caso contrario, il problema non
potrebbe neppure porsi.
[96] Sempre – e non ci si stancherà mai di ripeterlo – che
il notaio e il giudice abbiano ritenuto di dover superare positivamente (ciò
che chi scrive contesta) il giudizio di ammissibilità in abstracto del trust
interno.
[97] Cfr. per tutti Petrelli,
La trascrizione degli atti destinazione,
cit., p. 16: «Da rilevare che il riscontro
della meritevolezza degli interessi non costituisce una novità assoluta
ai fini di cui trattasi, posto che analoga incombenza sussisteva, e sussiste, a proposito del trust come
riconosciuto dalla Convenzione dell’Aja del l° luglio 1985: si ritiene,
infatti, che l’art. 13 di tale Convenzione (…) tende ad impedire il
riconoscimento di quei trusts che risultino non meritevoli di tutela. Ciò, del
resto, non deve stupire, posto che l’esigenza del controllo di meritevolezza è
propria di ogni “schema atipico”, si tratti di contratti diversi da quelli
espressamente disciplinati o di una struttura generale come il trust (o vincolo
di destinazione), che rappresenta un “contenitore” suscettibile di essere
“riempito” con i più svariati contenuti».
[99] Di quanto sopra sembrano rendersi conto anche alcuni
tra i fautori dell’ammissibilità del trust
interno. Così ad es. Fanticini, op. cit., p. 339, dopo aver rilevato
che, secondo Trib. Bologna, 1 ottobre 2003, cit., il legislatore della legge 9
ottobre 1989, n. 364, ratificando la convenzione de L’Aja dell’1 luglio 1985
«ha attribuito al trust amorfo o shapeless
(quello risultante dalla generica formulazione dell’art. 2 della Convenzione)
una causa tipica riconoscendo la meritevolezza degli interessi tutelati con il
trust», conclude che «se la tesi espressa dal Tribunale di Bologna fosse
corretta, l’istituto del trust non potrebbe considerarsi atipico e perciò
potrebbe ragionevolmente dubitarsi dell’applicabilità dell’art. 2645-ter a tale istituto».
[100] Favorevole a questa tesi è, ad esempio, Gazzoni, Osservazioni sull’art. 2645 ter, cit., § 4; cfr. inoltre gli Autori
che verranno citati oltre, nell’ambito di questo §.
[101] In questo senso v. De
Nova, Esegesi dell’art. 2645 ter cod. civ., cit., p. 2: «Credo poi che per ritenere integrato questo requisito
non sia per un verso necessario che lo scopo sia di utilità sociale, e non sia
per altro verso sufficiente che lo scopo non sia illecito (come alla fine ci si
accontenta sia la causa del contratto ex
art. 1322): lo scopo deve meritare apprezzamento positivo».
[102] In questo
senso v. per tutti Petrelli,
La trascrizione degli atti destinazione,
cit., p. 17, secondo cui «tale salvaguardia costituisce semmai l’ “effetto” del
vincolo di destinazione, ma non la “causa” del medesimo, che deve rinvenirsi in
un ulteriore interesse del
beneficiario (che può essere il medesimo costituente un terzo),
meritevole di tutela a norma dell’art. 1322 c.c.». Per M. Bianca, Il nuovo art. 2645-ter c.c.
Notazioni a margine di un provvedimento del giudice tavolare di Trieste,
cit., p. 190, «Il giudizio di meritevolezza, inteso non solo quale assenza di
illiceità, ma quale strumento di bilanciamento di valori, dovrebbe condurre a
una selezione delle applicazioni dell’atto negoziale di destinazione, al fine
di realizzare un’attuale competitività dello stesso. Un’utilizzazione
squilibrata di questo strumento porterebbe infatti al paradosso di negare
qualsiasi credito o finanziamento in presenza dell’applicazione dell’art. 2645-ter. Un’applicazione coerente
consentirebbe invece di selezionare i canali di finanziamento sulla base delle
finalità destinatorie».
[103] Cfr. Gazzoni,
Osservazioni sull’art. 2645 ter,
cit., § 4.
[104] Così Gazzoni,
Osservazioni sull’art. 2645 ter,
cit., § 4. Sul rapporto tra fondazioni e pubblica utilità cfr. Cesàro, Patrimoni destinati nell’interesse della famiglia tra diritto positivo
e prospettive di disciplina del trust, cit., p. 87 ss.; Tassinari, Patrimoni privati e destinazioni a tutela della famiglia, cit., p.
58 s.
[105] Così Gazzoni,
Osservazioni sull’art. 2645 ter,
cit., § 4.
[106] Cfr. de Donato, Elementi dell’atto di destinazione,
cit., p. 3.
[107] Circa l’espressa menzione legislativa delle «persone
con disabilità» si è rilevato che, poiché costoro sono certamente da annoverare
– senza distinzioni – tra le «persone fisiche» (pure menzionate dalla norma),
non era certo necessario esplicitare a livello normativo la differenza tra i
disabili e gli altri soggetti; anzi, proprio all’eliminazione di una siffatta
discriminazione dovrebbero tendere la l. 5 febbraio 1992, n. 104 («Legge‑quadro
per l’assistenza, l’integrazione sociale e i diritti delle persone
handicappate») e la l. 6 marzo 2006, n. 67 («Misure per la tutela giudiziaria
delle persone con disabilità vittime di discriminazioni»). Si è osservato
quindi che nella specie si dovrebbe riconoscere «l’esistenza di
un’imperdonabile gaffe del legislatore, che – a quanto pare – è il primo a
praticare discriminazioni in pregiudizio delle persone con disabilità»: cfr. Fanticini, op. cit., p. 350. Anche Gazzoni,
Osservazioni sull’art. 2645 ter,
cit., § 1, osserva come, sul piano terminologico, appaia «singolare (e
deplorevole) che si parli di persone con disabilità (ennesimo neologismo
per indicare gli handicappati, divenuti poi disabili e poi ancora
diversamente abili) come di soggetti distinti e quindi diversi dalle
altre persone fisiche». Da aggiungere che a tutela di un «soggetto debole», il
giudice tutelare di Genova ha nominato un amministratore di sostegno,
conferendogli tra l’altro l’incarico di istituire un trust in favore della persona beneficiaria della misura prevista
dalla legge 9 gennaio 2004, n. 6; la motivazione del provvedimento è
espressamente richiamato l’articolo 2645‑ter (cfr. Trib. Genova, 14 marzo
[108] Anche Spada,
Il vincolo di destinazione e la struttura
del fatto costitutivo, cit., p. 4, è dell’avviso che «debba
prendersi atto che il riferimento ai “disabili” ed alle pubbliche
amministrazioni orienti a sanzionare la separazione da destinazione solo se
manifestazione dell’autonomia della solidarietà; in forza di questo
addentellato testuale resistendo così alla deriva a fare della destinazione un
deforme succedaneo del trust, a servizio di qualsiasi finalità, con
sostanziale abrogazione dell’art. 2740 c.c. e sabotaggio di un sistema che
esibisce destinazioni nominate e variamente vincolate negli scopi».
[109] Così de Donato, Elementi dell’atto di destinazione,
cit., p. 3.
[110] Così de Donato, Elementi dell’atto di destinazione,
cit., p. 3.
[111] Sull’idoneità del vincolo ex art. 2645-ter c.c. a
dar vita, per esempio, ad una sorta di fondo patrimoniale per figli maggiorenni
disabili v. Fanticini, op. cit., p. 343 e nota 45.
[112] Il dovere di contribuzione nella famiglia di fatto
costituisce, pacificamente, oggetto di obbligazione naturale: sul punto v. per
tutti Oberto, I regimi patrimoniali della famiglia di fatto, Milano, 1991, p. 83
ss.; Id., Le prestazioni lavorative del convivente more uxorio, Padova, 2003,
p. 1 ss. Sull’utilizzo dell’art. 2645-ter
c.c. nell’ambito dei rapporti patrimoniali della famiglia di fatto cfr. cfr. de Donato, Elementi
dell’atto di destinazione, cit., p. 6 s.; Fanticini, op. cit.,
p. 342 ss.; Oberto, Famiglia di fatto e convivenze: tutela dei
soggetti interessati e regolamentazione dei rapporti patrimoniali in vista
della successione, cit.
[113] Sul concetto, introdotto, come è noto, da C.M.
Bianca, v. per tutti Oberto, I contratti della crisi coniugale, I,
cit., p. 448 ss.
[114] Rileva sul punto ulteriormente de Donato, Elementi
dell’atto di destinazione, loc. cit., quanto segue: «Interessante è,
infine, la possibilità della destinazione negoziale nei negozi giuridici della
crisi familiare, anche in una prospettiva di rilevanza della solidarietà
post-coniugale. L’assegno di separazione (art. 155 cod. civ.) e l’assegno di
divorzio (art. 6 legge divorzio) svolgono la funzione di perpetuare, anche
nella fase della crisi coniugale, l’obbligo dei genitori di mantenere, istruire
ed educare la prole (art. 147 cod. civ.) nonché il diritto di ricevere
dall’altro coniuge, nella separazione personale, quanto è necessario al
mantenimento, nel caso di inadeguatezza dei propri redditi (art. 156 cod. civ.)
e, nel divorzio (art. 5 Legge Divorzio), l’obbligo per un coniuge di
somministrare periodicamente a favore dell’altro un assegno, qualora
quest’ultimo non abbia mezzi adeguati o comunque non possa procurarseli per
ragioni oggettive. Sia nella separazione personale che nel divorzio,
l’abitazione adibita a residenza familiare spetta al coniuge affidatario dei
figli (art. 155, comma 4, cod. civ. e art. 6, comma 6, legge divorzio). La
destinazione negoziale può coprire, non derogandole ma rendendole più stabili
ed efficienti, le prospettive di tutela di coniuge e figli, già fissate nelle
citate norme sia in relazione agli assegni di separazione o divorzio sia in
relazione alla destinazione della casa adibita a residenza familiare,
strutturando negozialmente, nei limiti di legge, i vari diritti ed obblighi, il
loro contenuto e la loro durata».
[115] Cfr. de Donato, Elementi dell’atto di destinazione,
cit., p. 3 ss., il quale rileva che la norma più interessante al
riguardo è rappresentata dall’art. 699 c.c., che qualifica espressamente i
premi di nuzialità o di natalità e i sussidi per l’avviamento a una professione
o a un’arte come fini di pubblica utilità.
[116] Cfr. de Donato, Elementi dell’atto di destinazione, loc.
cit. Sui rapporti fra trust,
amministrazione di sostegno e interdizione cfr. Spallarossa,
Amministrazione di sostegno,
interdizione, trust: spunti per un confronto, in Trusts att. fid., 2006, p. 354 ss.
[117] Art. 2, d.lgs. 24 marzo 2006, n. 155:
«1. Si considerano beni e servizi di utilità sociale quelli prodotti o scambiati nei
seguenti settori: a) assistenza sociale, ai sensi della legge 8 novembre 2000,
n. 328, recante legge quadro per la realizzazione del sistema integrato di
interventi e servizi sociali; b) assistenza sanitaria, per l’erogazione delle
prestazioni di cui al decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri in data
29 novembre 2001, recante «Definizione dei livelli essenziali di assistenza», e
successive modificazioni, pubblicato nel supplemento ordinario alla Gazzetta
Ufficiale n. 33 dell’8 febbraio 2002; c) assistenza socio-sanitaria, ai sensi
del decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri in data 14 febbraio 2001,
recante «Atto di indirizzo e coordinamento in materia di prestazioni
socio-sanitarie», pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 129 del 6 giugno 2001;
d) educazione, istruzione e formazione, ai sensi della legge 28 marzo 2003, n.
53, recante delega al Governo per la definizione delle norme generali
sull’istruzione e dei livelli essenziali delle prestazioni in materia di
istruzione e formazione professionale; e) tutela dell’ambiente e
dell’ecosistema, ai sensi della legge 15 dicembre 2004, n. 308, recante delega
al Governo per il riordino, il coordinamento e l’integrazione della
legislazione in materia ambientale e misure di diretta applicazione, con
esclusione delle attività, esercitate abitualmente, di raccolta e riciclaggio
dei rifiuti urbani, speciali e pericolosi; f) valorizzazione del patrimonio
culturale, ai sensi del Codice dei beni culturali e del paesaggio, di cui al
decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42; g) turismo sociale, di cui
all’articolo 7, comma 10, della legge 29 marzo 2001, n. 135, recante riforma
della legislazione nazionale del turismo; h) formazione universitaria e
post-universitaria; i) ricerca ed erogazione di servizi culturali; l)
formazione extra-scolastica, finalizzata alla prevenzione della dispersione
scolastica ed al successo scolastico e formativo; m) servizi strumentali alle
imprese sociali, resi da enti composti in misura superiore al settanta per
cento da organizzazioni che esercitano un’impresa sociale.
2. Indipendentemente
dall’esercizio della attività di impresa nei settori di cui al comma 1, possono
acquisire la qualifica di impresa sociale le organizzazioni che esercitano
attività di impresa, al fine dell’inserimento lavorativo di soggetti che siano:
a) lavoratori svantaggiati ai sensi dell’articolo 2, primo paragrafo 1, lettera
f), punti i), ix) e x), del regolamento (CE) n. 2204/2002 della Commissione, 5
dicembre 2002, della Commissione relativo all’applicazione degli articoli 87 e
88 del trattato CE agli aiuti di Stato a favore dell’occupazione; b) lavoratori
disabili ai sensi dell’articolo 2, primo paragrafo 1, lettera g), del citato
regolamento (CE) n. 2204/2002.
3. Per attività principale ai sensi dell’articolo 1,
comma 1, si intende quella per la quale i relativi ricavi sono superiori al settanta
per cento dei ricavi complessivi dell’organizzazione che esercita l’impresa
sociale. Con decreto del Ministro delle attività produttive e del Ministro del
lavoro e delle politiche sociali sono definiti i criteri quantitativi e
temporali per il computo della percentuale del settanta per cento dei ricavi
complessivi dell’impresa.
4. I lavoratori di cui al comma 2 devono essere in
misura non inferiore al trenta per cento dei lavoratori impiegati a qualunque
titolo nell’impresa; la relativa situazione deve essere attestata ai sensi
della normativa vigente.
5. Per gli enti di cui all’articolo 1, comma 3, le
disposizioni di cui ai commi 3 e 4 si applicano limitatamente allo svolgimento
delle attività di cui al presente articolo».
Nel medesimo senso di cui al testo cfr. anche de Donato, Elementi
dell’atto di destinazione, loc. cit.; Spada, Il vincolo di destinazione e la
struttura del fatto costitutivo, loc. cit.
[118] de Donato, Elementi dell’atto di destinazione, loc.
cit.
[119] Cfr. in proposito de Donato, Elementi dell’atto di
destinazione, loc. cit., il quale rileva ulteriormente quanto segue:
«Interessante, ai nostri fini, è anche l’art. 25 della Carta Europea dei
Diritti Fondamentali, detta Carta di
Nizza Approvata dal Parlamento Europeo il 14 novembre 2000 e proclamata
ufficialmente dal Consiglio Europeo di Nizza il 7 dicembre 2000 che riconosce
“il diritto degli anziani di condurre una vita dignitosa ed indipendente e di
partecipare alla vita sociale e culturale”, tutelando in particolar modo gli
anziani non autosufficienti.
[120] Che è quello, come noto, in cui settlor e trustee
coincidono. Secondo il diritto inglese anche settlor (da solo o con altri) e beneficiario possono coincidere,
mentre non è possibile che la stessa persona sia, al tempo stesso, l’unico
beneficiario e l’unico trustee: cfr.
sul punto Graziadei, Diritti nell’interesse
altrui, Trento 1995,
p. 289; Id., Il trust nel diritto
angloamericano, in Dig. disc. priv.,
Sez. comm., XVI, Torino, 1999, p.
261. Peraltro, ai sensi dell’art. 2, ult. cpv., della Convenzione de L’Aja, «Il
fatto che il costituente conservi alcune prerogative o che il trustee stesso
possieda alcuni diritti in qualità di beneficiario non è necessariamente
incompatibile con l’esistenza di un trust».
[121] Sul punto si fa rinvio per tutti a Lupoi, I trust nel diritto civile, cit., p. 237 ss., 277 ss. La visione
tradizionale del trust come di un
istituto assimilabile (con tutti i distinguo
del caso, ovviamente) all’interposizione reale viene contrastata da Montinaro, Trust e negozio di destinazione allo scopo, cit., passim, spec. p. 24 ss., 96 ss., la quale
riporta l’istituto di matrice anglosassone al fenomeno dell’interposizione
gestoria, in forza della quale il trustee
non acquisterebbe la titolarità dei diritti sui beni oggetto di trust, posto che il settlor intende sottrarre i rapporti giuridici, destinati alla
realizzazione dello scopo del trust,
alle vicende incidenti sul patrimonio del trustee-gestore.
Ne consegue che al fiduciario è attribuito un mero «potere di esercizio del
diritto», comprendente la possibilità di amministrare, di disporre e di stare
in giudizio: fenomeno, questo, designato dalla Convenzione de L’Aja (art. 2)
con il concetto di «controllo». Ora, a prescindere dall’obiettiva opinabilità
della questione, resta peraltro il dubbio su come sia possibile continuare ad
individuare la persistenza del diritto dominicale in capo ad un costituente, il
quale si sia spogliato di quel potere di godere e disporre che della proprietà
costituisce l’essenza.
[122] Disponibile al seguente indirizzo web:
http://www.agenziaterritorio.it/documentazione/normativa/circolare_5_2006.pdf.
[123] Ad avviso di De
Nova, Esegesi dell’art. 2645 ter cod. civ., cit., p. 3 «Non sembra vi sia ragione di escludere che l’art. 2645
ter possa applicarsi anche ad un atto
con cui il disponente trasferisce la proprietà dei beni a persona che li
amministri a favore di terzi beneficiari, e così ad un negozio bilaterale»;
nello stesso senso cfr. M. Bianca, L’atto di destinazione: problemi applicativi, cit., p. 7
ss., secondo cui il costituente può anche operare un trasferimento della
proprietà ad un terzo «attuatore della destinazione»; D’Errico, Trascrizione del vincolo di destinazione,
loc. cit.; Fanticini, op. cit., p. 330, che vede nella nuova
figura codicistica il riferimento ai negozi traslativi atipici. Possibilista al
riguardo parrebbe anche Busani, I notai ammettono il trust interno, in Il Sole 24-ore del 23 febbraio 2006, per
il quale nella nuova norma codicistica «non c’è (...), anche se non la si può
escludere a priori, alcuna attività
traslativa». Contra Gazzoni, Osservazioni sull’art. 2645 ter, cit., § 7, il quale nega che
l’art. 2645-ter c.c. possa riferirsi
a vicende traslative.
[124] Cfr. Lupoi, Gli “atti di destinazione” nel nuovo art.
2645-ter cod. civ. quale frammento di
trust, cit., p. 170. Si noti che, anche prima della novella del
2006, D’Errico, Trust e destinazione, in Aa. Vv.,
Destinazione di beni allo scopo,
Milano, 2003, p. 221 sottolineava «la struttura trinaria del negozio di
destinazione: disponente è il soggetto che destina beni allo scopo, gestore è
il soggetto investito dell’amministrazione di beni finalizzata a quegli scopi,
beneficiario è il soggetto nel cui interesse è disposta la destinazione».
[125] «Freudiano», secondo Gazzoni,
Osservazioni sull’art. 2645 ter,
cit., § 1 («freudiano
è il termine conferente, riferito a chi destina il bene, perché costui,
ovviamente, non conferisce un bel niente rimanendo proprietario, onde è esclusa
la nascita di un distinto ente»).
[126] Cfr. Cass., 4 febbraio 2005, n.
[127] Cfr. Cass.,
15 gennaio 1990, n. 107; Cass., 18 marzo 1994, n. 2604; Cass., 9 aprile 1996,
n. 3251; Cass., 2 settembre 1996, n. 8013; Cass., 2 dicembre 1996, n. 10725;
Cass., 5 giugno 2003, n. 8991; Cass., 18 luglio 2003, n. 11230; Cass., 23
settembre 2004, n. 19131; Cass., 7 marzo 2005, n. 4933; Cass., 31 maggio 2006,
n. 12998.
[128] Cass., 20 maggio 1977, n. 2096.
[129] Di
«beni conferiti in trust» parla anche Trib. Bologna, 1 ottobre 2003, cit.
[130] Secondo
quanto invece ritenuto (come si è appena visto) da Gazzoni, Osservazioni sull’art. 2645 ter, cit., § 1, le cui conclusioni in
parte qua appaiono peraltro pienamente condivisibili.
[131] Anche
Schlesinger, Atti istitutivi di vincoli di destinazione. Riflessioni
introduttive, cit., p. 2, perviene
a conclusioni analoghe a quelle illustrate nel testo. Invero, l’insigne Autore,
dopo aver osservato che l’utilizzo del termine «conferente» potrebbe anche
indurre a pensare «ad un accessorio rispetto a contratti
traslativi, con cui gravare l’acquirente di un vincolo di destinazione sul bene
trasferito (immobile o mobile iscritto in pubblici registri)», conclude
osservando come appaia «peraltro prevalente l’ipotesi che la norma si riferisca
ad atti istitutivi di vincoli di destinazione considerati quali negozi autonomi
ed aventi come effetto solo proprio la costituzione del vincolo».
[132] Cfr. Lupoi, Gli “atti di destinazione” nel nuovo art.
2645-ter cod. civ. quale frammento di
trust, cit., p. 170.
[133] Cfr. Lupoi, Gli “atti di destinazione” nel nuovo art.
2645-ter cod. civ. quale frammento di
trust, cit., p. 170.
[134] Come ammesso da Lupoi,
Gli “atti di destinazione” nel nuovo art.
2645-ter cod. civ. quale frammento di
trust, cit., p. 171: «Nel diritto dei trust normalmente il
disponente non può agire contro il trustee: l’azione spetta ai beneficiari e,
quando previsto, al guardiano del trust». Lo stesso Autore peraltro soggiunge
che «le numerose leggi straniere, fra le quali il disponente di un trust
interno può scegliere, offrono soluzioni variegate fino a consentire al
disponente tali e tanti poteri di diretto intervento sullo svolgimento del
trust da portarlo, quando questo si voglia, a una posizione di forza molto
maggiore che non la semplice legittimazione ad agire».
[135] Secondo Gazzoni,
Osservazioni sull’art. 2645 ter,
cit., § 7, è possibile «che il conferente concluda un autonomo contratto di
gestione con un terzo, assumendo i costi e attribuendo i poteri. Si
stipulerebbe allora, parallelamente al contratto di destinazione, un contratto
di mandato, onde l’azione che l’art. 2645 ter c.c. attribuisce al
conferente per la realizzazione dell’interesse, sarebbe appunto l’actio
mandati».
[136] Cfr. Bartoli, Prime riflessioni sull’art. 2645 ter c.c. e sul rapporto fra negozio di
destinazione di diritto interno e trust, cit., p. 701, il quale
rileva ulteriormente che, «Quanto (…) alla previsione della concorrente
legittimazione ad agire di “qualsiasi interessato”, occorre preliminarmente
considerare che il termine “interessato” potrebbe riferirsi sia ad un soggetto
beneficiario in senso tecnico del negozio di destinazione, sia ad un soggetto
che, pur non essendo beneficiario in senso tecnico di detto negozio, destinato
a riceverne vantaggi eventuali, sia ad un soggetto cui il conferente abbia
attribuito, nel negozio di destinazione, il ruolo di controllore dell’attività
del gestore, sia infine al soggetto gestore».
[137] Bartoli, Prime riflessioni sull’art. 2645 ter c.c. e sul rapporto fra negozio di
destinazione di diritto interno e trust, cit., p. 701.
[139] Anche per M. Bianca,
Il nuovo art. 2645-ter c.c. Notazioni a margine di un
provvedimento del giudice tavolare di Trieste, cit., p. 188, nel caso in cui
la destinazione abbia a realizzarsi attraverso un fenomeno attributivo, questo
«non è mai l’elemento caratterizzante della figura», la quale «prescinde dal
trasferimento a un soggetto terzo dei beni oggetto del vincolo di destinazione»
[140] Petrelli,
La trascrizione degli atti destinazione,
cit., p. 6 s.
[141] In questo senso cfr. Luminoso, Mandato, commissione e spedizione, Milano, 1984, p. 322
ss.; Santosuosso, Delle persone
e della famiglia. Il regime patrimoniale della famiglia, Torino, 1983, p. 166; Galasso e
Tamburello, Del regime patrimoniale della famiglia, I, in Commentario del codice
civile, diretto da Scialoja e
Branca, Bologna‑Roma 1999,
p. 376; Petrelli, La trascrizione degli atti destinazione,
cit., p. 6 s. Anche Barbiera, La comunione legale, nel Trattato di diritto privato, diretto da
Rescigno, Torino, 1996, p. 452 s.
esclude dalla comunione gli acquisti effettuati nell’interesse di terzi, come i
negozi fiduciari e simulati o le interposizioni fittizie o reali. Contra, in relazione agli acquisti del
mandatario senza rappresentanza di beni immobili o mobili registrati, Oberto, Lezioni sull’oggetto della comunione legale, § I. 39. 1. 6,
disponibile al sito web seguente:
https://www.giacomooberto.com/lezionisucomunione/lezionisuoggettocomunionesommario.htm.
[142] Cass.,18 giugno 1992, n.
[143] Si noti poi che, che nei casi in esame, si può vertere
in tema di esercizio di attività separata (dell’interposto), per cui l’acquisto
andrebbe escluso dalla comunione immediata, ma ricompreso in quella de residuo, ex art. 177, lett. c), c.c.
[144] In questo
senso v. Petrelli, op. loc. ultt. citt.
[145] Sul tema v. per tutti Lupoi,
I trust nel diritto civile, cit., p.
292 ss., 317 ss.
[146] Cfr. Lupoi, Gli “atti di destinazione” nel nuovo art.
2645-ter cod. civ. quale frammento di
trust, cit., p. 172 s., il quale osserva al riguardo quanto segue:
«Guardando al momento finale, quando il vincolo cessa, nel diritto dei trust è
perfettamente possibile che i beni in trust tornino al disponente o ai suoi
eredi o comunque a un soggetto diverso da quello in favore dei quale erano
stati vincolati net corso del trust. Questo è ciò che normalmente avviene nei
trust interni per sostenere persone con disabilità: durante la vita delle
persone con disabilità il reddito dei beni è al loro servizio e, se necessario,
lo sono anche i beni stessi (alienabilità dei beni in trust), ma successivamente
il trustee trasferisce i beni o i beni residui ad altri soggetti (usualmente
gli altri figli del disponente) e il trust cessa. Il vincolo, quindi, non è
andato a vantaggio del soggetto, titolare dei beni vincolati né nella vigenza
del vincolo né alla sua cessazione. Questa configurazione potrebbe non essere
necessariamente richiesta per gli “atti di destinazione” perché non sembra
esservi incompatibilità fra il vincolo e la patrimonializzazione, in capo al
soggetto proprietario, alla cessazione del vincolo medesimo. Infatti, il
disponente che vincoli i beni per un breve periodo e, al termine, sia vivo
riacquista la pienezza della posizione dominicale. Lo stesso potrebbe accadere
al diverso soggetto al quale il disponente abbia trasferito i beni con il patto
che, alla cessazione del vincolo, i beni gli appartengano pienamente (vi è una
analogia con il fedecommesso assistenziale)».
[147] Cfr. Petrelli,
La trascrizione degli atti destinazione,
cit., p. 8.
[148] su cui v. anche Lupoi,
Gli “atti di destinazione” nel nuovo art.
2645-ter cod. civ. quale frammento di
trust, cit., p. 170.
[149] Sul fatto che nel trust vi possano essere, rispetto
ad un medesimo vincolo di destinazione, beneficiari immediati e beneficiari
finali, v. Lupoi, L’atto istitutivo di trust, Milano,
2005, p. 94 ss.; Petrelli, Formulario notarile commentato, III, 1,
Milano, p. 1024, 1036; Id., La
trascrizione degli atti destinazione, cit., p. 13.
Considerazioni analoghe a quelle espresse nel testo
sono rinvenibili in Gazzoni, Osservazioni sull’art. 2645 ter, cit., §
7, il quale rileva quanto segue: «Ma la gestione può anche inserirsi nella
eventuale vicenda circolatoria. Lo stesso acquirente, così come può costituire
il vincolo destinatorio a favore di terzo, altrettanto può assumere nei
confronti dell’alienante l’obbligo di gestire le vicende relative all’immobile,
a condizione però che si tratti di una gestione meramente statica, limitata al
mantenimento dell’esistente. Una gestione dinamica, comportando disinvestimenti
e reinvestimenti, sarebbe infatti incompatibile con la vicenda circolatoria,
salvo che essa sia l’esito di un patto fiduciario, in virtù del quale
l’acquirente si obblighi ad agire, nei rapporti interni, secondo le direttive
dell’alienante-fiduciante. Vi sarebbe allora bensì un contratto a favore di
terzo, ma basato sulla fiducia. Questa vicenda non potrebbe però essere
accostata al trust, se non, a tutto concedere, sul piano latamente
descrittivo. Il vincolo di destinazione sarebbe infatti costituito, in via
fiduciaria, dall’acquirente, che potrebbe bensì, in teoria, assumere la veste
di trustee, tuttavia il vincolo stesso non potrebbe avere di per sé ad
oggetto il ritrasferimento della proprietà al beneficiario, visto che il c.d.
conferente non la perde e solo la destina non indefinitamente, come è possibile
per il trust, ma per un dato periodo alla realizzazione immediata
dell’interesse non proprio, ma di un terzo, onde, da un lato, si è al di fuori
del c.d. trust autodestinato e, dall’altro, il ritrasferimento potrebbe essere
solo l’esito di un eventuale obbligo assunto con l’iniziale patto, sotto forma
di mandato fiduciario a favore di terzo. Senza contare che il vincolo
comporterebbe una mera limitazione di responsabilità in relazione ai debiti
contratti per la realizzazione stessa e non la creazione di un patrimonio
segregato, nemmeno ipotizzabile in esito al trasferimento fiduciario, che
manterrebbe le proprie caratteristiche di fiducia romanistica. La posizione del
beneficiario è poi, in caso di destinazione, ben diversa, perché egli è il
titolare dell’interesse da realizzare, onde può agire immediatamente. La sua
situazione giuridica soggettiva è infatti quella stessa del titolare di un
credito certo ed esigibile e non già quella del titolare di una aspettativa, in
vista del ritrasferimento, che caratterizza la posizione del beneficiario del trust.
Si tratta allora di vicende non compatibili, onde non si potrebbe argomentare
dall’una per stabilire quale sia la disciplina dell’altra, men che meno in
punto di trascrizione, là dove il principio di tipicità (art. 2672 c.c.) osta a
applicazioni analogiche o interpretazioni estensive, perché, come ammonisce
[150] Cfr. per tutti Bartoli, Prime riflessioni sull’art. 2645 ter c.c. e sul rapporto fra negozio di
destinazione di diritto interno e trust, cit., p. 700: «Ove si
aderisca alla tesi contraria al negozio di destinazione mobiliare, emergono
ulteriori profili di divergenza del negozio di destinazione rispetto al trust, i quali ne comportano, altresì,
una minor competitività rispetto a quest’ultimo istituto. In primo luogo,
infatti, noto che può invece costituire oggetto di trust qualunque bene
suscettibile di valutazione economica: circostanza questa non da poco, in
ispecie ove si consideri che – oggigiorno – la gran parte della ricchezza
appunto quella di natura mobiliare. Occorre poi evidenziare che, come si sopra
accennato, se fosse impossibile destinare beni mobili avvalendosi dell’art.
2645 ter c.c., l’istituto
risulterebbe afflitto da quello stesso limite operativo che caratterizza il
fondo patrimoniale».
[151] Cfr., con particolare riguardo ai conti bancari, Lupoi, I trust nel diritto civile, cit., p. 251 s., 281.
[152] Cfr. Chizzini,
Note preliminari in tema di esecuzione
mobiliare per debiti del trustee, in Trusts
att. fid., 2001, p. 37 ss.
[153] Sul punto v. anche Fanticini,
op. cit., p. 334, il quale cita Trib.
Brescia, 12 ottobre
[154] Così Petrelli,
La trascrizione degli atti destinazione,
cit., p. 9 s. L’Autore precisa al riguardo che «L’ordinamento italiano conosce,
in realtà, diverse ipotesi di separazione
patrimoniale relative a beni mobili, accompagnate da idonei meccanismi pubblicitari: si considerino,
in particolare, la disciplina in tema di cartolarizzazione dei crediti, di
fondi pensione, di fondi comuni d’investimento e Sicav, di dematerializzazione
dei titoli di credito, le disposizioni in tema di vincoli sulle partecipazioni
societarie e di patrimoni destinati ad uno specifico affare (art. 2447‑quinquies, comma 1,
c.c.). La rilevanza ora attribuita, in linea generale, al vincolo di
destinazione induce ad ammettere la pubblicità dello stesso relativamente ai
suddetti beni mobili, come avviene per i vincoli espressamente contemplati,
quali il pegno, il sequestro, il pignoramento. In definitiva, partendo dalla
considerazione della generale “meritevolezza” della causa di destinazione, e
quindi della liceità, validità ed efficacia del negozio che programma tale
destinazione, con riferimento a beni di qualsiasi natura, la disciplina sostanziale del vincolo di
destinazione contenuta nell’art. 2645‑ter
c.c. (e quindi, sul presupposto della destinazione ad un interesse meritevole
di tutela, l’opponibilità del vincolo ai terzi, ed ai creditori in particolare)
deve ritenersi applicabile, in via
estensiva o analogica, anche ai beni mobili non registrati, a condizione che
del vincolo medesimo sia possibile effettuare idonea pubblicità, in conformità
alla legge di circolazione del singolo bene mobile che ne forma oggetto. Alle
suddette condizioni, sembra possano costituire oggetto di vincolo di
destinazione anche i beni futuri: nella
misura, quindi, in cui le vicende relative a tali beni siano suscettibili di
evidenza pubblicitaria (come avviene, in particolare, per i beni immobili e
mobili registrati, essendo ormai pressoché pacificamente ammessa la
trascrivibilità dei negozi su beni futuri), nulla osta alla costituzione del vincolo,
ed alla sua trascrizione, sin da un momento anteriore a quello della materiale
venuta ad esistenza del bene (analogamente a quanto prevalentemente si ritiene
a proposito del vincolo di fondo patrimoniale)».
[155] Così Franco,
op. cit., p. 319. Secondo l’Autore,
all’interprete «non resta che rinvenire nell’ordinamento, anche con riferimento
alle leggi vigenti, un idoneo sistema di pubblicità che regoli la circolazione
del singolo bene mobile coinvolto nel negozio di destinazione e senza perdere
di vista il principio generale della buona fede come criterio ultimo di
riferimento per la soluzione dei conflitti che potrebbero sorgere con il terzo
acquirente ignaro del vincolo di destinazione. Sarà dunque una rigorosa
valutazione del requisito della buona fede e, soprattutto, di quello della
colpa grave, finalizzata a dare rilevanza ai profili dell’inescusabilità
dell’errore e, quindi, della negligenza, a costituire il terreno su cui
l’interprete dovrà operare al fine di conferire rilevanza ad un vincolo di destinazione
costituito su beni mobili».
[156] Nello stesso senso v. Franco,
op. cit., p. 319.
[157] Così ad es. Franco,
op. cit., p. 319.
[158] Questo è il caso, ad esempio, dell’ordinamento
inglese, che fissa un limite di ottanta anni. Si noti peraltro che, come osservato
da Lupoi, I trust nel diritto civile, cit., p. 252 ss., non esistono regole
di Equity di diritto inglese sulla
durata dei trusts. Il principio di
cui sopra si pone piuttosto come applicazione al trust della rule against perpetuities, che impone un termine entro il quale ogni estate deve
avere un titolare certo; in conseguenza, un trust
è nullo se un qualunque diritto (interest)
diviene vested oltre il termine di ventuno anni dalla morte
di una persona viva o concepita al momento dell’istituzione del trust, ovvero, in alternativa, oltre
ottanta anni dalla istituzione del trust.
Sul
punto v. inoltre Lupoi, Trusts, cit., p. 184 ss.; Bartoli, Il trust, cit., p. 186 ss.; Graziadei, Diritti nell’interesse
altrui, cit., p. 310
ss.; Hayton e Marshall, Commentary and Cases on the
Law of Trusts and Equitable Remedies, London, 2001, p. 198 ss. Ad
avviso di Petrelli, La trascrizione degli atti destinazione,
cit., p. 11, «Nell’ordinamento italiano, vigente il principio del numerus
clausus dei diritti reali, la ratio del limite può probabilmente
ravvisarsi nell’esigenza di non “svuotare” la proprietà del suo contenuto
economico in perpetuo, o comunque per un periodo lunghissimo, e
correlativamente quello di evitare che i beni siano immobilizzati per periodi
eccessivamente lunghi, con il pericolo che siano sottratti a finalità
produttive. Ciò spiega il perché del riferimento alla durata della vita della
sola persona fisica beneficiaria, mentre non è contemplato – quale possibile
parametro – la durata dell’eventuale persona giuridica che sia anch’essa
beneficiaria: quest’ultima durata potrebbe essere estremamente lunga o comunque
essere prorogata, e consentire quindi di eludere il fine della legge. Si
tratta, del resto, della medesima ragione che ha indotto il legislatore, in
tema di diritti reali su cosa altrui, a porre un limite massimo (trenta anni)
di durata dell’usufrutto costituito a favore di persona giuridica (art. 979,
comma 2, c.c.)».
[159] Lupoi, Trusts, cit., p. 180 ss., 396 ss.; Petrelli, La trascrizione degli atti destinazione, cit., p. 11.
[160] Secondo la voce Trust Law, in Wikipedia,
all’indirizzo web seguente: http://en.wikipedia.org/wiki/Trust_law «The
beneficiary can be a single person, multiple persons, or a defined class or
group of persons, including people not yet born at the time of the trust’s
creation». Un chiaro riferimento, per il diritto
inglese, è desumibile anche dalla Practice Direction concernente le «applications to the court for directions by
trustees in relation to the administration of the trust», disponibile
all’indirizzo web seguente:
http://www.dca.gov.uk/civil/procrules_fin/contents/practice_directions/pd_part64b.htm, secondo cui (cfr. il paragrafo 7.7.): «The evidence must explain what, if any, consultation there has been with beneficiaries, and with what result. In preparation for an application for directions in respect of litigation, the following guidance is to be followed: (…)
(2) If it is a private trust with a larger number of beneficiaries,
including those not yet born or identified, or children, it is likely that
there will nevertheless be some adult beneficiaries principally concerned, with
whom the trustees must consult». Per quanto attiene alla realtà italiana potrà
citarsi ad esempio il trust che ha formato oggetto della decisione Trib.
Firenze, 23 ottobre
http://www.ilcaso.it/giurisprudenza/archivio/TFI-23-10-02.htm.
[161] Petrelli,
La trascrizione degli atti destinazione,
cit., p. 11 s.; nello stesso senso
cfr. M. Bianca, L’atto di
destinazione: problemi applicativi, cit., p. 9.
[162] Cfr. per tutti Lupoi,
I trust nel diritto civile, cit., p.
252, 317 s.
[163] Nello stesso senso v. Fanticini,
op. cit., p. 349 s.
[164] Cfr. sul punto Lupoi,
I trust nel diritto civile, cit., p.
330 s.
[165] Cfr. sempre Lupoi,
op. loc. ultt. citt.
[166] In questo senso cfr. M. Bianca, L’atto di destinazione: problemi applicativi,
cit., p. 9; nello stesso senso v. Fanticini,
op. cit., p. 338 s. (secondo cui
anche il riferimento, nell’art. 2645-ter
c.c. alla durata della vita della persona fisica beneficiaria sembra escludere
che con tale istituto si possa raggiungere i fini perseguiti da un trust di scopo).
[167] L’istituzione di un trust è in diritto inglese a forma libera; solo i trusts riguardanti immobili vanno
provati per iscritto: cfr. Lupoi, I trust nel diritto civile, cit., p.
239.
[168] Secondo Petrelli,
La trascrizione degli atti destinazione,
cit., p. 3, «se è il carattere reale del vincolo, e quindi la sua maggior “gravità”,
a giustificare la forma pubblica, e dato che (…) l’opponibilità ai terzi
discende unicamente dalla trascrizione, deve concludersi nel senso che la forma
dell’atto pubblico è richiesta unicamente ad transcriptionem: l’atto di destinazione è
quindi valido, e produce effetti obbligatori, anche se concluso in forma di
scrittura privata; esso potrà tuttavia
essere trascritto, e quindi creare un vincolo male opponibile a terzi,
unicamente ove rivesta la forma dell’atto pubblico».
[169] Così Gazzoni,
Osservazioni sull’art. 2645 ter,
cit., § 5. Per la tesi della forma ad
substantiam, anche in relazione al compito del notaio di verificare la
sussistenza di un interesse meritevole di tutela cfr. inoltre Molinari, Gli effetti della trascrizione dell’atto di destinazione nei confronti
dei creditori e dei terzi aventi causa, cit., p. 8.
[170] Sul tema, cui non è possibile dedicare neppure un
accenno in questa sede, si fa rinvio a Oberto, I trasferimenti mobiliari e
immobiliari in occasione di separazione e divorzio, cit., p. 155 ss.; Id., I contratti della crisi
coniugale, II, cit., p. 1211 ss.; Id.,
Prestazioni «una tantum» e trasferimenti tra coniugi in occasione di
separazione e divorzio, cit., p. 3 ss.; Id.,
I trasferimenti patrimoniali in occasione
della separazione e del divorzio, cit., p. 181 ss.; Id., Contratto e
famiglia, cit., cap. V, §§ 7-9; cfr. inoltre T.V. Russo, I trasferimenti patrimoniali tra coniugi nella
separazione e nel divorzio, Napoli, 2001; P. Carbone, I
trasferimenti immobiliari in occasione della separazione e del divorzio, in
Notariato, 2005, p. 627 ss.
[171] Cfr. supra,
§ 9. Nel senso che il verbale di conciliazione giudiziale
può contenere una transazione con cui si disponga l’immediato trasferimento di
diritti su di uno o più beni, e che, come atto (pubblico) immediatamente
traslativo, ben può costituire titolo per la trascrizione cfr. Satta, Commentario al codice di procedura civile, II, 1, Milano, 1966, p.
80; Tondo, Sull’idoneità dei verbali di conciliazione alle formalità pubblicitarie,
in Foro it., 1987, I, c. 3134; per il
carattere di atto pubblico e di titolo esecutivo di un verbale di conciliazione
giudiziale tra coniugi v. Trib. Firenze, 26 agosto
[172] Cfr. Oberto,
Il trust familiare, cit.; Id.,
Trust e autonomia negoziale nella
famiglia, cit.
[173] Cfr. Nassetti,
Il trust: applicazioni pratiche
(Aggiornamento in pillole per il consiglio dell’Ordine degli Avvocati di
Bologna – Relazione tenuta a Bologna il 16 febbraio 2001), disponibile
all’indirizzo web seguente:
http://www.filodiritto.com/diritto/privato/civile/IlTrustApplicazionipratiche.htm.
[174] Ai fini dell’esperibilità dell’actio pauliana è
necessaria, ovviamente, una corretta qualificazione dell’atto quale atto a
titolo gratuito, a titolo oneroso ovvero atto dovuto, che si sottrae, in quanto
tale, al rimedio revocatorio. Sul punto, le soluzioni prospettate sono assai
diversificate e dipendono dalle differenti individuazioni della causa che
caratterizza questa categoria di negozi. Sul tema della causa dei contratti
della crisi coniugale cfr. per tutti Oberto,
I contratti della crisi coniugale, I,
cit., p. 634 ss., 709 ss.; Id., Contratto e famiglia, cit., cap. IV, §
9; sulla revocatoria degli atti traslativi tra coniugi in crisi cfr. per tutti Id., Prestazioni «una tantum» e
trasferimenti tra coniugi in occasione di separazione e divorzio, cit., p.
214 ss.; in giurisprudenza da ultimo cfr. Cass., 23 marzo 2004, n.
[175] Così Lupoi,
Trusts, cit., p. 643.
[176] Cfr., anche per i rinvii, Oberto, I contratti
della crisi coniugale, I, cit., p. 328 ss.; Id.,
Gli
accordi a latere nella separazione e nel divorzio, in Fam. dir., 2006, p. 150 ss.; Id., Contratto e famiglia, cit., cap. IV, § 4.
[177] Così Nassetti,
op. loc. ultt. citt.; nello stesso
senso cfr. anche Lupoi, Trusts, cit., p. 641 ss.; F. Patti, I trusts: problematiche
connesse all’attività notarile, in Vita not., 2001, p. 548.
[178] Per una disamina critica di taluni di questi v. Oberto, Il trust familiare, cit.,
§ 21.
[179] Cfr. Oberto,
Trust e autonomia negoziale nella famiglia, cit, p. 317; Id.,
Il trust familiare, cit., § 21.
[180] in questo senso, invece, Dogliotti e Piccaluga,
I trust nella crisi della famiglia, in Aa. Vv.,
Il trust nel diritto delle persone e della famiglia. Atti del
convegno. Genova, 15 febbraio
[181] Cfr. Viglione,
op. cit., p. 127 s.
[182] Per una proposta diretta ad applicare la penale non
solo alle intese di carattere patrimoniale, ma anche a quelle di tipo personale
relative all’affidamento della prole e ai diritti di visita cfr. Oberto, I contratti della crisi coniugale, II, cit., p. 1112 ss. Sia quindi
consentito rinnovare in questa sede l’invito ai pratici a provare ad inserire
siffatto genere di clausole negli accordi diretti a disciplinare le conseguenze
della crisi coniugale con riguardo alla prole minorenne. L’operazione potrebbe,
quanto meno, assumere il valore d’un ballon
d’essai per saggiare le reazioni al riguardo della giurisprudenza, mentre è
sicuro che le statistiche registrerebbero un assai più diffuso rispetto delle
intese raggiunte e, forse, anche una diminuzione dei procedimenti esecutivi in
un campo così delicato. Per la risposta ad una critica dottrinale al riguardo
cfr. Oberto, La responsabilità contrattuale nei rapporti familiari, Milano,
2006, nota 18, p. 61 s.
[183] Pure questo profilo è messo in luce da Nassetti, op. loc. ultt. citt.
[184] Sul punto rileva Viglione,
op. cit., p. 128 che appare assai
discutibile che i beni del trust
siano amministrati dallo stesso obbligato in favore dell’altra parte; è ben
evidente, infatti, che la patologia della relazione coniugale coincide
generalmente con l’instaurarsi di difficili situazioni di conflittualità, tali
da sconsigliare il totale affidamento al coniuge obbligato dei poteri di
gestione dei beni. Vede con favore, invece, questa ipotesi F. Patti, I trusts: utilizzo nei rapporti
di famiglia, in Vita notar.,
2003, p. XIV, secondo il quale «la istituzione del trust potrebbe trovare una
più facile realizzazione con riguardo alla circostanza che potrà essere
nominato trustee lo stesso
coniuge proprietario dei beni e obbligato alla prestazione, giacché la natura
del trust e la trascrizione del provvedimento giudiziale non consentiranno atti
di disposizione in danno degli interessi tutelati».
[185] E a prescindere dalle questioni circa l’applicabilità
o meno agli atti istitutivi di trusts
dell’imposta di registro a tassa fissa, su cui v. Nassetti, op. loc.
ultt. citt.; più in generale sui profili tributari dei trusts cfr. Lupoi, Trusts, cit., p. 753 ss.
[186] Cfr. Corte cost., 10
maggio 1999, n.
[188] Sull’interpretazione di tale espressione cfr. Oberto, Prestazioni «una tantum» e trasferimenti tra coniugi in occasione di
separazione e divorzio, cit., p. 299 ss.
[189] Per i risvolti in tema di patto di famiglia v. per
tutti Oberto, Il patto di famiglia, cit., p. 58 s.
[190] Diverso potrebbe essere il discorso per quanto
attiene all’eventuale negozio dispositivo «causalizzato» dal vincolo (su cui
cfr. supra, § 10).
Peraltro, proprio la considerazione dell’esistenza di una giustificazione
fondata sull’intento negoziale di dar vita ad una destinazione ex art. 2645-ter c.c. dovrebbe di per sé apparire incompatibile con l’animus donandi. Sul problema che si pone
nel trust circa la valutazione in
termini di donazione dell’atto dispositivo nei confronti del trustee (e della creazione di un vantaggio,
potenzialmente lesivo delle aspettative dei legittimari, nei riguardi dei
beneficiari) v. per tutti Moscati,
Trust e tutela dei legittimari, in Riv. dir. comm., 2000, I, p.
13 ss.; Lupoi, Trusts, cit., p. 667 s.; Santoro, op. cit., p. 300 s.
[191] Sul punto cfr. per tutti Oberto, L’autonomia negoziale nei rapporti patrimoniali
tra coniugi (non in crisi), in Familia,
2003, p. 636 ss.; Id., Contratto e famiglia, cit., cap. II, §
5.
[192] Questa, in pratica, è la tesi di E. Russo,
Le convenzioni matrimoniali, in Il codice civile. Commentario, fondato e
già diretto da Schlesinger, continuato da Busnelli, Milano, 2004, p. 172 ss.;
per una critica al riguardo v. Oberto,
Contratto e famiglia, cit., cap. II,
§§ 1 ss.
[193] L’assunto è sviluppato da E. Russo, Le convenzioni
matrimoniali, cit., p. 77, 124 ss., 136 ss. essenzialmente sulla base del
rilievo secondo cui il codice non qualifica expressis
verbis il negozio costitutivo del fondo patrimoniale alla stregua di una
convenzione matrimoniale.
[194] Il fondo patrimoniale si trova collocato nel codice
tra la parte generale delle convenzioni matrimoniali e la comunione legale,
all’interno di una sezione posta sullo stesso piano di quelle dedicate alla
comunione legale, alla comunione convenzionale, alla separazione dei beni e
all’impresa familiare.
[195] Gli artt. 167 ss. fanno pur sempre parte del capo
sesto (del titolo sesto del libro primo del codice), intitolato «del regime
patrimoniale della famiglia», dopo una parte generale che, come si è appena
detto, è interamente dedicata alle convenzioni matrimoniali.
[196] Sulla definizione di convenzione matrimoniale e
sull’inscindibile legame tra i concetti di convenzione matrimoniale e di regime
patrimoniale della famiglia cfr. per tutti Oberto, Le convenzioni matrimoniali:
lineamenti della parte generale, in Fam. dir., 1995, p. 596 ss.; Bargelli e Busnelli, voce Convenzione
matrimoniale, in Enc.
Dir., Agg., IV, Milano,
2000, p. 436 ss., 442 ss.; Ieva, Le convenzioni matrimoniali, in Trattato
di diritto di famiglia, diretto da Zatti, III, Regime patrimoniale della
famiglia, Milano, 2002, p. 27 ss.; Oberto,
L’autonomia negoziale nei rapporti patrimoniali tra coniugi (non in crisi),
in Familia, 2003, p. 617 ss.; Id., Contratto
e famiglia, cit., cap. II, § 1.
[197] Così Laurent, Principes de droit civil, XXI, Bruxelles, 1878, p. 8.
[198] Cfr. Flour e Champenois,
Les régimes matrimoniaux, Paris,
1995, p. 5.
[199] Per non dire poi che una conferma della natura di
convenzione matrimoniale propria del negozio inter vivos costitutivo del fondo patrimoniale sembra venire dalla
riforma dell’art.
[201] Cfr. da ultimo Cass., 15 marzo 2006, n. 5684. V.
inoltre, per la giurisprudenza di merito, Trib. Parma, 7 gennaio
[202] Anche Di Sapio,
op. cit., p. 31, rileva che «L’art.
2645-ter è una disposizione scritta “in positivo” (ci dice chi può rivalersi
su quei beni). L’art. 170 è invece una disposizione scritta “in negativo” (ci
dice chi non può rivalersi su quei beni). C’è una bella differenza.
Manca inoltre ogni riferimento allo stato soggettivo del creditore la cui
tutela risulta, dunque, affievolita. Anche il tema dell’onere della prova andrà
rivisitato: non si chiede più una prova negativa (non essere stato a conoscenza
dell’estraneità del credito rispetto allo scopo: art. 170), ma una prova
positiva (l’attinenza del debito rispetto allo scopo). Se non ho preso un
abbaglio, mi pare ci siano ampi margini per argomentare che il creditore, prima
di contrarre, deve accertarsi se l’obbligazione risponda allo scopo: in sede
esecutiva l’onere della prova graverà sul medesimo (art. 2697)».
[203] In questo senso v. invece Gazzoni, Osservazioni
sull’art. 2645 ter, cit., § 9.
[204] Cfr. Di Sapio,
op. cit., p. 14 s.
[205] Come osserva Di Sapio, op. loc. ultt. citt., «Il creditore non sceglie nulla.
Subisce un danno ingiusto. Se potesse scegliere, ragionevolmente sceglierebbe
dell’altro: che il fatto illecito non si verifichi».
[206] Cfr. Cass., 5 luglio 2003, n.
[207] Cfr. Gazzoni,
Osservazioni sull’art. 2645 ter,
cit., § 9, secondo cui «la limitazione della responsabilità [non] opererà, in
caso bene destinato, in favore dei soli crediti risarcitori sorti, ad esempio,
da circolazione dell’autoveicolo adibito a trasporto del disabile o da rovina
dell’edificio o, sempre nel quadro della destinazione, da uso di un bene mobile
registrato di natura pericolosa».
[208] Cfr. per tutti Oberto,
Contratto e famiglia, cit., cap. III,
§ 7.
[210] Cfr. per tutti Lupoi,
Trusts, cit., p. 155 ss., 161 ss.,
164 s. (l’Autore mette tra l’altro in evidenza come la mancata indicazione del trustee nelle disposizioni inter vivos sia causa di nullità del trust).
[211] Con particolare riferimento all’applicazione al trust familiare di siffatte disposizioni
cfr. Oberto, Trust e autonomia negoziale nella famiglia,
cit., p. 201 ss., 310 ss. Id., Il trust familiare, cit., §§ 15 ss.
[212] Su cui v., ex
multis e per ulteriori richiami, Oberto,
Annotazione e trascrizione delle
convenzioni matrimoniali: una difficile coesistenza, in Riv. dir. ipotecario, 1982, 127 ss., 148 ss.; v. inoltre Id., Comunione
legale, regimi convenzionali e pubblicità immobiliare, in Riv. dir. civ., 1988, II, 187 ss., 206
ss.; Id., Pubblicità dei regimi matrimoniali, in Riv. dir. civ., 1990, II, 236 ss.; Id.,
La pubblicità dei regimi patrimoniali
della famiglia (1991-1995), ivi,
1996, II, 229 ss.; cfr. inoltre, per ulteriori approfondimenti, Barchiesi, Il sistema della pubblicità nel regime patrimoniale della famiglia,
Milano, 1995, 25 ss.; Bocchini, Rapporto coniugale e circolazione dei beni,
Napoli, 1995, p. 193 ss.; De Paola,
Il diritto patrimoniale della famiglia
coniugale, II, Milano, 1995, p. 108 ss.; Santosuosso,
Beni ed attività economica della famiglia,
Torino, 1995, p. 216 ss.; Ieva, La pubblicità dei regimi patrimoniali della
famiglia, in Riv. notar., 1996,
p. 413 ss.; Feola, La pubblicità del regime patrimoniale dei
coniugi, in, Aa. Vv., Il
diritto di famiglia, Trattato diretto da Bonilini e Cattaneo, II, Il regime patrimoniale della famiglia,
Torino, 1997, p. 411 ss.; Gabrielli,
voce Regime patrimoniale della famiglia,
in Digesto disc. priv., Sez. civile,
XVI, Torino, 1997, p. 396 ss.; Gabrielli e
Cubeddu, Il regime patrimoniale dei coniugi, Milano, 1997, p. 321 ss.; Bocchini, La pubblicità delle
convenzioni matrimoniali, in Riv. dir. civ., 1999, I, p. 439 ss.; Ieva, Le convenzioni matrimoniali e
la pubblicità dei regimi patrimoniali della famiglia, in Riv. notar.,
2001, I, p. 1259 ss.