I REGIMI PATRIMONIALI DELLE UNIONI
CIVILI
1. Introduzione. La tecnica concretamente adottata dal riformatore e i suoi limiti. 2. Le disposizioni codicistiche in tema di rapporti patrimoniali escluse dal rinvio: in particolare l’art. 161 c.c. 3. Le disposizioni codicistiche in tema di rapporti patrimoniali escluse dal rinvio: in particolare gli artt. 159, 160, 165 e 166-bis c.c. 4. Ulteriori dubbi su norme codicistiche non richiamate. 5. Il regime patrimoniale dell’unione civile, come ricalcato sul regime patrimoniale del matrimonio. 6. Il «regime primario». 7. I rapporti patrimoniali nella crisi dell’unione civile e l’applicabilità della separazione personale. 8. Segue. I rapporti patrimoniali nella
disciplina del divorzio e dell’annullamento dell’unione civile. |
1.
Introduzione. La tecnica concretamente adottata dal riformatore e i suoi
limiti.
Commentando i d.d.l. che hanno preceduto la l. 20
maggio 2016, n. 76, parte della dottrina [1] ha osservato che l’Italia, con queste disposizioni,
si è venuta ad avvicinare ai molti altri Paesi firmatari della Convenzione
europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali
(e non solo quelli), che hanno dato riconoscimento giuridico alle unioni
affettive same-sex e, più in
generale, apprestato tutela alle convivenze etero- od omosessuali non
matrimoniali [2]. Si è tentato così di colmare il vuoto di tutela segnalato,
da ultimo, dalla Corte di Strasburgo, che ha stigmatizzato l’inerzia
dell’Italia, evidenziando il mancato assolvimento, in violazione dell’art. 8
Cedu sul diritto al rispetto della vita privata e familiare, dell’obbligo
positivo di assicurare alle coppie omosessuali riconoscimento e protezione con
l’emanazione di una normativa ad hoc [3]. Si è voluto altresì dar seguito alle esortazioni
della Consulta (formulate ormai nel giugno 2014) di provvedere con «la massima sollecitudine»
a dare forma giuridica alle unioni, originariamente matrimoniali e divenute same-sex a seguito del mutamento di
genere di uno dei coniugi, in presenza della volontà dei partner di mantenere in vita il rapporto di coppia [4].
Tante buone intenzioni sono però miseramente
naufragate, al momento del redde rationem
di fronte al Senato, nel febbraio 2016, in un vero e proprio «psicodramma
parlamentare», il cui esito finale, al di là della fin troppo nota vicenda
della stepchild adoption, ha in una non
trascurabile parte stravolto l’impianto originario della riforma, giungendo a
risultati, se possibile, ulteriormente peggiorativi, con la vistosa umiliazione
(a tacer d’altro) che il Governo ed il Parlamento hanno inteso infliggere alle
coppie dello stesso sesso, sembrando quasi [5], con l’abolizione del dovere di fedeltà, «certificare
per legge l’antropologico disordine sentimentale degli omosessuali»; il tutto
mentre un ministro della Repubblica si andava vantando, addirittura, di «aver
impedito una rivoluzione contronatura» [6], senza avvedersi del fatto che proprio le
discriminazioni così introdotte rispetto al matrimonio determineranno, prima o
poi, ricadute inattese sui rapporti tra coniugi: dalla maggiore libertà nella
scelta del cognome, all’esclusione dell’obbligo di fedeltà, all’ulteriore
semplificazione delle procedure divorzili, all’esclusione della necessità della
separazione legale quale presupposto per il divorzio, alle prospettive di una
diversa regolamentazione dell’adozione e della procreazione medicalmente
assistita, etc. [7].
Rimettendo all’impietoso giudizio dei posteri le
considerazioni di politica legislativa, è d’uopo osservare che, purtroppo,
tanto la regolamentazione dei rapporti tra le persone che abbiano siglato
un’unione civile, così come la normativa che disciplina (si fa per dire) le
relazioni tra i «conviventi di fatto» [8], manifestano smagliature e criticità molto gravi, in
merito sia alla formulazione tecnica di quasi tutte le previsioni, sia al
difetto di coordinamento con norme già esistenti, senza parlare di una certa
sciatteria nel linguaggio giuridico.
La stessa collocazione della riforma al di fuori del
contesto codicistico appare sicuramente criticabile, in quanto possibile fonte
di confusione ed incertezze [9]. Trattasi, del resto, di un’evidente scelta
«politica» volta a non introdurre nel «sacro» testo del codice le nuove
disposizioni, quasi che si temesse di «contaminarlo» con la presente materia:
il che marca una chiara differenza (negativa) rispetto all’opposto atteggiamento
mostrato, ad esempio, dai cugini transalpini, allorquando questi, ormai diversi
anni or sono, introdussero il PACS
nel Code Civil [10] e, nel 2013, addirittura aprirono il matrimonio alle
coppie dello stesso sesso, modificando in tal senso l’art. 143 dello stesso
codice [11].
Quanto sopra appare particolarmente evidente con
riguardo ai temi che formano precipuo oggetto del presente studio, vale a dire
i rapporti e i regimi patrimoniali, per ciò che attiene tanto all’unione
civile, che alla convivenza di fatto.
Le svariate criticità saranno segnalate a tempo
debito. Per il momento si potrà cominciare con la constatazione per cui i
rapporti patrimoniali delle unioni civili riposano in gran parte sulla tecnica
del rinvio puro e semplice operato dalla novella alle disposizioni in tema di
rapporti patrimoniali dell’unione coniugale. Tale rinvio, tanto per complicare
(inutilmente) le cose, non si esplica però alla stessa maniera in relazione a
tutte le norme che governano questo tipo di relazioni tra i coniugi.
Per comprendere appieno queste differenze occorre
partire dall’esame del tenore letterale dei commi da 13 a 20 dell’art. 1 della
novella. Al fine di facilitarne la comprensione (rectius: il tentativo di comprensione) si riportano qui
testualmente in nota le disposizioni predette [12].
Come appare evidente, il comma 20 estende il rinvio
alle disposizioni in materia, eventualmente contenute in norme diverse da
quelle citate nei commi precedenti, che si riferiscano al matrimonio o che
contengano le parole «coniuge», «coniugi» o «termini equivalenti» (dunque,
verosimilmente: «marito», «moglie», «sposi», etc.). Norme, si badi, contenute
non solo nelle leggi speciali, ma anche in codici diversi da quello civile,
naturalmente anche al di fuori del campo dei rapporti patrimoniali (si pensi,
ad es., a quegli articoli che nel codice penale o nel codice di procedura
penale che trattano del coniuge, quale soggetto attivo o passivo di reati
propri, o, ancora, quale titolare del diritto di astenersi dalla testimonianza,
etc.), posto che il comma cit. – come emerge dal relativo tenore letterale – è
volto ad «assicurare l’effettività della tutela dei diritti e il pieno
adempimento degli obblighi derivanti dall’unione civile tra persone dello
stesso sesso».
Proprio per ciò che riguarda tale ultimo inciso sarà
il caso di precisare che non sembrano giustificati gli allarmismi sparsi da
alcuni penalisti in sede di primo commento alla riforma. Invero, non pare
corretto affermare che l’aggravante per l’omicidio del coniuge «non potrà pesare su assassini legati da
unioni civili alla persona assassinata, mentre continuerà a valere per mariti e
mogli» [13], posto che, se è vero che «l’omicidio non è certo
norma a rafforzamento “degli obblighi derivanti dall’unione civile”», è
altrettanto vero che ciò che viene qui in rilievo è (non già l’omicidio, bensì)
l’aggravante, che è posta proprio a rafforzamento degli obblighi di solidarietà
(oltre che, ovviamente, del generale dovere negativo di astensione rispetto ad
atti lesivi della vita e dell’integrità fisica altrui) inter coniuges e dunque non può non estendersi anche ai partners dell’unione civile [14]. Lo stesso è a dirsi per reati quali la bigamia, o
per la non punibilità di chi a favore di un prossimo congiunto commette reato
di assistenza ai partecipi di associazioni per delinquere o con finalità di
terrorismo o per la non punibilità del furto o della truffa ai danni del
coniuge non legalmente separato.
In altre parole, sembra a chi scrive che all’infelice
inciso «Al solo fine di assicurare l’effettività della tutela dei diritti e il
pieno adempimento degli obblighi derivanti dall’unione civile tra persone dello
stesso sesso» debba attribuirsi significato semplicemente pleonastico. Si
tratta, cioè, di una vera e propria «zeppa» inserita per esorcizzare i timori
di possibili eccezioni di legittimità costituzionale per un avvicinamento
«eccessivo» dell’unione civile al matrimonio, cui, a ben vedere, va attribuita
valenza sul solo piano politico, con esclusione di ogni ricaduta sul piano
tecnico-giuridico.
Per ciò che attiene, invece, al codice civile,
provvede la parte finale del citato comma 20 a stabilire che il rinvio di cui
alla prima parte dello stesso comma, per l’appunto, «non si applica alle norme
del codice civile non richiamate espressamente nella presente legge, nonché
alle disposizioni di cui alla legge 4 maggio 1983, n. 184».
L’ansia di pervenire ad un testo che non scontentasse
troppo i settori più retrivi del Paese ha così portato al superamento, in senso
sicuramente peggiorativo, dell’impostazione originariamente impressa al c.d.
«testo Cirinnà», che, nella sua versione originale (2 luglio 2014), appariva
riposare su di un art. 3 così concepito:
«Art. 3.
(Regime
giuridico)
1. Ad ogni effetto, all’unione civile si applicano
tutte le disposizioni di legge previste per il matrimonio, ad esclusione della
disciplina di cui all’articolo 6 della legge 4 maggio 1983, n. 184.
2. La parte dell’unione civile tra persone dello stesso
sesso è familiare dell’altra parte ed è equiparata al coniuge per ogni effetto.
3. Le parole “coniuge”, “marito” e “moglie”, ovunque
ricorrano nelle leggi, decreti e regolamenti, si intendono riferite anche alla
“parte della unione civile tra persone dello stesso sesso”».
Il testo originale (e cioè la prima versione del c.d.
«testo Cirinnà») appariva, dunque, estremamente chiaro: accantonata la materia
delicata delle adozioni, la riferibilità delle norme matrimoniali ai partners dell’unione civile si poneva
come il frutto di un’agevole, pressoché integrale, trasposizione.
La curiosa soluzione adottata in via definitiva, già
introdotta dalla seconda versione del c.d. «testo Cirinnà» e fatta propria poi
dal «maxiemendamento» presentato al Senato il 26 febbraio 2016, risulta,
invece, fondata sulla summa divisio
tra norme del codice civile (e della legge del 1983 sull’adozione), da un lato,
e norme di tutte le altre leggi (ma anche dei regolamenti, degli atti
amministrativi e dei contratti collettivi), dall’altro.
La via così prescelta, dettata, evidentemente, dal
timore di avvicinare «troppo» l’unione civile al matrimonio, suscita
perplessità in ordine a possibili dubbi di costituzionalità (oltre che… di
evidente mancanza di buon senso) in ordine a lacune di un certo peso. Lacune
che – per quanto attiene agli istituti disciplinati dal codice civile – non
appaiono certo colmabili con il ricorso all’analogia, posto che la ricordata
disposizione di cui al comma 20 rende evidente il carattere eccezionale e tassativo
dei richiami a determinati articoli, sezioni, capi e titoli del codice civile,
contenuti nei commi precedenti (ma anche seguenti: si pensi ad es. a quanto
previsto dall’immediatamente successivo comma 21).
Come si avrà modo di chiarire oltre [15], alla luce di qualche esempio concreto, la citata
tassatività non riguarda però tutte
le norme del codice civile astrattamente applicabili alle unioni civili.
Essa, invero, sembra riferibile a quelle sole
disposizioni (del codice civile) che hanno quale campo d’azione diretto il
matrimonio o comunque i rapporti tra i coniugi, come reso evidente dall’inciso
di apertura del comma 20 cit., che si riferisce alle «disposizioni che si
riferiscono al matrimonio e [al]le disposizioni contenenti le parole “coniuge”,
“coniugi” o termini equivalenti». Dunque l’impossibilità per l’interprete di
avvalersi della prima parte del citato comma 20 per estendere all’unione civile
varie norme codicistiche non espressamente richiamate vale in relazione a
quegli articoli (sezioni, capi e titoli) del codice civile che, per l’appunto,
direttamente disciplinano il matrimonio e i rapporti tra i coniugi, soprattutto
per ciò che attiene ai profili personali [16]; non a quelle norme che, pur potendo dispiegare
effetti sui coniugi o comunque sui loro reciproci rapporti, abbiano a precipuo
oggetto materie diverse da quelle sopra indicate: dal contratto, all’illecito,
ai diritti reali, alla pubblicità immobiliare e mobiliare e così via.
Non solo.
Si tratterà poi anche di vedere come il Governo attuerà
la delega di cui ai commi 28 ss., a mente dei quali l’esecutivo dovrà adottare,
entro sei mesi dalla data di entrata in vigore della novella, «uno o più
decreti legislativi in materia di unione civile fra persone dello stesso sesso
nel rispetto dei seguenti princìpi e criteri direttivi: (…) c) modificazioni ed
integrazioni normative per il necessario coordinamento con la presente legge
delle disposizioni contenute nelle leggi, negli atti aventi forza di legge, nei
regolamenti e nei decreti».
Ora, se è chiaro che, in astratto, tra le «leggi»
dovrebbe rientrare anche il codice civile, in concreto l’inciso con cui la
norma citata si apre («Fatte salve le disposizioni di cui alla presente
legge»), oltre al carattere «chiuso» del «blocco» operato attorno alle norme
codicistiche (direttamente inerenti al matrimonio) dal descritto combinato
disposto della parte finale del citato comma 20, con i rinvii espressi a norme
del codice civile, non sembrano concedere al Governo la possibilità di
avvalersi della delega, per porre rimedio a diverse lacune che si andranno qui
ad evidenziare [17].
Per tornare, dunque, ai rapporti e ai regimi
patrimoniali dei soggetti legati da unione civile, due disposizioni del codice
civile, sicuramente escluse dal rinvio, sono costituite dagli artt. 159, 160,
161, 165 e 166-bis c.c., come è dato
agevolmente arguire da una lettura a
contrariis del comma 13. Sono, questi, gli articoli la cui espunzione
spiega il perché del mancato rinvio del citato comma 13 all’intera sezione I
del capo VI del titolo VI del libro I, laddove tutte le altre sezioni del
predetto capo VI sono, per l’appunto, espressamente richiamate «in blocco».
Perché, nell’iter
che ha condotto dal «secondo testo Cirinnà» al testo concretamente approvato
dal Parlamento, si sia passati dall’esclusione dei soli artt. 161 e 165
all’esclusione anche degli altri tre articoli, rimane un mistero. O meglio,
l’unica spiegazione plausibile ha a che vedere con quel tentativo – operato per
soddisfare le sempre più pressanti richieste di una parte della maggioranza
governativa – di pervenire ad una più evidente «dematrimonializzazione» della
riforma. Il tutto, naturalmente, senza comprendere i guai che, dal punto di
vista della complessiva tenuta del testo normativo, si venivano in tal modo a
creare. Come si dirà tra poco, l’esclusione degli artt. 159 e 160 c.c. si
«giustifica» (almeno parzialmente) per il fatto che il relativo contenuto, per
formare oggetto di un vero e proprio «giochetto» linguistico, è stato trasposto
nel testo del citato comma 13.
Cominciando, dunque, dall’art. 161 c.c., va detto che
non si riesce proprio a comprendere per quale occulta ragione ai partners dell’unione civile omosessuale
dovrebbe essere consentito, a differenza dei coniugi eterosessuali, «pattuire
in modo generico che i loro rapporti patrimoniali siano in tutto od in parte
regolati da leggi alle quali non sono sottoposti o dagli usi», e ad essi non
sia pertanto imposto (come invece accade agli sposi eterosessuali) di
«enunciare in modo concreto il contenuto dei patti con i quali intendono
regolare questi loro rapporti».
Sia consentito rammentare al riguardo che la ratio di tale disposizione va ricercata
storicamente nel fatto che il legislatore francese del 1804 temeva che i
cittadini francesi optassero in massa per i regimi del diritto consuetudinario [18]. L’art. 161 c.c. conserva peraltro oggi una sua
utilità, consistente nel fatto di evitare tre inconvenienti: innanzitutto,
quello che i paciscenti si sottraggano al rigoroso formalismo dell’art. 162
c.c. adottando per relationem norme e
regole di cui il notaio non potrebbe dar loro lettura. Secondariamente, viene
risparmiata al giudice una troppo penosa ricerca sul diritto straniero o,
peggio, sugli usi. Infine, si evita ai terzi di veder frustrato il meccanismo
della pubblicità mediante rinvii ad indici che in ipotesi potrebbero essere
difficilmente reperibili, o disagevoli da tradurre e da interpretare [19]. Sotto il primo profilo, dunque, la ratio è identica a quella delle norme
che impongono, per determinati negozi, l’obbligatorietà della forma pubblica ad substantiam, e cioè l’esigenza di
garantire al massimo la certezza e la legalità della volontà espressa dalle
parti.
Si dovrà poi tenere presente che le leggi alle quali
si riferisce l’art. 161 c.c. sono: le leggi diverse da quella italiana, se i
coniugi sono cittadini italiani e le leggi diverse da quelle dello Stato di
appartenenza, se i coniugi hanno la medesima cittadinanza straniera. Le leggi e
gli usi richiamati nella convenzione valgono come comuni clausole contrattuali
da interpretare secondo le norme stabilite per i contratti (artt. 1362 ss.
c.c.) senza alcun riferimento al significato che hanno nell’ordinamento
richiamato. È ovvio che il successivo mutamento della legge o dell’uso non
esplica alcun effetto sulla convenzione. Poiché gli usi e le leggi straniere
entrano in tal modo a far parte del contenuto contrattuale, la loro interpretazione
deve basarsi sull’accordo raggiunto dalle parti e non sul significato che dette
norme possono avere nell’ambito dell’ordinamento di provenienza per effetto di
altre norme non richiamate; a meno che quel particolare significato non debba
intendersi implicitamente voluto dalle parti con la riproduzione degli usi o
delle leggi straniere di cui si tratta.
È pertanto chiaro che, se l’intenzione del legislatore
è quella di garantire la certezza della volontà espressa dalle parti (cioè da
entrambe le parti), ciò che l’art. 161 c.c. vieta è la semplice relatio al regime straniero o
consuetudinario, laddove è consentito pervenire al medesimo risultato,
enunciando però in modo concreto nella convenzione il contenuto dei patti con i
quali i coniugi intendono regolare i loro rapporti. Il divieto della relatio concerne solo il richiamo a
norme straniere o consuetudinarie. Restano pertanto ammissibili altri tipi di
rinvio, per esempio a convenzioni in precedenza stipulate tra le parti.
L’ostacolo posto dall’art. 161 c.c. è dunque di natura puramente formale, nel
senso che nulla impedisce che le parti si limitino a tradurre dalla lingua
straniera la regolamentazione di un certo istituto e ad inserirla tale e quale
nelle loro pattuizioni. Proprio per questo motivo si è rilevato come la
disposizione finisca con il fornire un argomento alla tesi della libera
stipulabilità di convenzioni atipiche, osservandosi in proposito che «La norma
(...) non stabilisce quali regimi si possono o non si possono adottare, ma
presuppone che gli sposi siano liberi di adottare regimi patrimoniali diversi
da quello legale tipico con i soli limiti sanciti dalla disciplina della
comunione convenzionale ed afferenti alla inderogabilità delle norme relative
all’amministrazione e all’eguaglianza di quote per i beni oggetto della
comunione legale, e quindi anche di uniformare il regime liberamente prescelto
ad un modello disegnato da un ordinamento straniero o da una consuetudine,
anch’essa eventualmente straniera; sulla base di tale presupposto la norma
stabilisce che l’adozione di tali regimi diversi da quello tipico dev’essere
stipulata con enunciazione espressa dei contenuti del regime prescelto» [20].
L’art. 161 c.c. va poi coordinato con l’art. 30, l.
rif. d.i.p. La l. rif. d.i.p. (Riforma del sistema italiano di diritto
internazionale privato) stabilisce all’art. 30 (Rapporti patrimoniali tra
coniugi) quanto segue: «30. Rapporti patrimoniali tra coniugi. 1. I rapporti
patrimoniali tra coniugi sono regolati dalla legge applicabile ai loro rapporti
personali. I coniugi possono tuttavia convenire per iscritto che i loro
rapporti patrimoniali sono regolati dalla legge dello Stato di cui almeno uno
di essi è cittadino o nel quale almeno uno di essi risiede. 2. L’accordo dei
coniugi sul diritto applicabile è valido se è considerato tale dalla legge
scelta o da quella del luogo in cui l’ accordo è stato stipulato. 3. Il regime
dei rapporti patrimoniali fra coniugi regolato da una legge straniera è
opponibile ai terzi solo se questi ne abbiano avuto conoscenza o lo abbiano
ignorato per loro colpa. Relativamente ai diritti reali sui beni immobili,
l’opportunità è limitata ai casi in cui siano state rispettate le forme di
pubblicità prescritte dalla legge dello Stato in cui in beni si trovano».
La disposizione da ultimo citata, potenziando –
rispetto alla disciplina previgente – l’autonomia dei coniugi, è venuta a
concedere ai coniugi la facoltà di una optio
juris, ai sensi del co. 1° dell’art. 30 cit., conformemente ad uno dei
criteri ispiratori della riforma del 1995, tesa ad esaltare nel suo complesso
ben più che in passato il criterio della volontà per l’individuazione della
legge applicabile [21]. La scelta del diritto applicabile potrà attuarsi sul
presupposto della sussistenza delle condizioni sopra evidenziate, e cioè che
l’accordo sia concluso per iscritto e che si riferisca alla legge di uno stato
di cui uno dei coniugi abbia la cittadinanza o in cui uno di essi sia
residente, oltre alla circostanza che il patto sia considerato valido dalla
legge scelta o da quella del luogo in cui l’accordo è stato stipulato (art. 30
cpv., l. rif. D.i.p.).
L’art. 30 cit. è venuto dunque ad erodere almeno due
dei limiti tradizionalmente posti dalle norme imperative in materia di
convenzioni matrimoniali. Il primo è di carattere formale ed attiene al
requisito dell’atto notarile ex art.
162 c.c., stabilendosi invece, con riguardo all’accordo sulla legge
applicabile, la sufficienza della mera forma scritta.
Il secondo tocca invece proprio il disposto dell’art.
161 c.c. È chiaro infatti che, nel momento in cui si consente ai coniugi
(beninteso, alle condizioni sopra specificate) di stipulare un pactum de lege utenda, si viene ad
ammettere che in tale fattispecie le parti possono limitarsi ad un generico
richiamo al sistema di un dato paese, posto che, come emerge anche dai lavori
preparatori della novella del 1995, l’art. 161 c.c. trova applicazione solo
quando i rapporti patrimoniali tra coniugi sono sottoposti alla legge italiana.
In presenza, dunque, di un obiettivo elemento di estraneità preso in esame
dall’art. 30 cit., l’art. 161 c.c. dovrà ritenersi superato [22].
Tornando, quindi, all’unione civile, va detto che, il
mancato rinvio all’art. 161 c.c., di cui al comma 13, qui in commento, potrebbe
essere interpretato come dovuto al fatto che, per le ragioni sopra illustrate,
il riformatore ha ritenuto non più operativa, neppure tra coniugi, la norma in
esame. Il che però non è vero per ciò che attiene ai matrimoni (che
statisticamente costituiscono la stragrande maggioranza) non caratterizzati
dalla presenza di un elemento di estraneità, secondo quanto detto. Rimane
dunque assai fitto il mistero su di una regola che introduce una ingiustificata
disparità di trattamento in favore (questa volta) della coppia legata da
un’unione civile [23].
Alla luce di quanto sopra sembra dunque superfluo
sottolineare che il mancato richiamo della novella, per ciò che attiene ai partners omosessuali di un’unione
civile, all’art. 161 c.c. dovrebbe formare oggetto di declaratoria di
incostituzionalità, per evidente irrazionalità della disparità di trattamento
rispetto al rapporto coniugale.
Passando all’esame delle altre disposizioni attinenti
alla parte generale dei regimi patrimoniali e delle convenzioni matrimoniali
non richiamate dal comma 13 cit. (la cui espunzione dal testo normativo è
dovuta alla redazione del c.d. «maxiemendamento» presentato dal Governo al
Senato il 25 febbraio 2016), va detto che, quanto all’art. 159 c.c., esso è
stato sostanzialmente trasfuso nella prima parte del comma medesimo, laddove
l’art. 160 c.c. fa ora capolino nel contesto del terzo periodo del citato
capoverso. Il (piuttosto penoso, va detto) tentativo di sostituire
l’espressione «convenzione matrimoniale» con quella «convenzione patrimoniale»,
con giochetti di prestidigitazione linguistica, quasi evocanti sciarade da
«Settimana Enigmistica», riesce, a ben vedere, solo in parte: gli artt. 162,
163 e 164 c.c., espressamente richiamati, contengono la terminologia
incriminata (talora addirittura nella rubrica), mentre l’art. 166 c.c.
racchiude niente di meno che la «perla» ottocentesca del «contratto di
matrimonio».
Per quanto attiene invece all’art. 165 c.c., la
ragione del mancato richiamo (e della mancata trasfusione) risiede nel fatto
che la norma ha ad oggetto la situazione del minore (eccezionalmente) ammesso (ex art. 84 c.c.) a contrarre matrimonio,
laddove il minore non è mai ammesso a contrarre un’unione civile. Qui il
problema di legittimità costituzionale si pone piuttosto rispetto alla mancata
estensione dell’art. 84 c.c., posto che non si riesce proprio a comprendere per
quale arcano motivo ad un soggetto ultrasedicenne, dotato di maturità
psico-fisica e in presenza di gravi motivi, dovrebbe essere consentita la
celebrazione delle nozze, ma non la stipula di un’unione civile.
Ulteriore «mistero della fede» (è il caso di dirlo…) è
costituito dal mancato richiamo all’art. 166-bis c.c.
Qui sembra potersi presumere che il mancato richiamo
trovi la sua «giustificazione» nel fatto che, essendo l’apporto dotale
considerato, tradizionalmente, come apporto muliebre, effettuato (dalla moglie
o dalla sua famiglia) in favore del marito, l’identità di sesso dei contraenti
propria dell’unione civile escluderebbe in
nuce la possibilità di dar vita ad un istituto vietato dall’art. 166-bis c.c.
Se questa fosse l’arrière
pensée alla base della citata
esclusione, andrebbe pur sempre considerato che, secondo i contributi
dottrinali più recenti, la dote vietata dalla riforma del 1975 è riscontrabile
in ogni forma di convenzione che attribuisca ad un coniuge, indipendentemente
dal fatto che sia il marito o la moglie, una posizione di supremazia rispetto
all’altro, conferendogli il potere di amministrare e gestire beni nei confronti
dei quali egli non vanti (o non vanti esclusivamente) alcun diritto reale [24]. Così stando le cose, ben sarebbe immaginabile, in
astratto, una convenzione matrimoniale tra partners
di un’unione civile in grado di incorrere negli strali comminati dall’art. 166-bis c.c. (però) solo ai coniugi, con
ulteriore discriminazione «favorevole» (qui intesa, ovviamente, nel senso di
ampliativa dell’autonomia negoziale) per l’unione civile, rispetto al
matrimonio. Un indubbio «passo in avanti», verrebbe da commentare amaramente!
4. Ulteriori
dubbi su norme codicistiche non richiamate.
Per dare un senso alle affermazioni con cui si è
cercato, nel contesto del § 1, di illustrare la tecnica adottata dal
riformatore del 2016, si potrà pensare ancora ad alcuni istituti di rilievo
patrimoniale che, sebbene non risultino legati ai temi classicamente ricondotti
alla materia del regime patrimoniale della famiglia, contengono pur tuttavia
espressi richiami al coniuge o al matrimonio, all’interno di particolari
articoli del codice civile. Articoli cui la novella qui in esame si è scordata
di fare espresso rinvio.
Si pensi, ad esempio, all’inibitoria (sostanziale) per
abuso dell’immagine altrui, laddove l’art. 10 c.c. riconosce il diritto di
chiedere all’autorità giudiziaria l’ordine di cessazione dell’abuso stesso.
Orbene tale diritto può riguardare anche l’immagine del «coniuge», ma il
mancato rinvio da parte del citato comma 3 non consente di estendere la
disposizione (se non tramite la via del ricorso alla Consulta) al partner di un’unione civile.
Lo stesso è a dirsi per il diritto riconosciuto
dall’art. 51 c.c. al «coniuge» dell’assente di richiedere al «tribunale, in
caso di bisogno, un assegno alimentare da determinarsi secondo le condizioni
della famiglia e l’entità del patrimonio dell’assente».
Anche le norme sulla promessa di matrimonio (artt.
79-81 c.c.) non risultano applicabili ai conviventi [25], per effetto del mancato rinvio, da parte della
riforma, alle relative disposizioni, che disciplinano, come noto, una rilevante
serie di conseguenze d’ordine patrimoniale [26]. Sul punto sarebbero possibili amari rilievi sul deterioramento
della tecnica legislativa, ponendo a raffronto con la odierna novella, ad es.,
quella di ventun anni precedente, con cui si riformò il sistema di diritto
internazionale privato, nel contesto della quale pure la promessa di matrimonio
trovò acconcia sistemazione. È chiaro che alla (casuale?) dimenticanza non
sembra possibile ovviare in via di estensione analogica, per le ragioni più
volte ricordate.
Nella stessa situazione si trovano poi istituti quali
la donazione obnuziale (art. 785 c.c.), o, ancora, norme che, nel campo del
diritto societario, prevedono disposizioni speciali relativamente alla figura
del «coniuge»: dall’art. 2399 c.c. (sulle cause d’ineleggibilità e di decadenza
alla carica di sindaco delle s.p.a.), all’art. 2539 c.c. (sulla rappresentanza
nell’assemblea delle cooperative disciplinate dalle norme sulla società per
azioni).
Anche in tema di giuramento deferibile al coniuge
superstite la relativa norma (art. 2960 c.c.) non è stata estesa al partner dell’unione civile, laddove, in
ulteriori ipotesi, dubbi sorgono non tanto per effetto della tecnica del rinvio
prescelta, ma per il fatto che la figura del coniuge è stata, per così dire,
«introdotta» da interventi manipolativi della Corte costituzionale. Si pensi,
ad esempio, all’art. 1916 c.c., il cui primo comma (a mente del quale
«L’assicuratore che ha pagato l’indennità è surrogato, fino alla concorrenza
dell’ammontare di essa, nei diritti dell’assicurato verso i terzi responsabili.
Salvo il caso di dolo, la surrogazione non ha luogo se il danno è causato dai
figli, dagli ascendenti, da altri parenti o da affini dell’assicurato
stabilmente con lui conviventi o da domestici») è stato dichiarato
incostituzionale «nella parte in cui non annovera, tra le persone nei confronti
delle quali non è ammessa surrogazione, il coniuge dell’assicurato» [27].
I primi interpreti non hanno mancato di rilevare altre
possibili lacune.
Prendiamo, ad esempio, la questione del mancato rinvio
all’art. 2685 c.c., pure segnalata in dottrina [28].
Essa consente di tornare brevemente nella presente
sede sul modus operandi che
(ovviamente, a modesto avviso dello scrivente, il quale non gode certo di fonti
d’informazione privilegiate) sembra squadernato dagli scampoli di prosa
normativa qui in esame. Ed invero, chi ha «tecnicamente» (si fa per dire)
apprestato l’articolato normativo per il riformatore del 2016 sembra aver
operato cercando attraverso strumenti elettronici – mercé l’utilizzo della
funzione «ricerca per parole» – l’occorrenza del termine «coniuge» (sia al
singolare che al plurale) in tutte le norme codicistiche. Ciò al fine di
individuare quali articoli avrebbero potuto determinare problemi «politici»
nell’estensione envisagée al «campo
minato» delle unioni civili. Una volta reperite le disposizioni che non
sembravano sollevare soverchi problemi, si è deciso di richiamarle in modo
specifico nel citato comma 13, «blindando» il sistema con quanto stabilito dal
successivo comma 20, che fa divieto – come più volte ricordato – di estendere
previsioni del codice civile non richiamate dal comma 13 (così come da altri
commi dell’unico articolo di legge in cui si sostanzia questa squinternata
novella).
Va però ricordato [29] che il divieto in esame vale solo in relazione a
quanto previsto dalla prima parte del citato comma 20, cioè per le
«disposizioni che si riferiscono al matrimonio e le disposizioni contenenti le
parole “coniuge”, “coniugi” o termini equivalenti». Ciò, dunque, non può essere
vero per le norme che, per l’appunto, tale riferimento (al matrimonio) e tali
termini («coniuge», «coniugi» o «termini equivalenti») non contengono: per
l’applicazione di queste ultime, quindi, non potranno che seguirsi le ordinarie
regole ermeneutiche.
È chiaro pertanto che, una volta ammessa l’estensione
del fondo patrimoniale (e, come si vedrà tra poco, di tutti i regimi
patrimoniali tra coniugi) ai partners
dell’unione civile, mercé l’espresso richiamo alla sezione II (del capo VI del
titolo VI del libro I), l’applicazione dell’art. 2647 c.c. conseguirebbe
comunque naturaliter; il riformatore
del 2016 ha però voluto espressamente richiamare la norma sulla pubblicità del
fondo, lo si ripete, perché lì la parola «incriminata» (coniugi) compare.
Altrettanto naturalmente dovrà ritenersi applicabile al fondo patrimoniale (e
agli altri regimi patrimoniali) tra i contraenti di un’unione civile l’art.
2685 c.c., ove la famosa parola, invece, non compare: proprio per questa
ragione, se, da un lato, il richiamo espresso non si rende necessario, va
considerato che, non essendo comunque l’articolo in questione una disposizione
matrimoniale in senso proprio, dovrà ammettersene l’estensione al fondo
patrimoniale e più in generale ad ogni tipo di convenzione matrimoniale tra partners dell’unione civile. Istituti,
questi che, ai fini della norma in oggetto, rileveranno per l’appunto in quanto
tali, quali sicuri presupposti della pubblicità ivi descritta.
5. Il regime
patrimoniale dell’unione civile, come ricalcato sul regime patrimoniale del
matrimonio.
Dopo il tentativo di individuazione delle disposizioni
sui rapporti patrimoniali tra coniugi non richiamate nel campo dell’unione
civile e dei relativi dubbi, rimane ora da presentare qualche considerazione
generale sugli effetti del rinvio di quelle disposizioni che sicuramente
risultano trasponibili all’unione civile.
In base a quanto già esposto in precedenza [30], i rapporti patrimoniali dei partners dell’unione civile appaiono sicuramente ricalcare, in gran
parte, quelli dei coniugi.
Ciò vale, in
primis, per quell’istituto (rectius:
complesso di istituti) che si individua con l’espressione sintetica «regime
patrimoniale della famiglia» e che forma oggetto del capo VI del titolo VI del
libro I del codice civile.
In base alla fondamentale regola scolpita nell’art.
159 c.c., non richiamata, ma riprodotta con gli «opportuni» adattamenti e
sterilizzazioni («p»atrimoniale, anziché «m»atrimoniale) nel contesto del comma
13, anche nei confronti della coppia omosessuale, civilmente unita, che non
abbia operato una scelta di tipo diverso, troverà applicazione il regime della
comunione legale dei beni. L’espresso richiamo all’art. 162 c.c. consente di
affermare che la coppia potrà optare per il regime di separazione nella stessa
«dichiarazione di fronte all’ufficiale di stato civile», resa «alla presenza di
due testimoni» (ex art. 1, comma 2,
della novella sulle unioni civili), che dovrà ritenersi costituire (anche se
l’uso della parola è stato evitato per evidenti ragioni «politiche») quell’
«atto di celebrazione» in cui, dal Concilio di Trento e dall’Ordonnance de Blois [31], si sostanzia il matrimonio; atto cui fa, appunto,
rinvio l’art. 162 cpv. c.c.
Per quanto attiene ai tradizionali regimi patrimoniali
della famiglia coniugale ed alle relative convenzioni matrimoniali, non vi
sono, dunque, altre particolarità da segnalare rispetto a quelle già
individuate, se non il curioso effetto «terminologico» per cui, in un istituto
che si è voluto (per le sin troppo note ragioni) tenere separato dal
matrimonio, trovano perfetta applicazione tutte le principali disposizioni in
materia di convenzioni matrimoniali.
«Matrimoniali», per l’appunto (e non «convenzioni d’unione civile» o simili),
posto che qui il legislatore non ha disposto un mutamento di terminologia, come
è avvenuto, ad es., nel campo della filiazione, ove si sono espressamente
voluti cancellare i termini «potestà», «figlio legittimo», «figlio naturale»,
«figlio adulterino», «figlio legittimato» con un’apposita disposizione omnibus [32]. Come già detto [33], infatti, il tentativo di «dematrimonializzazione»,
anche linguistica, mercé il cambio di un’iniziale («p» anziché «m»), non appare
pienamente riuscito.
Dunque i partners
dell’unione civile, pur non potendo unirsi in matrimonio, perché omosessuali, potranno stipulare tra di loro
convenzioni matrimoniali. Con il che
l’ipocrisia della soluzione politica adottata non può far altro che mostrare
tutta la (pessima) corda di cui è composta.
Quanto sopra vale anche per le disposizioni in tema di
impresa familiare, estese in blocco all’unione civile dal citato comma 13,
mercé l’espresso rinvio al capo VI del titolo VI del libro primo. Dal punto di
vista della tecnica legislativa non si è, invece, ritenuto di inserire il partner dell’unione civile nel testo
dell’art. 230-bis c.c., confermandosi
così, ancora una volta, una scelta «politica» di non introdurre nel «sacro»
testo del codice le nuove disposizioni, quasi che si temesse di «contaminarlo»
con la presente materia.
Fermo quanto sopra, è chiaro che tutta l’elaborazione
dottrinale e giurisprudenziale in tema di regimi patrimoniali e convenzioni
matrimoniali sarà trasponibile alla materia qui in esame.
Anche per i partners
dell’unione civile tra persone dello stesso sesso dovrà quindi considerarsi
valevole il principio di atipicità delle convenzioni e dei regimi, con la
conseguenza che pure a siffatte nuove situazioni dovranno applicarsi regole,
idee, soluzioni a lungo discusse con riguardo ai rapporti inter coniuges: dalla possibilità di dar vita a regimi patrimoniali
non espressamente previsti e «nominati» dal codice [34], alla libera costituibilità di vincoli di
destinazione nell’interesse della famiglia, ex
art. 2645-ter c.c. [35], alla istituzione di trusts familiari, eventualmente «interni» [36] e via dicendo.
Ciò significa, in buona sostanza, che le parti ben
potranno continuare ad attingere dalla già ricordata ricca messe di modelli e
clausole che, nel 2013, nel perdurante vuoto normativo, un’iniziativa del
Consiglio Nazionale del Notariato, unica nel suo genere, si era premurata di
raccogliere e vagliare criticamente – sotto la direzione e il coordinamento del
prof. Luigi Balestra e dello scrivente – nel contesto dell’elaborazione di un
vero e proprio vademecum per la
tutela patrimoniale del convivente more
uxorio in sede di esplicazione dell’autonomia negoziale [37].
Nel campo matrimoniale si individua come «regime
patrimoniale primario» quello che si realizza attraverso la disposizione
dell’art. 143, comma terzo, c.c., che sancisce l’obbligo, per entrambi i
coniugi, di contribuire ai bisogni della famiglia in proporzione alle proprie
sostanze e alla propria capacità di lavoro professionale o casalingo [38]. Disposizione, quella citata, che è destinata a
trovare sempre applicazione, indipendentemente dal regime patrimoniale «secondario»
adottato dai coniugi (comunione legale o convenzionale, separazione dei beni,
fondo patrimoniale, regime patrimoniale atipico), stante la sua inderogabilità
ai sensi dell’art. 160 c.c. Si noti che, proprio dall’inderogabilità di
siffatto regime primario si può trarre ulteriore conferma del fatto che la
regola contributiva costituisce effettivamente espressione di un principio
costituzionale, laddove analoga inderogabilità non è invece stabilita per il
regime patrimoniale secondario legale, che, ai sensi dell’art. 159 c.c., può
essere evitato, sia in tutto (con l’opzione per la separazione dei beni), che
in parte: basti pensare alla sicura stipulabilità di una comunione
convenzionale di tipo «ridotto» rispetto al modello legale.
Ora, la scelta sul punto di politica legislativa del
riformatore del 2016 è stata quella, non già di richiamare, mercé un rinvio,
gli artt. 143 e 144 c.c., ma di trasporne il testo ex novo, stabilendo, ai commi 11 e 12 dell’art. 1 della novella
quanto segue: «11. Con la costituzione dell’unione civile tra persone dello
stesso sesso le parti acquistano gli stessi diritti e assumono i medesimi
doveri; dall’unione civile deriva l’obbligo reciproco all’assistenza morale e
materiale e alla coabitazione. Entrambe le parti sono tenute, ciascuna in
relazione alle proprie sostanze e alla propria capacità di lavoro professionale
e casalingo, a contribuire ai bisogni comuni. 12. Le parti concordano tra loro
l’indirizzo della vita familiare e fissano la residenza comune; a ciascuna
delle parti spetta il potere di attuare l’indirizzo concordato».
Dal comma 11 cit. sono dunque scomparsi (non solo il
«famoso» dovere di fedeltà, ma anche) elementi quali la «collaborazione
nell’interesse della famiglia» e la fissazione della residenza «secondo le esigenze
di entrambi e quelle preminenti della famiglia stessa», quasi si volesse negare
[39] il carattere di «famiglia» proprio dell’unione
civile, in quanto unione omosessuale. In realtà, ciò che sembra scorgersi è,
ancora una volta, il timore di evocare principi che potrebbero anche alludere,
sebbene in modo del tutto indiretto, alla presenza (horribile dictu!) di una prole comune (si pensi in particolare alle
«esigenze preminenti della famiglia»; ogni dubbio al riguardo è tolto, poi,
dall’impiego dell’espressione «… a contribuire ai bisogni comuni», in luogo di
quella «… a contribuire ai bisogni della famiglia»).
Come notato in dottrina, però, già con riguardo alla
versione originale del d.d.l., si tratta di espedienti di nessun rilievo: il
dovere di collaborazione è insito, quasi tautologicamente, in quello di
assistenza reciproca, mentre le esigenze dei due componenti e quelle,
superiori, dell’unione non possono che essere un parametro di riferimento per
ogni scelta e decisione della coppia: oltretutto i bisogni comuni, la residenza
comune, costituiscono meri sinonimi di bisogni familiari e residenza familiare [40].
Peraltro, sui profili che vengono qui in rilievo, e
cioè il dovere di contribuzione e l’assistenza materiale, il pendant può dirsi integrale. La già
ricordata trasfusione del contenuto dell’art. 160 c.c. nel comma 13, terzo
periodo, viene a munire di carattere inderogabile sia l’obbligo di
contribuzione, che la necessaria proporzionalità (in relazione alle proprie
sostanze e alla propria capacità di lavoro professionale o casalingo) del modo
in cui allo stesso le parti debbono concretamente adempiere.
Potrà ancora aggiungersi che, al di là del regime di
contribuzione, ai partners
dell’unione civile si estendono le regole in tema di obbligo alimentare, in
base al disposto dell’art. 1, comma 19, della riforma, che richiama
integralmente il titolo XIII del libro I del codice civile.
Poiché gli artt. da 433 a 448-bis c.c. non hanno ricevuto modifiche di sorta, né si è proceduto
ad attribuire alle parti dell’unione civile una collocazione autonoma, distinta
da quella dei coniugi, è evidente che le norme menzionanti, direttamente o
indirettamente, il rapporto di coniugio troveranno integrale e diretta
trasposizione anche al caso in esame: si pensi ad es., oltre ai «gradi»
individuati dall’art. 433 c.c. (con collocazione dei partners dell’unione civile al n. 1), a quanto previsto in tema di
suocero, suocera, generi e nuore, a dispetto del fatto che l’art. 78 c.c., in
materia di affinità, non risulti tra le norme civilistiche espressamente
richiamate (ma un’ulteriore conferma nel senso del riconoscimento di una
situazione di affinità rispetto ai parenti del partner sembra giungere dal comma 4, lett. c), dell’art. 1, della
riforma sulle unioni civili, a mente del quale «Sono cause impeditive per la
costituzione dell’unione civile tra persone dello stesso sesso: (…) c) la
sussistenza tra le parti dei rapporti di cui all’articolo 87, primo comma, del
codice civile; non possono altresì contrarre unione civile tra persone dello
stesso sesso lo zio e il nipote e la zia e la nipote; si applicano le
disposizioni di cui al medesimo articolo 87»).
Problemi di una certa gravità si pongono anche con
riguardo al profilo della crisi dell’unione civile.
Qui, mentre nelle due prime versioni del «d.d.l.
Cirinnà» era chiaramente espresso il principio secondo cui tutte le regole in
tema di separazione e divorzio avrebbero dovuto trovare applicazione
all’ipotesi della crisi dell’unione civile, il c.d. «maxiemendamento»
presentato al Senato dal Governo il 25 febbraio 2016 è venuto ad introdurre
elementi di confusione.
Al riguardo vengono in considerazione (lasciando qui
da parte gli effetti della sentenza di rettificazione di attribuzione di sesso)
i commi da 23 a 25 dell’art. 1 della novella, del seguente letterale tenore:
«23. L’unione civile si scioglie altresì nei casi
previsti dall’articolo 3, n. 1) e n. 2) lettera a), c), d) ed e) della legge 10
dicembre 1970, n. 898.
24. L’unione civile si scioglie, inoltre, quando le
parti hanno manifestato anche disgiuntamente la volontà di scioglimento dinanzi
all’ufficiale dello stato civile. In tale caso la domanda di scioglimento dell’unione
civile è proposta decorsi tre mesi dalla data di manifestazione di volontà di
scioglimento dell’unione.
25. Si applicano, in quanto compatibili, gli articoli
4, 5, primo comma e dal quinto all’undicesimo comma, 8, 9, 9-bis, 10, 12-bis, 12-ter, 12-quater, 12-quinquies e 12-sexies,
della legge 1 dicembre 1970, n. 898, nonché le disposizioni di cui al Titolo II
del libro quarto del codice di procedura civile ed agli articoli 6 e 12 del
decreto-legge 12 settembre 2014, n. 132, convertito, con modificazioni, dalla
legge 10 novembre 2014, n. 162».
Il primo dubbio attiene alla sorte dell’istituto della
separazione personale.
Al riguardo, se è vero che, a differenza dei d.d.l.
precedenti, il richiamo al «Capo V, Titolo VI, del Libro I del codice civile»
risulta espunto, e se è pure vero che spicca nel nuovo testo il mancato rinvio
alla lett. b) dell’art. 3, n. 2), l. div. (che, per l’appunto, prevede la
separazione legale quale condizione di proponibilità della domanda di
divorzio), è altrettanto innegabile che tra le norme del «Titolo II del libro
quarto del codice di procedura civile», espressamente richiamate, invece, dalla
novella, fanno bella mostra di sé gli artt. da 706 a 711 c.p.c., proprio in
materia di separazione personale, tanto consensuale che contenziosa.
Ora, se anche è vero che il tutto è sottoposto ad una
sibillina riserva di compatibilità, è pure incontestabile che nessuna delle
disposizioni del citato titolo II è dettata in materia di divorzio; d’altro
canto, come già più volte ricordato, la prima parte del citato comma 20
dell’art. 1, della riforma consente un richiamo a tutte le norme (purché non
contenute nel codice civile) in cui compaiono le parole «coniuge», «coniugi» o
«termini equivalenti», esattamente come accade nei citati artt. da 706 a 711
c.p.c., che, per l’appunto, norme del codice di rito (e non del codice civile)
sono.
Più che legittimo sorge quindi il dubbio che
l’applicabilità delle norme processuali sulla separazione personale comporti la
riferibilità ai partners dell’unione
civile anche delle relative disposizioni sostanziali. Il dubbio è rafforzato,
poi, dall’espresso richiamo agli artt. 6 e 12 d.l. 12 settembre 2014, n. 132,
conv. con modificazioni in l. 10 novembre 2014, n. 162, in tema di c.d.
negoziazione assistita: norme, queste, che, ancora una volta, expressis verbis evocano la separazione
consensuale dei coniugi.
Ulteriore e definitiva conferma è fornita dal comma 19
dell’art. 1 della novella, a mente del quale «All’unione civile tra persone
dello stesso sesso si applicano altresì le disposizioni di cui al titolo XIII
del libro primo del codice civile, nonché gli articoli 116, primo comma, 146,
2647, 2653, primo comma n. 4) e 2659 del codice civile». Ora, l’art. 146 c.c.,
richiamato nella sua interezza, contiene un comma secondo, a mente del quale
anche «la proposizione della domanda di separazione (…) costituisce giusta
causa di allontanamento dalla residenza familiare». La disposizione viene,
quindi, a confermare, da un lato, il carattere (indubitabilmente) «familiare»
della convivenza nel contesto di un’unione civile e, dall’altro,
l’applicabilità anche in questa situazione dell’istituto della separazione
personale, tanto consensuale che contenziosa.
A nulla varrebbe obiettare che la separazione non
viene qui elevata a condizione di proponibilità della domanda di divorzio,
atteso che le parti dell’unione civile ben potrebbero decidere di ricorrere
alla procedura separatizia in relazione ad un periodo di crisi di gravità non
tale da comportare una definitiva rottura del vincolo. Si verrebbe così a
creare per i partners dell’unione
civile quella possibilità di scelta tra separazione e divorzio, che
caratterizza sostanzialmente tutti i Paesi (ad eccezione del nostro) nei quali,
pur mantenendosi per tradizione storica la separazione, si concede ai coniugi
di ricorrere, in alternativa, al c.d. divorzio immediato. Potrebbe essere,
questo, allora, un piccolo seme di buon senso destinato, sperabilmente, a
germogliare anche nel campo matrimoniale!
Naturalmente l’eventuale riconoscimento
dell’applicabilità della separazione personale alle parti dell’unione civile
porrebbe il problema dell’individuazione dei criteri in tema di (possibile)
addebito, a fronte di una disciplina dei diritti e doveri di quei soggetti
assai più «soft» di quella corrispondente tra coniugi. Peraltro, che diritti e
doveri derivino dall’unione civile è ammesso dallo stesso riformatore nel
contesto di quella parte del comma 13 (il terzo periodo), che, come già
ricordato a suo tempo, ha proceduto a rimodellare e trasfondere il testo
dell’art. 160 c.c.
Configurabile sarà pure una situazione di separazione
di fatto, in relazione alla quale sarà applicabile il consistente corpus dottrinale e giurisprudenziale
elaborato in materia in relazione ai coniugi [41].
Tornando al tema del divorzio, va considerato che il
comma 24 concede alle parti dell’unione civile di proporre domanda di
scioglimento dopo tre mesi dalla manifestazione di volontà di scioglimento da
effettuarsi (congiuntamente o disgiuntamente) dinanzi all’ufficiale dello stato
civile. Poiché, però, il successivo art. 25 richiama le norme sulla
negoziazione assistita, è da ritenere che la domanda di scioglimento vada
proposta congiuntamente allo stesso ufficiale dello stato civile, nel caso di
procedura ai sensi dell’art. 12, d.l. 12 settembre 2014, n. 132, conv. con
modificazioni in l. 10 novembre 2014, n. 162, ma che non sia esclusa la
possibilità di seguire la via della negoziazione assistita da avvocati, ai
sensi dell’art. 6, d.l. cit., o, addirittura, anche la procedura camerale
descritta dal (pure richiamato) art. 4, comma 16, l. div. In caso di procedura
contenziosa la domanda non potrà essere proposta che al tribunale, visto il già
ricordato generale rinvio all’art. 4, l. div.
Da quanto sopra deriva inoltre che saranno ugualmente
trasponibili tutte le conclusioni raggiunte in dottrina e giurisprudenza in
materia di contributo per il mantenimento del coniuge separato e di assegno di
divorzio, con tutte le questioni ivi connesse: dai trasferimenti di diritti
(immobiliari e non) in sede di crisi coniugale, alle relative agevolazioni ed
esenzioni fiscali, alla possibilità di riferire alle intese in sede di
separazione e divorzio principi e regole contrattuali, all’ammissibilità di una
simulazione della separazione personale (e delle relative intese patrimoniali),
alla prospettabilità di accordi preventivi in vista dello scioglimento del
rapporto [42].
In altre parole, anche per le parti di un’unione
civile potrà parlarsi di «contratti della crisi dell’unione civile», con
integrale trasposizione delle conclusioni cui dottrina e giurisprudenza sono
pervenute in materia di contratti della crisi coniugale [43].
Un problema peculiare all’ipotesi di divorzio tra i partners dell’unione civile è legato
allo scioglimento di un eventuale regime di comunione legale.
Riallacciandoci qui a quanto ampiamente illustrato in altra
sede, in merito alla mancata equiparazione alla separazione del divorzio (nel
caso di c.d. «divorzio immediato»), in punto anticipazione degli effetti della
cessazione del regime, per effetto della modifica, operata nel 2015, dell’art.
191 c.c. [44], dovrà considerarsi che, comunque si intenda
risolvere, per i partners
omosessuali, il quesito circa l’applicabilità dell’istituto della separazione
personale [45], la pronunzia di separazione non costituisce
sicuramente antecedente necessario del divorzio per i soggetti qui presi in
considerazione. Poiché, quindi, il riformatore del 2015 non ha inteso prendere
in considerazione le (rare in pratica, ma pur contemplate dalla legge)
fattispecie di «divorzio immediato» tra coniugi, rifiutando l’estensione al
divorzio non preceduto da separazione della regola oggi scolpita nel capoverso
dell’art. 191 c.c. (per la sola separazione, per l’appunto), in difetto (pure)
di autonoma ed apposita disposizione nella novella qui in commento, non rimarrà
che concludere che le parti dell’unione civile per (loro dis)avventura
sottoposte al regime legale, dovranno attendere, in caso di divorzio (e in
difetto, ovviamente, di autonoma e distinta causa rilevante ai sensi della
norma citata: si pensi ad una convenzione di scioglimento del regime), il
passaggio in giudicato della relativa sentenza contenziosa [46], perché la comunione legale possa ritenersi a tutti
gli effetti cessata.
È noto, poi, che la crisi del rapporto coniugale può
trovare, di fatto, esplicazione giudiziale tramite la procedura di annullamento
del matrimonio.
Chiaro che qui stiamo parlando di una situazione che, stricto iure, nulla dovrebbe aver a che
vedere con quegli stati di fatto che rendono impossibile o estremamente penosa
la prosecuzione della vita coniugale, sopravvenuti in costanza di rapporto e
che costituiscono presupposto della separazione o del divorzio. È, però,
innegabile che la via dell’annullamento (specie per i matrimoni concordatari,
tramite la decisione in sede ecclesiastica, successivamente delibata
dall’autorità giudiziaria statale), viene spesso e volentieri percorsa proprio
per ovviare ai difetti di quello che in materia contrattuale si definirebbe il
«sinallgma funzionale». Una delle ragioni che convincono molti a percorrere
questa strada è proprio quella per cui l’annullamento, ove determinato da
sentenza intervenuta prima del passaggio in giudicato di un’eventuale decisione
di divorzio, elimina radicalmente i possibili effetti di quest’ultimo,
comportando comunque la disciplina civilistica dell’invalidità sequele
patrimoniali ben più «leggere» per la parte onerata.
Anche tali regole (ovviamente ponendo a raffronto con
il divorzio e la separazione il solo annullamento civile, certo non la
delibazione di un’impossibile sentenza ecclesiastica di annullamento di una – absit iniuria verbis! – inimmaginabile
unione civile concordataria) saranno trasponibili nel campo delle unioni
civili. Ed in effetti le regole sulla nullità del matrimonio civile (sezione VI
del capo III del titolo VI del libro primo del codice civile) sono in parte
espressamente richiamate dal comma 5 dell’art. 1 della novella e in parte
«ricostruite» ad usum unionis civilis
dai successivi commi 6, 7 e 8. Tra le norme appena ricordate compaiono anche
quelle sulle conseguenze patrimoniali dell’invalidità matrimoniale, di cui agli
artt. 128, 129 e 129-bis c.c. (e, per
ciò che riguarda la comunione legale, quelle di cui all’art. 191 c.c. riferite
al caso di annullamento del matrimonio).
[1] Cfr. Romeo
e Venuti, Relazioni affettive non matrimoniali: riflessioni a margine del d.d.l.
in materia di regolamentazione delle unioni civili e disciplina delle convivenze,
in Nuove leggi civ. comm., 2015, p.
991 s. Per un quadro generale della situazione al momento dell’entrata in
vigore della riforma del 2016 cfr. anche Oberto,
I diritti dei conviventi. Realtà e
prospettive tra Italia ed Europa, Padova, 2012, passim; Id., I contratti di convivenza nei progetti di
legge (ovvero sull’imprescindibilità di un raffronto tra contratti di
convivenza e contratti prematrimoniali), in Fam. e dir., 2015, p. 165 ss.; T. Auletta,
Modelli familiari, disciplina applicabile
e prospettive di riforma, in Nuove
leggi civ. comm., 2015, p. 615 ss. Per una disamina della novella del 2016,
in relazione ai profili patrimoniali, rispettivamente, delle unioni civili e
delle convivenze di fatto cfr. Oberto,
I rapporti patrimoniali nelle unioni civili e nelle convivenze di fatto, in Blasi, Campione,
Figone, Mecenate e Oberto, La nuova regolamentazione delle unioni
civili e delle convivenze – Legge 20 maggio 2016, n. 76, Torino, 2016, p.
29 ss., 59 ss.
[2] Per alcune disamine comparate cfr. Bonini Baraldi,
Le nuove convivenze tra discipline
straniere e diritto interno, Milano, 2005, passim; Id., La famiglia de-genere. Matrimonio, omosessualità e
Costituzione, Milano-Udine, 2010, passim;
Aa. Vv., Le unioni tra
persone dello stesso sesso: profili di diritto civile, comunitario e comparato,
a cura di Bilotta, Milano, 2008, passim;
Aa. Vv., Unioni e
matrimoni same-sex dopo la sentenza 138 del 2010: quali prospettive?, a
cura di Pezzini e Lorenzetti, Napoli, 2011, passim.
[3]
Cfr. Corte EDU 21 luglio 2015 (n. 18766/11 e 36030/11), Oliari et al. c.
Italia, in Fam. e dir., 2015, p.
1069, con nota di Bruno;
reperibile anche in http://hudoc.echr.coe.int. Sul
tema cui si fa accenno nel testo cfr. Oberto,
I diritti dei conviventi. Realtà e
prospettive tra Italia ed Europa, cit., p. 211 ss.
[4] Cfr. Corte cost. 11 giugno 2014, n. 170. Con tale sentenza è stata dichiarata l’illegittimità costituzionale degli artt. 2 e 4 l. n. 164/82, con riferimento all’art. 2 Cost., nella parte in cui non prevedono che la sentenza di rettificazione dell’attribuzione di sesso di uno dei coniugi, che comporta lo scioglimento del matrimonio, consenta, comunque, ove entrambi lo richiedano, di mantenere in vita un rapporto di coppia giuridicamente regolato con altra forma di convivenza registrata, che tuteli adeguatamente i diritti ed obblighi della coppia medesima, con le modalità da statuirsi dal legislatore; la dichiarazione di illegittimità è estesa all’art. 31, comma 6°, d.lgs. n. 150/11, che ha sostituito l’art. 4 l. n. 164/82, abrogato dall’art. 36 del medesimo d.lgs., ripetendone, con minima ininfluente variante lessicale, in modo identico il contenuto. Sulla decisione, in prospettiva critica, cfr. Palmeri e Venuti, L’inedita categoria delle unioni affettive con vissuto giuridico matrimoniale. Riflessioni critiche a margine della sentenza della corte costituzionale 11 giugno 2014, n. 170 in materia di divorzio del transessuale, in Nuova giur. civ. comm., 2014, II, p. 553 ss.
[5] Come argutamente notato dalla stampa d’opinione: cfr.
M. Feltri, Tradimento libero per i gay
tra nervosismi e ironie, in La Stampa,
25 febbraio 2016, p. 2.
[6] Sul tema si vedano anche le condivisibili
osservazioni di Gattuso, Cosa c’è nella legge sulle unioni civili:
una prima guida, in http://www.articolo29.it/2016/cosa-ce-nella-legge-sulle-unioni-civili-una-prima-guida/,
secondo cui «É inaccettabile che nel 2016, undici anni dopo la legge Zapatero e
dopo quel che è successo in tutto il mondo occidentale, in parlamenti a noi
vicini come quelli di Londra e Parigi, dopo la sentenza della Corte suprema
americana, dopo il referendum irlandese, e tante altre vicende che abbiamo
avuto modo di seguire e commentare in questo sito, una classe politica che non
possiamo non definire provinciale e, almeno in parte, bigotta, non abbia posto
fine alla discriminazione matrimoniale nei confronti della minoranza omosessuale».
L’Autore conclude peraltro con una nota di ottimismo, rilevando come «nella
legge la natura familiare delle famiglie gay
e lesbiche venga oggi espressamente e formalmente riconosciuta, attraverso
l’univoco uso dell’espressione “vita familiare”. Non che ci fossero dubbi. Come
detto é evidente che le coppie gay e
lesbiche formano famiglia, ma il fatto che adesso lo dica anche la legge segna
certamente un passaggio storico che non può essere sottovalutato e che nessuno
potrà più ignorare».
[7] Per uno spunto in questo senso v. anche Gattuso, op. loc. ultt. citt.
[8] Su cui si fa rinvio a Oberto,
I rapporti patrimoniali nelle unioni civili e nelle convivenze di fatto, cit.,
p. 59 ss.; Id., La convivenza di fatto. I rapporti
patrimoniali ed il contratto di convivenza, in corso di pubblicazione in Fam. e dir., 2016 e disponibile dal 24
giugno 2016 alla seguente pagina web:
https://www.giacomooberto.com/Oberto_Convivenza_di_fatto_Rapporti_patrimoniali_contratto_di_convivenza.htm.
[9] In questo senso v. anche, con riguardo alla
precedente (penultima) versione del d.d.l. in tema di unioni civili, Casaburi, Il disegno di legge sulle unioni civili tra persone dello stesso sesso:
verso il difficile ma obbligato riconoscimento giuridico dei legami omosessuali,
in Foro it., 2016, V, c. 11.
[10] Cfr. artt. 515-1 ss. del Code Civil, introdotti dalla l. n. 2007-308 del 3 maggio 2007, in
vigore dal 1° gennaio 2009.
[11] «Le mariage est
contracté par deux personnes de sexe différent ou de même sexe» (cfr. art. 1,
l. n. 2013-404 del 17 maggio 2013).
[12] «13. Il regime patrimoniale dell’unione civile tra persone dello stesso sesso, in mancanza di diversa convenzione patrimoniale, è costituito dalla comunione dei beni. In materia di forma, modifica, simulazione e capacità per la stipula delle convenzioni patrimoniali si applicano gli articoli 162, 163, 164 e 166 del codice civile. Le parti non possono derogare né ai diritti né ai doveri previsti dalla legge per effetto dell’unione civile. Si applicano le disposizioni di cui alle sezioni II, III, IV, V e VI del capo VI del titolo VI del libro primo del codice civile.
14. Quando la condotta della parte dell’unione civile è causa di grave pregiudizio all’integrità fisica o morale ovvero alla libertà dell’altra parte, il giudice, su istanza di parte, può adottare con decreto uno o più dei provvedimenti di cui all’articolo 342-ter del codice civile.
15. Nella scelta dell’amministratore di sostegno il giudice tutelare preferisce, ove possibile, la parte dell’unione civile tra persone dello stesso sesso. L’interdizione o l’inabilitazione possono essere promosse anche dalla parte dell’unione civile, la quale può presentare istanza di revoca quando ne cessa la causa.
16. La violenza è causa di annullamento del contratto anche quando il male minacciato riguarda la persona o i beni dell’altra parte dell’unione civile costituita dal contraente o da un discendente o ascendente di lui.
17. In caso di morte del prestatore di lavoro, le indennità indicate dagli articoli 2118 e 2120 del codice civile devono corrispondersi anche alla parte dell’unione civile.
18. La prescrizione rimane sospesa tra le parti dell’unione civile.
19. All’unione civile tra persone dello stesso sesso si applicano altresì le disposizioni di cui al titolo XIII del libro primo del codice civile, nonché gli articoli 116, primo comma, 146, 2647, 2653, primo comma n. 4) e 2659 del codice civile.
20. Al solo fine di assicurare l’effettività della
tutela dei diritti e il pieno adempimento degli obblighi derivanti dall’unione
civile tra persone dello stesso sesso, le disposizioni che si riferiscono al
matrimonio e le disposizioni contenenti le parole «coniuge», «coniugi» o termini
equivalenti, ovunque ricorrono nelle leggi, negli atti aventi forza di legge,
nei regolamenti nonché negli atti amministrativi e nei contratti collettivi, si
applicano anche ad ognuna delle parti dell’unione civile tra persone dello
stesso sesso. La disposizione di cui al periodo precedente non si applica alle
norme del codice civile non richiamate espressamente nella presente legge,
nonché alle disposizioni di cui alla legge 4 maggio 1983, n. 184. Resta fermo
quanto previsto e consentito in materia di adozione dalle norme vigenti».
[13] Cfr. ad es. le opinioni riportate da Ferrarella, «Bigamia»
consentita e gli altri vuoti del testo sulle unioni civili, in Corriere della sera, 10 maggio 2016.
[14] Semmai ciò che potrebbe destare perplessità al
riguardo è l’estensione in malam partem
di una norma incriminatrice (o comunque prevedente un’aggravante), senza che
tale effetto sia contemplato da un rinvio normativo specifico e dettagliato,
con possibili dubbi in merito al rispetto del principio di tassatività, come
pure adombrato dal parere del Comitato per la legislazione della Camera dei
Deputati, emesso il 12 aprile 2016 (disponibile al sito web seguente: http://www.centrostudilivatino.it/wp-content/uploads/2016/04/Parere-del-Comitato-per-la-Legislazione-della-Camera.pdf),
secondo cui «al comma 20, che, con norma che sembrerebbe avere carattere
generale, estende alle parti delle unioni civili i diritti e i doveri derivanti
dal rapporto di coniugio ad eccezione di quelli disciplinati nel codice civile
e non espressamente richiamati nella legge n. 184 del 1983 in materia di
adozioni, parrebbe opportuno precisare se con il suddetto rinvio si intendano
richiamare anche le norme in malam partem
derivanti dalla qualità di coniuge (a mero titolo esemplificativo, si consideri
l’articolo 577 del codice penale, che, nel caso di omicidio, prevede un aumento
di pena se il reato è stato commesso contro il coniuge, ovvero le diverse
normative che pongono quale causa di incompatibilità nell’esercizio di una
professione o della funzione assegnata il rapporto di coniugio con un’altra
parte) e, in caso affermativo, individuare le suddette norme in maniera
puntuale».
[16] Si pensi – con riguardo al matrimonio inteso come
negozio (e non come rapporto) – che già il «d.d.l. Cirinnà», nella sua seconda
versione, espressamente richiamava le sezioni I e VI del capo III, del titolo
VI del libro I del codice civile (più precisamente, della sez. I riprendeva
solo alcune norme). Non richiamava, invece, la sez. II («Formalità preliminari
del matrimonio»), la sez. III («Opposizione al matrimonio»), la sez. IV
(«Celebrazione del matrimonio»), la sez. V («Matrimonio dei cittadini in paese
straniero e degli stranieri nello Stato»), la sez. VII («Delle prove della
celebrazione del matrimonio») e la sez. VIII («Disposizioni penali»). Rilevava
giustamente Iorio, Il disegno di legge sulle «unioni civili» e
sulle «convivenze di fatto»: appunti e proposte sui lavori in corso, in Nuove leggi civ. comm., 2015, p. 1016
che «sfuggono le ragioni di tale mancato rinvio». Anche nel testo definitivo si
riscontrano, in buona sostanza, le medesime lacune.
[17] Anche Iorio, op. cit., p. 1016, sottolinea (con riguardo alla seconda versione del «d.d.l. Cirinnà», ma con osservazioni sicuramente valide ancora oggi) che il rinvio alle disposizioni matrimoniali non richiamate dalla riforma qui in commento non potrà avvenire «in sede di decreto legislativo, da emanare in attuazione della legge delega, non essendo quella la sedes materiae per la regolamentazione di aspetti che riguardano, direttamente, la disciplina delle unioni civili».
[18] Cfr., anche per i rinvii, Oberto, Del regime patrimoniale della famiglia,
Commento agli artt. 159-166-bis c.c.,
in Aa. Vv., Codice della
famiglia, a cura di Sesta, Milano, 2015, p. 668.
[19] Cfr. sempre Oberto,
Del regime patrimoniale della famiglia, cit., p. 668.
[20] Per i richiami cfr. ancora Oberto, Del regime patrimoniale della famiglia, cit.,
p. 669.
[21] Sul tema v. per tutti Picone,
La teoria generale del diritto
internazionale privato nella legge italiana di riforma della materia, in Riv. dir. int., 1996, p. 289 ss., spec.
307 ss.
[22] Cfr. Oberto,
Del regime patrimoniale della famiglia, cit., p. 669 s.
[23] Sarà solo il caso di aggiungere, per chiudere sul
tema, che tanto le unioni matrimoniali che le unioni civili, in presenza di un
elemento di estraneità, dovranno in un futuro (si spera, ormai) non troppo
remoto fare i conti con le regole eurounitarie di cui, rispettivamente, alla
Proposta di regolamento del Consiglio relativo alla competenza, alla legge
applicabile, al riconoscimento e all’esecuzione delle decisioni in materia di
regimi patrimoniali tra coniugi COM(2011) 126 definitivo — 2011/0059 (CNS) e
alla Proposta di regolamento del Consiglio relativo alla competenza, alla legge
applicabile, al riconoscimento e all’esecuzione delle decisioni in materia di
effetti patrimoniali delle unioni registrate COM(2011) 127 definitivo —
2011/0060 (CNS). Atti, questi, che danno ampio rilievo agli accordi inter partes sulla scelta del diritto
applicabile ai regimi patrimoniali (senza necessità di apposita
«ritrascrizione» delle relative norme nelle convenzioni matrimoniali).
[24] Cfr., anche per i richiami, Oberto, Del regime patrimoniale della famiglia, cit.,
p. 700, 702.
[25] Per un rilievo critico in proposito v. anche Iorio, op. cit., p. 1016.
[26] Cfr. per tutti Oberto,
La promessa di matrimonio tra passato e
presente, Padova, 1996, p. 107 ss., 201 ss.
[27] Cfr. Corte cost., 21 maggio 1975, n. 117.
[28] Cfr. Romeo
e Venuti, op. cit., p. 995.
[31] Per il percorso storico si rinvia a Oberto, I regimi patrimoniali della famiglia di fatto, Milano, 1991, p. 24
ss.
[32] Cfr. art. 105, d.lgs. 28 dicembre 2013, n. 154 «Revisione delle disposizioni vigenti in materia di filiazione, a norma dell’articolo 2 della legge 10 dicembre 2012, n. 219», in vigore dal 7 febbraio 2014:
«Art. 105
(Sostituzione termini)
1. La parola: “potestà” riferita alla potestà genitoriale, le parole: “potestà genitoriale”, ovunque presenti, in tutta la legislazione vigente, sono sostituite dalle seguenti: “responsabilità genitoriale”.
2. Le parole: “figli legittimi” o le parole: “figlio legittimo”, ovunque presenti, in tutta la legislazione vigente sono sostituite dalle seguenti: “figli nati nel matrimonio” o dalle seguenti: “figlio nato nel matrimonio”.
3. Le parole: “figli naturali” o le parole: “figlio naturale”, ovvero “figli adulterini” o “figlio adulterino” ove presenti, in tutta la legislazione vigente sono sostituite dalle seguenti: “figli nati fuori del matrimonio” o dalle seguenti: “figlio nato fuori del matrimonio”.
4. Le parole: “figli legittimati”, “figlio
legittimato”, “legittimato”, “legittimati” ovunque presenti in tutta la
legislazione vigente, sono soppresse».
[34] Cfr. Oberto,
L’autonomia negoziale nei rapporti patrimoniali tra coniugi (non in crisi),
in Familia, 2003, p. 617 ss.; Id., Contratto e famiglia, in Aa.Vv.,
Trattato del contratto, a cura di Roppo, VI, Intrerferenze, a
cura di Roppo, Milano, 2006, p. 147 ss.; Id.,
La comunione legale tra coniugi, nel Trattato di diritto civile e commerciale,
già diretto da Cicu, Messineo e Mengoni, continuato da Schlesinger, I, Milano,
2010, p. 193 ss.; v. anche E. Russo,
Le convenzioni matrimoniali. Artt. 159-166-bis, in Il codice civile.
Commentario, fondato e già diretto da Schlesinger, continuato da Busnelli,
Milano, 2004, p. 27 ss.; Autorino Stanzione, Autonomia negoziale e
rapporti coniugali, in Rass. dir. civ.,
2004, p. 11 ss.; E. Quadri, Regime
patrimoniale e autonomia dei coniugi, in Dir. fam., 2006, II, p.
1817 (che ammette in quest’ottica la possibilità per i coniugi di dar vita
anche in Italia a regimi del genere di quello tedesco della Zugewinngemeinschaft
o di quello francese della participation aux acquêts, partendo dalla
separazione dei beni, opportunamente modificata); Andrini, L’autonomia privata dei coniugi tra status e
contratto. Le convenzioni coniugali, Torino, 2006, p. 5 ss., 13 ss.; S. Patti, I rapporti patrimoniali tra
coniugi. Modelli europei a confronto, in Aa.
Vv., Il nuovo diritto di famiglia, Trattato diretto da Ferrando, II, Rapporti personali e patrimoniali,
Bologna, 2008, p. 239 ss., 243 ss.; Petrelli,
L’evoluzione del principio di tassatività nella trascrizione immobiliare.
Trascrizioni, annotazioni, cancellazioni: dalla «tassatività» alla «tipicità»,
in Quaderni della Rassegna di diritto civile diretta da Pietro Perlingieri,
Napoli, 2009, p. 326 s. Per il diritto comparato cfr. Caparros e Damé-Castelli, Les rapports patrimoniaux
dans la famille en droit interne comparé, in Union Internationale Du Notariat Latin - Commission Des Affaires
Europeennes, Régimes matrimoniaux. Successions et libéralités. Droit
international privé et Droit comparé, sous la direction de M. Verwilghen, I,
Neuchâtel, 1979, p. 89 ss. Per la Francia cfr. Carbonnier,
Le régime matrimonial : sa nature juridique sous le rapport des notions de
société et d’association, Bordeaux, 1932, p. 556 ss. Per il diritto tedesco, nel senso che «l’ammissibilità
di regimi atipici non è (più) un tema controverso in Germania» cfr. Henrich, La comunione dei beni e la
comunione degli incrementi, in Aa.
Vv., Introduzione al diritto della famiglia in
Europa, a cura di S. Patti e Cubeddu,
Milano, 2008, p. 238. Sulla libertà contrattuale nella stipula di
convenzioni matrimoniali atipiche e di regimi non previsti dal legislatore nel
moderno diritto tedesco v. anche Thiele
e Rehme, J. von Staudingers
Kommentar zum Bürgerlichen Gesetzbuch mit Einführungsgesetz und Nebengesetzen,
Viertes Buch, Familienrecht, §§ 1363-1563, Berlin, 2000, p. 9 s., 24, 342
ss. (in partic. 345 ss., ove si prende chiaramente posizione circa
l’inesistenza di un Typenzwang nel diritto vigente, al punto da
autorizzare veri e propri « Misch- und Phantasiegüterstände », con l’unico
limite posto dalle norme e dai principi inderogabili: v. p. 348 per alcuni
significativi esempi al riguardo). Da notare che, dopo la caduta del Muro di
Berlino, anche nei Paesi dell’Est il principio della libertà negoziale nella
stipula delle convenzioni matrimoniali sembra essere stato adottato: cfr. ad
es. Rusakova, Difficulties in Drafting Marital Contracts,
in AA.VV., Building a Law Based State: Reality and Problems. Perspectives of Russian and Belgian Lawyers, Leuven, 1999, p. 53 s.
[35] A dispetto dell’esistenza per i coniugi (e, di
conseguenza, per i partners
dell’unione civile) dello specifico istituto del fondo patrimoniale, con cui il
vincolo di destinazione introdotto nel 2006 ben potrà convivere: cfr., anche
per i richiami, Oberto, Atto di destinazione e rapporti di famiglia,
in Giur. it., 2016, p. 239 ss., 243
ss.
[36] Per chi crede a tale ultima possibilità,
naturalmente, su cui non ci si può in questa sede intrattenere; per i richiami
v. per tutti Oberto, Le destinazioni patrimoniali nell’intreccio
dei rapporti familiari, in Aa.
Vv., Trattato dei contratti, diretto Rescigno ed E. Gabrielli, 19, I contratti di destinazione patrimoniale,
a cura di Calvo e Ciatti, Torino, 2014, p. 147 ss.
[37] Cfr. Consiglio
Nazionale del Notariato, Guida operativa in tema di convivenza.
Vademecum sulla tutela patrimoniale del
convivente more uxorio in sede di
esplicazione dell’autonomia negoziale. Contratti
di convivenza open day, 30 novembre 2013, Roma, 2013 (il testo è
disponibile, tra l’altro, al seguente sito web:
http://www.notaicomolecco.it/wwwnotaileccocomoit/Downloads/Guida%20operativa_Contratti%20di%20convivenza.pdf.
[38]
Per alcuni richiami sul tema cfr. Falzea,
Il dovere di contribuzione nel regime patrimoniale della famiglia, in Riv. dir. civ., 1977, I, p. 619; F. Corsi, Il regime patrimoniale della
famiglia, I, nel Trattato di diritto civile
e commerciale, diretto da Cicu e Messineo, continuato da Mengoni, Milano,
1979, p. 56; Alagna, Famiglia
e rapporti tra coniugi nel nuovo diritto, Milano, 1983, p. 465 s.; G. Gabrielli e Cubeddu, Il regime patrimoniale dei coniugi, Milano,
1997, p. 13; Paradiso, La
comunità familiare, Milano, 1984, p. 384 ss.; Id., I rapporti personali fra coniugi. Art. 143-148,
in Il codice civile, Commentario fondato da Schlesinger e diretto da
Busnelli, Milano, 1990, p. 79 ss.; Lazzara,
Il regime patrimoniale della famiglia, Catania, 1991, p. 136 ss.; Vettori, Il dovere coniugale di
contribuzione, in Aa.Vv., Il diritto di famiglia,
Trattato diretto da Bonilini e Cattaneo, II, Il regime patrimoniale della
famiglia, Torino, 1997, p. 4 s.; Bechini,
Disposizioni generali, in Aa.Vv., La famiglia, Il diritto
privato nella giurisprudenza, a cura di Cendon, II, Torino, 2000, p. 12; E.
Quadri, Il principio di
contribuzione come principio generale. La portata dell’art. 143 c.c. nel
matrimonio e oltre il matrimonio, in Nuova giur. civ. comm., 2000,
II, p. 505 s.; E. Russo, L’oggetto
della comunione legale e i beni personali. Artt. 177-179, in Il codice civile. Commentario,
diretto da Schlesinger, Milano, 1999, p. 38 s.; Sesta,
Titolarità e prova della proprietà nel regime di separazione dei beni,
in Familia, 2001, p. 873 ss.; Oberto, La comunione legale tra coniugi, I, cit., p. 343 ss.
[39] Contro ogni principio nazionale e sovranazionale: sul
tema v. per tutti Oberto, I diritti dei conviventi. Realtà e
prospettive tra Italia ed Europa, cit., p. 211 ss.
[40] Così Casaburi,
op. cit., c. 13, il quale rileva poi
anche come sia «curiosamente saltato il richiamo del pur innocuo art. 145 c.c.,
sull’intervento del giudice in caso di disaccordo tra i coniugi (norma, in
realtà, di nessuna applicazione giurisprudenziale)».
[41] Sul tema v. per tutti Scalisi,
La separazione di fatto, Milano,
1978; Olivero, La separazione di fatto dei coniugi,
Milano, 2006.
[42] Cfr., con particolare riguardo a questo tema, Oberto, Simulazioni e frodi nella crisi coniugale (con qualche accenno storico
ad altri ordinamenti europei), Nota a Cass., 5 marzo 2001, n. 3149, in Familia,
2001, p. 774 ss.; Id., Simulazione della separazione consensuale:
la Cassazione cambia parere (ma non lo vuole ammettere), nota a Cass., 20
novembre 2003, n. 17607, in Corr. giur.,
2004, p. 309 ss.; Id., La simulazione della separazione consensuale
(Versione aggiornata al 10 ottobre 2015), in http://giacomooberto.com/simulazione_della_separazione_personale_2015.htm;
da ultimo v. anche de Belvis, I rapporti tra simulazione e separazione consensuale, in Riv. dir. civ., 2015, p. 1439 ss.
[43] Oberto, I contratti della crisi coniugale, I e
II, Milano, 1999, passim.
[44] Cfr. Oberto,
«Divorzio breve», separazione legale e
comunione legale tra coniugi, in Fam.
e dir., 2015, p. 628 s.
[45] Sul punto v. il § immediatamente precedente.
[46] O, in alternativa, una delle altre fattispecie
analiticamente descritte in Oberto,
«Divorzio breve», separazione legale e
comunione legale tra coniugi, p. 624 ss., con particolare riferimento alla
negoziazione assistita.