IL PATTO DI FAMIGLIA*
«Qui le sien donne avant mourir
Bientôt s’appreste à moult
souffrir».
(Antoine Loysel, Institutes
coutumières,
in Dupin e Laboulaye,
Institutes coutumières d’Antoine Loysel,
II, Paris, 1846, n. 668, p. 98).
Sommario: Sezione I: Ratio
e storia dell’istituto – 1. La ratio
dell’istituto. – 2. Patto di famiglia e autonomia
privata. Possibili ricadute d’ordine sistematico in merito agli accordi
preventivi in vista della crisi coniugale. Autonomia privata «del» e «nel»
patto di famiglia. – 3. I precedenti storici del patto
di famiglia: divisio inter liberos,
démission de biens e partage d’ascendants. – 4. Patto di famiglia e divisione d’ascendente per atto tra
vivi disciplinata dal c.c. 1865: similitudini e differenze. – 5.
I progetti di legge che hanno preceduto l’introduzione del patto di famiglia.
– Sezione II:
Natura dell’istituto – 6. La natura del patto di
famiglia. Natura contrattuale ed immediata efficacia traslativa del patto. Il
rifiuto della tesi del contratto a favore di terzi e della donazione modale.
– 7. La natura del patto di famiglia. In particolare: il
rifiuto della tesi della donazione modale. – 8. La
natura del patto di famiglia. La tesi proposta. – 9.
Corollari in tema di forma e di rapporti con la comunione legale tra coniugi.
– 10. Patto di famiglia e patti successori. – Sezione III: I
profili soggettivi dell’istituto – 11. I
soggetti del patto di famiglia. La (non necessaria) partecipazione di tutti i
legittimari. – 12. I soggetti del patto di famiglia: la
posizione del coniuge (e il problema dei contraenti premorti al disponente).
– 13. I soggetti del patto di famiglia: il disponente e
la qualità di imprenditore. – 14. I soggetti del patto
di famiglia: discendenti, ascendenti e legittimari «potenziali». – 15. I soggetti del patto di famiglia: rappresentanza
volontaria e rappresentanza legale. Il problema del conflitto d’interessi. I
rapporti con l’amministrazione di sostegno. – Sezione IV: I profili oggettivi dell’istituto – 16. L’oggetto dell’attribuzione del disponente. Il
trasferimento dell’azienda. Beni aziendali e ramo d’azienda. La compatibilità
con le disposizioni in materia di impresa familiare. – 17.
L’oggetto dell’attribuzione del disponente. Il trasferimento delle
partecipazioni societarie. Il rispetto delle differenti tipologie societarie.
– 18. L’oggetto dell’attribuzione del disponente.
Costituzionalità della limitazione all’azienda e alle partecipazioni
societarie. Il caso della divisio inter
liberos coinvolgente beni diversi dall’azienda o dalle partecipazioni
societarie. – 19. L’oggetto della prestazione dei
destinatari dell’azienda o delle partecipazioni societarie. La liquidazione
delle quote dei legittimari e il problema dell’intervento del disponente
nella liquidazione. – 20. L’oggetto della prestazione
dei destinatari dell’azienda o delle partecipazioni societarie. La
liquidazione delle quote dei legittimari ed il suo pagamento rateizzato o
differito nel tempo. Irrilevanza dell’esatta corrispondenza tra
determinazione della liquidazione e valore delle quote. – 21.
L’oggetto della prestazione dei destinatari dell’azienda o delle
partecipazioni societarie. La liquidazione in natura e l’eventuale
assegnazione con successivo contratto. – 22. L’oggetto
della prestazione dei destinatari dell’azienda o delle partecipazioni
societarie. Sulla natura di liberalità indiretta della liquidazione in denaro
o in natura. – Sezione
V: I rapporti con |
Ratio e storia dell’istituto
1. La ratio dell’istituto.
«Indarno la sottigliezza del dritto opporrebbe che le
divisioni anticipate ledano il principio, secondo cui non si può patteggiare su
una successione futura; ché la magistratura paterna esercitata per isbandire le
discordie dal focolare domestico ha un carattere sì rispettabile e sì tutelare,
che non son mica da temere con essa gl’inconvenienti inseparabili da’ patti
circa le successioni future. Essa infatti, anziché far nascere, impedisce le
controversie (…). E sì cosa è mai più favorevole di cotesto intervento del
padre, che previene propiziamente l’ufficio de’ periti, degli arbitri e dei
giudici, che dispensa dalle formalità e dalle lentezze ordinarie, pur
conservando i dritti di ciascuno? (…) ed è il caso di ripetere con la legge
delle XII Tavole: ‘Arbitrium patris summum judicium esto’».
Le parole di Troplong – nella versione di cui alla
storica edizione palermitana, curata dagli editori Pedone Lauriel, che poneva
l’opera dell’insigne commentatore del Code
Napoléon a confronto con le disposizioni del codice del Regno delle Due
Sicilie [1]
– sembrano tornare alla ribalta all’indomani dell’introduzione nel nostro
ordinamento del patto di famiglia; e, con esse, echi e strascichi di dibattiti
che ritenevamo ormai consegnati alla storia del diritto successorio, tanto più
che l’affrettato iter parlamentare
che ha portato un’ormai agonizzante XIV Legislatura ad approvare
l’abborracciato testo della l. 14 febbraio 2006, n. 55 («Modifiche al codice
civile in materia di patto di famiglia») non aiuta certo
l’interprete a sciogliere i molteplici nodi tecnici che l’istituto novellamente
introdotto presenta [2].
Abbastanza chiaro appare, comunque, l’intento
perseguito (se, e in che misura, realizzato, è ben altro discorso, come si
vedrà) dal Legislatore, sicuramente volto a favorire il passaggio generazionale
dei beni aziendali tramite uno strumento il più possibile «blindato» contro
possibili attacchi da parte di legittimari che dovessero ritenersi, una volta
apertasi la successione del disponente, in qualche modo lesi da siffatte
disposizioni.
La lettura del resoconto della 552a seduta
della Commissione Giustizia della Camera dei Deputati (26 gennaio 2006)
consente di desumere che, come evidenziato dal relatore, «le iniziative in
titolo intervengono sulla materia del patti successori che il vigente articolo
458 del codice civile vieta»; più oltre il medesimo relatore osserva che «gli
articolati in discussione propongono di conciliare il diritto dei legittimari –
che non è in alcun modo posto in discussione – con la giusta esigenza di
assicurare continuità all’impresa, in linea con il mutamento dei bisogni della
società che richiedono un parziale superamento del divieto d[e]i patti
successori». Sempre ad avviso del relatore, le disposizioni in esame assicurano
«in modo adeguato la tutela dei diritti dei legittimari che (…) sono chiamati a
partecipare all’atto dispositivo dell’impresa ricevendo dal beneficiario della
stessa adeguato ristoro patrimoniale».
Qualche indicazione ulteriore proviene dalla lettura
delle relazioni che accompagnavano due delle proposte di legge poi confluite
nel testo, successivamente rimaneggiato e definitivamente approvato in tema di
patto di famiglia, vale a dire il disegno di legge S/1353/XIV («Nuove norme in
materia di patti successori relativi all’impresa»), comunicato alla Presidenza
del Senato il 23 aprile 2002 e il disegno di legge C/3870/XIV («Introduzione
dell’articolo 734-bis del codice
civile, in materia di patti successori d’impresa»), presentato l’8 aprile 2003
alla Camera dei Deputati.
Le relazioni, dopo avere evocato il principio ex art. 458 c.c., affermano che «va
diffondendosi sempre più, sia nel mondo accademico, sia in quello delle
professioni, sia nella pubblica opinione, la convinzione della necessità se non
di annullare tali divieti, quanto meno di ridimensionarli, ammettendone deroghe
sempre più ampie; infatti la rigidità del nostro ordinamento in materia
contrasta non solo con il fondamentale diritto all’esercizio dell’autonomia
privata, riconosciuto e tutelato in via generale dal codice civile e, ancor
più, dalla Costituzione, ma altresì con la necessità di garantire la dinamicità
degli istituti collegati all’attività di impresa, assicurando la massima
commerciabilità dei beni nei quali si traduce giuridicamente l’attività stessa:
l’azienda, nella quale si realizza l’impresa individuale, e le partecipazioni
sociali nelle quali si concretizza l’impresa collettiva, quella svolta cioè in
forma societaria» [3].
La relazione al disegno di legge S/1353,
in particolare, evidenzia poi che intento della riforma è quello di «conciliare
il diritto dei legittimari con l’esigenza dell’imprenditore (e del titolare di
partecipazioni sociali) che intende garantire alla propria azienda (ed alla
propria partecipazione societaria) una successione non aleatoria a favore di
uno o più dei propri discendenti, prevedendo da una parte la liceità di accordi
in tal senso, dall’altra la predisposizione di strumenti di tutela dei
legittimari che siano esclusi dalla proprietà dell’azienda stessa».
La relazione al secondo dei disegni di
legge citati (C/3870) ricorda inoltre che «analogo impulso riformatore proviene
oggi dalla stessa Commissione europea, come risulta dalla comunicazione n. 98/C
93/02 relativa alla trasmissione delle piccole e medie imprese, pubblicata
nella Gazzetta Ufficiale delle Comunità europee n. C93 del 28 marzo
Si spiega, alla luce di quanto sopra, il
favore con il quale la stampa d’opinione ha presentato tale riforma
«bipartisan», definendola come «un assist decisivo per il capitalismo
italiano, travagliato anche ai suoi piani più alti dal rischio di tormentati
passaggi generazionali»; una legge attenta, da un lato, ad esorcizzare
l’«effetto-Taittinger» [5],
a tutto beneficio delle grandi imprese «dinastiche» (dagli imperi miliardari
alle piccole realtà modellate a immagine e somiglianza del fondatore), ma
anche, dall’altro, a salvaguardare gli interessi di dipendenti e fornitori,
garantendo un passaggio di mano «pilotato» ed evitando i bracci di ferro tra
eredi che hanno mandato in rovina più di una società [6].
L’effetto dovrebbe essere particolarmente benefico, si soggiunge, per le realtà
imprenditoriali più piccole, posto che coloro che dispongono di maggiori mezzi finanziari
riuscivano già a risolvere il problema con il ricorso a trusts creati all’estero o con altre soluzioni più costose, mentre
decine di micro-imprese sono scomparse proprio per le liti tra i discendenti; e
d’altro canto sarà opportuno tenere presente che «il 58% delle aziende di casa
nostra è ancora a carattere familiare. Il 26% della capitalizzazione di Piazza
Affari fa capo ad azionisti che appartengono più o meno tutti allo stesso
albero genealogico. E anche molti dei big non quotati da Barilla ai Ferrero
fino ai Riva (acciaio) sono ancora saldamente in mano ai fondatori o ai loro
eredi» [7].
Del resto, il problema del governo dei c.d. passaggi
generazionali non è sentito certo solo a livello nazionale. Da indagini svolte
nel panorama imprenditoriale statunitense la presenza delle imprese familiari
varia tra il 90% e il 98% e in quello italiano raggiunge quasi il 99% [8],
mentre un’analisi svolta in Francia ha dimostrato che la successione
nell’impresa commerciale e agricola ha, in termini di litigiosità processuale,
un’incidenza percentuale di molto superiore a quella media della popolazione
attiva nel settore [9].
Una stima della Commissione Europea, inoltre, fissa solo tra il 5% e il 15% il
numero delle imprese familiari che sopravvive alla terza generazione [10],
mentre un’indagine della Banca d’Italia, che ha analizzato il decennio
1993-2003, mostra come vi sia una forte concentrazione della proprietà e
prevalgano forme di controllo diretto da parte di persone fisiche e mediante
legami familiari [11].
Il tutto in una realtà ormai ben diversa da quella che ha visto formarsi gli
istituti che tradizionalmente presiedono al passaggio generazionale della
ricchezza. Una realtà, quella odierna, caratterizzata dal salto generazionale
nella trasmissione ereditaria prodotto dal prolungarsi della vita media, con la
conseguenza che oggi si eredita statisticamente in un’età compresa tra i trenta
e i cinquant’anni, dunque dopo l’inserimento nel mondo del lavoro; fenomeno,
questo, cui si aggiunge l’ulteriore profilo della «successione anticipata»,
che, dal punto di vista socio-economico, consiste nella trasmissione in vita
delle ricchezze da parte dei genitori ai figli imputandole alla futura eredità
e riservandosi al contempo una fonte di sostentamento per la vita e, talora,
anche una qualche forma di controllo sul patrimonio di cui hanno disposto [12].
Se dunque almeno due appaiono essere le
linee direttrici che conducono all’individuazione della ratio della novella: vale a dire, da un lato, l’interesse generale
alla promozione dell’attività di impresa, e dall’altro quello privato di
ciascun imprenditore all’autoregolamentazione del proprio assetto patrimoniale,
non vi è dubbio che una certa preferenza sembri espressa dal Legislatore verso
la prima. Ciò non solo perché «nessuna gradazione assiologica sarebbe
concepibile tra le diverse componenti del (…) patrimonio [del disponente]: beni
produttivi e beni di mero godimento, mobili e immobili, materiali e
immateriali» [13],
ma anche (e forse soprattutto) perché il patto di famiglia non pare comunque
estensibile ad alcun tipo di bene che non sia costituito dall’universitas aziendale (o, come si vedrà,
da un ramo di essa), ovvero da partecipazioni societarie [14].
E questo appare dimostrato non solo dal carattere
eccezionale (come pure si avrà modo di dire) delle relative statuizioni, ma
anche dal fatto che, al disponente non è neppure consentito di «coprire» con
l’ombrello del patto di famiglia le liquidazioni compensatorie delle quote dei
legittimari diversi dagli assegnatari dell’azienda o delle partecipazioni
societarie, dovendo necessariamente tali attribuzioni provenire invece dal
patrimonio proprio di questi ultimi. Principio, questo, che a tutta prima
potrebbe apparire curioso, ma che si giustifica alla luce della ratio testé indicata, posto che, se la
liquidazione (in denaro o in natura) delle quote agli altri legittimari fosse
stata consentita al disponente, si sarebbe spalancata la via ad una vera e
propria divisio inter liberos per
atto tra vivi di tutto il patrimonio del disponente, inattaccabile sia prima
che dopo l’apertura della successione, malgrado ogni possibile violazione delle
norme a tutela dei legittimari. Un passo, questo, per il quale il nostro
sistema e la nostra cultura non sembrano ancora pronti, malgrado talune
iniziative legislative in questo senso, peraltro rimaste lettera morta [15].
Tale ultimo aspetto costituisce, infatti, il vero
profilo di rottura rispetto alla legislazione previgente: non tanto il fatto
che il titolare dell’azienda o di partecipazioni societarie possa inter vivos disporre di tali beni in
favore dei suoi discendenti; ciò che, da che mondo è mondo, è pur sempre
avvenuto. Anzi, sotto questo aspetto, nulla impediva, già prima della legge in
commento, che effetti traslativi analoghi a quelli oggi realizzati dal patto di
famiglia potessero compiersi [16].
Come si vedrà [17],
la vera portata innovativa della novella consiste in una disattivazione dei
meccanismi di tutela che l’ordinamento ha predisposto a favore dei familiari e
segnatamente la riduzione e la collazione, atteso che nemmeno il ricorso ad uno
strumento tradizionalmente invocato per la trasmissione familiare della
ricchezza – sebbene di discutibile ammissibilità, sotto diversi profili, nel
nostro ordinamento – quale il trust,
appare in grado di impedire l’esercizio delle azioni a tutela dei legittimari [18].
Sotto questo profilo la riforma sul patto di famiglia
si viene a porre nel solco della precedente iniziativa legislativa che ha
portato alla modifica degli artt. 561 e 563 c.c. [19],
mediante la previsione che, in riferimento alla donazione di immobili, l’azione
di riduzione si prescriva in venti anni dalla donazione, con conseguente
affievolimento, se non dell’azione di riduzione in sé, quanto meno dell’effetto
«destabilizzante» della conseguente azione di restituzione nei confronti dei
terzi aventi causa dal donatario [20]. E non a caso già tale riforma, prefigurando in
qualche modo gli spazi di negozialità aperti dal patto di famiglia, sanciva
espressamente la libera rinunziabilità del diritto del coniuge e dei parenti in
linea retta del donante di opporsi alla donazione, con conseguente eliminazione
del diritto di ottenere, tramite la notifica al donatario di siffatta
opposizione, la sospensione del termine ventennale.
Poste le premesse di cui sopra, non paiono sussistere
dubbi sul fatto che l’istituto novellamente introdotto si venga a collocare in
quella «stagione della negozialità» che – come ampiamente segnalato dallo
scrivente in svariate altre sedi [21]
– da alcuni anni caratterizza i rapporti familiari, fondati o meno sul
matrimonio. Sotto questo profilo esso non solo si accomuna a quel filone
dottrinale e giurisprudenziale che da un po’ di tempo a questa parte esalta
l’autonomia negoziale di coniugi e conviventi, sia nella fase «fisiologica» che
in quella «patologica» del loro rapporto, ma si affianca anche ad alcune novità
legislative che sono venute a riconoscere expressis verbis l’esistenza
di «contratti disciplinati dal diritto di famiglia» [22],
o a consentire «atti di destinazione per la realizzazione di interessi
meritevoli di tutela riferibili a persone con disabilità», ex art. 2645-ter c.c. [23],
o, ancora ad aprire ulteriori spazi alla materia degli accordi nell’ambito
delle famiglie legittime e di fatto in crisi, pur in un criticabilissimo e
dissennato contesto di generalizzazione «forzata» e d’imposizione iussu Principis, contro ogni logica,
dell’istituto dell’affidamento congiunto, ribattezzato «condiviso», secondo
l’italico costume, che s’illude di risolvere i problemi mutando nome alle cose [24].
Ma la peculiare disciplina del patto di famiglia
consente di estrapolare conclusioni che vanno ben al di là della semplice (e,
oggidì, addirittura ovvia) constatazione del ruolo che la negozialità è venuta
ad assumere nei rapporti e nelle dinamiche familiari.
La prima osservazione che può venire alla mente
attiene alla assoluta parità che, anche in relazione a questo istituto –
esattamente come per le novità introdotte dalla legge sull’affidamento
condiviso – assumono famiglia legittima e famiglia di fatto, posto che
l’elemento «familiare» che qui viene in considerazione non è dato tanto dal
matrimonio (che nel patto di famiglia può rilevare solo in quanto viene ad
aggiungere un legittimario), bensì dal vincolo fondamentalmente «di sangue» che
lega tra di loro i contraenti. Il che – specie se visto alla luce di recenti
interventi legislativi, che hanno dato luogo, nei più disparati settori, ad
un’equiparazione tra convivenza more
uxorio e unione matrimoniale: dalle disposizioni in tema di violenza
domestica, alla procreazione assistita, all’amministrazione di sostegno,
all’affidamento condiviso – conferma ancora una volta come, a dispetto e al di
là delle declamazioni «politiche» e di principio, famiglia legittima e famiglia
di fatto si presentino sempre di più, anche nella nostra società italiana, come
le due facce della stessa medaglia: e ciò appare vero in modo particolare,
ancora una volta, proprio sul terreno dell’autonomia privata [25].
Ma l’effetto, se ci si passa l’espressione,
moltiplicatore di negozialità endofamiliare del patto di famiglia non si ferma
certo qui.
Come si avrà modo di vedere più avanti, una delle
(poche) conclusioni sicure che sembra potersi trarre da una prima lettura degli
artt. 768-bis ss. c.c. attiene all’assoluta irrilevanza della
sopravvenienza rispetto alle eventuali rinunce espresse dai legittimari in sede
di stipula del contratto in esame, avuto riguardo ai diritti che – al momento
dell’apertura della successione del disponente –potrebbero loro competere per
effetto degli atti dispositivi gratuiti a vantaggio di uno solo (o solo di
alcuni) di essi [26].
Ciò, ovviamente, a prescindere dal fatto che la situazione patrimoniale del
disponente venga a mutare, magari radicalmente, al momento del suo decesso,
rispetto a quella presente all’atto della stipula del patto di famiglia.
In altri termini, il discendente non assegnatario
dell’azienda (o di quote sociali) potrebbe essere indotto a sottoscrivere un
patto di famiglia contenente una rinunzia totale o parziale ai diritti che,
come legittimario, gli competerebbero su quei beni, qualora la successione si
aprisse in quel momento, «confidando» su di un residuo patrimonio del
disponente che in quel momento si presenta, anche a prescindere dall’azienda o
dalle quote sociali oggetto del patto, come particolarmente consistente. Ma
siffatta rinunzia conserva intatto il suo effetto (cioè quello di precludere
irrimediabilmente la possibilità di esperire l’azione di riduzione) anche nel
caso in cui, per successive vicende, il patrimonio del disponente dovesse, al
momento del suo trapasso, magari molti anni dopo la firma del patto di
famiglia, sensibilmente contrarsi o addirittura ridursi a zero.
L’insegnamento che si trae da tanta sovrana
indifferenza del Legislatore rispetto alla potenzialmente devastante portata
della rinunzia di un soggetto a diritti la cui concreta determinazione è
rinviata nel tempo (e ad un tempo che può essere anche molto remoto, rispetto
al tempo della rinunzia), non sembra poter rimanere senza effetto anche in
altri campi, pure caratterizzati dalla presenza di stretti vincoli familiari.
Si pensi al caso degli accordi preventivi tra coniugi
o tra conviventi more uxorio in vista di un’eventuale crisi del legame.
Qui, invero, e a prescindere dalle argomentazioni ampiamente in altra sede
sviluppate circa la perfetta conformità di siffatto tipo di intese rispetto ai
principi del nostro ordinamento [27],
non può negarsi che, tra gli argomenti contrari, quelli sicuramente più «ad
effetto» fanno leva proprio sull’«ingiustizia» del principio che inchioda
coniugi e conviventi al rispetto d’un accordo stipulato magari molti anni
prima, nella vigenza di una situazione di fatto che può essere ben diversa
rispetto a quella in cui la crisi del rapporto viene successivamente a maturare
e ad esplodere.
Ora, l’introduzione delle segnalate regole in tema di
patto di famiglia sembra voler dimostrare come, per il nostro Legislatore,
l’esigenza di stabilità e di certezza nel corso del tempo dei rapporti
patrimoniali, all’interno del complesso e mutevole intreccio dei legami
familiari e delle alterne vicende che possono intervenire, debba prevalere
anche rispetto a considerazioni quali quella della possibile incidenza di
siffatte vicende su rinunce dai membri della famiglia eventualmente espresse,
magari molto tempo addietro, rispetto a diritti non ancora maturati.
Ma la disamina degli effetti «promotori di
negozialità» propri del nuovo istituto non esaurisce di certo il tema dei
rapporti tra quest’ultimo e l’autonomia privata. Non vi è, infatti, solo
un’autonomia privata «del» patto di famiglia (quella, cioè, che gli artt. 768-bis ss. c.c. per così dire «iniettano»
nel tessuto normativo che regge i rapporti familiari), ma vi è anche
un’autonomia «nel» patto di famiglia, intendendosi con tale espressione la
misura dell’ampiezza dei poteri che l’ordinamento concede ai soggetti
legittimati a stipulare questo nuovo tipo negoziale.
Sotto questo profilo appaiono di evidente rilievo non
solo le norme speciali contenute negli articoli novellamente introdotti, bensì
anche – ed anzi, in primo luogo – i rapporti del nuovo istituto con il
paradigma contrattuale, da un lato, e con il divieto dei patti successori,
dall’altro. Come si avrà modo di vedere più approfonditamente oltre [28],
proprio il carattere eccezionale del patto di famiglia, in quanto negozio in
deroga al generale divieto ex art.
458 c.c., può costituire un limite all’applicazione del principio scolpito
nell’art. 1322 c.c., per lo meno ogni qualvolta il riconoscimento di effetti
alla concorde volontà delle parti presupporrebbe un’(impossibile) estensione analogica
delle norme sul patto (si pensi al caso in cui, in ipotesi, tutti i soggetti
coinvolti concordassero nella stipula di un accordo che disponesse il
trasferimento dell’azienda ad un soggetto non discendente dell’imprenditore,
oppure decidessero il trasferimento di beni diversi da quelli descritti
nell’art. 768-bis c.c.). Ma, al di là
di questo peculiare rilievo e al di là dei limiti eventualmente posti dalle
disposizioni speciali degli artt. 768-bis
ss. c.c., la regola dell’autonomia potrà e dovrà ricevere applicazione. In
questo lavoro non si mancherà pertanto di segnalare, di volta in volta, le
singole aree in relazione alle quali la libertà contrattuale potrà pienamente
esplicarsi.
Per l’intanto, proprio al fine di meglio rispondere a
questo interrogativo, nonché di comprendere i profili salienti e le interazioni
della nuova figura con gli istituti tradizionali dei tre grandi settori del
diritto civile con cui essa viene a porsi in relazione (contratti, famiglia e
successioni), sarà opportuno fare un breve cenno ai suoi precedenti storici.
3. I precedenti storici del patto di famiglia: divisio inter liberos, démission de biens e partage d’ascendants.
Si diceva, in apertura
di questo studio, che l’introduzione del patto di famiglia sembra riportare
all’attualità l’eco di dibattiti che si riteneva da tempo sopiti. In effetti,
alcuni tra i primi commentatori della l. 14 febbraio 2006, n. 55 [29],
rilevando che il patto di famiglia ha per scopo l’estromissione di determinati
beni dalla futura successione e la loro destinazione a formare una massa a sé
stante rispetto all’asse ereditario, hanno sottolineato l’affinità
dell’istituto a quella divisio inter liberos, che, conosciuta oggi come
«divisione di ascendente», affonda le sue radici nel diritto romano ed era
disciplinata anche dagli artt. 1044 ss. c.c. 1865 [30].
Norme, queste, che, a loro volta,
riproducevano sul punto le disposizioni degli artt. 1076 ss. Code Napoléon, nonché quelle di alcuni
codici preunitari [31].
In base a tali disposizioni, invero, il padre,
la madre e gli altri ascendenti potevano dividere e distribuire i loro beni tra
i figli e i discendenti non solo per testamento, come ancora oggi previsto dall’art.
734 c.c., ma anche per atto inter vivos. A conferma di tali affermazioni
si è anche citata la collocazione del nuovo Capo V-bis [32],
introdotto dalla riforma in esame all’interno della disciplina della divisione,
per concluderne che al patto di famiglia andrebbe riconosciuta la natura
giuridica di atto divisionale, o
in ogni caso, di atto che, anche se diverso dalla divisione, abbia per effetto
di far cessare tra i coeredi la comunione dei beni ereditari, come previsto
dall’art. 764 c.c. [33].
La questione necessita diverse puntualizzazioni.
In primo luogo dovrà infatti rimarcarsi che la
divisione «fatta dal testatore» (dal testatore, si badi, e non dal solo
ascendente), così come conosciuta da noi oggi (cfr. art. 734 c.c.), è negozio
sicuramente mortis causa, destinato a
prendere effetto solo dal momento dell’apertura della successione,
subordinatamente all’accettazione dell’eredità [34].
Una delle innovazioni del c.c. 1942, rispetto alla situazione normativa
disciplinata dal c.c. 1865, fu costituita infatti proprio dalla abrogazione
della divisione d’ascendente per atto tra vivi, oltre che dall’estensione a
qualsiasi testatore, e non già al solo ascendente, del diritto di procedere a
siffatto tipo di partage. I lavori
preparatori del codice vigente giustificano la scelta con le difficoltà di
inquadramento dell’atto tra vivi, in rapporto ai concetti di divisione e
successione ereditaria, nonché con la possibilità di conseguire il medesimo
intento divisorio mediante atti di donazione [35].
In realtà, la dottrina ha messo in luce il ruolo giocato in tale riforma dalla
incompatibilità giuridico-sistematica dell’istituto nei confronti del generale
divieto dei patti successori, sancito dall’art. 458 c.c. [36],
nonché dall’opportunità di superare la necessità di conciliare divisione a
effetto immediato e trapasso ereditario [37].
La riforma del 2006 potrebbe dunque indurre a
riconoscere l’intenzione del Legislatore di operare un ritorno al passato: il
riferimento ai (soli) discendenti quali beneficiari delle attribuzioni in discorso
e il carattere indiscutibilmente inter
vivos [38]
del patto di famiglia sembrerebbero deporre in questo senso. Ed almeno in parte
siffatta constatazione può dirsi rispondere a verità.
Avremo modo di vedere quali importanti conseguenze
tale premessa comporti, circa il superamento di alcuni snodi ermeneutici alla
luce della ricca ed autorevole elaborazione dottrinale che caratterizzò
l’istituto della divisione d’ascendente tanto in Italia che in Francia.
Per il momento va, però, considerato che, alla base
dell’istituto disciplinato dagli artt. 1044 ss. c.c. 1865, si ponevano
storicamente due ben distinte radici. Da un lato, la divisio inter liberos, risalente al diritto romano e
successivamente rielaborata nel partage
d’ascendants dell’antico diritto francese e, dall’altro, la démission de biens, per secoli praticata
in svariate regioni dell’area di diritto consuetudinario d’Oltralpe. Quest’ultimo istituto, in
particolare, veniva definito come «une espèce de disposition qu’on peut faire
entre-vifs, en faveur de ses héritiers». Essa era considerata alla stregua di
una «succession anticipée quand elle est faite au profit des héritiers
présomptifs, et qu’elle donne, à chacun d’eux, ce que la loi auroit donné si
elle avoit elle-même déféré la succession» [39].
Nel caso in cui tale attribuzione fosse
stata conforme all’ordine delle successioni legittime, essa non era
assoggettata alle formalità previste per le donazioni – neppure dopo che la
materia delle liberalità venne disciplinata dall’ordonnance di Luigi XV del 1731 sulle donazioni [40]
– e, sebbene determinasse l’effetto di trasferire immediatamente la proprietà
dei beni che ne formavano oggetto, poteva purtuttavia venire revocata ad nutum, purché non fosse stata
effettuata per contratto di matrimonio [41].
D’altro canto, non vi era dubbio che, tanto la divisio inter liberos del diritto
romano, che il partage d’ascendants
del diritto francese, fossero istituti assai più affini al sistema successorio,
che non a quello delle donazioni.
Per la prima valgono le constatazioni del Polacco, il
quale, dopo aver rilevato che «tanto il testamentum
quanto la divisio parentum inter liberos
appartenevano alla medesima categoria di negozi giuridici», in quanto atti di ultima
volontà, con la conseguenza che «la revocabilità [era] carattere essenziale ad
entrambi», soggiungeva che, se anche nella divisio
potevano intervenire i figli, e sottoscrivere essi medesimi l’atto, non per
questo sorgeva fra loro e il genitore un rapporto di natura contrattuale. Ciò
perché, «quanto ai figli soggetti alla patria
potestas, il concetto di una donazione, o di un contratto in genere
coll’ascendente ripugnava troppo all’idea romana dell’identitas personae, che
si considerava sussistere tra di loro. Ed anche in riguardo ai figli
emancipati, ai quali pur tuttavia poteva il padre validamente donare, una
divisione dei beni paterni con carattere di contratto successorio irrevocabile
non poteva aver luogo. Vi ostava infatti il disposto della l. ult. (30) Cod. Just. de
pactis, 2, 3, la quale (…) prescrisse che i patti sopra la successione
futura di una qualunque persona (…) non tenessero (…) se non li aveva ordinati il de cuius medesimo, ma che anche in tal caso non diventassero
definitivi se non dopo ch’egli fosse morto persistendo nella medesima volontà» [42].
La situazione non era certo dissimile nella Francia
dell’Ancien Régime per quanto attiene al partage
d’ascendants: istituto, questo, affine alla démission de biens (e con questa sovente confuso), praticato per lo
più nelle regioni di diritto scritto [43], nonché in talune zone di diritto consuetudinario [44],
ivi comprese alcune di quelle in cui le coutumes
nulla disponevano espressamente al riguardo [45].
In argomento intervenne anche, per dettare disposizioni
in tema di forma, l’ordonnance di
Luigi XV sui testamenti del 1735 (artt. 15, 16, 17, 18 e 38). L’ordinanza
richiedeva, per la validità dei partages,
il rispetto, in alternativa, di due formalità: a) che l’atto fosse compiuto in
presenza di due notai, o di un notaio e di due testimoni, come disposto
dall’art. 15; b) che fosse interamente scritto, datato e sottoscritto e firmato
dal disponente, ai sensi dell’art. 16. L’art. 17 faceva inoltre salve le
disposizioni delle singole coutumes
sull’argomento. Relativamente a queste, in particolare, potrà dirsi che quella
di Borgogna conteneva prescrizioni formali simili a quelle di cui
all’ordinanza, ma imponeva, per la validità dell’atto, che il disponente
sopravvivesse almeno venti giorni all’atto [46]:
termine che nella coutume del Borbonese era invece di quaranta giorni [47],
laddove la consuetudine di Bretagna consentiva d’effettuare il partage solo ai nobili, mentre quelle di
Péronne, d’Amiens e del Nivernese non prescrivevano il rispetto di alcuna
particolare formalità [48];
queste ultime due, infine, consentivano la divisione non solo ai genitori nei
confronti dei figli, ma a tutti coloro che avessero voluto disporre in tal modo
in favore dei loro heritiers présomptifs.
Tra gli Autori vi era divergenza d’opinioni sul fatto
che il partage dovesse
necessariamente investire tutto il patrimonio del disponente, ovvero potesse
riguardare anche solo una parte di esso o determinati beni [49],
ovvero ancora se dovesse necessariamente concernere tutti i figli, o se alcuno
di essi potesse venire omesso [50];
nel caso di sopravvenienza di un figlio v’era chi affermava la nullità
dell’atto, assimilato a questo fine ad una disposizione testamentaria [51],
mentre era pacifico che le porzioni avrebbero potuto essere diseguali, purchè
fossero rispettate le quote della successione legittima [52].
Pur valendo la regola per cui «les dispositions par
lesquelles les ascendans partagent leurs biens entre leurs enfans et descendans
ne sont pas proprement des testamens» [53],
non foss’altro perché ad esse partecipavano anche i figli, non si dubitava che
si trattasse di disposizioni a causa di morte e come tali revocabili fino al
trapasso del disponente [54].
Ciò in ossequio ad un principio che, oltre a risalire al diritto romano, aveva
trovato conferma in una capitolare di Carlo Magno [55],
per essere successivamente avallato dall’autorità del Molineo. Quest’ultimo,
nel suo celebre commentario alla coutume
di Parigi, trattando dell’istituzione e della diseredazione dei figli (con
particolare riguardo alla posizione dei primogeniti), aveva rimarcato che «in
omnibus, quae concernunt futuram alicujus successionem, consensus et voluntas
ejusdem mutabilis est et ambulatoria usque ad mortem» [56]:
principio che, secondo quanto osservato dal Le Brun, si sarebbe dovuto estendere
«au cas même que le pere ait donné à sa disposition, la forme et les clauses
d’une donation entre-vifs» [57].
Si discuteva poi se il fatto di avere immesso i figli
nel possesso dei beni, prevedendo una riserva d’usufrutto in capo al genitore
disponente, fosse idoneo a rendere l’atto irrevocabile [58],
mentre l’irrevocabilità era comunque certa nel caso il partage fosse stato contenuto in un contratto di matrimonio [59].
Riassumendo, può dunque dirsi che tutti gli istituti
che storicamente precedettero la codificazione napoleonica erano caratterizzati
da forme di anticipazione della successione, che però presentavano la
caratteristica della revocabilità, da parte del disponente, ad nutum, usque ad vitae supremum exitum. Il solo effetto «stabilizzante» era
fornito dal vincolo così assunto dai futuri coeredi, che non avrebbero quindi
più potuto impugnare le attribuzioni di cui alla démission o al partage,
se non per violazione della loro legittima.
L’unica (o pressochè
unica) eccezione alla regola della revocabilità era costituita, come si è
detto, dal fatto che la divisione fosse stata compiuta nel contratto di
matrimonio: ma ciò era coerente con il principio della trasmissione
patrilineare indivisibile dei patrimoni, che voleva necessariamente «blindati»
i patti nuziali, come chi scrive ha avuto occasione di chiarire in altre sedi [60].
Sotto questo profilo si potrebbe forse anche instaurare un audace parallelo con
la situazione attuale, in cui il tradizionale divieto dei patti successori
viene ad essere derogato dai patti di famiglia, esattamente come avveniva un
tempo per i patti nuziali. Con la differenza fondamentale, peraltro, che
l’odierna «blindatura» degli accordi ex artt. 768-bis ss. c.c. non è funzionale ad una trasmissione «feudale», in
linea retta, di patrimoni immobilizzati, tesaurizzati e non «frantumabili» con
coniugi, figlie femmine e cadetti, ma, è, al contrario, finalizzata alle
esigenze di funzionalità, produttività e competitività, proprie del moderno
«Moloch», costituito dall’impresa: dallo jus
primigeniorum [61],
verrebbe quasi fatto di dire, allo jus
mercatorum [62].
Fu il Code Napoléon
a rompere con la secolare tradizione
sopra descritta. Trattando agli artt.
1075-1080 del partage d’ascendants,
il codice ritenne di dover consentire (oltre a quella per atto mortis causa) una divisione anticipata
del patrimonio del de cuius, con un
negozio che però – a differenza dei precedenti storici – avesse le
caratteristiche proprie della donazione e dunque concernesse solo beni
presenti, rivestisse la forma dell’atto donativo e, soprattutto, fosse sempre
irrevocabile da parte del disponente (se non, ovviamente, per i motivi che
tradizionalmente consentono la revoca delle donazioni). La ragione di ciò venne
spiegata nell’exposé des motifs della presentazione al Corps Législatif dal relatore
Bigot-Préameneu, il quale osservò come la regola della revocabilità, propria
della démission de biens del diritto
consuetudinario francese (ma anche, come si è visto, del partage d’ascendants), avesse dato luogo, nella pratica, a non
pochi inconvenienti [63].
Nonostante le sostanziali differenze tra i vecchi e i
nuovi istituti, dopo la codificazione napoleonica gli Autori mostrarono per
parecchio tempo una certa tendenza ad individuare, da un lato, l’antenato della
divisione testamentaria d’ascendente nella divisio
inter liberos (e nel conseguente partage
d’ascendants) e, dall’altro, quello della divisione d’ascendente per atto
tra vivi nella démission de biens,
sulla base del carattere di negozio mortis
causa del primo e di atto inter vivos
del secondo [64].
Peraltro, come dimostrato dalla più attenta analisi compiuta sull’istituto in
oggetto sotto il vigore del c.c. 1865 [65],
il richiamo alla démission de biens
quale antenato della divisione d’ascendente per atto tra vivi era, in realtà,
improprio, posto che, mentre la démission
«era facoltizzata a qualunque disponente in confronto ai suoi successibili ex lege», la divisione d’ascendente del
c.c. 1865 (così come del codice francese e di quelli preunitari da cui essa
direttamente derivava) era concessa ai soli ascendenti e non già a qualsiasi
persona. Ma ciò che veniva a porre addirittura un abisso fra i due istituti
(cioè la «nuova» divisione d’ascendente inter
vivos, da un lato, e l’antica démission
de biens, dall’altro) era la questione della revocabilità, posto che la
facoltà di revoca, storicamente essenziale – come si è appena detto – alla
dimissione, era invece altrettanto «repugnante alla nostra divisione tra vivi.
Questa infatti va sottoposta alle regole e condizioni delle donazioni (Art.
1045). Ora nelle donazioni è requisito imprescindibile lo spoglio attuale e
irrevocabile dei beni da parte de donante. La divisione in discorso adunque
trasmette ai figli la proprietà attuale e incommutabile del lotto ch’è loro
attribuito, il che non avveniva, lo sappiamo, rispetto ai dimissionari» [66].
Ciò premesso, potrà dunque rilevarsi come, sotto il
profilo dell’immediata efficacia [67]
e della irrevocabilità dell’atto, vi sia una evidente affinità dell’odierno
patto di famiglia con l’istituto della divisione d’ascendente per atto tra vivi
disciplinata dal c.c. 1865. Lo stesso è a dirsi per quanto attiene al profilo
soggettivo: patto tra ascendenti e discendenti questo come quello; con la
differenza, peraltro, che (rispetto alla situazione retta dal c.c. 1865) oggi
anche il coniuge è legittimario.
Ma le similitudini sembrano arrestarsi qui.
Se, infatti, dalla considerazione del momento
soggettivo si passa a volgere l’attenzione al profilo oggettivo, colpisce che,
mentre la divisione d’ascendente del c.c. 1865 (così come, del resto, i suoi
ascendenti storici) poteva investire ogni tipo di bene, anche se non doveva
necessariamente avere ad oggetto tutto il patrimonio del disponente (arg. ex art. 1046), il patto di famiglia
odierno può concernere solo aziende o partecipazioni societarie (art. 768-bis c.c.).
Ciò che sembra però colpire ancora di
più l’attenzione dell’interprete è l’impossibilità di ascrivere il patto di
famiglia all’istituto della divisione.
Il concetto di divisione presuppone, infatti, che un unico
compendio sia attribuito a più soggetti, che vengono ad acquistare la proprietà
indivisa dei singoli beni: qui, invece, l’istituto serve ad attribuire ad uno
solo dei discendenti (o, eventualmente, a più d’uno, ma tendenzialmente non a
tutti) la proprietà dei beni aziendali o delle partecipazioni sociali, laddove
gli altri si vedono attribuire somme di denaro o beni che non provengono
dall’ascendente, ma dagli assegnatari dell’azienda o delle partecipazioni.
Ora, la convivenza di due momenti antitetici: quello
dispositivo e quello divisionale, era già stata denunciata con la massima
chiarezza dal Polacco con riguardo alla divisione d’ascendente sotto il c.c.
1865. L’insigne Autore, invero, notava come nell’istituto vi fosse una
commistione «di due elementi tanto diversi, la disposizione, elemento attributivo e la divisione, elemento distributivo», dichiarando senza esitazioni
«come principio fondamentale, comune al carattere giuridico così della
divisione testamentaria, come di quella tra vivi, il seguente: doversi nel
conflitto fra i predetti due elementi dare la preferenza all’elemento disposizione, come quello che
costituisce il fondamento dell’atto (donazione o testamento), mentre l’elemento
divisione ne costituisce per così
dire, una modalità» [68].
In maniera ancora più decisa, circa mezzo secolo dopo,
il Tedeschi contestava apertamente la natura divisoria dell’istituto di cui
agli artt. 1044 ss. c.c. 1865. Dopo aver notato, infatti, sin dalla prima
pagina della sua opera dedicata alla divisione d’ascendente, che «la divisione
è lo scioglimento della comunione», l’Autore soggiungeva che «la divisione
compiuta dall’ascendente tra i discendenti potrebbe essere vera e propria
divisione solo se i discendenti si trovassero ad essere già investiti dalla comproprietà
dei beni nel momento in cui la divisione avviene». Ma, soggiungeva, «che una
tale comproprietà loro spetti anteriormente al negozio compiuto dall’ascendente
si può sicuramente escludere» [69].
Tale ultimo elemento (cioè il «momento divisorio»),
già tanto labile nell’antica divisione d’ascendente per atto tra vivi, sembra,
nell’odierno patto di famiglia, ancor più evanescente, se è vero che,
nonostante l’inserimento (improprio) del patto di famiglia nel titolo del libro
II del codice dedicato alla divisione, la disciplina dell’impugnativa del patto
si differenzia in modo radicale da quella della divisione. Invero, l’art. 768-quinquies c.c. richiama l’annullamento
per vizi del consenso (con una prescrizione peraltro specialmente limitata ad
un anno), a differenza dell’impugnativa per (soli) violenza e dolo ex art. 761 c.c., mentre il Legislatore
del 2006 neppure menziona l’impugnativa per lesione (art. 763 c.c.), la cui
ammissibilità, espressamente sancita dall’art. 1048, seconda parte, c.c. 1865,
aveva formato oggetto di accese critiche da parte del Polacco, proprio in
riguardo della necessità di garantire il diritto dell’ascendente di liberamente
operare, anche in sede di creazione delle porzioni, attribuzioni «ingiuste»,
purché contenute nei limiti della disponibile [70].
In comune, rispetto alla divisione d’ascendente per
atto tra vivi del codice abrogato, il patto di famiglia conserva invece
l’esclusione dall’obbligo di effettuare la collazione di quanto ricevuto.
Effetto, questo, espressamente stabilito dall’art. 768-quater, ult. cpv., c.c. e
ritenuto concordemente applicabile già alla divisione operata per atto tra vivi
dal testatore ex art. 1044 c.c. 1865,
per effetto di una «dispensa virtuale» da collazione: una dispensa «che nasce
cioè colla stessa disposizione, in quanto è ispirata e determinata nella mente
del de cuius da un pensiero di
attribuzione definitiva della liberalità al donatario» [71].
Queste considerazioni inducono ad
asserire l’esistenza di un ulteriore e fondamentale elemento differenziatore
tra l’odierno patto di famiglia e la divisione d’ascendente del c.c. 1865.
Mentre, invero, ai sensi del citato abrogato art. 1048, la divisione fatta
dall’ascendente poteva essere impugnata nel caso di lesione della legittima, il
patto di famiglia si sottrae a tale forma di impugnativa, fatta salva,
ovviamente, l’azione per eventuali lesioni della legittima che siano il frutto
di altre disposizioni inter vivos o mortis causa del de cuius:
ma, anche in questo caso, l’azione non potrà configurarsi in alcun modo come
impugnativa del patto, le cui disposizioni rimarranno comunque inattaccabili.
Quanto sopra si pone invero come naturale effetto del
disposto dell’art. 768-quater, ult.
cpv., c.c., che espressamente esclude l’esperimento dell’azione di riduzione
(oltre che l’obbligo di collazione) in relazione a «quanto ricevuto dai
contraenti». Il tutto, naturalmente, a condizione che il patto rispetti quanto
prescritto dalla legge per la sua validità. Ma anche in caso contrario non
sembra esservi spazio per un’azione di riduzione. Come si vedrà meglio oltre,
lo stesso art. 768-quater c.c., al
secondo comma, sembra voler configurare l’obbligo di liquidazione delle quote
dei legittimari non assegnatari dell’azienda o delle quote sociali (o, in
alternativa, la relativa, espressa, rinunzia totale o parziale) alla stregua di
un elemento essenziale del patto. In mancanza di tale elemento, dunque, non
potrà ritenersi sussistente una rinunzia implicita e il patto dovrà reputarsi,
puramente e semplicemente, nullo [72].
5. I progetti di legge che hanno preceduto
l’introduzione del patto di famiglia.
Come si apprende dalla relazione al già citato disegno
di legge S/1353/XIV, la proposta che ha portato all’introduzione degli artt.
768-bis ss. c.c. riprendeva il disegno S/2799, presentato dal medesimo
firmatario il 2 ottobre 1997, nel corso della XIII legislatura. Quest’ultima
proposta legislativa, a sua volta, si ispirava ai risultati di un convegno di
studio, tenutosi a Macerata il 24 marzo 1997, organizzato dall’Università degli
Studi di Macerata in collaborazione con il Consiglio nazionale dell’economia e
del lavoro (CNEL), con il Consiglio Nazionale del Notariato e con il Gruppo di
ricerca del Consiglio nazionale delle ricerche, in tema di «Successione
ereditaria nei beni produttivi». Nell’ambito di tale giornata era stata
presentata e discussa una proposta di riforma elaborata dal citato Gruppo di
ricerca sotto il coordinamento di Antonio Masi e Pietro Rescigno [73].
Anche se la ratio
dei citati progetti era sostanzialmente identica a quella propria dell’attuale
patto di famiglia, essa veniva perseguita tramite un procedimento diverso,
consistente nella predisposizione di due distinte discipline, di cui una
(«patto di famiglia») propria dell’impresa individuale, collocata nell’ambito
delle norme successorie (più esattamente: tra quelle in tema di divisione –
disposizioni generali) e l’altra («patto d’impresa»), rivolta alle imprese
esercitate in forma societaria, collocata nell’ambito delle disposizioni
codicistiche sulle società. Per la prima veniva escogitato un meccanismo
traslativo immediato, sostanzialmente riprodotto negli attuali artt. 768-bis ss. c.c., mentre per la seconda si
immaginava la possibilità di introdurre nell’atto costitutivo un diritto di
riscatto «a favore della società, dei soci o di terzi» delle azioni nominative
cadute in successione.
Per quanto attiene al «patto d’impresa», si trattava
di una proposta ritenuta non particolarmente innovativa, atteso che sanzionava
una prassi già in uso, che vedeva (e vede) gli statuti di molte società
ispirarsi a tali criteri [74],
pur di fronte alle critiche di chi ravvisa in siffatte clausole una violazione
del divieto dei patti successori [75].
La disciplina del patto di famiglia di cui alle citate iniziative era invece
assai simile alla versione attuale dell’istituto, con la fondamentale
differenza, però, che oggi gli artt. 768-bis
ss. c.c. si applicano anche, come si è già visto, anche alla trasmissione delle
partecipazioni sociali, vista ora non già come oggetto di un negozio mortis causa, ma quale contenuto di un
atto immediatamente efficace [76].
Per il resto potranno mettersi in luce gli aspetti
salienti delle modifiche introdotte, ponendo direttamente a confronto il
progetto originario in tema di patto di famiglia, elaborato sotto il
coordinamento di Antonio Masi e Pietro Rescigno, con il successivo disegno di
legge S/2799/XIII e con l’attuale disciplina, secondo lo schema che si propone
qui di seguito:
Proposta
elaborata sotto il coordinamento di Masi e Rescigno |
Disegno
di legge S/2799/XIII, di iniziativa dei senatori Pastore ed altri |
L.
14 febbraio 2006, n. 55. |
--- |
--- |
Art. 1. 1.
Al primo periodo dell’articolo 458 del codice civile sono premesse le
seguenti parole: «Fatto salvo quanto disposto dagli articoli 768-bis e
seguenti,». |
--- |
--- |
Art. 2. 1.
Al libro II, titolo IV, del codice civile, dopo l’articolo 768 è aggiunto il
seguente capo: «Capo V-bis. DEL PATTO DI FAMIGLIA |
Art.
734-bis (Patto di famiglia). 1. L’imprenditore può assegnare,
con atto pubblico, l’azienda a uno o più discendenti. |
Art.
734-bis. Patto di famiglia. 1.
L’imprenditore può assegnare, con atto di donazione, l’azienda a uno o più
discendenti. (…) 7.
Il presente articolo si applica anche alle partecipazioni sociali. |
Art.
768-bis. - (Nozione). – È patto di famiglia il contratto con cui,
compatibilmente con le disposizioni in materia di impresa familiare e nel
rispetto delle differenti tipologie societarie, l’imprenditore trasferisce, in
tutto o in parte, l’azienda, e il titolare di partecipazioni societarie
trasferisce, in tutto o in parte, le proprie quote, ad uno o più discendenti. |
--- |
--- |
Art.
768-ter. - (Forma). – A pena di nullità il contratto deve essere
concluso per atto pubblico. |
2.
Al contratto devono partecipare oltre all’imprenditore i discendenti che
sarebbero legittimari ove in quel momento si aprisse la successione. |
2.
Al contratto devono partecipare anche i discendenti che sarebbero legittimari
ove in quel momento si aprisse la successione; possono parteciparvi, ai soli
effetti di cui al sesto comma, il coniuge dell’imprenditore e coloro che
potrebbero divenirne legittimari a seguito di modificazioni del suo stato
familiare. |
Art.
768-quater. - (Partecipazione). – 1. Al contratto devono partecipare
anche il coniuge e tutti coloro che sarebbero legittimari ove in quel momento
si aprisse la successione nel patrimonio dell’imprenditore. |
3.
Coloro che acquistano l’azienda devono corrispondere agli altri discendenti
legittimari e non assegnatari, ove questi non vi rinunzino in tutto o in
parte, una somma non inferiore al valore delle quote previste dagli articoli
536 e seguenti. |
3.
Gli assegnatari dell’azienda devono liquidare gli altri partecipanti al
contratto, ove questi non vi rinunzino in tutto o in parte, con il pagamento
di una somma corrispondente al valore delle quote previste dagli articoli 536
e seguenti; i contraenti possono convenire che la liquidazione, in tutto o in
parte, avvenga in natura. |
Art.
768-quater. – 2. Gli
assegnatari dell’azienda o delle partecipazioni societarie devono liquidare
gli altri partecipanti al contratto, ove questi non vi rinunzino in tutto o
in parte, con il pagamento di una somma corrispondente al valore delle quote
previste dagli articoli 536 e seguenti; i contraenti possono convenire che la
liquidazione, in tutto o in parte, avvenga in natura. |
--- |
4.
Salvo patto contrario, i beni assegnati con lo stesso contratto agli altri
partecipanti non assegnatari dell’azienda, secondo il valore attribuito in
contratto, sono imputati alle quote di legittima ad essi spettanti;
l’assegnazione può essere disposta anche con successivo contratto che sia espressamente
dichiarato collegato al primo e purché vi intervengano i medesimi soggetti
che hanno partecipato al primo contratto o coloro che li abbiano sostituiti. |
Art.
768-quater. – 3. I
beni assegnati con lo stesso contratto agli altri partecipanti non assegnatari
dell’azienda, secondo il valore attribuito in contratto, sono imputati alle
quote di legittima loro spettanti; l’assegnazione può essere disposta anche
con successivo contratto che sia espressamente dichiarato collegato al primo
e purché vi intervengano i medesimi soggetti che hanno partecipato al primo
contratto o coloro che li abbiano sostituiti. |
4.
Quanto ricevuto dai contraenti non è soggetto a collazione o riduzione. |
5.
Quanto ricevuto dai contraenti non è soggetto a collazione o riduzione. |
Art.
768-quater. – 4.
Quanto ricevuto dai contraenti non è soggetto a collazione o a riduzione. |
5.
All’apertura della successione, il coniuge e gli altri legittimari che non vi
abbiano partecipato possono chiedere il pagamento della somma prevista dal
terzo comma, aumentata degli interessi legali, a tutti i beneficiari del
contratto. |
6.
All’apertura della successione dell’imprenditore, il coniuge e gli altri
legittimari che non vi abbiano partecipato possono chiedere ai beneficiari
del contratto il pagamento della somma prevista dal terzo comma, aumentata
degli interessi legali. |
Art. 768-sexies. - (Rapporti con i terzi). –
1. All’apertura della successione dell’imprenditore, il coniuge e gli altri
legittimari che non abbiano partecipato al contratto possono chiedere ai
beneficiari del contratto stesso il pagamento della somma prevista dal
secondo comma dell’articolo 768-quater, aumentata degli interessi
legali. 2.
L’inosservanza delle disposizioni del primo comma costituisce motivo di
impugnazione ai sensi dell’articolo 768-quinquies. |
--- |
--- |
Art. 768-quinquies. - (Vizi del consenso). –
1. Il patto può essere impugnato dai partecipanti ai sensi degli articoli 1427
e seguenti. 2. L’azione si prescrive nel termine di un anno. |
--- |
--- |
Art. 768-septies. - (Scioglimento). – Il
contratto può essere sciolto o modificato dalle medesime persone che hanno
concluso il patto di famiglia nei modi seguenti: 1) mediante diverso contratto, con le medesime
caratteristiche e i medesimi presupposti di cui al presente capo; 2) mediante recesso, se espressamente previsto nel
contratto stesso e, necessariamente, attraverso dichiarazione agli altri
contraenti certificata da un notaio. |
--- |
--- |
Art. 768-octies. - (Controversie). – Le
controversie derivanti dalle disposizioni di cui al presente capo sono
devolute preliminarmente a uno degli organismi di conciliazione previsti dall’articolo
38 del decreto legislativo 17 gennaio 2003, n. 5. |
Natura dell’istituto
Una notevole divergenza di vedute si registra già nei
primissimi commenti agli artt. 768-bis
ss. c.c. sulla natura del patto di famiglia. In particolare, se è vero che la pacificamente
immediata (nel senso di non legata al decesso del tradens) operatività delle attribuzioni oggetto del patto, unita
alla sicura riconducibilità del negozio che lo sostanzia allo schema ex art. 1321 c.c. induce (e non può che
indurre) ad attribuire al negozio la natura di contratto, come del resto
espressamente stabilito dall’art. 768-bis c.c. («E’ patto di famiglia il
contratto…»), e di contratto inter vivos
[77],
non vi è dubbio che dal predetto accordo scaturiscano anche effetti mortis
causa. Si pensi, in particolare, a quanto disposto dall’ult. cpv. dell’art.
768-bis cit., a mente del quale «Quanto ricevuto dai contraenti non è
soggetto a collazione o a riduzione». A ciò potrà aggiungersi anche il primo
comma dell’art. 768-sexies c.c., secondo cui «All’apertura della
successione dell’imprenditore, il coniuge e gli altri legittimari che non
abbiano partecipato al contratto possono chiedere ai beneficiari del contratto
stesso il pagamento della somma prevista dal secondo comma dell’articolo 768-quater,
aumentata degli interessi legali». E’ dunque certo che il contratto in oggetto
appare idoneo a produrre anche effetti per il periodo successivo alla morte del
disponente.
Sia consentita, a questo punto, una brevissima
puntualizzazione sul carattere immediatamente efficace dell’atto. Qui, invero,
vi è da dire che la tesi di un negozio i cui cui effetti potrebbero prodursi
solo una volta apertasi la successione – pure da taluno prospettata – si
scontra irrimediabilmente con più di un dato. In primo luogo, la considerazione
dell’evoluzione storica dell’istituto [78]
evidenzia la tendenza, dalla codificazione napoleonica in poi, a consentire
l’anticipazione della successione a mezzo negozi irrevocabili, in quanto dotati
di immediata efficacia. In secondo luogo, la ratio dell’istituto [79],
volta a favorire e «blindare» un passaggio generazionale dell’azienda e delle
partecipazioni societarie verrebbe frustrata ogni volta in cui l’imprenditore
volesse (come del resto per lo più accade nella pratica) privarsi in vita della
titolarità, o anche solo della nuda proprietà [80],
dei beni e concedersi la «meritata pensione». Vi è da chiedersi che cosa tale
soggetto potrebbe fare e la risposta non potrebbe essere individuata se non nel
ricorso ad uno dei «tradizionali» strumenti sino ad ora in uso e, tra questi, in primis alla donazione. Una donazione
che, però, non beneficerebbe della disattivazione della tutela dei legittimari
propria del patto, con conseguente evidente ed ingiustificata disparità di
trattamento rispetto al passaggio, in ipotesi (nell’ipotesi, cioè, che qui si
contesta), legato al momento della morte del disponente. Non solo. Se il
disponente, dopo la stipula del patto (sempre nella denegata ipotesi in cui, per absurdum, si ritenesse il patto non
dotato di effetti traslativi immediati), dovesse decidere di «ritirarsi» e di
«passare la mano», egli non potrebbe farlo se non risolvendo (con il consenso,
ovviamente, di tutti i contraenti) il patto di famiglia, e stipulando una
donazione, soggetta, questa volta, a collazione e a riduzione…
Il miglior partito è dunque quello di seguire il
tenore letterale dell’art. 768-bis
c.c., dove il Legislatore ha reso nel modo più evidente l’intento di dotare il
patto di effetto traslativo immediato, mediante l’impiego dell’espressione
«trasferisce», che, secondo il significato reso evidente dall’uso del tempo
presente, denota proprio siffatto intento. Ma vi è di più. L’interpretazione
sistematica dimostra che là ove il Legislatore ha inteso riferirsi ad un
negozio dotato di efficacia successiva al decesso della parte, tale intenzione
è stata esplicitata mediante un’espressione del genere «per il tempo in cui
avrà cessato di vivere» (cfr. art. 587 c.c.). Il mancato impiego di siffatta
espressione rende dunque evidente che il patto di famiglia ha ad oggetto un
effetto traslativo non differito al momento della morte del disponente. Ma la
prova decisiva della bontà di tale assunto viene dal fatto che l’art. 768-quater, ult. cpv., c.c. esonera
espressamente da collazione i trasferimenti oggetto del patto. Ora, non si
riesce a comprendere quale significato avrebbe l’esonero da collazione se
riferito ad una disposizione che dovesse prendere effetto solo dalla morte del
disponente, posto che l’istituto ex
artt. 737 ss. c.c. ha tratto, per sua essenza e definizione, solo ed
esclusivamente ad attribuzioni liberali compiute in vita e con efficacia inter vivos dal de cuius.
Quanto sopra non toglie, naturalmente, che il patto
dispieghi anche effetti mortis causa,
ma questi ultimi risiedono nella esistenza di un patto successorio dispositivo
(e, per certi aspetti, anche rinunziativo), ma non certo di un patto
successorio istitutivo [81].
Una volta chiarita la natura di vero e proprio
contratto, sebbene con effetti almeno in parte mortis causa, del patto di famiglia, occorrerà subito sgombrare il
campo dalla figura del negozio a favore di terzi [82].
A questa conclusione potrebbe infatti indurre la circostanza che la legge
preveda, quale effetto principale, un trasferimento avente ad oggetto
un’azienda o quote societarie in favore di uno o più discendenti e, dall’altra,
l’obbligo di tali ultimi beneficiari di effettuare determinate prestazioni
verso gli altri legittimari, non destinatari dei predetti trasferimenti. Ma è
chiaro che, mentre necessario presupposto dell’archetipo negoziale ex artt. 1411 ss. c.c. è un accordo tra
due (o più) soggetti, per il quale taluni effetti si produrranno verso uno o
più soggetti estranei alla pattuizione, in questo caso gli effetti prodotti dal
patto di famiglia verso i legittimari non destinatari del trasferimento
d’azienda (o delle quote sociali) investono dei soggetti che – come meglio si
vedrà oltre [83]
– se decidono di aderire all’intesa tra disponente e destinatari dell’azienda o
delle partecipazioni societarie, sono vere e proprie parti del contratto e che
quindi (per la… «contradizion che nol consente») terzi non possono essere.
Ciò è tanto più vero se si pensa al fatto che, ai
sensi dell’art. 768-quater c.c., la
mancata partecipazione di uno o più legittimari (e dunque la loro obiettiva
situazione di «terzi» rispetto al contratto) esclude in apicibus la produzione di qualsiasi effetto nei loro riguardi,
almeno sin tanto che gli stessi non decidano di aderirvi, non potendosi in
altro modo interpretare il disposto dell’art. 768-sexies c.c. [84].
E d’altro canto non andrà dimenticato
che i legittimari (partecipanti al patto) non assegnatari non sono comunque
destinatari di soli effetti favorevoli [85],
bensì subiscono anche un effetto negativo, costituito dal fatto che, con la stipula
del contratto, essi rinunziano per sempre ed irrevocabilmente a far valere le
loro ragioni di legittimari sull’azienda o sulle partecipazioni sociali. Neppure
potrebbe ricorrersi alla figura del contratto a favore di terzi per qualificare
il rapporto verso i legittimari non partecipanti al patto, espressamente
qualificati «terzi» dalla rubrica dell’art. 768-sexies c.c. Se infatti, a tutta prima, si potrebbe essere tentati
di considerare i diritti loro spettanti in base a tale norma alla stregua di un
effetto a favore di terzi, andrà tenuto presente che questi soggetti ben
possono far valere in pieno i diritti di legittimari, non vincolati, per
l’appunto, al patto: nel momento in cui gli stessi dovessero decidere di aderirvi ex
post, essi verrebbero a disporre proprio di tali diritti e dunque a porre
sul piatto della bilancia una prestazione che non consente in alcun modo di
ridurre il contenuto dell’accordo ad un mero effetto favorevole nei loro
confronti [86].
Si noti, per
incidens, che un’adesione successiva dei legittimari che siano già tali al
momento della stipula del patto, ma che non vi abbiano preso parte, sembra
ammissibile non solo sulla base di quanto disposto dall’art. 768-sexies c.c., e dunque alla morte del
disponente, bensì anche prima, sulla base dell’art. 768-septies, n. 1, c.c., laddove è prevista una modifica del patto
«mediante diverso contratto, con le medesime caratteristiche e i medesimi
presupposti di cui al presente capo». Ora, l’ingresso dei legittimari «pretermessi»
dal patto soddisfa sicuramente le caratteristiche ed i presupposti del patto
medesimo: esso, pertanto, potrà attuarsi, a condizione che, come richiesto
dalla norma, vi aderiscano le medesime persone che hanno concluso l’accordo
originario.
Tutto al contrario rispetto allo schema del contratto
a favore di terzi, rimane dunque confermata, anche per tale nuova figura
negoziale, la sottoposizione al fondamentale principio della privity of contract (art. 1372 c.c.).
7. La natura del patto di famiglia. In particolare: il
rifiuto della tesi della donazione modale.
L’incertezza maggiore riguarda però sicuramente il
richiamo alla figura della donazione.
Secondo alcuni, in senso contrario militerebbero, da
un lato, l’impiego, da parte dell’art. 768-sexies
c.c., del termine «beneficiari», per designare gli assegnatari dell’azienda o
delle quote, ciò che evidenzierebbe che nella specie si dovrebbe trattare di
«negozio gratuito con cui si anticipano in vita disposizioni di tipo
testamentario» [87];
d’altro canto, occorrerebbe tenere conto anche della collocazione sistematica
delle disposizioni al di fuori del titolo consacrato alle donazioni, nonché
dell’assenza di animus donandi, avuto
riguardo al fatto che, in questo caso, l’essenziale gratuità del negozio non corrisponderebbe
all’intento di arricchire la sfera giuridica altrui, ma denoterebbe solo il
desiderio di anticipare la propria successione nell’interesse dell’impresa [88].
Quanto sopra contribuirebbe, dunque, ad escludere il carattere donativo
dell’attribuzione [89].
Di contro si potrebbe obiettare che l’utilizzo del
termine «beneficiari» non sembra fornire
argomenti esegetici di sorta. Un’analisi delle disposizioni codicistiche
in cui tale espressione – vuoi al singolare, vuoi al plurale – compare (cfr.
artt. 1865, 1873, 1900, 1920, 1921, 1922, 1923, 2435 c.c.) non appare, invero,
foriera di particolari frutti sul piano ermeneutico. Inoltre, non sembra che l’animus
donandi sia escluso dall’intento di anticipare la propria successione.
Da secoli, nella pratica dei rapporti familiari, le successioni vengono
anticipate da donazioni, senza che ciò abbia mai sollevato dubbi sulla
sussistenza di un intento liberale, tanto che una delle ragioni della
soppressione, da parte del c.c. 1942, dell’antica divisione d’ascendente per
atto tra vivi venne autorevolmente rinvenuta, sulla scorta dei lavori
preparatori, proprio nel fatto che l’intento del disponente di anticipare la
propria successione «può ugualmente essere conseguito mediante atti di
donazione» [90].
Del resto, numerosi sembrerebbero gli
elementi in grado di orientare l’interprete – ad una prima analisi – proprio
verso la donazione [91],
per lo meno avuto riguardo all’attribuzione effettuata dal disponente al
discendente destinatario dell’azienda o delle quote sociali. Si pensi, in primo
luogo, all’assenza di ogni riferimento ad un corrispettivo della cessione da
corrispondersi al cedente i beni aziendali o le partecipazioni societarie. Si
ponga mente poi al fatto che il disposto dell’art. 768-quater, ultimo comma, c.c. sottrae alla
collazione ed all’azione di riduzione l’oggetto del patto di famiglia, mentre
il testo del già ricordato disegno di legge del 2 ottobre 1997, proposto su
iniziativa dei Senatori Pastore ed altri, definiva espressamente il patto di
famiglia come atto di donazione.
In quest’ottica si è, anzi, voluto qualificare il
patto di famiglia alla stregua di una donazione modale, in cui il modus sarebbe costituito dall’obbligo di
liquidazione di cui all’art. 768-quater cpv. c.c., con la conseguenza
che siffatto onere, secondo quanto stabilito dall’art. 793 c.c., dovrebbe
produrre i suoi effetti anche qualora il suo ammontare arrivasse ad assorbire
l’intero arricchimento del donatario [92].
Ma l’insostenibilità di quest’ultima
tesi è resa palese non solo e non tanto dal fatto che l’adempimento dell’onere
sia contestuale alla conclusione del
contratto (ciò che potrebbe spiegarsi in base al fatto che gli stessi
beneficiari del modo sono presenti in atto [93]),
quanto dalla considerazione che, se i legittimari non rinunziano in tutto o in
parte ai loro diritti, la liquidazione della quota di costoro è elemento
costitutivo ad validitatem (e non già meramente accidentale) del patto:
ciò che evidentemente appare incompatibile con il concetto stesso di modo [94].
In altri termini, e anche a voler prescindere dalla diatriba sulla validità
della tradizionale distinzione tra elementi essenziali, naturali ed accidentali
del negozio – criticata dagli studi meno risalenti sul tema, che hanno
evidenziato come i c.d. elementi naturali non stiano sullo stesso piano degli
altri due, atteso che non sono riconducibili alla volontà privata ma dipendono
da norme suppletive [95]
– rimane il fatto che il modo è, per definizione, elemento non essenziale,
rimesso dalla legge alla discrezione del donante. Tutto al contrario, nel caso
di specie, la decisione sulla liquidazione della quota ai legittimari non è
certo lasciata all’ascendente, ma è imposta dalla legge a pena, con ogni
probabilità, di nullità dell’atto. In questo senso, si potrebbe, a tutto
concedere, parlare di una singolare forma di naturale negotii: di un elemento, cioè, che potrebbe essere
eventualmente escluso non già da un accordo tra tutte le parti, come
normalmente avviene in tali ipotesi, ma dalla rinunzia dei destinatari dell’attribuzione
che forma normale oggetto dell’obbligazione gravante sull’assegnatario
dell’azienda o delle quote sociali.
8. La natura del patto di famiglia. La tesi proposta.
Chiarito quanto sopra, non vi è dubbio
che, se il patto di famiglia consistesse nella sola attribuzione in favore dei
destinatari dell’azienda o delle quote sociali, magari «compensata» da
attribuzioni effettuate dallo stesso ascendente nei riguardi degli altri
legittimari, la figura di riferimento più sicura sarebbe la donazione. Ed in
questo senso potrebbero deporre i già evidenziati elementi costituiti dalla
sottrazione delle attribuzioni di cui al patto alla collazione ed all’azione di
riduzione, nonché il dato «storico» fornito dal disegno di legge S/2799/XIII.
Elementi, questi, peraltro, «reversibili», nel senso che la sancita esclusione
della collazione e dell’azione di riduzione potrebbe semplicemente sottolineare
l’esigenza di fugare ogni dubbio sul carattere non donativo dell’atto, mentre
il mancato inserimento del richiamo espresso all’istituto ex artt. 769
ss. c.c. potrebbe essere letto come una prova dell’intenzione del Legislatore
di dar vita ad un contratto del tutto nuovo.
E’, però, innegabile che – al di là
dell’attribuzione dell’azienda o delle partecipazioni societarie – un altro
elemento essenziale del contratto è costituito dalla liquidazione delle quote
degli altri legittimari, o, in alternativa, dalla rinunzia da parte di costoro.
Al riguardo si è prospettata [96]
la presenza di una causa non già liberale, ma solutoria, dal momento che le
attribuzioni in cui si sostanzia la liquidazione dei diritti dei legittimari
non destinatari dell’azienda o delle quote sociali, pur se avvengono senza
corrispettivo, sono in realtà finalizzate a consentire che la cessione
dell’azienda (o delle partecipazioni societarie) non possa essere in futuro
messa in discussione. Tali liquidazioni non possono dunque qualificarsi come
atti di liberalità, in quanto è assente nell’assegnatario di azienda l’animus
donandi. Nel caso, poi,
alternativo di rinunzia, si potrebbe parlare di liberalità, ma di una
liberalità che non proviene certo dall’ascendente che assegna l’azienda o le
quote sociali, bensì proprio dai legittimari. Come si avrà poi modo di vedere
oltre [97],
neppure può parlarsi di donazione indiretta da parte del disponente, attesa
l’impossibilità di ravvisare, da parte dei legittimari, la presenza di un
«puro» arricchimento, dal momento che il vantaggio da essi conseguito si
scambia con il loro sacrificio, consistente nella definitiva rinunzia a far
valere pretese successorie sui beni trasferiti, in cambio di quanto ricevuto
(o, addirittura, in caso di rinunzia, in cambio di nulla).
La soluzione all’interrogativo circa la natura del
patto di famiglia – considerato nei suoi due fondamentali rapporti giuridici di
cui si compone: l’attribuzione dal disponente al destinatario dell’azienda (o
delle quote sociali) e l’attribuzione effettuata da quest’ultimo agli altri
legittimari (ovvero, in alternativa, la rinunzia di costoro) – non può essere
trovata se non considerando che il patto di famiglia costituisce un nuovo negozio
giuridico. Un nuovo negozio
giuridico che, oltre tutto, sottrae i beni che ne formano oggetto alla
successiva delazione ereditaria, così ponendo una deroga al principio di unità della
successione e realizzando un fenomeno di successione anomala, in quanto ha per
oggetto beni che vengono separati dalla massa ereditaria [98].
Se quanto sopra è vero, siffatto nuovo tipo di negozio
è sicuramente distinto tanto dalla donazione che dal testamento, ed appare
dotato di una sua autonoma disciplina, che realizza finalità distinte. Così a
quella di liberalità, che
contraddistingue il trasferimento dell’azienda (o di partecipazioni) a favore
del (o dei) discendenti, s’affianca una finalità
solutoria (nei termini sopra precisati), che concerne la liquidazione –
imposta dalla legge – dei diritti di legittima spettanti ai legittimari non
assegnatari dell’azienda (o delle partecipazioni societarie), salvo loro
rinuncia [99].
Questa tesi non appare incompatibile con quella,
sicuramente convincente, già prospettata in dottrina [100],
che ravvisa nella nuova figura una causa unitaria, rappresentata dalla funzione
di regolamentazione dei futuri assetti successori dei legittimari in ordine
all’azienda ceduta, ad instar di quanto da tempo proposto dallo
scrivente in relazione ai contratti
della crisi coniugale [101].
La causa di questi negozi consiste, invero, nella determinazione definitiva
dell’assetto dei rapporti tra coniugi in crisi, ma, come tale, può coinvolgere
anche attribuzioni in favore di terzi soggetti (si pensi ai figli), rispetto ai
quali siffatti atti dispositivi assolvono finalità solutorie dell’obbligo di
mantenimento, ovvero, quando tali finalità travalicano, possono anche
manifestare un intento liberale [102].
Del resto – e a prescindere dal tema dei contratti
della crisi coniugale – la realizzazione di funzioni diverse all’interno di
negozi giuridici nominati non è sconosciuta al diritto di famiglia. Si pensi a
quanto accade, ad esempio, nella stipula di una convenzione costitutiva del
regime di comunione convenzionale, nel quale le parti pattuiscano il
«conferimento» in comunione di uno o più beni di cui il coniuge sia già
titolare. Qui, invero, la soluzione preferibile induce ad affermare che, pur
non potendosi ravvisare nell’attribuzione patrimoniale in oggetto una
donazione, dal momento che la translatio
dominii trova la sua causa in un ben preciso negozio tipico (art. 210
c.c.), siffatto trasferimento della titolarità di una quota sul bene può
qualificarsi alla stregua di una liberalità, che parte della dottrina non esita
a ricondurre alla specie della donazione indiretta [103].
Concludendo sul punto sembra quindi potersi affermare
che la necessità di individuare una figura negoziale nuova, dotata di una sua
causa tipica – quale indiscutibilmente si realizza con il patto di famiglia –
non escluda la possibilità di riconoscere la presenza di distinte funzioni, per i rapporti che possono (o, come nel caso
di specie, debbono) comporlo, la cui combinazione viene a porre in essere il
nuovo tipo di negozio: una funzione liberale, nell’attribuzione a favore del
destinatario (o dei destinatari) dell’azienda o delle quote sociali, ed una
funzione solutoria, nelle attribuzioni in favore degli altri legittimari.
9. Corollari in tema di forma e di rapporti con la
comunione legale tra coniugi.
Le conclusioni che si sono raggiunte nel paragrafo
precedente consentono di affrontare il tema, non certo agevole, posto dalle
ricadute della tesi prescelta sulla natura del patto di famiglia in tema di
forma del contratto e di rapporti con il regime di comunione legale dei beni
tra coniugi.
Per il primo profilo, stabilisce l’art.
768-ter che «A pena di nullità il contratto deve essere concluso per
atto pubblico». La legge non impone peraltro la forma dell’atto pubblico
notarile, né la presenza di testimoni. Esclusa la possibilità di configurare il
patto, per le ragioni sopra illustrate, alla stregua di una donazione [104],
va detto che, per quanto attiene al primo aspetto (cioè alla forma
necessariamente, o meno, notarile), il richiamo alla «dichiarazione agli altri
contraenti certificata da un notaio» (di cui all’art. 768-septies, n. 2,
c.c.) consente di desumere, con una certa dose di buona volontà, l’intento del
Legislatore di imporre ad substantiam la forma dell’atto notarile per la
stipula del patto: se, infatti, l’intervento del notaio è espressamente
richiesto per l’esercizio del diritto di recesso, a maggior ragione deve
ritenersi che siffatto intervento sia domandato per la stipula di quell’atto
che siffatto diritto potestativo di recesso può prevedere (ed anzi deve espressamente prevedere, perché il
recesso possa validamente compiersi).
Non sarà dunque possibile dar vita al patto ex
artt. 768-bis ss. c.c., in sede, ad
esempio, di stipula di un contratto della crisi coniugale di fronte a
cancelliere in verbale di separazione o di divorzio su domanda congiunta: ciò
ancora a prescindere, naturalmente, dal profilo della possibilità o meno della
partecipazione all’udienza anche di soggetti che non sono parti, in senso
tecnico, della procedura, quali i figli [105].
Per ciò che attiene poi alla presenza dei testimoni,
va ricordato che l’attuale versione dell’art.
Resta comunque il fatto che, iniziandosi già in
dottrina a prospettare, come si è visto, la tesi, non condivisibile, della
donazione, appare opportuno, dal punto di vista pratico, suggerire ai notai di
disporre comunque l’intervento in atto dei testimoni. La loro presenza, invero,
sebbene del tutto superflua, allo stato attuale della legislazione, non
determina comunque l’invalidità dell’atto, laddove la loro assenza
comporterebbe rischi di nullità, ove avesse ad affermarsi la tesi della
donazione.
Venendo al tema dei rapporti con l’istituto
ex artt. 177 ss. c.c., si pone il
problema della caduta o meno in comunione di quanto ricevuto sia dai soggetti
destinatari dell’azienda (o delle quote sociali), sia dagli altri legittimari.
Per quanto attiene al primo gruppo, sembra potersi affermare, che, in
considerazione del già evidenziato carattere indubbiamente liberale
dell’attribuzione, dovrebbe trovare applicazione il disposto dell’art. 179,
lett. b), c.c., tanto più che, come noto, l’interpretazione prevalente (ed al
momento assolutamente unanime nella giurisprudenza di legittimità) estende
l’applicazione della norma in oggetto al campo delle donazioni indirette [107].
Siffatto profilo dovrebbe dunque risultare assorbente anche in relazione alla
possibile prospettazione di tali acquisti alla stregua di beni destinati
all’esercizio dell’impresa del coniuge acquirente (o incrementi dell’azienda di
quest’ultimo), ex art. 178 c.c.
A diverse conclusioni si dovrebbe invece pervenire per
le attribuzioni in favore degli altri legittimari, atteso che il denaro o i
beni ricevuti sono trasmessi dall’assegnatario dell’azienda o delle
partecipazioni societarie non già per spirito di liberalità, ma per adempiere
ad un preciso obbligo imposto dalla legge, mentre, per quanto attiene al
rapporto verso il disponente, neppure può parlarsi di donazione indiretta da
parte sua [108].
D’altro canto non può nemmeno invocarsi l’art. 179,
lett. b), c.c. in relazione al disposto concernente i beni acquisiti «per
effetto di (…) successione», posto che il fenomeno acquisitivo descritto
dall’art. 768-quater c.c., sebbene in qualche modo legato a profili
successori, non è certo riconducibile all’acquisto mortis causa. Con
ogni probabilità, anche in questo caso sarebbe opportuno prevedere una modifica
legislativa, attesa l’evidente «prossimità» delle attribuzioni in discorso al
campo successorio. Dal punto di vista pratico sarà comunque opportuno che il
notaio prospetti tale problema ai legittimari ed eventualmente – avuto riguardo
al noto revirement operato nel 2003 dalla Corte di legittimità, che è
venuta a sottrarre la possibilità di impedire la caduta in comunione mediante
l’espressione di un rifiuto preventivo di coacquisto [109]
– consigli agli interessati di previamente procedere alla stipula di una
convenzione di separazione dei beni.
Concludendo su questo punto specifico potrà solo farsi
qui cenno al fatto che il rifiuto della tesi che vede nel patto di famiglia una
donazione porta inevitabilmente anche ad escludere dal novero dei relativi
partecipanti i figli nascituri concepiti o non ancora concepiti, come si avrà
modo di vedere trattando del tema dei soggetti del patto [110].
D’altro canto, per le stesse ragioni, dovrebbe ritenersi fuori gioco l’art. 437
c.c., per cui il destinatario dell’azienda o delle partecipazioni sociali non
sarebbe tenuto, per effetto del patto, a prestare gli alimenti all’ascendente.
Ancora, come si dirà in seguito, dovrebbe risultare inapplicabile l’art. 774
c.c. [111],
così come l’art. 778 c.c.
10. Patto di
famiglia e patti successori.
Sempre rimanendo in tema di natura giuridica del patto
di famiglia e di individuazione dei limiti entro cui l’autonomia privata può
operare, si potrà cercare di delineare ora brevemente i rapporti di siffatta
figura con i patti successori [112].
Al rapporto con i patti successori fa espresso
richiamo, innanzi tutto, la relazione alla proposta di legge n. 3870 dell’8
aprile 2003 – da cui ha preso le mosse il provvedimento normativo in commento –
nella quale si legge, come già evidenziato in apertura del presente lavoro, che
«la ratio del provvedimento
deve essere rinvenuta nell’esigenza di superare in relazione alla successione
di impresa la rigidità del divieto dei patti successori, che contrasta non solo
con il fondamentale diritto all’esercizio dell’autonomia privata, ma altresì e
soprattutto con la necessità di garantire la dinamicità degli istituti
collegati all’attività d’impresa». A tale notazione fa poi eco, sul
piano normativo, l’espressa modifica, disposta dall’art.
Questo richiamo non è però rimasto esente da critiche.
In effetti, già in relazione al citato progetto
stilato sotto il coordinamento di Antonio Masi e di Pietro Rescigno [113],
parte della dottrina aveva ritenuto di dover affermare «con assoluta certezza
che il patto di famiglia (…) non configura un patto successorio perché ciò che
forma oggetto dell’attribuzione è l’azienda nella consistenza che ha al momento
dell’atto dispositivo, l’effetto attributivo è immediato e allo stesso modo
immediata è anche la determinazione del soggetto o dei soggetti beneficiari».
Nella sostanza, continuava il contributo citato, «il risultato che si realizza
è identico a quello che già oggi si potrebbe realizzare con una donazione in
quote indivise a tutti coloro che sarebbero legittimari ove in quel momento si
aprisse la successione e con una contestuale cessione dei diritti a titolo
oneroso da parte di alcuni donatari a colui o a coloro che sono destinati a
gestire l’azienda di famiglia». Poste tali premesse, il contributo concludeva
rilevando – con osservazione sicuramente valida ancora oggi – che «La vera
portata innovativa della norma (…) non consiste in una deroga al divieto dei
patti successori, bensì in una disattivazione dei meccanismi di tutela che
l’ordinamento ha predisposto a favore dei familiari e segnatamente la riduzione
e la collazione» [114].
Più di recente, a commento della novella sul patto di
famiglia, si è pure negato che l’istituto ex
artt. 768-bis ss. c.c. si ponga in
qualche modo in deroga al divieto dei patti successori, dal momento che il
diritto di legittima non sarebbe dismesso, ma sarebbe, anzi, reso
immediatamente esercitabile, con la conseguenza che non potrebbe scorgersi,
nell’operazione, una corrispondente rinuncia [115].
A questa impostazione si può però obiettare [116]
che, nella disciplina introdotta dal nuovo testo
legislativo, è possibile individuare quanto meno un patto successorio
dispositivo, rappresentato dalla convenzione in base alla quale il destinatario
dei beni aziendali o delle quote, all’atto della stipulazione, soddisfa le
ragioni di legittimario dei non assegnatari, versando una somma corrispondente
al valore della legittima, contestualmente calcolata fingendo che la
successione del donante si fosse testé aperta. Tale previsione introduce una
deroga ad un principio dell’ordinamento in forza del quale la determinazione
dei diritti dei legittimari ai fini della riduzione si compie in base al valore
dei beni oggetto di disposizioni al momento di apertura della successione (art.
556 c.c.) [117]:
diritti dei legittimari che non vengono neppure in essere se non al momento
della morte del de cuius [118].
Qui il patto
successorio dispositivo è ravvisabile proprio nel fatto che l’assegnatario, in
vita del de cuius, anticipa ai suoi fratelli o sorelle ed all’altro
genitore quanto di loro spettanza sui beni, oggetto del patto, che altrimenti
cadrebbero in successione. In cambio di ciò, i soggetti non assegnatari, nel
momento in cui accettano la liquidazione della quota, in denaro o in natura,
assumono il ruolo di disponenti, in quanto, in sostanza, alienano al donatario,
dietro corrispettivo, la porzione di legittima sul bene oggetto del patto di
famiglia. In tal modo, è innegabile che i non assegnatari stanno disponendo dei
diritti che possono loro competere su una successione altrui non ancora aperta [119]. E, ovviamente, a nulla vale replicare che, con il
patto, il diritto alla legittima viene immediatamente esercitato, proprio
perché esercitare un diritto, in cambio di una determinata prestazione,
significa inevitabilmente disporre del medesimo e dunque disporre di un’entità
che l’art. 458 c.c. vuole intangibile usque
ad vitae (del de cuius) supremum exitum.
Da un
secondo punto di vista può poi ravvisarsi nel patto di famiglia un patto
successorio rinunziativo. Al riguardo si è sostenuto che, qualora i non
assegnatari rinuncino alla liquidazione, si realizza un patto successorio
rinunziativo poiché, in sostanza, tali soggetti rinunciano preventivamente a
diritti di legittima che possono loro competere sulla successione del genitore
non ancora aperta [120]. A quest’affermazione può contrapporsi quella di chi
ha rilevato come, in tal caso, la rinunzia investa invece il diritto ad ottenere la liquidazione: diritto, che, sorgendo con il
contratto, deve definirsi diritto attuale [121].
In realtà, il profilo rinunziativo del patto va visto anche qui nel fatto che,
con la sottoscrizione del medesimo, il legittimario rinunzia sempre e comunque
(indipendentemente dalla posizione che possa avere assunto in merito alla
liquidazione) alla possibilità di pretendere la legittima che a lui su quei
determinati beni competerebbe all’atto dell’apertura della successione, anche
se questa dovesse eventualmente rivelarsi, in quel momento, di valore ben
diverso rispetto alla somma accettata in sede di stipula del patto [122].
Va da
séche il patto di famiglia non costituisce, invece, un patto successorio istitutivo
(o confermativo), non producendo effetti mortis
causa sul patrimonio del disponente [123].
La
conclusione circa la natura eccezionale del patto di famiglia è foriera di
evidenti conseguenze sul piano ermeneutico, come si vedrà in dettaglio oltre.
La regola di cui all’art. 14 prel. verrà così a costituire un limite al
principio d’autonomia privata che, in base all’art. 1322 c.c., al patto di
famiglia è sicuramente applicabile. Ne deriva dunque che, ogni qualvolta
l’esercizio della libertà contrattuale nell’ambito del patto di famiglia
dovesse portare a conseguenze in contrasto con l’art. 458 c.c., non
riconducibili a quelle disciplinate dagli artt. 768-bis ss. c.c., le
relative clausole dovrebbero ritenersi nulle per contrasto con norme
imperative.
I profili soggettivi
dell’istituto
11. I soggetti del patto di famiglia. La (non
necessaria) partecipazione di tutti i legittimari.
Volgendo ora l’attenzione al profilo soggettivo del
patto, va subito detto che, in alcuni dei primi commenti alla novella in esame,
è stata proposta l’opinione secondo cui la partecipazione al patto di famiglia
da parte di tutti i legittimari sarebbe necessaria ad validitatem. Così, si sottolinea, da un lato, il carattere
necessariamente plurilaterale del negozio [124],
avuto altresì riguardo alla denominazione prescelta dal Legislatore (patto di
famiglia), che indurrebbe a ritenere, per l’appunto, la partecipazione di tutti
i legittimari del disponente (rectius:
di tutti coloro che sarebbero legittimari, se si aprisse la successione nel
momento della stipula del patto), anche ai sensi degli artt. 1420 e 1446 c.c.,
con la conseguenza che l’omessa partecipazione, in questo caso, determinerebbe
non l’inefficacia, ma la nullità ab
origine del contratto [125].
Ad avviso di chi scrive la soluzione di
cui sopra va però verificata alla luce del disposto dell’articolo 768-sexies
c.c., secondo il quale «all’apertura
della successione dell’imprenditore, il coniuge e gli altri legittimari che non
abbiano partecipato al contratto possono chiedere ai beneficiari del contratto
stesso il pagamento della somma prevista dal secondo comma dell’articolo 768-quater, aumentata degli interessi legali.
L’inosservanza delle disposizioni del primo comma costituisce motivo di
impugnazione ai sensi dell’articolo 768-quinquies».
Secondo i
sostenitori della tesi della necessaria partecipazione, ad validitatem, di tutti i legittimari, questo articolo potrebbe
riferirsi ai soli legittimari sopravvenuti (si pensi ai figli nati o adottati
successivamente, o al nuovo coniuge) [126].
A chi scrive sembra però che debba prospettarsi un’altra interpretazione: vale
a dire quella secondo cui, proprio dal tenore di questa norma, può ricavarsi
che la sanzione per la mancata partecipazione di uno o più legittimari già
esistenti al momento della stipula del patto non consiste nella nullità del
patto medesimo, ma nell’applicazione delle sole conseguenze di cui all’art.
768-sexies c.c. [127].
Ora, il tenore letterale della disposizione da ultimo citata sembra suffragare
proprio questa seconda soluzione. Come si avrà modo di vedere meglio oltre,
lungi dallo stabilire che gli effetti del patto si estendano anche ai
legittimari che non lo abbiano sottoscritto, l’art. 768-sexies c.c. si
limita a prevedere che tali terzi
«possono» chiedere ai beneficiari del contratto stesso il pagamento
della somma prevista dal secondo comma dell’articolo 768-quater,
aumentata degli interessi legali. Da ciò è desumibile l’intento del Legislatore
di consentire a costoro di aderire al patto, fermo restando che, in caso
contrario, ad essi il patto non sarà opponibile, in applicazione, del resto,
del generale principio scolpito nell’art. 1372 cpv. c.c. [128].
D’altro canto, il riferimento testuale ai «legittimari
che non abbiano partecipato al contratto», anziché ai (soli) «legittimari che
non abbiano potuto partecipare al contratto» e la predisposizione della
speciale sanzione dell’inefficacia del patto verso quei legittimari che – per
qualsiasi ragione e senza differenziazione alcuna in merito al momento
d’acquisto della loro qualità di legittimari – «non abbiano partecipato al
contratto», consente di superare la tesi della «nullità virtuale» per
«violazione di norma imperativa (art. 768-quater c.c.), in quanto
sottratta alla disponibilità delle parti» [129].
Di nullità virtuale non appare invero possibile parlare allorquando il
Legislatore commini espressamente, come si è visto, una diversa sanzione,
incompatibile con la nullità.
A ciò s’aggiunga che non può neppure giustificarsi la
tesi della nullità virtuale sulla base del rilievo [130]
secondo cui la partecipazione dei soggetti non assegnatari è necessaria al fine
di rendere inattaccabile il patto di famiglia, poiché gli assegnatari
dell’azienda o delle partecipazioni devono liquidare i primi, ove questi non
rinunzino in tutto o in parte alla stessa liquidazione, con una somma
corrispondente al valore delle quote previste dagli artt. 536 e ss. c.c.
Siffatta liquidazione, invero, è concessa dal Legislatore – come si è appena visto
– anche nel caso di pretermissione, per qualsiasi motivo, di uno o più dei
legittimari, quale precipuo effetto di quanto disposto dall’art. 1372 c.c. In
assenza di tale liquidazione successiva alla morte del disponente –
sollecitata, evidentemente, dagli interessati che nel frattempo avranno aderito
al patto – il patto sarà non già nullo, ma annullabile su iniziativa dei
legittimari «pretermessi» (cfr. art. 768-sexies
cpv. c.c.), che potranno, in alternativa, anche non impugnare il negozio, ma
sfruttare la loro posizione di terzi rispetto al contratto per utilizzare tutti
i rimedi loro concessi dalla normativa in tema di legittima.
Ancora, si potrà osservare che anche l’argomento
storico sembra condurre a questa soluzione. Invero, l’art. 1047 c.c. 1865 – ai
sensi del quale la divisione d’ascendente per atto tra vivi era «interamente
nulla», qualora non fossero stati «compresi tutti i figli che saranno chiamati
alla successione e i discendenti dei figli premorti» – sembra proprio
dimostrare che, allorquando il Legislatore intese elevare la preterizione di
uno dei legittimari a causa di nullità dell’attribuzione anticipatoria della
successione, lo disse espressamente [131].
Le conclusioni di cui sopra non coincidono con i
risultati dell’analisi svolta da quella dottrina che, sostenendo l’essenziale
bilateralità del negozio in oggetto, ha affermato che il patto si
perfezionerebbe esclusivamente con l’accordo della parte che compie
l’assegnazione e della parte che l’assegnazione riceve, mentre il coniuge e gli
ulteriori legittimari del disponente andrebbero sempre e comunque ritenuti
terzi, anche nel caso in cui gli stessi dovessero partecipare all’atto [132].
Ora, se è vero che la partecipazione di tali soggetti al patto di famiglia può
far difetto, per le ragioni sopra illustrate, è altrettanto vero che la novella
non sembra voler porre i legittimari partecipanti al patto su di un piano
diverso rispetto a quello dei destinatari dell’azienda o delle quote. Non
appare infatti sostenibile la tesi secondo cui l’utilizzo del verbo
«partecipare» denoterebbe l’ «intervento ad una entità fenomenica già
completamente formatasi ad opera di altri, cui ontologicamente appartiene» [133].
Il rilievo è infatti smentito dal testo della disposizione codicistica di
riferimento in materia di contratto plurilaterale (art. 1420 c.c.), ove il
termine impiegato per denotare la posizione di ciascuno dei soggetti di tale
contratto – posti tutti, evidentemente, su di un piede di esatta parità – è
proprio il sostantivo «partecipazione».
Ne consegue che è da escludersi che ai legittimari non
assegnatari competa la posizione di terzi quando costoro, come previsto
dall’art. 768-quater c.c.,
partecipino al patto di famiglia. La loro veste sarà invece quella di vere e
proprie parti del contratto che, per effetto della loro presenza, andrà
qualificato come plurilaterale. Peraltro, non postulando la legge, come si è
detto, la necessaria partecipazione di questi soggetti, potrebbero darsi casi
di patto di famiglia aventi una struttura meramente bilaterale (quando, cioè,
in atti compaiano il solo genitore disponente ed il figlio destinatario
dell’attribuzione dell’azienda o delle partecipazioni sociali), ovvero
plurilaterale (con la partecipazione, quindi, di uno o più degli altri
legittimari, non assegnatari dell’azienda o delle partecipazioni societarie),
ancorché in assenza di tutti i legittimari esistenti e come tali titolati ad
essere soggetti del negozio, senza che ciò dispieghi effetti sulla validità del
medesimo, per le ragioni e con le conseguenze illustrate.
Le conclusioni sono del resto confermate dalla rubrica
dell’art. 768-sexies («Rapporti
con i terzi»), che qualifica «terzi» proprio e solo quel coniuge e quei
legittimari che non abbiano partecipato al contratto, così definitivamente
confermando che il termine «terzo» può essere qui impiegato esclusivamente in
relazione al fatto di avere o non avere sottoscritto il patto di famiglia, a
prescindere dalla posizione che si sia eventualmente assunta nel medesimo.
Ciò premesso, è chiaro che, dal punto di vista
pratico, l’effettiva partecipazione di tutti i legittimari alla stipula del
patto di famiglia consentirà a quel nucleo familiare, in sede di apertura della
successione, se non di evitare del tutto (viste le numerose incertezze che sul
piano ermeneutico l’istituto in esame pone), quanto meno di attenuare gli
inconvenienti e le diatribe legati alle pretese che costoro potrebbero far
valere. E’ dunque di tutta evidenza che il notaio dovrà prospettare tali scenari
ai propri clienti, raccomandando loro l’opportunità di convincere tutti i
potenziali contraenti a prendere parte effettiva al negozio.
Del tutto peculiare appare la posizione
del coniuge del disponente, quale soggetto che può trovarsi a perdere,
successivamente alla stipula del patto, la qualità di legittimario, non solo
per effetto di predecesso rispetto alla scomparsa del disponente, ma anche in
conseguenza di divorzio. Proprio per questo motivo la già ricordata proposta
elaborata dal gruppo di studio in tema di «Successione ereditaria nei beni
produttivi» non aveva incluso tale soggetto tra i legittimati a partecipare al
patto, attribuendo peraltro al (solo) coniuge superstite il diritto di ottenere
la liquidazione al momento dell’apertura della successione del disponente.
Da taluno [134]
si è sollevato l’interrogativo circa la sussistenza di un obbligo, in capo al
coniuge firmatario del patto, di restituire quanto eventualmente ricevuto, una
volta che il rapporto di coniugio dovesse venire meno per effetto della
cessazione degli effetti civili o dello scioglimento del matrimonio. Ma la tesi
favorevole all’esistenza di quest’obbligo sembra priva di fondamento normativo.
Le attribuzioni in esame posseggono
infatti una loro giustificazione ben precisa, riscontrabile non già nelle
disposizioni in tema di successione, ma nell’attribuzione inter vivos oggetto del patto di famiglia. Gli artt. 768-bis ss. c.c. non solo non prevedono
alcun obbligo di restituzione nel caso la qualità di legittimario dovesse
venire a cessare, ma danno chiaramente ad intendere che l’eventuale presenza,
all’atto del decesso del disponente, di un «parco legittimari» diverso da
quello esistente al momento della firma del patto, non costituisce in alcun
modo ragione di scioglimento del contratto. Tutto al contrario, all’apertura
della successione del disponente, il coniuge e gli altri legittimari che non
abbiano partecipato al negozio «possono chiedere ai beneficiari del contratto
stesso il pagamento della somma prevista dal secondo comma dell’articolo 768-quater, aumentata degli interessi legali»,
in base ad una norma (art. 768-sexies c.c.), che, come si avrà modo di vedere in seguito [135],
offre ai legittimari «terzi» solo l’alternativa tra la possibilità di aderire
al patto e quella di avvalersi degli strumenti ordinari a tutela della quota di
legittima, senza alcuna possibilità di impugnare il patto medesimo (a meno che,
una volta che il legittimario abbia aderito allo stesso, le altre parti non
adempiano all’obbligo di liquidazione previsto dalle norme citate) [136].
Se questo è vero, non si vede per quale ragione la
premorienza di uno dei legittimari rispetto al disponente dovrebbe determinare
il diritto degli altri partecipanti di chiedere agli eredi non discendenti del
premorto (si pensi al coniuge, in assenza di figli) la restituzione di quanto
ricevuto per effetto del patto da parte del legittimario predeceduto [137].
E lo stesso, naturalmente, vale anche per il coniuge che venga a cessare di
essere tale per effetto di divorzio dal disponente.
La conclusione di cui sopra riceve del resto conforto
anche dallo studio dell’evoluzione storica dell’istituto. Come si è visto, nel
sistema francese prenapoleonico era pacifico che, tanto nella démission de biens che nel partage d’ascendant, in caso di
premorienza di uno dei figli (privo di discendenti che potessero succedergli
per rappresentazione), le relative disposizioni divenissero inefficaci
relativamente a tale figlio premorto, con conseguente accrescimento delle
porzioni degli altri figli che avevano partecipato all’atto, con la conseguenza
che gli eredi non legittimari del figlio premorto non succedevano nei beni
attribuiti a quest’ultimo con la démission
o il partage [138].
Ma questo era il portato del carattere mortis
causa delle attribuzioni in discorso, direttamente connesso alla loro
revocabilità. Proprio per questa ragione, quando, come si è visto, con il Code Napoléon, la divisione d’ascendente
per atto tra vivi venne dotata del carattere dell’irrevocabilità, i primissimi
commentatori, dopo essersi interrogati sulla perdurante vigenza del principio
sopra illustrato, conclusero che, poiché il nuovo partage dava luogo a «un dessaisissement de la part du partageant,
de la portion assignée dans le partage à l’enfant prédécédé sans enfans»,
questa porzione non poteva più trovarsi nella successione dell’ascendente che
aveva effettuato inter vivos la
divisione: «elle compose la succession même de l’enfant prédécédé, ou au moins,
elle en fait partie, parce qu’il peut laisser d’autres biens» [139].
Tornando alla posizione peculiare del coniuge, da un
punto di vista meramente pratico, potrebbe aggiungersi che l’impatto effettivo
del dubbio sopra prospettato appare modesto, posto che, assai sovente (per lo
meno, avuto riguardo alle ipotesi paradigmatiche che la normativa sul patto di
famiglia intendeva disciplinare), è da presumere che il coniuge rinunzierà ad
ogni forma di liquidazione che, come noto, andrebbe posta a carico proprio di
quei discendenti che, con il patto, tanto il disponente che, con ogni
probabilità, il relativo coniuge, vorrebbero avvantaggiare.
Peraltro, in correlazione
con la più volte ribadita natura contrattuale del patto di famiglia e in
applicazione dei principi in tema di autonomia privata, si potrebbe ipotizzare
l’apposizione di una condizione risolutiva al patto di famiglia, in forza della
quale la partecipazione del coniuge al patto verrebbe meno in caso di suo divorzio,
con conseguente obbligo di restituzione di quanto eventualmente ricevuto.
La conclusione sembra
rafforzata dalle conclusioni cui la dottrina unanime perviene in caso di
donazioni tra coniugi. Non vi è infatti incertezza tra gli Autori sulla liceità
della donazione, sia obnuziale che in costanza di matrimonio, risolutivamente
condizionata alla pronunzia di divorzio: la condizione avente ad oggetto lo
scioglimento del matrimonio per divorzio (ma anche, è da ritenere, per
separazione legale o di fatto), invero, non può intendersi come divietante
quello scioglimento, quindi non è illecita. Essa non coarta una libertà
fondamentale e preziosa, né può ipotizzarsi costituisca una remora alla
richiesta di divorzio, vista la perdita del vantaggio conseguente alla donazione.
Più semplicemente, è il fatto in sé, eventuale e futuro, eletto a condizione,
ad operare in termini risolutivi [140].
Quanto sopra riceve del resto conferma dalla comparazione con l’ordinamento
tedesco, in cui si ammette la piena validità del negozio di trasferimento di un
bene mobile da un coniuge all’altro, con riserva di un Rückforderungsrecht für den Fall der Scheidung [141].
Un problema piuttosto delicato sembra
porsi con riguardo ad un eventuale secondo (o terzo, quarto e così via…)
coniuge, soggetto sicuramente «estraneo» alla compagine familiare che stipulò
il patto originario. Peraltro, quale legittimario «sopravvenuto», il nuovo
coniuge potrebbe aderire a quel contratto, con il consenso di tutte le altre
parti, che darebbero così luogo ad una modifica del patto iniziale, ex art. 768-septies c.c. In caso contrario, il nuovo coniuge potrebbe aderire
al patto al momento della morte del disponente: questa volta, però, anche
contro la volontà degli altri legittimari, ai sensi e per gli effetti dell’art.
768-sexies c.c.; in alternativa, egli
potrebbe però sempre valersi dei rimedi a tutela dei legittimari. Sarà bene
dire a questo punto che, secondo un’opinione [142],
il nuovo coniuge sarebbe legittimato a chiedere la somma ex art. 768-sexies c.c.
solo al coniuge precedente (o, è da ritenere, agli eredi di quest’ultimo, in
caso di suo predecesso). Ma la tesi contrasta, da un lato, con le conclusioni
sopra illustrate sulla definitività delle attribuzioni oggetto del patto e,
dall’altro, non spiega cosa succederebbe nell’ipotesi in cui il coniuge che
aveva partecipato al contratto avesse rinunziato ai diritti ex artt. 536 ss. c.c., ovvero si fosse
accontentato di una liquidazione in misura inferiore, magari di molto, al
dovuto.
E’ più che evidente che, in caso di
accordo tra tutte le parti, subito dopo le nuove nozze converrebbe procedere ad
una modifica del patto, con la partecipazione del nuovo coniuge che, aderendo
al contratto originario, potrebbe esprimere una rinunzia totale o parziale alla
liquidazione spettantele. D’altro canto, una volta celebrato il matrimonio, i
diritti di legittimario competenti al nuovo coniuge in relazione al patto
stipulato in epoca precedente non sono certo disponibili, se non con il
consenso di tale soggetto, che potrebbe quindi tranquillamente «rimangiarsi»
eventuali promesse di sottoscrivere l’accordo generosamente rilasciate in epoca
precedente alle nozze, magari al solo fine di ingraziarsi il «beneplacito» dei
figli del disponente alla celebrazione del nuovo matrimonio.
Come impedire, dunque, che il passaggio
del disponente a nuove nozze venga ad alterare l’equilibrio espresso dal patto?
Andrà subito detto che sembra difficile
ipotizzare la vincolatività di una promessa di adesione al patto (con rinunzia
totale o parziale ai propri diritti) rilasciata dal futuro coniuge in epoca
precedente alle nozze. Se, invero, da un lato, si potrebbe propendere per la
validità di una simile «prova d’amore» richiesta dal disponente (e, forse, più
di lui, dai suoi discendenti), configurando la fattispecie alla stregua di un
contratto preliminare unilaterale [143],
dall’altro vi è da tener conto del fatto che anche per la stipula di un
preliminare di patto di famiglia sembra necessario che i soggetti posseggano,
già in quel momento, le qualità richieste dagli artt. 768-bis e 768-quater c.c.,
mentre non vi è dubbio che coniuge (e come tale, legittimario) sia solo colui
che ha celebrato le nozze e non certo il semplice promesso sposo. Per la stessa
ragione non sembra possibile ipotizzare, anche a prescindere dallo schema del
preliminare, un accordo (definitivo) di modifica del patto di famiglia
sottoscritto nei termini sopra indicati dal futuro coniuge e sottoposto alla
condizione delle future nozze, sebbene la considerazione di quanto accade con
riguardo alle convenzioni matrimoniali [144]
potrebbe forse fornire qualche elemento nel senso dell’ammissibilità (con
efficacia, ovviamente, condizionata non solo ex contractu, ma addirittura ex
lege, alla celebrazione del matrimonio). Così, se in qualche modo si
riuscisse a superare l’impasse legata
alla già evidenziata specialità delle disposizioni in commento, con conseguente
impossibilità di estensione analogica, si potrebbe immaginare una
legittimazione del futuro coniuge ad assumere un impegno preliminare in sede di
stipula di accordi prematrimoniali, anche se occorre ammettere che, de iure condito, la soluzione appare
difficilmente sostenibile.
Andrà poi anche scartata – cela va de soi – la via astrattamente
più idonea a garantire i figli dai rischi connessi ad «ardori senili» del
disponente, vale a dire l’impegno da parte di quest’ultimo, nel contesto del
patto di famiglia, a non sposarsi (o a non risposarsi, in caso di sopravvenuta
vedovanza o di divorzio). La nullità di un siffatto impegno per violazione
della regola d’ordine pubblico che tutela la libertà personale non potrebbe
essere evitata neppure tramite il ricorso ad una penale, la cui presenza altro
non farebbe se non confermare l’assunzione dell’impegno, di per sé radicalmente
nullo [145].
D’altro canto, la previsione di una condizione risolutiva del patto in caso di
celebrazione delle nozze, sicuramente valida, non varrebbe a soddisfare gli
interessi in gioco, ed anzi sarebbe foriera di conseguenze rovinose, poiché non
farebbe altro che determinare il ritorno allo status quo ante, con conseguente obbligo di restituzione anche
dell’azienda o delle partecipazioni societarie al disponente.
Appare quindi chiaro che il notaio
rogante dovrà sempre prospettare ai contraenti i rischi connessi alla
celebrazione di nuove nozze da parte del disponente, anche se tale fattispecie
dovesse presentarsi come del tutto improbabile al momento della stipula del
negozio (oltre che foriera di situazioni imbarazzanti, magari di fronte al
coniuge attuale!). Ma l’esperienza insegna che nessun mutamento di scenario
familiare (anche di quello apparentemente più stabile) può essere escluso in
partenza, per cui v’è da chiedersi, addirittura, se – a fronte delle
osservazioni sopra sviluppate – non sia consigliabile inserire nel patto di
famiglia un espresso impegno del disponente a garantire l’adesione di un
eventuale nuovo coniuge all’intesa, con rinunzia alla liquidazione. Tale
clausola potrebbe forse essere considerata alla stregua di una promessa dell’obbligazione
o del fatto del terzo (art. 1381 c.c.). Ne deriverebbe che, nel caso il terzo –
cioè il futuro coniuge, determinabile come soggetto ex post, in base alla scelta matrimoniale operata dal promittente –
non dovesse aderire al patto con rinunzia alla liquidazione, sorgerebbe in capo
al disponente l’obbligo di indennizzare gli altri contraenti, esposti alle
pretese del nuovo coniuge. Tale obbligazione potrebbe dunque transitare
(ancorchè, ovviamente, pro quota)
proprio in capo al nuovo coniuge, il quale potrebbe essere così dissuaso dal
far valere i suoi diritti relativamente a quel patto di famiglia, per non dover
poi rispondere come erede del disponente.
In ogni caso è indubbio che l’impegno così espresso
potrebbe avere una sua «vincolatività» sul piano morale, ancora di un certo
peso all’interno di determinate realtà familiari.
13. I soggetti del patto di famiglia: il disponente e
la qualità di imprenditore.
Il tenore letterale dell’art. 768-bis c.c. («…l’imprenditore trasferisce…») può far sorgere il dubbio
che una delle condizioni necessarie per la stipula di un patto di famiglia sia
costituita dal necessario possesso, in capo al trasferente, della qualità – in
alternativa alla titolarità di partecipazioni societarie – di imprenditore.
A ben vedere, però, il termine
«imprenditore» compare non solo nella norma citata, ma anche negli artt. 768-quater e 768-sexies c.c.: disposizioni, queste, dalle quali appare evidente
l’utilizzo di quell’espressione per designare comunque il disponente, visto che
nessuna menzione è fatta del «titolare di partecipazioni societarie». Ne esce
rafforzata l’impressione che il termine «imprenditore» sia utilizzato qui in
modo improprio e atecnico, con la conseguenza che il nuovo istituto sarà
applicabile anche alle ipotesi in cui il trasferente sia, sì, titolare
d’azienda (o di un ramo di essa), ma non sia qualificabile come imprenditore ex art. 2082 c.c. D’altro canto, la tesi
dell’inapplicabilità della normativa a ipotesi in cui
il trasferente sia proprietario dell’azienda, sebbene non imprenditore,
lascerebbe comunque insoddisfatti. Basti pensare all’esclusione che ne
deriverebbe nel caso di azienda affittata allo stesso discendente candidato
assegnatario della stessa [146].
Neanche per ciò che attiene, poi, al «titolare di partecipazioni societarie», la legge
richiede la qualifica di imprenditore. Del resto non
si reperiscono nel sistema indici sicuri e condivisibili che consentano di
limitare la disciplina a partecipazioni qualificate in senso quantitativo o
qualitativo, anche se che tali elementi avranno, probabilmente, un’influenza
pratica, nel senso che non sarà frequente il ricorso all’istituto in esame per
partecipazioni economicamente poco rilevanti.
In senso
contrario si è osservato [147] che considerare il patto di
famiglia estensibile a qualsiasi donazione di partecipazioni – e non già
limitato a quella donazione di quote/azioni che rappresentino la partecipazione
al capitale sociale della società nella quale il donante esplica la propria
attività imprenditoriale – consentirebbe di «rivestire con l’involucro del
patto di famiglia qualsiasi trasmissione patrimoniale». Così, se Tizio è
titolare di denaro, strumenti finanziari e immobili (cioè di «beni-patrimonio»,
non inerenti, in altri termini, all’esercizio di alcuna gestione
imprenditoriale), allora basterebbe conferire tali beni in una
società-cassaforte le cui quote siano poi fatte oggetto appunto di un patto di
famiglia. Questo approdo potrebbe apparire però eccessivo, avuto riguardo alla ratio della riforma, tesa a garantire la
sola trasmissione generazionale delle aziende. Ne conseguirebbe, quindi, che,
anche dal punto di vista oggettivo, partecipazione societaria oggetto del patto
potrebbe essere quella sola «partecipazione rilevante ai fini della gestione
dell’impresa» [148],
o che «assicuri il controllo su una azienda di famiglia» [149].
A questa impostazione, che già sembra prospettarsi come maggioritaria, si
può però agevolmente obiettare che, come rilevato da altri osservatori, risulta
enormemente difficile rinvenire una discriminante che, per ogni tipo di
società, in modo esaustivo valga a far discernere, nell’ambito delle
partecipazioni societarie, quelle dotate di apprezzabile peso nella cura
dell’attività sociale e quelle che, invece, ne siano sprovviste; ne consegue
pertanto che, per non sacrificare alle ragioni della disciplina successoria le
une, appare preferibile accettare l’eventualità che, del nuovo regime,
beneficino anche le altre [150].
Un indizio in questo senso pare del resto desumibile dalla Relazione al citato
progetto C/3870, in cui, a commento del proposto settimo comma dell’art. 734-bis
c.c. – a mente del quale le disposizioni del patto di famiglia si sarebbero
dovute applicare «anche alle
partecipazioni sociali» – si affermava che «Il settimo comma parifica alla fattispecie dell’assegnazione di azienda
quella di assegnazione di partecipazioni, in società di qualsiasi specie»
(corsivo d. a.). Sembra dunque doversi escludere che queste partecipazioni
debbano anche costituire lo strumento per l’esercizio, da parte del disponente,
dell’attività di impresa, di modo che il disponente possa anche qualificarsi
come imprenditore.
Dal
momento che nessun requisito viene richiesto in capo al trasferente
partecipazioni societarie, deve concludersi che la normativa potrà trovare
applicazione anche per il socio di minoranza e addirittura per il socio
«risparmiatore» o solo nudo proprietario.
Per contro, l’espressione usata dall’art. 768-bis c.c. («…trasferisce, in tutto o in
parte, l’azienda, (…) trasferisce, in tutto o in parte, le proprie quote…») può
far sorgere il dubbio che non possa essere oggetto del patto un diritto di
usufrutto sulle stesse partecipazioni [151].
Ad avviso di chi scrive, peraltro, la norma in esame – proprio avuto riguardo
al già sottolineato atecnicismo delle espressioni usate – ben può essere
estensivamente letta come facente riferimento al «titolare di diritti
(di ogni genere, purché disponibili), su aziende o rami d’azienda, nonché su
partecipazioni societarie». D’altro canto, proprio la riserva d’usufrutto
costituisce, anche alla luce della normativa novellamente introdotta, l’unico
sistema in grado di consentire all’imprenditore di riservarsi, usque ad vitae supremum exitum, il
controllo dell’impresa e pertanto (non solo il trasferimento del diritto
d’usufrutto, ma) anche il trasferimento della sola nuda proprietà potrebbe
ritenersi rientrare nella fattispecie in questione [152].
14. I soggetti del patto di famiglia: discendenti,
ascendenti e legittimari «potenziali».
Il più volte citato art. 768-bis c.c. prevede che i soggetti
destinatari del trasferimento dell’azienda o delle partecipazioni societarie
siano «discendenti». Ne consegue che non solo il
figlio, ma anche il discendente nipote o pronipote può essere beneficiario
delle attribuzioni in discorso, e ciò indipendentemente dall’eventuale
premorienza del suo ascendente, legittimario del disponente. Peraltro
quest’ultimo (cioè il diretto legittimario del disponente: vale a dire il padre
dell’accipiens, o il nonno, a seconda
che il destinatario del trasferimento sia, rispettivamente, nipote o pronipote
del disponente) dovrà necessariamente sottoscrivere il patto, come stabilito
dal successivo art. 768-quater, primo comma, c.c., ove si prevede
testualmente che al contratto debbano partecipare anche il coniuge e «tutti
coloro che sarebbero legittimari ove in quel momento si aprisse la
successione nel patrimonio dell’imprenditore» [153].
L’imprenditore, dunque, ben potrebbe decidere di trasferire
l’azienda (o la società di cui è «titolare») al nipote che nell’attività
manageriale abbia dato miglior prova del proprio padre, «saltando» così una
generazione nella titolarità e nell’amministrazione dell’impresa di famiglia
(ma, in tal caso, anche gli appartenenti alla «seconda generazione» dovrebbero
comunque partecipare, come legittimari del disponente, all’atto).
D’altro canto, la previsione dei soli discendenti esclude
la possibilità che il disponente possa valersi delle norme del patto per
trasferire azienda o partecipazioni societarie al coniuge o ai suoi fratelli [154],
o ai discendenti di costoro, o, ancora, agli eventuali ascendenti. La scelta è
stata giustificata come legata alla necessità di realizzare «un effettivo
passaggio generazionale nella gestione dell’impresa» [155],
anche se tale ratio non sembra in
grado di spiegare la motivazione dell’inestensibilità del patto al passaggio
zio-nipote o prozio-pronipote. Rimane comunque in tal modo confermata un’antica
tradizione che, come si è visto, risale al diritto romano ed aveva ricevuto una
(quasi) costante applicazione nell’antico diritto francese [156].
Quanto sopra, naturalmente, non esclude che un trasferimento verso questi
soggetti avvenga, pur se con strumenti (e con effetti) diversi da quelli
descritti dagli artt. 768-bis ss.
c.c.
Se abbastanza chiara è
la situazione dei soggetti per quanto attiene ai destinatari dell’effetto
traslativo dell’azienda o delle partecipazioni societarie, maggiore incertezza
sussiste sul versante degli altri soggetti che, ex art. 786-quater c.c. debbono
pure partecipare al contratto, vale a dire «il coniuge e tutti coloro che
sarebbero legittimari ove in quel momento si aprisse la successione nel
patrimonio dell’imprenditore». Qui, in particolare, ci si pone il problema se
al contratto debbano (o, quanto meno, possano) partecipare anche gli ascendenti del disponente,
posto che costoro non rientrano nel novero dei
soggetti che «sarebbero legittimari
ove in quel momento si aprisse la successione», ma che potrebbero
diventarlo nel caso di premorienza dei discendenti.
Sul punto
si può registrare anche un «piccolo giallo», certamente dovuto alla
disattenzione ed all’approssimazione con la quale il Legislatore ha messo mano
ad una materia tanto delicata.
Nella
relazione alla citata proposta di legge C/3870 si precisa testualmente,
infatti, che «possono partecipare
inoltre al contratto coloro che potrebbero divenire legittimari a seguito di
modificazioni dello stato familiare dell’imprenditore (ad esempio, gli
ascendenti in caso di scomparsa o rinuncia all’eredità da parte di tutti i
discendenti, ovvero i discendenti di secondo grado in caso di premorienza o
incapacità a succedere o rinuncia dei figli), con il risultato di rendere il
contratto opponibile anche a costoro e di escludere il diritto di cui al sesto
comma» (ora art. 768-sexies, primo comma, c.c.). Alla luce di
questa osservazione si è affermato che gli ascendenti, se è vero che non devono
intervenire all’atto, potrebbero comunque parteciparvi. L’utilità di una loro
partecipazione potrebbe essere costituita dal fatto che essi potrebbero da
subito rinunziare ai diritti di legittima loro eventualmente spettanti in
futuro, evitando quindi una possibile eventuale futura ipotesi di impugnazione
dell’atto ai sensi dell’art. 768-sexies, secondo comma, c.c. [157].
Ora, sarà bene
chiarire che la frase appena citata, tratta dalla relazione alla proposta di
legge C/3870, si trova ad essere copiata di sana pianta dalla relazione al disegno di legge S/2799 della XIII legislatura, cui
faceva effettivamente riscontro, nell’articolato, una disposizione (art. 734-bis c.c.) che, al secondo comma,
stabiliva: «Al contratto devono partecipare anche i discendenti che sarebbero
legittimari ove in quel momento si aprisse la successione; possono
parteciparvi, ai soli effetti di cui al sesto comma, il coniuge
dell’imprenditore e coloro che potrebbero divenirne legittimari a seguito di
modificazioni del suo stato familiare». Peccato che siffatta disposizione non
sia stata, invece, riprodotta nel progetto C/3870 (della XIV legislatura) e, di
conseguenza, neppure nella legge oggi vigente. Il citato inciso della relazione
d’accompagnamento alla proposta di legge C/3870 non si può spiegare, dunque, se
non come una svista dei proponenti, atteso che la partecipazione di
«potenziali» legittimari non era prevista da alcuna disposizione di
quell’articolato, così come non è prevista nelle norme oggi in vigore.
Non solo. Siffatta partecipazione deve ritenersi
esclusa dal fatto che, nell’art. 768-quater,
primo comma, c.c., vengono richiamati soltanto coloro che sarebbero legittimari
«ove in quel momento» si aprisse la successione nel patrimonio
dell’imprenditore. Ogni partecipazione «eventuale» di altri soggetti, anche di
quelli che potrebbero essere legittimari a seguito di modificazioni dello stato
familiare del disponente, è impedita dal già ricordato carattere eccezionale
(rispetto al divieto ex art. 458
c.c.: cfr. la modifica a tale disposizione introdotta dall’art.
Per concludere sul punto potrà dirsi che appare del
resto criticabile l’osservazione contenuta nella relazione alla proposta di legge C/3870, secondo cui la partecipazione al
contratto di coloro che «potrebbero
divenire legittimari a seguito di modificazioni dello stato familiare
dell’imprenditore (ad esempio, gli ascendenti in caso di scomparsa o rinuncia
all’eredità da parte di tutti i discendenti, ovvero i discendenti di secondo
grado in caso di premorienza o incapacità a succedere o rinuncia dei figli)»
sarebbe utile al fine di «rendere il contratto opponibile anche a costoro e di
escludere il diritto di cui al sesto comma» (ora art. 768-sexies,
primo comma, c.c.). Tale ultimo diritto, invero, sembra comunque da escludersi,
a prescindere dalla partecipazione al contratto. I legittimari «sopravvenuti»
cui fa richiamo oggi l’art. 768-sexies,
primo comma, c.c. non possono invero essere quelli divenuti tali per premorte
del loro dante causa, legittimario del disponente (per intenderci, quelli cui
fa richiamo l’art. 536 ult. cpv., c.c.), bensì – come si avrà modo di vedere [158]
– solo quelli direttamente legittimari del disponente medesimo: dal nuovo
coniuge, al figlio (del disponente) nato, riconosciuto o dichiarato
successivamene al patto, a quello che comunque, benchè già in vita al momento
del patto, non vi avesse in qualche modo partecipato.
Ai discendenti, invece, dei figli
legittimi e naturali, cui l’art. 536 ult. cpv. c.c. riserva i medesimi diritti
che competono ai figli legittimi e naturali del disponente, il patto è comunque
opponibile, posto che essi succedono iure
repraesentationis e pertanto si trovano nella medesima situazione del loro
dante causa, cui il diritto verso il disponente era a suo tempo già stato
(ovviamente: solo per la parte relativa all’oggetto del patto) liquidato, o che
a tale diritto aveva rinunziato. In altre parole, i discendenti predetti non
potrebbero mai ritenersi «terzi» rispetto al patto, posto che i diritti dagli
stessi vantati sono per l’appunto «gli stessi» (così, infatti, si esprime il
citato art. 536, ult. cpv., c.c.) già vantati dal soggetto da essi rappresentato:
le limitazioni (o addirittura, le eventuali esclusioni, vuoi per effetto di
iniziale rinunzia, vuoi per successiva estinzione determinata dall’intervenuto
adempimento dell’obbligo di liquidazione) di tali diritti varranno dunque, tali
quali, nei riguardi dei discendenti del rappresentato, sia nel caso di sua
rinunzia all’eredità, che di sua premorienza rispetto al disponente [159].
Come il rappresentato non avrebbe potuto pretendere alcunchè alla morte del
disponente sui beni oggetto del patto, per avere egli già ricevuto
soddisfazione, così i suoi discendenti non potranno vantare per tale peculiare
titolo alcuna pretesa.
Non sembra, infine, condivisibile
l’affermazione secondo cui la disciplina ex
artt. 768-bis ss. c.c. non sarebbe
applicabile nel caso di inesistenza di legittimari diversi dall’assegnatario [160].
Invero, l’eventualità che legittimari possano sopravvenire (per la nascita di
un figlio o la celebrazione di nozze), alla luce della disposizione dell’art.
768-sexies c.c., deve indurre a
ritenere che il patto sia liberamente stipulabile tra il solo disponente e
l’assegnatario. In tale accordo le parti dovranno pertanto fissare il valore
dell’attribuzione, fermo restando che gli eventuali legittimari sopravvenuti
potranno aderire al patto stesso, ovvero rimanerne estranei, senza in tal modo
dover subire alcuna eventuale conseguenza pregiudizievole [161].
Sempre rimanendo sul versante dei
profili soggettivi del patto, avuto riguardo a quanto disposto dall’art. 768-quater
c.c., gli
interpreti si sono chiesti se al negozio possa attribuirsi natura
personalissima, necessitante, in quanto tale, della presenza personale delle
parti. Al riguardo, si è affermato che, per ciò che attiene al disponente,
avendo la relativa attribuzione carattere donativo, ad intervenire nel patto
dovrebbe essere il solo trasferente, potendosi unicamente discutere sulla
ammissibilità di un semplice nuncius [162].
Quanto agli altri partecipanti, la soluzione del problema risulterebbe invece
meno scontata: la definizione anticipata della trasmissione dell’azienda e/o delle
partecipazioni, quale delineata dal legislatore, presenterebbe invero profili
negoziali e patrimoniali non diversi da quelli che emergono normalmente in sede
di successione. Pertanto, come accade in questa, non sarebbe a priori da escludere che uno dei
partecipanti al patto non intervenga personalmente, salvo il rispetto delle
regole generali in materia di rappresentanza volontaria e legale (forma della
procura e autorizzazioni richieste) [163].
Ad avviso dello scrivente conservano,
tutto al contrario, piena validità per il patto di famiglia le considerazioni
sviluppate oltre un secolo fa dal Polacco in relazione alla divisione
d’ascendente per atto tra vivi: «Altra questione è se l’ascendente possa
effettuare la divisione per mezzo di un procuratore. E’ ovvia la negativa per
la divisione testamentaria, non potendosi dare testamenti fatti per procura. Il
contrario deve dirsi della divisione per atto tra vivi», posto che «dare un
mandato di dividere non è abdicare il diritto che la legge accorda all’ascendente,
è anzi un modo di esercitarlo» [164].
Le
conclusioni di cui sopra sono confortate dalla considerazione della natura
contrattuale (e non già testamentaria) del patto. Se è vero come è vero che
proprio la scelta di concludere (o meno) a mezzo rappresentante un contratto
costituisce una tipica forma di manifestazione dell’autonomia privata [165],
non si vede per quale ragione, in assenza di disposizioni in senso contrario,
tale esercizio di libertà contrattuale dovrebbe ritenersi inibito.
Per analoghe ragioni
deve concludersi nel senso dell’ammissibilità – quanto meno in linea di massima
– della stipula del patto da parte del legale rappresentante dell’incapace o
con l’intervento del curatore del semi-incapace. A tal riguardo, va ricordata
l’eliminazione, nel testo definitivo della legge, della disposizione di cui al
disegno di legge C/3870-A/XIV, che prevedeva l’introduzione di un art. 768-ter c.c. del seguente tenore: «Il
contratto può essere concluso dal rappresentante legale dell’incapace»;
disposizione, questa, che deve evidentemente essere stata ritenuta superflua.
Secondo quanto correttamente rilevato in dottrina, l’importanza e la portata,
anche economica, degli effetti del patto di famiglia inducono a ritenere che
l’atto vada inquadrato tra quelli di straordinaria amministrazione, per il
compimento dei quali la legge richiede la «necessità o utilità evidente» e la
preventiva autorizzazione giudiziale [166].
Ciò vale, naturalmente, per tutti i soggetti coinvolti nel patto, a cominciare
dal disponente. Ne deriva che, sebbene a costui non sia applicabile l’art. 774
c.c., per effetto della negazione della natura donativa del patto [167],
sarà comunque problematico riconoscere l’esistenza di una situazione di
necessità o utilità evidente in un atto dispositivo, che, per il disponente (in
ipotesi, appunto, incapace o semi-incapace), appare essenzialmente a titolo
gratuito [168].
Per quanto attiene
invece alla posizione dei destinatari del trasferimento dell’azienda o delle
partecipazioni societarie, ovvero ancora degli altri legittimari, che si
trovino eventualmente in situazione di incapacità o semi-incapacità, ulteriore
quesito da risolvere è se tra costoro ed i rispettivi rappresentanti legali (o
i curatori assistenti) ricorra o meno un conflitto di interessi.
Qui, sebbene la già
più volte illustrata non riconducibilità del patto di famiglia alla figura
della donazione [169]
non consenta una meccanica trasposizione dei principi elaborati in tema di
donazioni da parte del (o dei) legali rappresentanti, e in particolare dei
genitori [170],
resta il fatto che il problema sembra porsi in termini assai analoghi, per
quanto attiene, in particolare, ai rapporti tra destinatario del trasferimento
d’azienda o delle partecipazioni societarie (incapace o semi-incapace), da un
lato, e disponente, dall’altro.
Aderendo pertanto alla
tesi che, per la donazione, appare preferibile, secondo cui «il carattere
gratuito della donazione ed il vantaggio che essa offre, almeno in via di
regola, per il donatario escludono che si profili un conflitto d’interessi tra
donante e donatario» [171],
dovrà escludersi tale situazione, in linea di principio, in relazione al
trasferimento dell’azienda o delle partecipazioni sociali: trasferimento che,
pur non possedendo il carattere donativo, ha comunque natura di attribuzione
gratuita. Peraltro, avuto riguardo all’imprescindibile dualismo proprio di ogni
contratto, con riguardo alla posizione del minore, analogamente a quanto
suggerito dalla tesi preferibile (ancorchè rigettata dalla giurisprudenza, che
ravvisa qui un conflitto d’interessi in capo ad entrambi i genitori), la
rappresentanza del minore dovrebbe concentrarsi in capo all’altro genitore, ai
sensi dell’art. 317, comma primo, c.c., mentre, nell’ipotesi di rifiuto o di
impossibilità dell’altro genitore così come nel caso in cui donante sia il
genitore che esercita in via esclusiva la potestà, dovrebbe trovare
applicazione l’art. 321 c.c. [172].
Se però l’altro
genitore è un legittimario (ciò che del resto appare costituire la regola: non
sarebbe questo il caso se costui fosse, invece, convivente more uxorio del disponente), la sussistenza di un obbligo ex lege a carico del destinatario
dell’attribuzione di procedere alla liquidazione verso gli altri legittimari –
unitamente alla possibilità che l’entità di tale liquidazione non corrisponda
alla quota stabilita dagli artt. 536 ss. c.c. [173]
– viene a porre un conflitto di interessi anche nei confronti dell’altro
genitore, con conseguente necessità di ricorso al giudice per la nomina di un
curatore speciale affinché intervenga nella stipulazione del patto di famiglia.
Nel caso di rinuncia
totale alla liquidazione da parte del genitore, coniuge del disponente, il
conflitto d’interessi verso il figlio destinatario dell’azienda o delle
partecipazioni societarie dovrebbe ritenersi escluso, a meno che non si intenda
aderire ad una nozione di conflitto anche solo potenziale, secondo
l’interpretazione suggerita dalla giurisprudenza di legittimità, ancorchè in
fattispecie non esattamente coincidenti con quella in esame [174].
La già ricordata inapplicabilità della normativa in tema di donazione dovrebbe
invece escludere le ragioni che hanno portato, relativamente all’atto ex artt. 769 ss. c.c., parte della
dottrina e della giurisprudenza [175]
ad affermare sempre e comunque la sussistenza di un conflitto di interessi
anche in capo al genitore non donante, per via dell’obbligo alimentare che
dalla donazione nasce in capo al donatario: un obbligo che però, nel caso del
patto di famiglia, dovrebbe ritenersi insussistente. Sono del resto certamente
escluse nel patto di famiglia quelle conseguenze successorie (si pensi
all’obbligo di collazione ed alla riducibilità delle donazioni: cfr., per
quanto attiene al patto, quanto disposto dall’art. 768-quater, ult. cpv., c.c.), che pure potrebbero indurre a ravvisare
un quanto meno potenziale conflitto d’interessi verso il genitore non donante,
nel caso di donazione dall’altro genitore al figlio minore [176].
Naturalmente il
trasferimento dell’azienda, o di partecipazioni societarie comportanti l’acquisto
dello status di imprenditore in capo
all’incapace o al semi-incapace necessita di apposita autorizzazione per la
continuazione dell’esercizio dell’impresa commerciale (cfr. artt. 320, quinto
comma, 371, n. 3, 397, 424, 425, 2198 c.c.) [177].
Volgiamo ora
l’attenzione alla situazione dell’incapace o del semi-incapace che intervengono
semplicemente quali legittimari (non destinatari del trasferimento dell’azienda
o delle partecipazioni societarie). In tal caso, provenendo l’attribuzione non
già dal genitore, ma dal destinatario dell’azienda o delle partecipazioni
societarie, il conflitto sembra ravvisabile nella sola ipotesi in cui
quest’ultimo sia per ipotesi anche legale rappresentante o curatore del
destinatario della liquidazione: si pensi al caso in cui il disponente abbia un
figlio imprenditore, in favore del quale soltanto viene trasferita l’azienda,
ed un altro figlio interdetto, di cui il fratello imprenditore sia tutore. Qui,
in effetti, avuto riguardo al carattere sinallagmatico del rapporto (la liquidazione
si incrocia, infatti, con l’effetto rinunziativo proprio del patto di famiglia
verso possibili pretese successorie a titolo di riduzione o collazione), ed
attesa la possibilità che la determinazione comporti anche valori diversi da
quelli reali, con rinunzie totali o parziali, la presenza di un conflitto
d’interessi va riconosciuta, con conseguente necessità di nomina dell’apposito
curatore.
La novella, oltre a non occuparsi delle
situazioni di incapacità, non disciplina il caso dell’esistenza di una
situazione di amministrazione di sostegno. Al riguardo si potrà però tenere
presente che, ai sensi delle novità introdotte dalla l. 9 gennaio 2004, n. 6,
nel caso di amministratore di sostegno, il soggetto assistito conserva una
capacità negoziale generale, salvo che per gli atti espressamente indicati nel decreto di nomina, che
l’amministratore di sostegno ha il potere di compiere in nome e per conto del
beneficiario (art. 405 n. 3)
c.c.); oppure per gli atti che il beneficiario può compiere solo con
l’assistenza dell’amministratore di sostegno (art. 405 n. 4) c.c.). Si deve
ritenere quindi, che il soggetto assistito, come conserva la capacità
matrimoniale e quindi la capacità di partecipare al contratto di matrimonio e
di stipulare convenzioni matrimoniali [178],
così conservi anche la capacità di stipulare il patto di famiglia, salva
diversa disposizione da parte del giudice tutelare. Tale diversa disposizione
ben potrebbe però essere ravvisata nel fatto che il decreto di nomina preveda,
anche genericamente, la necessità di assistenza per tutti gli atti eccedenti
l’ordinaria amministrazione, che potranno pertanto essere compiuti solo con
l’assistenza dell’amministratore di sostegno. Ancora, tale diversa disposizione
potrebbe intervenire ad hoc, su
istanza dell’amministratore di sostegno o del soggetto interessato, secondo
quanto deciso dalla giurisprudenza di merito, relativamente alla promozione di
un giudizio di separazione personale ed alla partecipazione in esso [179].
Per concludere il tema dei soggetti,
potrà ricordarsi che il già sottolineato rifiuto della tesi che vede nel patto
di famiglia una donazione porta inevitabilmente anche ad escludere
l’applicabilità dell’art. 784 c.c. Ne consegue che nel novero dei partecipanti
al contratto (a qualsiasi titolo: sia come destinatari dell’azienda o delle
partecipazioni sociali, sia quali destinatari delle liquidazioni in denaro o in
natura) non potranno ritenersi inclusi i soggetti nascituri, siano essi
concepiti o non ancora concepiti.
I profili oggettivi
dell’istituto
L’oggetto dell’attribuzione del disponente è descritto dall’art. 768-bis c.c. come un trasferimento che
investe «in tutto o in parte, l’azienda», o «in tutto o in parte, le (…) quote»
del «titolare di partecipazioni societarie». Si tratta dunque di un effetto
reale, che investe il diritto di proprietà [180]
sui beni descritti dalla disposizione citata, che ben potrebbe essere preceduto
da un obbligo di tipo meramente preliminare. Nulla osta, infatti, nel sistema,
a che si possa ipotizzare, con il rispetto, ex art. 1351 c.c., della
medesima forma prescritta dalle norme in commento, un preliminare di patto di
famiglia, consistente nell’impegno tra i medesimi soggetti avente ad oggetto
l’obbligo di stipulare un contratto definitivo qualificabile come patto di
famiglia, sempre che in esso le relative, future, prestazioni siano esattamente
delineate, con la predeterminazione non solo dell’attribuzione del disponente,
ma anche dei diritti competenti ai legittimari partecipanti all’atto. Inutile
dire che la conclusione di cui sopra dovrebbe essere invece negata, se si
dovesse accedere alla tesi che configura il patto di famiglia alla stregua di
una donazione [181]:
conclusione, questa, peraltro a suo tempo confutata [182].
In base alla sicura applicabilità della disciplina generale del
contratto, non contraddetta in parte qua
da elementi normativi in senso contrario, dovrà pure ammettersi che l’efficacia
del patto nel suo complesso, così come anche del solo effetto reale, possano
essere sottoposti a termine o a condizione. Così, ad esempio, le parti potranno
prevedere che l’effetto traslativo dell’azienda o delle partecipazioni
societarie si produrrà solo nel momento in cui i destinatari di siffatte
attribuzioni avranno interamente liquidato le quote degli altri legittimari,
secondo le stime previste in contratto, oppure che la nascita di un nuovo
legittimario determinerà automaticamente il venir meno degli effetti del patto.
Come si è già avuto modo di vedere trattando della possibilità di prevedere
l’obbligo della restituzione di quanto ricevuto dal coniuge in caso di divorzio
[183],
termini e condizioni possono apporsi anche all’efficacia delle singole
partecipazioni dei vari contraenti. Del resto, è noto che anche la possibilità
di dare ingresso, nell’atto negoziale, alle ragioni individuali per cui esso è
compiuto, arricchendo la trama degli elementi imposti dalla legge con
l’aggiunta di elementi accidentali costituisce sicuramente una tipica forma di
espressione del principio di autonomia privata [184],
cui il patto di famiglia, pur nei limiti indicati, si ispira.
Venendo ai possibili beni oggetto dell’effetto reale, il primo
interrogativo concerne l’azienda. Trattandosi qui di un complesso di beni
dotato, come noto, del carattere di universitas,
ci si chiede se il patto possa rigurdare anche solo singoli beni aziendali. Sul
punto il richiamo alla ratio della
riforma – tesa, come si è ampiamente visto [185],
a conciliare il diritto dei legittimari
con l’esigenza di assicurare continuità all’impresa, garantendo «la dinamicità
degli istituti collegati all’attività di impresa, assicurando la massima
commerciabilità dei beni nei quali si traduce giuridicamente l’attività stessa:
l’azienda, nella quale si realizza l’impresa individuale, e le partecipazioni
sociali nelle quali si concretizza l’impresa collettiva, quella svolta cioè in
forma societaria» – sembra indurre a
circoscrivere l’espressione «in parte» al solo caso della cessione di ramo
d’azienda.
Dovrà trattarsi, dunque, di una parte
dell’azienda che di quest’ultima riproduca, in scala più o meno ridotta, tutte
le caratteristiche e che possegga un grado di autonomia tale da poter essere
gestita separatamente dal corpo principale. In proposito sarà possibile
ricorrere al concetto di ramo d’azienda, come elaborato con riguardo al
disposto dell’art. 2112 c.c., nel testo successivo alle modifiche di cui alla
l. 2 febbraio 2001, n. 18 , in
applicazione della direttiva CE n. 98/50.
Così, per ramo d’azienda
dovrà intendersi ogni entità economica organizzata in maniera stabile la quale,
in occasione del trasferimento, conservi la sua identità: il che presuppone una
preesistente realtà produttiva autonoma e funzionalmente esistente, e non anche
una struttura produttiva creata ad hoc, in occasione del trasferimento,
o come tale identificata dalle parti del negozio traslativo [186].
D’altro canto – purché si tratti di un insieme di elementi produttivi
organizzati dall’imprenditore per l’esercizio di un’attività, che si presentino
prima del trasferimento come una entità dotata di autonoma ed unitaria
organizzazione, idonea al perseguimento dei fini dell’impresa e che conservi
nel trasferimento la propria identità – potrà ammettersi anche un trasferimento
aziendale che abbia ad oggetto anche solo un gruppo di dipendenti stabilmente
coordinati ed organizzati tra loro, la cui capacità operativa sia assicurata
dal fatto di essere dotati di un particolare know how (o, comunque,
dall’utilizzo di copyright, brevetti, marchi etc.), realizzandosi in
tale ipotesi una successione legale di contratto non bisognevole del consenso
del contraente ceduto, ex artt. 1406 ss. c.c. [187].
Requisito indefettibile
resta comunque, anche in siffatte ipotesi, l’elemento della organizzazione,
intesa come legame funzionale che rende le attività dei dipendenti appartenenti
al gruppo interagenti tra di esse e capaci di tradursi in beni o servizi ben
individuabili, configurandosi altrimenti la vicenda traslativa come cessione
del contratto di lavoro, richiedente per il suo perfezionamento il consenso del
contraente ceduto [188]. Cessione di ramo d’azienda
potrà poi anche aversi, sempre rispettando le caratteristiche di cui sopra,
anche nel caso in cui il nuovo titolare
debba eventualmente integrare l’insieme dei beni trasferiti con ulteriori
fattori produttivi, a patto che i beni mancanti non siano tali da alterare
l’unità economica e funzionale del complesso aziendale: come rilevato già
diversi anni fa dalla Cassazione, non basta «che i beni conferiti abbiano fatto
parte di una azienda, ma è altresì necessario che essi, per le loro
caratteristiche e il loro collegamento funzionale, rendano possibile lo
svolgimento di una specifica impresa» [189].
Fermo restando quanto sopra, si può convenire con chi
ha affermato che non sembrano sussistere limiti all’autonomia privata nel
configurare l’oggetto del trasferimento di azienda e le relative pattuizioni.
Conseguentemente, sarà legittimo, ad esempio, escludere dal trasferimento i
crediti e debiti aziendali preesistenti, o, nei limiti consentiti dall’art.
2558 c.c., i contratti aziendali; potrà essere liberamente pattuito il
trasferimento o meno di ditta, insegna, marchi, brevetti, singoli beni mobili
ed immobili facenti parte del complesso, alla sola condizione che permanga
l’idoneità produttiva ed organizzativa del complesso dei beni costituenti
l’azienda ai fini della continuazione dell’attività d’impresa [190].
Nel caso l’azienda afferisca ad una impresa ex art. 230-bis c.c., l’art. 768-bis
c.c. impone che il trasferimento avvenga «compatibilmente con le disposizioni
in materia», per l’appunto, di impresa familiare. Ora, anche senza assegnare all’istituto
la qualifica di donazione, sembra potersi affermare che il carattere gratuito e
liberale dell’attribuzione in discorso escluda che in capo ai partecipanti
all’impresa familiare sorga il diritto di prelazione sull’azienda trasferita (ex artt. 230-bis, quinto comma, 732 c.c.) [191],
il quale, per sua natura spetta solo a fronte di contratti a titolo oneroso [192].
Sorge a questo punto l’interrogativo sul significato dell’inciso appena citato.
In proposito è stato correttamente osservato che il riferimento alla disciplina
dell’impresa familiare può essere interpretato alla stregua di una deroga di
quanto disposto dal primo comma dell’art. 230-bis c.c., nel senso che quanto attribuito ai legittimari non
assegnatari non deve costituire corrispettivo dell’attività da loro svolta
nell’ambito dell’impresa familiare e comunque non deve integrare una
partecipazione agli utili dell’impresa od agli incrementi dell’azienda
proporzionale alla quantità e qualità del lavoro prestato [193].
D’altro canto, determinando comunque il patto una alienazione dell’azienda, il
titolare dovrà procedere a liquidare preventivamente i familiari che
collaborano nell’impresa, secondo quanto previsto dal quarto comma dell’art.
230-bis c.c.
Per quanto attiene invece alle partecipazioni societarie, occorre
prendere atto della circostanza che il Legislatore non ha ritenuto di
introdurre alcuna distinzione, per cui la norma sarà applicabile anche alle
c.d. «società di godimento» [194],
nelle quali non si ha esercizio
organizzato di attività economica [195],
pur con tutti i problemi di validità che le medesime possono suscitare alla
luce del disposto dell’art. 2248 c.c.: norma, del resto, facilmente eludibile e
quotidianamente elusa mediante «società di comodo», costituite mediante la
fittizia enunciazione, nel contratto costitutivo, dell’intento di esercitare
una data attività di impresa [196].
Un indizio in questo senso pare del resto desumibile dalla Relazione al citato
progetto C/3870, in cui, a commento del proposto settimo comma dell’art. 734-bis
c.c. – a mente del quale le disposizioni del patto di famiglia si sarebbero
dovute applicare «anche alle partecipazioni sociali» – si affermava che
«Il settimo comma parifica alla
fattispecie dell’assegnazione di azienda quella di assegnazione di
partecipazioni, in società di qualsiasi specie» (corsivo d. a.). La
considerazione viene qui a toccare un punto assai delicato, poiché è chiaro che
la più volte ricordata ratio della riforma, volta a proteggere i soli
beni «nei quali si traduce giuridicamente l’attività d’impresa» potrà venire agevolmente aggirata mediante la
costituzione di società di comodo, il cui scopo non sia altro se non quello di
consentire il trasferimento di beni non aziendali (si pensi, ad esempio, al
caso di proprietà immobiliari).
Sempre rimanendo in tema di determinazione della prestazione del
disponente, comuni alle attribuzioni tanto d’azienda che di partecipazioni
societarie sono le osservazioni circa la necessità (desumibile dal
dovere di liquidazione di cui all’art. 768-quater c.c.) di una valutazione
concordata e quindi definitiva dell’azienda o delle partecipazioni oggetto del
trasferimento [197].
Ciò sembra
trovare conferma dall’art. 768-sexies c.c., che presuppone, ai fini della liquidazione dei
legittimari non intervenuti nel patto, che il rinvio allo stesso consenta con
precisione e chiarezza la possibilità di individuare la somma agli stessi
dovuta, dando per scontato così che il patto chiaramente individui il valore
dell’azienda o delle partecipazioni sociali su cui calcolare la somma
(corrispondente alla quota di legittima rapportata a tale valore) dovuta agli
assegnatari secondo i criteri della legittima. Tale valutazione risulterà
pertanto vincolante per i suddetti legittimari non stipulanti il patto, con la
conseguenza che, se questi ultimi decideranno di aderirvi, si vedranno
attribuito il diritto di essere liquidati proprio in relazione a tale valore,
con il solo riconoscimento degli interessi legali [198].
Da quanto
sopra deriva che si dovrà avere cura, nella stesura del patto, qualora la somma
concordata a favore dei non assegnatari non coincida con la loro legittima, sia
per difetto (per rinuncia parziale), sia per eccesso, di evidenziare tutto ciò,
dovendosi presumere altrimenti che quanto liquidato corrisponda alla legittima,
con le conseguenze evidenziate [199].
Nel caso non vi sia alcuna liquidazione, il notaio, ad avviso dello scrivente,
dovrà curare l’inserimento di una rinunzia espressa. L’inciso «ove questi non vi rinunzino in tutto o in parte»
sembra infatti presupporre, per l’essenza stessa del patto, una chiara manifestazione
di volontà da parte dei legittimari, e pertanto, mentre da una liquidazione
determinata può ricavarsi per implicito, tramite il raffronto con il valore
dichiarato, una rinunzia implicita alla differenza, assai più difficile appare
desumere dal silenzio la presenza di una rinunzia totale ad ogni diritto
derivante dal patto.
Per ciò che attiene, poi, al profilo
traslativo, va ricordato che l’art. 768-bis c.c. richiede che la
convenzione rispetti le «differenti tipologie societarie». Al riguardo si è
rimarcato che tale previsione assume una diversa connotazione nelle società di
persone e nelle società di capitali. Nelle prime, la cessione di una quota
sociale rappresenta una fattispecie modificativa del contratto sociale che, in
assenza di una diversa pattuizione, deve essere approvata da tutti i soci
all’unanimità (art. 2252 c.c.). Solo per la quota del socio accomandante l’art.
2322 c.c. prevede che il trasferimento sia approvato dalla maggioranza dei soci
che rappresentano la maggioranza del capitale sociale. Ne consegue che il patto
di famiglia potrà trovare attuazione solo qualora sia stato preventivamente
acquisito il consenso unanime dei soci o della maggioranza degli stessi nel
caso previsto dall’art. 2322 c.c. oppure vi sia nei patti sociali una clausola
di libera trasferibilità tra vivi della quota [200].
Nelle società di capitali, il trasferimento di una
partecipazione sociale non costituisce modifica dell’atto costitutivo e, in
generale, l’anzidetta partecipazione è liberamente trasferibile, in assenza di
un’espressa previsione statutaria [201].
Qualora tuttavia i patti sociali prevedano limiti alla trasferibilità, oppure
una clausola di gradimento, la conclusione del patto di famiglia (nel caso di
clausole limitative al trasferimento) deve essere sottoposta al rispetto di
detti limiti e (nel caso di clausola di gradimento) richiede la preventiva
acquisizione del placet da parte degli organi sociali [202].
18. L’oggetto dell’attribuzione del disponente.
Costituzionalità della limitazione all’azienda e alle partecipazioni
societarie. Il caso della divisio
inter liberos coinvolgente beni diversi
dall’azienda o dalle partecipazioni societarie.
Si è già
avuto modo di mettere in luce come il patto di famiglia possa avere ad oggetto
solo i beni descritti dall’art. 768-bis
c.c., con esclusione, pertanto, di qualsiasi altro tipo di bene. La conformità
a Costituzione di siffatta scelta normativa è stata argomentata in sede di
lavori preparatori, rilevandosi in proposito che l’art. 3 della Carta
Fondamentale «consente trattamenti differenziati in presenza di situazioni
diverse», mentre «oggetto del patto di famiglia è l’azienda, la quale per la
sua funzione economica – che trova un’apposita tutela nel principio espresso
dall’articolo 41 della Costituzione – si distingue rispetto agli altri beni,
mobili o immobili, che possono essere oggetto di successione. Conseguentemente
la diversa disciplina dell’azienda rispetto agli altri beni che costituiscono
l’asse ereditario giustifica il diverso regime giuridico cui essa può essere
sottoposta» [203].
Ha
peraltro destato perplessità nei primi commentatori la circostanza che la legge
non abbia previsto l’ipotesi forse più frequente nella pratica: cioè quella del
genitore che, mentre attribuisce ad alcuni figli l’azienda (o un ramo di essa,
o le partecipazioni sociali), agli altri trasferisca altri tipi di beni [204].
Ed effettivamente, tale fattispecie non viene in alcun modo disciplinata dalla
legge.
D’altra
parte la deroga al divieto di patti successori è prevista limitatamente al solo
patto di famiglia, così come disciplinato dagli artt. 768-bis ss. c.c., per cui un’interpretazione che coinvolga nella
disciplina dello stesso altri beni, pur se funzionali al patto, non sembra
conforme alla lettera della novella; né, tanto meno, sembra ipotizzabile nella
specie il ricorso all’estensione analogica, di fronte al carattere eccezionale
delle norme in discorso: carattere reso evidente dal già evidenziato rapporto
dialettico regola-eccezione rispetto al principio generale ancora contenuto nell’art.
458 c.c. [205].
Ne segue che, nel patto di famiglia, l’autonomia negoziale, pur
indiscutibilmente presente, in quanto legata alla natura contrattuale
dell’atto, non potrà spingersi al di là dei limiti sopra indicati. Essa potrà
quindi muoversi esclusivamente nel perimetro dell’interpretazione estensiva [206],
ma non potrà certo colmare le vistose lacune di questa normativa abborracciata,
mediante l’unico procedimento ermeneutico astrattamente idoneo all’uopo, cioè
appunto, l’analogia, vietata ogni qualvolta ampliare spazi alla negozialità
delle parti significherebbe porre in essere un patto successorio dai contenuti
più ampi di quello (malamente) delineato dagli artt. 768-bis ss. c.c.
Se,
dunque, non potrà qualificarsi come patto di famiglia l’attribuzione con la
quale un soggetto operi una divisio inter
liberos per atto tra vivi, disponendo immediatamente [207]
il trasferimento dell’azienda (o di partecipazioni sociali) nei confronti di
uno o più discendenti, immediatamente e contestualmente cedendo beni diversi
agli altri legittimari, non può neppure escludersi, almeno in linea di
principio, che i due negozi possano di fatto coesistere, magari «fisicamente»
contenuti nel medesimo rogito, nel senso che potremo avere un patto di famiglia
per il primo profilo e una donazione per il secondo. Del resto non si
dimentichi che la possibilità che un unico rogito notarile contenga più «negozi
giuridici» (sì: questa volta al Legislatore è proprio scappata l’espressione
che il codice aveva inteso evitare con tanta cura!) è esplicitamente concessa
dall’art. 17, l. 27 febbraio 1985, n. 52
[208].
Il
genitore A che si trovi ad essere coniugato con B e ad avere come figli C e D
ben potrà dunque, in unico atto, trasferire la sua azienda a C, contestualmente
donando altri beni a B e a D. D’altro canto, nulla osta a che, a fronte
dell’attribuzione dell’azienda dal genitore al figlio C e di altri beni a B e a
D, questi ultimi dichiarino di rinunziare alla liquidazione che competerebbe
loro per effetto del trasferimento dell’azienda al solo figlio C. Ovviamente la
disattivazione delle tutele dei legittimari potrà valere solo per il primo
negozio, per cui i rapporti potranno risultare, alla fine, «disequilibrati»,
pur in presenza di attribuzioni di pari valore. Peraltro, il «vantaggio riducibile»
attribuito a B e D (visto che il valore dell’azienda trasferita a C non potrà
più venire in considerazione nella riunione fittizia ai fini del calcolo della
legittima, come si avrà modo di vedere [209])
potrebbe annullarsi o scemare, per effetto di successive donazioni o
disposizioni testamentarie, questa volta a favore del solo C.
L’oggetto
della prestazione dei destinatari dell’azienda o delle partecipazioni
societarie è descritto come segue dall’art. 768-quater cpv. c.c.: «Gli
assegnatari dell’azienda o delle partecipazioni societarie devono liquidare gli
altri partecipanti al contratto, ove questi non vi rinunzino in tutto o in
parte, con il pagamento di una somma corrispondente al valore delle quote
previste dagli articoli 536 e seguenti; i contraenti possono convenire che la liquidazione,
in tutto o in parte, avvenga in natura».
Fermo
restando quanto chiarito nel paragrafo precedente, circa l’impossibilità di un
utilizzo del patto di famiglia per operare una divisio inter liberos con
assegnazione di beni diversi dall’azienda o dalle partecipazioni societarie, ne
segue che nel caso (tutt’altro che infrequente) in cui il figlio imprenditore
non possegga i beni o il denaro necessari per operare la liquidazione dei
diritti spettanti agli altri legittimari, si potrà ipotizzare un intervento da
parte del disponente che, in alternativa, doni denaro e/o beni vuoi al figlio
imprenditore, vuoi direttamente agli altri legittimari. Per ciò che attiene
alla prima ipotesi si sono esattamente poste in luce in dottrina le
controindicazioni fiscali del doppio trasferimento, nel caso in cui, per
l’appunto, il genitore intendesse donare all’assegnatario il denaro e/o i beni
necessari perché costui effettui la liquidazione del dovuto agli altri
legittimari [210].
Ma ancora
più sconcertanti appaiono i risvolti sul piano civilistico: queste attribuzioni
gratuite, invero, non sono definibili se non come donazioni e pertanto sono
soggette a collazione (salvo che il donante, magari consigliato all’uopo dal
notaio, escluda tale effetto, peraltro nel rispetto del disposto dell’art. 737
cpv. c.c.), nonché a riduzione, a differenza di quanto stabilito per i beni
aziendali o per le partecipazioni sociali. L’esperimento dell’azione di
riduzione potrà essere evitato (per lo meno: a condizione che non intervengano
alterazioni successive, per effetto di donazioni o disposizioni testamentarie
lesive della legittima) mediante una donazione di denaro in parti uguali a
tutti i legittimari. A questo punto i discendenti assegnatari dell’azienda o
delle partecipazioni potranno utilizzare la loro parte per liquidare gli altri
legittimari. Tale sequenza, se risulta corretta dal punto di vista normativo,
incontra delle possibili controindicazioni fiscali, trattandosi – come già
evidenziato – di doppio trasferimento, avuto altresì riguardo al fatto che,
come pure si è già avuto modo di dire, il trasferimento da parte
dell’assegnatario a favore degli altri legittimari è qualificabile quale
trasferimento oneroso [211].
Nel caso invece in cui il disponente
provvedesse egli stesso alla liquidazione della quota in favore degli altri
legittimari, si potrebbe configurare una donazione indiretta a favore
dell’assegnatario dell’azienda o delle partecipazioni societarie, in base al
principio secondo cui l’adempimento del debito altrui costituisce, per
l’appunto, liberalità indiretta, se eseguito animo donandi [212],
cui non sarebbero, con ogni probabilità, applicabili le norme che escludono
l’esenzione da collazione [213]
e da riduzione, non rientrando siffatta operazione nello schema negoziale delineato
dagli artt. 768-bis ss. c.c. [214].
Al riguardo vi è, anzi, da chiedersi, se tale ipotesi consenta di ritenere
ancora valido il patto di famiglia. A ben vedere, però, non sembrano esistere
ragioni per escludere che l’adempimento di quanto dovuto dagli assegnatari
dell’azienda o delle partecipazioni ai non assegnatari possa essere effettuato
da un terzo (si pensi ai nonni, che, come
si è visto, ad avviso dello scrivente non sono parti del contratto) o
addirittura da parte dello stesso disponente. Se è vero, infatti, che l’art.
768-quater c.c. stabilisce che «Gli
assegnatari dell’azienda o delle partecipazioni societarie devono liquidare gli
altri partecipanti al contratto, ove questi non vi rinunzino in tutto o in
parte, con il pagamento di una somma corrispondente al valore delle quote
previste dagli articoli 536 e seguenti…», è altrettanto vero che questa
disposizione si limita a prevedere un’obbligazione a carico di quei soggetti,
senza escludere l’intervento di altri. Ne segue che quell’obbligazione, secondo
le regole generali, ben potrà essere soddisfatta da un soggetto diverso (cfr.
art. 1180 c.c.), tanto più se le parti saranno (come prevedibile) d’accordo. Quanto sopra non sembra possa snaturare il patto di
famiglia, né comunque porre problemi di validità dello stesso [215].
Il
pagamento da parte del terzo o del disponente non costituisce patto
successorio, per il semplice fatto che il pagamento non è un contratto. Ma,
anche a prescindere dalla diatriba sulla natura negoziale o meno del pagamento,
esso non sarebbe comunque ascrivibile alla categoria dei negozi contemplati
dall’art. 458 c.c., non disponendosi di diritti rientranti in una successione.
Per questa stessa ragione non si vedono ostacoli alla stessa partecipazione del
terzo (il disponente, è invece, ovviamente, parte necessaria del negozio)
all’atto, quale soggetto che – pur non essendo parte del patto di famiglia –
corrisponda la liquidazione gravante sugli assegnatari dell’azienda o delle
quote sociali.
Ciò che può apparire problematica è l’estensione
dell’art. 768-quater ult. cpv. c.c.
al caso della liquidazione operata dal disponente [216].
La disposizione stabilisce che «Quanto
ricevuto dai contraenti non è soggetto a collazione o a riduzione». Ad avviso
dello scrivente, diversa è la risposta a seconda che consideriamo i legittimari
che hanno ricevuto tale liquidazione, da un lato, e gli assegnatari
dell’azienda o delle partecipazioni societarie, dall’altro, nei confronti dei
quali, come si è detto, la liquidazione operata dal disponente ha la natura di
donazione indiretta.
Per ciò che attiene ai
primi, già rimanendo sul terreno dell’interpretazione letterale sembra
possibile far rientrare nella citata dizione normativa quanto ricevuto dai
legittimari non destinatari dell’azienda o delle partecipazioni sociali, visto
che l’accento è posto dalla legge, per l’appunto, su «quanto ricevuto», anche
se tale pagamento è stato effettuato, anziché dai cessionari dell’azienda o
delle partecipazioni, dal disponente.
Diversa è la
conclusione per quanto attiene invece agli assegnatari dell’azienda o delle
partecipazioni societarie. Qui, a ben vedere, l’arricchimento conseguito da
costoro per effetto della donazione indiretta (effettuata dal disponente)
dipende dal versamento di una somma di denaro che, in realtà, non è stata
«ricevuta» da loro (essendo stata ricevuta, invece, dagli altri legittimari),
per lo meno nel senso in cui tale espressione va intesa nella norma in oggetto.
Inoltre non sembra esservi dubbio sul fatto che questa donazione indiretta, se
dovesse ritenersi «coperta» dall’art. 768-quater
c.c., e dunque non soggetta a collazione né a riduzione, verrebbe a violare il
divieto dei patti successori, in quanto il suo trattamento alla stregua
dell’atto di trasferimento dell’azienda o delle partecipazioni societarie si
scambierebbe pur sempre con il consenso prestato dagli altri legittimari alla
loro liquidazione, con l’effetto di inibire, per il tempo successivo alla morte
del disponente, l’esercizio delle azioni a tutela dei legittimari medesimi. Ne
deriva che tale attribuzione dovrà ritenersi sottoposta tanto a collazione che
a riduzione.
Come si è detto per il
caso del pagamento da parte del disponente o del terzo
di quanto dovuto a titolo di liquidazione da parte degli assegnatari,
così pure l’eventuale ipotesi di un pagamento rateizzato o differito nel tempo
(magari collegato ad un effetto sospensivo dell’efficacia del trasferimento
dell’azienda o delle partecipazioni societarie) appare compatibile con la struttura
del patto di famiglia, né comunque sembra in grado di porsi
in contrasto con norme imperative.
Al
riguardo potrà dirsi che, sebbene il testo dell’art. 786-quater, secondo comma, c.c., sembri presupporre la contestualità
della liquidazione, offrendo solo l’alternativa che al denaro possano, su
accordo dei partecipanti, sostituirsi beni in natura, il comma successivo del
citato articolo ammette espressamente la possibilità di un contratto di
assegnazione che, anche se strettamente collegato al primo, può concludersi in
un momento successivo. Appare dunque ragionevole supporre che tale concessione
all’autonomia privata contenga in sé anche la previsione della possibilità di
un pagamento della somma rappresentante la liquidazione dei diritti dei legittimari
in forma dilazionata, o rateizzata [217].
L’adempimento
differito, dal canto suo, se da eseguirsi in natura, si configurerà come
negozio traslativo di adempimento [218],
del quale, a beneficio della certezza – e prescindendo dalle divergenti opzioni
espresse, in generale, con riguardo ai negozi a causa esterna [219] e alla fenomenologia
delle prestazioni isolate [220] – l’art. 768‑quater, terzo comma, c.c.
postula come necessaria l’expressio
causae. Come già accennato, non può del resto neppure escludersi
l’ipotesi di un trasferimento differito, ma ad efficacia reale, nel senso che
la vicenda traslativa (sia dell’azienda o delle partecipazioni societarie, che
della liquidazione in natura dei diritti dei legittimari) si operi
automaticamente allo scadere di una certa data o al verificarsi di un
determinato avvenimento futuro ed incerto.
D’altro
canto, è anche ipotizzabile che le parti concludano un accordo novativo con il
quale l’obbligazione pecuniaria venga sostituita con un’obbligazione avente ad
oggetto un bene diverso dal danaro, ovvero che gli obbligati (cioè gli
assegnatari) adempiano la loro prestazione originariamente prevista in denaro
mediante datio in solutum,
trattandosi di diritti pacificamente disponibili [221]. In tal caso, trattandosi di istituti di
carattere generale, non sembra richiesta la partecipazione all’accordo di tutti
i soggetti del patto, bensì solo del debitore e del creditore della prestazione
in discorso.
Uno dei quesiti
attinenti alla liquidazione delle quote dei legittimari non assegnatari dell’azienda
o delle partecipazioni societarie concerne la possibilità che i partecipanti al patto concordino l’attribuzione a favore
dei non assegnatari di somme di denaro (o beni) di ammontare minore o maggiore
rispetto a quanto corrisponda al risultato matematico legislativamente
previsto.
La prima
ipotesi è sicuramente autorizzata dal richiamo dell’art. 768-quater cpv. c.c. alla possibilità che i
legittimari rinunzino «in tutto o in
parte» ai loro diritti. La questione sarà semmai quella di vedere se tale
rinunzia (totale o parziale, a seconda dei casi) possa darsi per implicita nel
caso in cui la liquidazione in loro favore (pur partecipando gli stessi,
ovviamente, al contratto) sia, rispettivamente, assente o inferiore rispetto al
dovuto. Ora, anche avuto riguardo alla già ricordata necessità che il valore
della prestazione del trasferente sia specificato, appare necessario che la
rinunzia totale risulti formulata in maniera chiara ed è quanto meno opportuno
che lo stesso accada per la rinunzia parziale [222].
Per quanto attiene, invece, alla liquidazione
di somme superiori, si è correttamente affermato [223]
che sembra difficile dire che si fuoriesca in tal caso dall’istituto, e che appaia
più logico sostenere che anche questa ipotesi possa considerarsi protetta dalla
disciplina di cui alla legge. Al riguardo si è rimarcato che, come può
rientrare nella disciplina del patto di famiglia la liquidazione a favore dei
non assegnatari di somma inferiore a quella astrattamente determinabile, non si
vede ragione di escludere dagli effetti ed opportunità dischiuse dall’istituto
un accordo che preveda una liquidazione più generosa a favore dei non
assegnatari. L’esigenza di stabilità e certezza del trasferimento che
l’istituto cerca di soddisfare sussiste e va soddisfatta anche di fronte a
questa evenienza [224].
Sempre
secondo il cennato avviso, la disposizione in forza della quale quanto
attribuito ai non assegnatari è imputabile alla loro legittima (sia pure al
valore concordemente stimato al momento di detta assegnazione), come stabilito
dall’art. 768-quater, terzo comma,
c.c., sembrerebbe delineare una fattispecie che può realizzarsi proprio sul
presupposto che quanto dato ai non assegnatari del bene impresa non corrisponda
esattamente al risultato del calcolo automatico indicato dalla legge. La
previsione di un rilievo di quanto liquidato dall’assegnatario dell’azienda o
delle quote societarie agli altri legittimari ai fini del computo della legittima
sul rimanente patrimonio del disponente sembrerebbe dare per scontata la
possibilità che, in realtà, sia stato attribuito qualcosa di più di quanto
possa risultare dal calcolo che la legge impone come obbligatorio [225].
Ma è
chiaro che questo ragionamento potrebbe essere rovesciato. L’imputazione cui si
riferisce la norma in oggetto grava sui non assegnatari a prescindere dal fatto
che il valore determinato sia esattamente corrispondente alla quota sui beni
aziendali o sulle partecipazioni. E dunque anche nel caso in cui tale valore
risulti inferiore (e magari di molto) a quello reale. Inoltre, come si avrà
modo di vedere, ciò che appare contestabile è il punto di partenza stesso di
siffatta argomentazione: vale a dire che l’imputazione alle quote di legittima
di cui all’art. 786-quater, terzo
comma, c.c. si riferisca alle quote di legittima del residuo patrimonio del
disponente e non già solo a quelle – come sembra più logico, se si considera il
contesto in cui la norma si colloca – relative all’azienda o alle
partecipazioni societarie [226].
Malgrado
questa obiezione, sembra doversi comunque concludere per l’ammissibilità di una
liquidazione in misura superiore a quella prevista per legge. L’istituto
giuridico di riferimento è, come si è detto più volte, quello contrattuale, per
cui, in assenza di una disposizione proibitiva, è la regola dell’autonomia
negoziale che deve trovare espressione, magari con l’ulteriore ausilio del già
ricordato procedimento di interpretazione estensiva delle norme in tema di patto
di famiglia. Peraltro, dal momento che le attribuzioni di cui qui si parla
provengono non già dal disponente, ma dai destinatari dell’azienda o delle
quote, potrà porsi il problema della ravvisabilità, per la parte eccedente al
valore determinato ai sensi di legge, degli estremi di una liberalità da parte
di colui che effettua la liquidazione agli altri legittimari. Dovrebbe qui
trattarsi in particolare di una liberalità indiretta, poiché l’attribuzione è
causalmente «coperta» dal patto di famiglia, ma determina comunque un
arricchimento non previsto da tali disposizioni.
Chiudendo
sul punto sarà appena il caso di ricordare, a scanso d’equivoci, che la base di
calcolo della valutazione delle quote non sarà data dal patrimonio del
disponente nel suo complesso, ma dal solo valore della azienda (o del ramo di
essa) o delle partecipazioni cedute con il patto di famiglia [227].
Ai sensi dell’art. 768-quater,
cpv., seconda parte, c.c., «i contraenti possono convenire che la liquidazione,
in tutto o in parte, avvenga in natura». Al riguardo la dottrina si è chiesta
quale sia la valenza normativa di una disposizione che si limita a ribadire la
possibilità per le parti di novare
l’obbligazione pecuniaria: possibilità che già discende direttamente dal
principio di autonomia privata [228]. Ma all’osservazione potrebbe obiettarsi che
la novazione – sicuramente ammissibile – presupporrebbe comunque la conclusione
di un diverso e successivo negozio, laddove la legge consente qui direttamente,
nello stesso patto di famiglia, di prevedere la liquidazione in natura. Il
significato precipuo della norma viene dunque ad essere quello di autorizzare
l’impugnazione per errore anche per il caso di errore sul valore, non
solo dell’azienda o delle partecipazioni, ma pure del bene sostitutivo del
danaro: valore altrimenti (in via di principio) irrilevante [229].
Stabilisce poi l’art. 768-quater, terzo comma, seconda parte, c.c. che «l’assegnazione può essere disposta anche con
successivo contratto che sia espressamente dichiarato collegato al primo e
purché vi intervengano i medesimi soggetti che hanno partecipato al primo
contratto o coloro che li abbiano sostituiti». Si è sostenuto in proposito che,
poiché il bene oggetto del patto di famiglia è già trasferito definitivamente
in capo all’assegnatario, non è ravvisabile un patto successorio dispositivo.
Infatti i legittimari non assegnatari, ricevendo la liquidazione, alienano una
porzione della quota di riserva su un bene già uscito dalla massa ereditaria [230].
Proprio l’esclusione del carattere di patto successorio deve indurre
l’interprete ad ammettere l’estensione analogica della disposizione in oggetto
al caso, non previsto dalla norma, in cui con atto successivo sia effettuata
una liquidazione in denaro (ovvero anche in denaro) e non già mediante (o solo
mediante) l’assegnazione di beni.
In relazione alla disposizione in commento si rileva
altresì che il legislatore ha previsto un caso di collegamento negoziale [231].
Si tratta di un collegamento volontario e non necessario, poiché, malgrado sia
espressamente previsto dalla legge, la creazione del nesso, che accomuna i due
negozi, è affidata alla libera scelta delle parti. E’, inoltre, un collegamento
unilaterale, poiché il secondo negozio è subordinato e accessorio rispetto al
primo e ne segue la medesima sorte [232].
La fattispecie va collegata con quanto osservato
rispetto alla necessità che i legittimari, ove non liquidati, esprimano
chiaramente una rinunzia ai loro diritti, non essendo tale rinunzia desumibile
dal solo fatto che della liquidazione non sia fatta menzione. Ne segue che
l’ipotesi in oggetto presuppone necessariamente che le parti, nel patto di
famiglia, abbiano fissato e determinato il valore dell’azienda o delle
partecipazioni societarie, nel contempo rinviando ad un atto successivo non già
il mero adempimento della prestazione, esattamente determinata in contratto, a
favore dei legittimari (cosa peraltro, come si è già rilevato, sicuramente
ammissibile), ma la stessa liquidazione di tali diritti: liquidazione che, come
si è visto, potrebbe essere effettuata in misura più o meno ampia rispetto ai
criteri fissati dalla legge. Naturalmente, risponde all’interesse dei
legittimari che i criteri di tale liquidazione siano predeterminati nel patto
(e sarà quanto mai opportuno che il notaio inviti le parti ad effettuarla), ma
l’eventuale assenza di tali criteri – alla luce delle norme vigenti – non
sembra possa determinare la nullità del patto.
In definitiva, sul punto, potranno immaginarsi le
opzioni seguenti:
·
un patto di
famiglia che disponga la liquidazione in denaro e/o in natura, con immediato
pagamento del dovuto e/o immediata operatività [233]
dei trasferimenti della proprietà sui beni assegnati;
·
un patto di
famiglia che disponga la liquidazione in denaro e/o in natura, con previsione
di un pagamento rateizzato o differito della liquidazione in denaro [234]
e/o con previsione (con efficacia reale o obbligatoria) di un trasferimento
differito di tutti o alcuni soltanto dei beni eventualmente assegnati;
·
un patto di
famiglia che contenga una rinunzia parziale o totale alla liquidazione;
·
un patto di
famiglia contenente l’impegno delle parti a stabilire con successivo contratto
la liquidazione, in denaro e/o in natura, dei diritti dei legittimari, ferma
restando la valutazione dell’azienda o delle partecipazioni societarie effettuate
con il patto e con predeterminazione dei criteri cui ci si dovrà attenere in
sede di determinazione della liquidazione (ad es.: liquidazione pari alle quote
di legittima, o inferiore di x%, superiore di x%, ecc.);
·
un patto di
famiglia contenente l’impegno delle parti a stabilire con successivo contratto
la liquidazione, in denaro e/o in natura, dei diritti dei legittimari, ferma
restando la valutazione dell’azienda o delle partecipazioni societarie
effettuate con il patto, ma senza la predeterminazione dei criteri cui ci si
dovrà attenere in sede di determinazione della liquidazione. In tale ultimo
caso la liquidazione andrà effettuata in base al criterio fissato dall’art.
786-quater, cpv., c.c.
Sarà il caso di ribadire che il rigore
formale imposto dalla norma in esame per il contratto successivo, ed in
particolare il requisito della necessaria partecipazione di tutti i soggetti,
appare riferibile alle sole due ipotesi sopra elencate per ultime. In quella,
invece, in cui l’effetto differito investe il solo negozio di adempimento della
prestazione già predeterminata nel patto di famiglia, tale negozio richiederà
la sola partecipazione delle parti interessate (vale a dire, nel caso di
liquidazione in natura, il tradens e
l’accipiens).
Infine, non potrà concordarsi con la
soluzione di chi propone che l’autonomia della parti possa spingersi,
addirittura, ad una concorde decisione di non procedere in sede di patto di
famiglia alla determinazione del valore dell’azienda [235],
atteso che la voluntas legis sembra
diretta ad imporre una «cristallizzazione» del valore della quota al momento
della stipula del patto medesimo ed elevare tale determinazione ad elemento
costitutivo del negozio.
Venendo all’inciso relativo a «coloro che li abbiano
sostituiti», cioè che abbiano «sostituito» i legittimari non assegnatari
dell’azienda o delle partecipazioni societarie, si pone il problema se questi
soggetti possano essere, genericamente, gli eredi dei legittimari eventualmente
premorti. Ora, secondo
In definitiva, occorre convenire con la posizione di
chi rileva che la disposizione non può riferirsi a tutti gli eredi, ma solo a
coloro che abbiano assunto la qualifica di legittimari già spettante a quelli
che siano intervenuti nel patto [238].
In altri termini, il riferimento va qui inteso ai soggetti menzionati dall’art.
536, ult. cpv., c.c., che sono proprio quei legittimari che, pur non avendo
partecipato al patto, sarebbero agli effetti di quest’ultimo comunque vincolati
[239].
Sempre rimanendo in tema di liquidazione
dei diritti dei legittimari esclusi, si è affermato da una parte della dottrina
[240]
che questa liquidazione sarebbe una liberalità indiretta da parte
dell’assegnante. Ciò spiegherebbe il fatto che essa va attribuita alle quote di
legittima che i beneficiari vantano verso il disponente, nonché la dispensa da
collazione e imputazione.
In realtà, questi effetti sono legati
alle specifiche norme in tema di patto di famiglia ed all’interpretazione che
delle stesse si voglia dare [241],
mentre rimane il fatto che appare assai difficile scorgere una liberalità là
ove, come nel caso di specie, l’ «arricchimento» di chi riceve la liquidazione
s’incrocia con un ben preciso sacrificio da parte sua, consistente nella
rinunzia a far valere ogni pretesa che su quell’attribuzione dovesse nascere
sulla base delle norme a tutela dei legittimari. Sul punto non potrà farsi
rinvio se non alle considerazioni già svolte sul carattere eminentemente
oneroso di tale attribuzione [242],
ciò che evidentemente impedisce ogni possibile ricostruzione alla stregua di
una donazione indiretta.
Quanto sopra vale, a maggior ragione, in relazione ai legittimari che,
non avendo partecipato al patto, decidessero ai sensi dell’art. 768-sexies c.c. di aderirvi, una volta
aperta la successione. Qui tale adesione, atteso l’incontestabile diritto di
tali soggetti di non aderire al patto, ma di
avvalersi, ove lo preferiscano, delle tutele disposte dalle norme a
protezione dei legittimari, assume valore transattivo in relazione ad un
diritto ormai pienamente maturato nei loro confronti.
Ma questi temi vengono ad introdurre la trattazione delle conseguenze che
il patto dispiega in rapporto alla successione del disponente.
I rapporti con
23. Le
attribuzioni di cui al patto e la vicenda
successoria del disponente. Collazione, riduzione, riunione fittizia e
imputazione ex se. Le attribuzioni ricevute dai legittimari
non assegnatari.
E’ giunto il momento di esaminare quali
effetti le attribuzioni compiute in seno al patto di famiglia dispieghino sulla
vicenda successoria del disponente. Le norme che vengono in considerazione al
riguardo sono, in primo luogo, l’ultimo comma dell’art. 768-quater c.c., secondo cui «Quanto ricevuto dai contraenti non è soggetto a collazione
o a riduzione», nonché il terzo comma del medesimo articolo, per il quale «I
beni assegnati con lo stesso contratto agli altri partecipanti non assegnatari
dell’azienda, secondo il valore attribuito in contratto, sono imputati alle
quote di legittima loro spettanti».
Ora, il tenore letterale della prima delle due disposizioni
non sembra lasciare adito a dubbi sulla circostanza che non solo la liberalità
ricevuta dagli assegnatari, ma anche l’attribuzione compiuta a favore dei
legittimari esclusi, benefici dell’esenzione da collazione e riduzione [243].
D’altro canto, la seconda delle disposizioni in discorso (sull’imputazione dei
beni ricevuti dai legittimari non assegnatari delle rispettive quote di
legittima) sembra porsi in contraddizione con il sistema. Un sistema che, come
si è esattamente rilevato [244],
mostra, in primo luogo, di volere del tutto escludere che i beni assegnati con
il patto tornino in gioco, visto che ne impedisce l’assoggettamento a riduzione
e collazione, tenuto poi anche conto del fatto che, per regola comune,
all’esonero da collazione consegue anche quello da imputazione (cfr. art. 564, ult. cpv., c.c.), nonché, per
interpretazione corrente [245],
l’esonero dalla confluenza nella riunione fittizia. E d’altro canto proprio la
negazione del carattere donativo e liberale dell’attribuzione in favore dei
legittimari non assegnatari dell’azienda o delle partecipazioni societarie [246]
dovrebbe indurre ad escludere che costoro debbano procedere ad imputare ex se e a «conferire» nella riunione
fittizia quanto ricevuto a titolo di liquidazione: si pensi, ad esempio, a
quanto accade in relazione alle attribuzioni gratuite ricevute ex art. 770 cpv. c.c. «in occasione di
servizi resi o comunque in conformità agli usi», che, escluse da collazione e
da riduzione (cfr. artt. 742, terzo comma, 809 cpv. c.c.), non sono soggette
neppure alla riunione fittizia [247].
Come
interpretare, dunque, il terzo comma dell’art. 768-quater c.c., secondo cui «I
beni assegnati con lo stesso contratto agli altri partecipanti non assegnatari
dell’azienda, secondo il valore attribuito in contratto, sono imputati alle
quote di legittima loro spettanti»?
La necessità di
un’imputazione ex se in senso tecnico
è stata giustificata [248]
configurando le attribuzioni in discorso alla stregua di donazioni indirette
del disponente; ma, come si è cercato di dimostrare in precedenza [249],
il carattere di queste prestazioni può definirsi come tutt’altro che liberale.
D’altro canto, non andranno trascurati alcuni elementi testuali, quali il fatto
che la norma si riferisca, curiosamente, ai soli «beni assegnati» in natura e
non già alla liquidazione in denaro, nonché la stessa collocazione della
disposizione, che, anziché essere inserita nell’ultimo comma (dedicato alle
«ricadute successorie» del patto), segue immediatamente la concessione della
possibilità che i diritti dei legittimari siano soddisfatti, per l’appunto, in
natura e non in denaro.
Alla luce di quanto sopra sembra consentito prospettare una
lettura della disposizione che intenda l’espressione «sono imputati alle quote
di legittima» in maniera del tutto atecnica, cioè come riferita al fatto che,
se le parti concordano nell’attribuzione di beni, il valore di questi va
espresso in contratto ed è «imputato» – cioè riferito – all’importo
corrispondente alla quota del valore dell’impresa (o delle partecipazioni
societarie, qui rimaste nella penna del Legislatore…) espresso nel patto. Ne
consegue che, se ad esempio, il valore dell’azienda è 90 e la quota del
legittimario è 30 e se si attribuisce al predetto legittimario un bene del
valore di 20, l’assegnatario dell’azienda dovrà ancora corrispondere (in denaro
o in natura) la somma di
Da quanto detto deriva che quanto ricevuto dai legittimari
non andrà a comporre alcuna riunione fittizia, né dovrà essere imputato ex se al momento dell’apertura della
successione del disponente.
A questo punto si presenta un ulteriore problema, che investe
– questa volta – la necessità (o meno) che quanto ricevuto dagli assegnatari
dell’azienda o delle partecipazioni societarie confluisca nella riunione
fittizia e sia imputato ex se da
parte di costoro, sempre al momento dell’apertura della successione del
disponente.
Come messo in luce in dottrina [250],
lo sbarramento posto dall’esonero da riduzione e collazione, in aggiunta alla
constatazione che nella liquidazione del legittimari esclusi la legge non
prescrive di tenere conto di altre liberalità o lasciti provenienti dallo
stesso disponente, vale a tradurre la questione in quella di dover stabilire se
gli assegnatari dell’azienda o delle partecipazioni debbano, o meno, vedersi
conteggiare, a loro carico, il valore eccedente le quote di legittima, già
calcolate con esclusivo riferimento all’uno o agli altri cespiti, quale da essi
stessi acquisito in virtù del patto di famiglia.
In proposito si è
prospettato il seguente caso. Posto che l’azienda assegnata ad uno dei figli
dell’imprenditore sia del valore, quale calcolato all’epoca del patto, di 300 e che l’assegnatario abbia
liquidato all’altro fratello la quota di 100 (cfr. art. 537, cpv., c.c.), egli avrà contabilizzato, a suo favore, oltre
che il valore di 100, corrispondente alla sua quota di legittima, anche il
restante valore di ulteriori 100, corrispondente alla quota disponibile, quale
sempre ragguagliata al cespite assegnato. Ora il dilemma consiste proprio nel
decidere se, apertasi la successione, l’assegnatario debba anche imputare alla
sua quota di legittima quel residuo valore che pure ha effettivamente
conseguito nel suo patrimonio [251].
Sul punto non si può se non convenire
sulla constatazione per cui l’efficienza dell’impresa può anche richiedere, in aggiunta alla inamovibilità
dell’assegnazione, anche la stabilità dell’assetto economico quale
originariamente realizzato con il patto [252].
A ciò s’aggiunga che la cennata conclusione può desumersi per implicito dal
fatto che il Legislatore abbia escluso, per le attribuzioni di cui al patto,
l’azione di riduzione e la collazione. Tali esclusioni rendono evidente la voluntas legis di considerare le
attribuzioni in discorso del tutto sottratte ad ogni tipo di effetto
successorio, con un conseguente risultato di «sterilizzazione» di quella massa
rispetto al resto del patrimonio del disponente. Ciò in quanto la
determinazione dei rapporti dare-avere in base alle regole a tutela della
legittima è già avvenuta e si è esaurita al momento della conclusione del
patto.
Ci si può ricollegare qui al già presentato argomento [253]
circa l’indiscutibile intangibilità di un’eventuale rinunzia espressa dai
legittimari non assegnatari, anche di fronte al successivo tracollo
patrimoniale del disponente. Ne consegue che a siffatta irrilevanza, sulle
attribuzioni operate dal patto, dei mutamenti cui il patrimonio del disponente
può andare incontro dopo la stipula del patto medesimo, deve reciprocamente
corrispondere altrettanta irrilevanza delle attribuzioni operate dal patto
sulle «aspettative» dei legittimari circa il residuo patrimonio del disponente.
D’altra parte si è già visto [254]
che costituisce regola generale del diritto successorio che all’esonero da
collazione consegua anche quello da imputazione (cfr. art. 564, ult. cpv., c.c.), nonché
l’esonero dalla confluenza nella riunione fittizia.
Ne consegue che, a
prescindere dagli incrementi o decrementi patrimoniali del de cuius intervenuti dopo la stipula del contratto, al momento
dell’apertura della successione del disponente gli assegnatari dell’azienda o
delle partecipazioni avranno il diritto di vedersi calcolata la loro quota a
prescindere dalle attribuzioni ricevute con il patto. E ciò, si badi, non solo
con riguardo al valore della disponibile sull’azienda o sulle partecipazioni
oggetto del patto, ma con riferimento al valore complessivo delle attribuzioni
ricevute. Ne consegue dunque che, nell’esempio sopra riportato, l’assegnatario
non dovrà neppure contabilizzare, al momento della apertura della successione
del genitore, la somma di 100 corrispondente al valore della sua legittima su
quell’azienda.
Non sembra poi illogico pensare che, nel momento in cui i
legittimari decidono di aderire al patto, e ricevono la liquidazione (o vi
rinunziano), in tal modo rinunzino anche al diritto di chiedere che l’azienda o
le partecipazioni societarie siano fittiziamente riunite al relictum e al donatum e imputate ex se
dagli assegnatari al momento dell’apertura della successione del disponente. Ne
deriva che l’azienda e le partecipazioni societarie, trasferite con il patto,
rimangono in toto e per tutto il
relativo valore completamente scollegate dal restante patrimonio del de
cuius e che, in definitiva, il patto colloca i cespiti, che con esso
vengono assegnati, in una dimensione diversa rispetto a quella propria di ogni
altro cespite del disponente [255].
Sarà qui il caso di aggiungere che, avuto riguardo al più
volte ricordato principio della privity
of contract, anche questi effetti del patto rimarranno estranei ai
legittimari che non lo abbiano sottoscritto. Al momento dell’apertura della
successione, pertanto, i legittimari «terzi» potranno liberamente decidere se
aderirvi (con le conseguenze ex art.
786-sexies c.c.), così subendo anche
gli effetti del mancato computo
dell’azienda (o delle partecipazioni societarie oggetto del patto) nella
riunione fittizia e nell’imputazione ex
se da parte dell’assegnatario. In alternativa, costoro potranno decidere di
non aderire al patto e di invocare le norme a tutela dei legittimari. In tal
caso si procederà ad una determinazione della quota ad essi riservata, che sarà
però effettuata in maniera diversa rispetto a quella degli altri legittimari
che abbiano aderito al patto. Il fatto che si possa pervenire ad un calcolo
della legittima su basi diverse per questa categoria di legittimari rispetto
agli altri non deve destare stupore. Appartiene alla fisiologia del patto di
famiglia che i legittimari rimasti estranei al contratto non ne subiscano gli
effetti, con la conseguenza che, per loro, la riunione fittizia comprenderà
anche i beni trasferiti con il patto, mentre, solo nei loro rapporti, gli
assegnatari tali beni dovranno imputare ex
se. Per questi stessi legittimari non varrà poi neppure l’esenzione da
collazione e riduzione, per cui essi potranno agire ex artt. 553 ss. c.c.
Non vi è dubbio che questo risultato possa sembrare in
contrasto con la ratio della riforma,
tesa ad evitare il più possibile che il trasferimento dell’azienda o di
partecipazioni societarie possa essere successivamente attaccato dai
legittimari. Qui però, lo si ripete, si sta parlando di legittimari che al
patto non hanno aderito e le conseguenze di cui all’art. 768-sexies c.c. non sembra possano essere imposte
(come si vedrà, l’impiego del verbo «possono» in tal sede appare quanto mai
significativo [256])
a costoro in violazione del principio fondamentale espresso dall’art. 1372 cpv.
c.c.
Si è poi esattamente rilevato in dottrina che, quale sia il
grado di autonomia delle attribuzioni che vi vengono compiute, il patto di
famiglia è strumento in potenza suscettibile di avere ricadute anche sulle
donazioni precedentemente eseguite dal disponente, e così di ripercuotersi
anche a danno del terzi donatari del disponente o degli aventi causa da coloro
che, pure legittimari, abbiano ricevuto per donazione da quest’ultimo il bene
poi alienato. In effetti, l’esonero da riduzione delle attribuzioni liberali
realizzate con il patto potrebbe determinare il coinvolgimento di donazioni
precedenti che, in mancanza del patto, sarebbero invece rimaste fuori
discussione, così alterando l’ordine di riducibilità delle donazioni, che è
sancito dall’art. 559 c.c. e al quale l’ordinamento dedica particolare
considerazione, come si evince anche dall’art. 564, terzo comma, c.c., sebbene
non manchino eccezioni (cfr. ad es. art. 809 cpv. c.c.) [257].
25. I
legittimari sopravvenuti.
Il già ricordato art. 768-sexies c.c., rubricato «rapporti con i
terzi», disciplina il caso in cui all’epoca della effettiva apertura della
successione sopraggiungano altri legittimari. Tali soggetti «possono chiedere
ai beneficiari del contratto stesso il pagamento della somma prevista dal
secondo comma dell’art. 768-quater, aumentata degli interessi legali».
Da un punto di vista generale potrà rimarcarsi che la dizione della norma in
commento non sembra porre distinzioni tra legittimari rimasti «terzi» perché,
sebbene già esistenti, non abbiano sottoscritto per le più svariate ragioni
(dissenso, incapacità, assenza, irreperibilità) il contratto e legittimari
«terzi» perché nati (si pensi a figli sopravvenuti del disponente) o divenuti
(si pensi al nuovo coniuge o al figlio adottato) o riconosciuti (si pensi al
soggetto di cui sia stato dichiarato o riconosciuto il rapporto di filiazione
naturale o accertato il rapporto di filiazione legittima) quali legittimari
solo in epoca successiva alla stipula del negozio. Un corollario di tale
constatazione risiede nel fatto che, a fronte della predisposizione del rimedio
in esame, consistente nella possibilità che il legittimario sopravvenuto
aderisca al patto di famiglia, quest’ultimo, a prescindere dalla questione sulla
sua natura donativa (da chi scrive, peraltro, contestata, come si è visto), non
sarà comunque revocabile per sopravvenienza di figli [258].
Si è già avuto modo di chiarire che i legittimari sopravvenuti, cui fa richiamo l’art. 768-sexies, primo comma, c.c., non possono
essere quelli divenuti tali per premorienza del loro dante causa, legittimario
del disponente (quelli, cioè, cui fa richiamo l’art. 536 ult. cpv., c.c.),
bensì solo quelli direttamente legittimari del disponente medesimo: dal nuovo
coniuge [259],
al figlio (del disponente) nato, riconosciuto o dichiarato successivamene al
patto, a quello che comunque, benchè già in vita al momento del patto, non vi
avesse per qualunque ragione partecipato. Ai discendenti, invece, dei figli
legittimi e naturali, cui l’art. 536 ult. cpv. c.c. riserva i medesimi diritti
che competono ai figli legittimi e naturali del disponente, il patto è comunque
opponibile, posto che essi succedono iure
repraesentationis e pertanto si trovano nella medesima situazione del loro
dante causa, cui il diritto verso il disponente era a suo tempo già stato
(ovviamente: solo per la parte relativa all’oggetto del patto) liquidato, o che
a tale diritto aveva rinunziato.
Tornando agli effetti di quanto disposto
dall’art. 768-sexies cit., va
ricordato che il termine «possono»
di cui alla norma in commento è stato interpretato nel senso che sarebbe in
facoltà dei legittimari sopravvenuti chiedere ai beneficiari del patto di
famiglia una somma commisurata al valore della quota di legittima, solo qualora
all’apertura della successione non vi siano nell’asse ereditario altri beni sui
quali soddisfarsi [260].
Di questa regola però non vi è traccia nel testo normativo. Semmai l’impiego
del verbo «potere» fa sorgere il dubbio (da risolversi in modo positivo,
secondo chi scrive) che, per effetto del più volte ricordato principio della privity of contract, i legittimari
«terzi», non vincolati in modo alcuno al patto di famiglia, abbiano purtuttavia
il diritto di aderirvi, per effetto di una sorta di diritto di «opzione ex lege». Quanto sopra, naturalmente,
fermo restando che, in alternativa, la legge consente loro di valersi degli
ordinari strumenti a tutela dei legittimari.
Se è vero ciò che si è appena detto, l’espressione «possono chiedere…», di cui alla norma in commento, non
denota tanto il conferimento ai legittimari «terzi» di un potere d’azione, da
esercitarsi tramite l’esperimento di una procedura simile all’azione di
riduzione [261].
Essa indica, semmai, la presenza di una situazione in cui, come si diceva, i
terzi possono aderire al patto, mediante manifestazione di volontà unilaterale
(rivestita, è da presumersi, delle stesse forme previste per il patto di
famiglia), di adesione ad una sorta di «opzione ex lege». Solo nel caso di successivo inadempimento all’obbligo di
liquidazione, da parte degli altri contraenti, secondo quanto previsto dalla
norma, i legittimari già «terzi», ora parte del patto, potranno proporre azione
d’impugnazione ai sensi dell’ultimo capoverso dell’art. 768-sexies c.c. Naturalmente, come non ci si
stancherà mai di ripetere, i legittimari «terzi» potranno decidere di non
aderire al patto e dunque di valersi degli ordinari strumenti a tutela della
loro posizione.
In caso di adesione al
patto da parte dei legittimari sopravvenuti, a costoro compete il diritto di
chiedere «ai beneficiari del contratto stesso il pagamento della somma prevista
dal secondo comma dell’articolo 768-quater, aumentata degli interessi legali». Il diritto in oggetto
compete dunque nei confronti di tutti gli altri contraenti (diversi dal
disponente, che non è «beneficiario» di alcunchè) e quindi non solo degli
assegnatari. La somma, in base alla
norma richiamata, è quella «corrispondente al valore delle quote
previste dagli articoli 536 e seguenti». Posto quindi, che, come doveroso, sia
stato indicato nell’originario patto di famiglia il valore dell’azienda o delle
partecipazioni societarie, il quantum
dovuto ai legittimari sopravvenuti sarà determinato sulla base di quel valore.
Ciò a prescindere dal fatto che gli importi effettivamente riconosciuti e
corrisposti agli altri legittimari, per effetto di rinunzie totali o parziali,
o, al contrario, di atti di liberalità, sia stato diverso o addirittura pari a
zero.
Per effetto
dell’applicazione della regola generale in tema di obbligazioni con più
soggetti ex latere debitoris (cfr.
art. 1294 c.c.) dovrà affermarsi la natura solidale dell’obbligazione in
discorso [262].
Curiosa è poi la sanzione comminata per l’inadempimento dell’obbligo di
liquidazione, con il conferimento all’ex legittimario sopravvenuto del potere
di chiedere l’annullamento del contratto. Costituisce un’indubbia distonia del
sistema aver previsto, per un’alterazione del sinallagma funzionale, uno
strumento tipicamente diretto a porre rimedio alle alterazioni del sinallagma
genetico, quale, per l’appunto, l’azione di annullamento. Al riguardo si è
proposto che l’inciso «inosservanza delle disposizioni» vada inteso non già
come equivalente ad «inadempimento di obblighi» (quale sarebbe il mancato pagamento
del dovuto) e che lo stesso possa riferirsi a diversa fattispecie, cioè al
mancato funzionamento del sistema previsto dal secondo comma dell’art. 768-quater
c.c., dovuto a vizi quali,
ad esempio, l’imprecisione dell’aspetto valutativo [263].
Ma la tesi appare veramente troppo antiletterale. D’altro canto l’esistenza di
errori di valutazione potrà rilevare se ed in quanto sia il frutto di un vizio
del consenso, in relazione al quale l’azione di annullamento è già esperibile ex art. 768-quinquies c.c. Occorre dunque rassegnarsi all’idea che il
Legislatore, nella sua sovrana discrezionalità, ha fatto ricorso ad un’azione
attinente al piano della validità del negozio per sanzionare l’inadempimento di
quanto stabilito nel contratto.
Come per l’ipotesi «normale» di annullamento ex art. 768-quinquies
c.c. l’azione sarà disciplinata dagli artt. da
26. Lo
scioglimento del patto.
Ai sensi dell’art. 768-septies c.c. «Il contratto può essere sciolto o modificato dalle medesime persone che
hanno concluso il patto di famiglia nei modi seguenti:
1) mediante diverso contratto, con le medesime caratteristiche e i
medesimi presupposti di cui al presente capo;
2) mediante recesso, se espressamente previsto nel contratto stesso e,
necessariamente, attraverso dichiarazione agli altri contraenti certificata da
un notaio».
Non vi
è dubbio che il negozio diretto a
sciogliere o a modificare il patto di famiglia rientri nella stessa definizione
contenuta nell’art. 1321 c.c. [264],
ma le disposizioni qui in commento sono in gran parte (se si prescinde, cioè,
dalle raccomandazioni in tema di forma) superflue, atteso che, avuto riguardo
alla natura pacificamente contrattuale del patto di famiglia, risulta più che
evidente che un contratto possa essere sciolto per mutuo dissenso o modificato
da tutti i suoi contraenti (cfr. art. 1372 c.c.) e che, in base all’art. 1373
c.c. i contraenti originari possano attribuire ad uno o a più di essi il
diritto potestativo di recedere.
Iniziando dalla formulazione dell’art. 768-septies n.
1 c.c., si è rilevato [265]
che la stessa sembra confermare la teoria, sostenuta in dottrina [266],
in base alla quale il mutuo dissenso è attuabile anche quando ha per oggetto lo
scioglimento di un contratto i cui effetti si sono interamente prodotti. In
definitiva, col mutuo dissenso del patto di famiglia, l’azienda o le
partecipazioni sociali trasferite ritornano nel patrimonio del disponente,
ripristinando la situazione precedente. Il mutuo dissenso dovrà essere concluso
da tutti coloro che hanno preso parte al patto di famiglia e, di conseguenza,
anche i non assegnatari dell’azienda o delle partecipazioni sociali saranno
tenuti a restituire quanto ricevuto a titolo di liquidazione [267].
Per quanto attiene, poi, al recesso, si è affermato che
la facoltà concessa dall’art. 768-septies, n. 2, c.c., sarebbe difficilmente attuabile. Ciò in
quanto tale previsione legislativa si scontra con il disposto dell’art. 1373
c.c., che, in tema di recesso unilaterale, riconosce la facoltà di recedere
solo finché il contratto non abbia avuto un principio di esecuzione. Al di
fuori di tale ipotesi, il recesso può essere esercitato nei contratti ad
esecuzione continuata o periodica, facendo salve tuttavia le prestazioni già
eseguite [268].
Ora, non vi è dubbio che nel caso del patto di famiglia, avuto riguardo
all’effetto reale tipicamente dallo stesso prodotto, il contratto viene ad
«avere esecuzione» fin dal momento della sua stipula. Ciò non toglie però che
il Legislatore abbia qui chiaramente inteso far salva la possibilità per i
contraenti di prevedere siffatta facoltà.
Sarà opportuno ribadire peraltro che, anche in assenza
della disposizione in commento, le parti sarebbero potute pervenire ai medesimi
risultati, utilizzando la facoltà concessa dall’ultimo capoverso dell’art. 1373
c.c., pur a dispetto della natura «non ad esecuzione continuata o periodica»
del patto di famiglia. Secondo l’opinione preferibile, oltre che prevalente in
dottrina, invero, non vi è motivo di intendere restrittivamente la disposizione
testé citata: ragion per cui, anche nei contratti non di durata, appare sensato
ammettere che le parti possano pattuire che il recesso sia esercitabile anche
dopo che si sia dato principio alla loro esecuzione [269].
L’esercizio del diritto potestativo di recesso
determinerà il venir meno degli effetti dell’intero negozio, se a recedere
saranno il disponente o il destinatario dell’azienda o delle partecipazioni
azionarie. Per ciò che attiene agli altri legittimari, il recesso di costoro
comporterà solo l’obbligo di restituzione di quanto ricevuto e, ovviamente, la
non estensibilità nei loro confronti degli effetti del patto, con il risultato
che i medesimi verranno a trovarsi nella situazione descritta dall’art. 768-sexies c.c. Inutile dire, concludendo
sul punto, che, attese le inevitabili complicazioni e gli immaginabili
strascichi dell’atto in oggetto, sarà opportuno raccomandare ai notai di fare
assai parco uso di questa clausola.
27.
L’impugnativa del patto e le relative controversie.
L’art. 768-quinquies c.c. prevede la possibilità di
impugnare il contratto per vizi del consenso ai sensi degli artt. 1427 ss. c.c.
Anche questa disposizione può qualificarsi senz’altro come superflua. Superflua
non è invece la riduzione del termine d’impugnativa, portato da cinque ad un
anno. A differenza di quanto disposto dalla formulazione della norma in esame
nel disegno di legge C/3870-A, della Commissione Giustizia della Camera dei
Deputati, secondo cui l’azione si sarebbe dovuta prescrivere «nel termine di un anno dalla conoscenza del
vizio», l’art. cit. non fissa il dies
a quo per il computo del termine annuale. Nonostante ciò, appare
ragionevole presumere che il termine di riferimento sia pur sempre quello
stabilito dall’art. 1442 cpv. c.c., che fissa la decorrenza dal giorno in cui è
cessata la violenza o è stato scoperto l’errore o il dolo, tenuto conto del
fatto che la norma novellamente introdotta rinvia agli artt. 1427 «e seguenti»
e dunque, tra le norme «seguenti» ben può rientrare l’art. 1442 c.c. [270].
Il vero dubbio è invece quello di comprendere se
l’espresso richiamo alla sola disciplina dei vizi del consenso induca ad
escludere altre possibili forme d’impugnativa, sulla base dell’applicazione dei
principi generali in tema di contratto. Per questa strada si è messo chi ha già
iniziato ad escludere, ad esempio, l’applicabilità degli artt. 1425 e 1426
c.c., giustificando tale scelta in considerazione della forma imposta al patto:
l’atto pubblico dovrebbe, invero, essere sufficiente a scongiurare il pericolo che,
al momento della stipulazione del patto di famiglia una delle parti versi in
stato di incapacità, ovvero sussistano raggiri usati dal minore [271].
Ma appare sin troppo facile replicare che, allora, non si riuscirebbe a
comprendere perché mai siffatte disposizioni trovano pacifica applicazione in
relazione ad ogni altro contratto stipulato per atto pubblico. Ed è del resto
ormai chiaro che neppure l’eventuale autorizzazione da parte dell’autorità
giudiziaria – qui non richiesta per il patto, a meno che, ovviamente, a
stipularlo non siano chiamati incapaci o semi-incapaci [272]
– vale a «proteggere» un negozio da eventuali impugnative in base alle
disposizioni che prevedono ipotesi di nullità, annullabilità o rescindibilità [273].
Sembrerebbe poi veramente assurdo limitare
l’impugnativa del patto al caso dell’annullamento per vizi del consenso,
laddove è pacifico che lo stesso potrebbe di fatto presentare profili di
nullità: si pensi, ad esempio, alla violazione dei principi in tema di forma
per atto pubblico, in relazione ai quali l’art. 768-ter c.c. commina espressamente la sanzione della nullità. Si pensi
anche, e sempre a titolo d’esempio, al trasferimento di beni non rientranti nel
disposto dell’art. 768-bis c.c.,
posto che, come si è avuto modo di dire, l’estensione dei principi sul patto di
famiglia a beni diversi dall’azienda (o da un ramo di essa) o dalle
partecipazioni societarie presupporrebbe un’estensione analogica della
disposizione vietata dal carattere eccezionale della stessa.
Non sembra azzardato ipotizzare che, in caso di
nullità del patto, si possano verificare ipotesi di conversione negoziale.
Così, ad esempio, il trasferimento nullo, perché avente ad oggetto beni diversi
dall’azienda o dalle partecipazioni societarie, potrà produrre gli effetti di
una donazione, sempre che di tale contratto siano stati rispettati i requisiti
formali (ecco una ragione di più perché il patto sia stipulato alla presenza di
testimoni, anche se tale presenza, come si è detto, non appare stricto iure necessaria), qualora, come
richiesto dall’art. 1424 c.c., «avuto riguardo allo scopo perseguito dalle
parti, debba ritenersi che esse lo avrebbero voluto se avessero conosciuto la
nullità».
La conclusione di cui sopra non può ritenersi in contrasto
con la negazione della tesi che ravvisa nel patto di famiglia una donazione.
Invero, ferma restando la finalità liberale dell’attribuzione dal disponente ai
destinatari dell’azienda o delle quote societarie, tale finalità si presenta
nel patto appaiata alla liquidazione in denaro o in natura in favore degli
altri legittimari, o alla rinunzia da parte di costoro: liquidazione che
risponde, come si è detto, a finalità solutorie del «prezzo» per la rinunzia ai
diritti che a costoro spetterebbero in quanto legittimari. Ma le due
prestazioni (quella cioè effettuata dal disponente e quelle compiute dai
destinatari dell’azienda o delle partecipazioni societarie), pur se elementi
essenziali del patto, non sono poste tra di loro in corrispondenza biunivoca, con
la conseguenza che sembrano poter vivere vite autonome. Così, mentre la prima
attribuzione potrà essere fatta salva grazie alla conversione del patto, alle
condizioni precisate, in una donazione, più problematico sembra il salvataggio
delle attribuzioni in favore degli altri legittimari, essendo assai difficile
immaginare l’esistenza di un «contratto diverso» che produca gli effetti
descritti dall’art. 768-quater, cpv.,
c.c. (e che sfugga al divieto dei patti successori).
Per le ragioni sopra illustrate dovrà poi anche
ammettersi una convalida, alle condizioni richieste dall’art. 1444 c.c., di
eventuali patti di famiglia annullabili [274].
Non vi è poi dubbio che il patto di famiglia, che è
contratto a tutti gli effetti, sarà impugnabile con tutti i rimedi attinenti al
profilo del sinallagma (oltre che genetico, anche) funzionale, con particolare
riguardo a quelli risolutori. In proposito nulla impedirà alle parti di
prevedere termini essenziali per l’adempimento (ad es.: la corresponsione
differita o rateizzata della liquidazione) o di inserire clausole risolutive
espresse, o magari anche penali per il caso di inadempimento di una determinata
obbligazione (si pensi sempre al caso in cui determinate prestazioni siano
previste come differite).
Ai sensi dell’art. 768-octies c.c. «Le controversie derivanti
dalle disposizioni di cui al presente capo sono devolute preliminarmente a uno
degli organismi di conciliazione previsti dall’articolo 38 del decreto
legislativo 17 gennaio 2003, n. 5». La disposizione richiamata prevede, in
relazione ai procedimenti in materia di diritto societario e di intermediazione
finanziaria, nonché in materia bancaria e creditizia, la costituzione, da parte
degli enti pubblici o privati, che diano garanzie di serietà ed efficienza, di
organismi deputati, su stanza della parte interessata, a gestire un tentativo
di conciliazione. Tali organismi debbono essere iscritti in un apposito
registro tenuto presso il Ministero della giustizia. Il registro e le modalità
di iscrizione sono regolate dal d.lgs. 23 luglio 2004, n. 222 [275].
Il problema consiste nel comprendere il
significato dell’espressione «sono devolute preliminarmente». Si è rilevato in
proposito [276]
che, secondo
All’osservazione può però obiettarsi che
altro è mediazione e altro è arbitrato. Inoltre, altro è mediazione preliminare
all’instaurazione della causa (assimilabile al tentativo obbligatorio di
conciliazione che si ha, ad esempio, nel rito del lavoro) e altro è arbitrato
obbligatorio. Semmai la vera obiezione, sul piano dell’opportunità, investe la
scelta di politica legislativa di demandare l’opera di mediazione in una
materia caratterizzata da profili di esasperato tecnicismo nel campo del diritto
successorio (ma anche di quello familiare e contrattuale in genere) a organismi
di conciliazione propri del settore commerciale e societario.
Trattandosi comunque di diritti
disponibili non sembra impossibile ipotizzare (ed anzi, auspicare) l’inserimento
di clausole compromissorie che demandino la devoluzione delle controversie
sorgenti dal patto di famiglia – una volta superata eventualmente senza
soluzione conciliativa la fase della mediazione – a collegi arbitrali a
composizione notarile.
Lo svolgimento del procedimento di conciliazione
secondo la norma in oggetto dovrà aver luogo nell’osservanza dei successivi
articoli 39 e 40 del già citato d.lgs n. 5 del 2003, con la conseguenza, in
particolare, che i contraenti, nell’atto pubblico con cui è concluso il patto
di famiglia, avranno la facoltà di indicare specificamente l’organismo di
conciliazione. Inoltre, il mancato preventivo esperimento della conciliazione,
senza che sia rilevabile d’ufficio dal giudice, dovrà essere fatto valere dalla
parte interessata nella prima difesa; la proposizione della domanda di
conciliazione produrrà sulla prescrizione i medesimi effetti di quella
giudiziale. Nel caso di successo del tentativo di conciliazione sarà redatto
processo verbale che, previo accertamento della regolarità formale, andrà
omologato dal presidente del tribunale nel cui circondario ha sede l’organismo
di conciliazione. Il verbale acquisterà così l’efficacia non soltanto di titolo
per l’iscrizione dell’ipoteca giudiziale, ma anche di titolo esecutivo sia per
l’espropriazione forzata, sia per l’esecuzione forzata in forma specifica [279].
Atteso che l’articolo 768-octies c.c. non introduce direttamente novità nella specifica
materia, in applicazione dell’articolo 1, lett. b), del d.lgs 5/2003, si deve ritenere
che vada seguito il c.d. «rito societario» (artt. 1 ss., d.lgs. 5/2003)
soltanto ove nella specie il disponente si sia servito del patto di famiglia
per trasferire partecipazioni societarie. Al contrario, qualora l’imprenditore
trasferisca «in tutto o in parte l’azienda», pare applicabile esclusivamente il
procedimento ordinario di cognizione [280].
Almeno per questo tipo di controversie, dunque, ci saranno risparmiati (sia
consentito concludere questa fatica con una nota non completamente negativa!) i
bizantinismi inutilmente circonvoluti, gli interminabili scambi di memorie
sempre più kilometriche, nonché i ripetitivi e snervanti minuetti processuali,
conditi da tanto inutili quanto (de iure
condito) inevitabili rimpalli tra relatore e collegio, propri del rito ex d.lgs. n. 5/2003, il cui scopo non
sembra essere altro se non quello di rimpolpare le parcelle dei legali.
(*) Testo
provvisorio di un lavoro monografico destinato alla pubblicazione nella collana
dal titolo Le monografie di Contratto e
impresa, Serie diretta da Francesco Galgano, Cedam, Padova, 2006. L’autore
prega di citare il presente scritto come segue: Oberto,
Il patto di famiglia, testo della
relazione presentata alla Giornata di studio sul tema «Patti di famiglia»,
organizzata dal Consiglio Notarile dei distretti riuniti di Torino e Pinerolo e
dalla Scuola di Notariato «Franco Lobetti Bodoni» di Torino, svoltasi a Torino
il 13 maggio
https://www.giacomooberto.com/pattodifamiglia/pattodifamiglia.htm.
[1] Cfr. Troplong,
Spiegazione del codice civile. Delle
donazioni tra vivi e de’ testamenti, Prima
versione italiana, II, Palermo, 1856, p. 579. Si noti che l’Autore non
faceva qui che riprendere il parere di giureconsulti più antichi: cfr. ad es. Louet
e Brodeau, Recueil de plusieurs arrests notables du parlement de Paris, II,
Paris, 1712, p. 320: «Les partages faits par les pere et mere, entre leurs
enfans, prevenant l’Office des Arbitres ou Experts, sont favorablement reçus
par la loi, et dispensez des formes, regles, et maximes ordinaires, pourvû que
la forme de la volonté soit certaine et constante, et qu’ils ne blessent point
la legitime de l’un des enfans».
L’idea del padre come «giusto giudice» della divisione
dei propri beni tra i figli è assai presente in tutta l’evoluzione storica del
diritto francese. Non per nulla i giureconsulti prenapoleonici richiamavano a
piene mani brani della letteratura latina, greca e del Talmud, in cui i padri
venivano definiti, nei rapporti con i figli, «magistrati domestici», «giudici»
e «arbitri» (cfr. ad es. Louet e Brodeau, op. loc. ultt. citt.), o ricordavano il consiglio di Salomone, di
cui riferisce l’Ecclesiaste al cap. 33: «in
tempore dierum vitae tuae finiendorum, cum tibi moriendum erit, haereditatem
distribue» (cfr. Tronçon, Le droit françois, et coustume de
Proprio da tali
considerazioni venivano fatte derivare notevoli conseguenze d’ordine pratico,
come, ad esempio, il rifiuto d’estendere analogicamente il partage d’ascendants alla divisione operata (anziché dai genitori)
dallo zio, posto che «ce droit de faire partage par les peres et meres de leur
vivant entre leurs enfans, étant la suite et l’effet de la sincerité des
jugements d’un pere, que l’on présume plus grande en sa personne qu’en celle
d’un collateral, on ne doit pas étendere ce pouvoir aux collateraux, si
[2] Dal punto di vista della tecnica legislativa si potrà
osservare, a titolo d’esempio, che il testo della novella utilizza una
terminologia quanto mai variegata, per designare sovente le medesime
situazioni. Per quanto attiene ai soggetti, invero, si parla di: imprenditore,
titolare, discendenti, legittimari, assegnatari, partecipanti, contraenti,
partecipanti non assegnatari, soggetti che li abbiano sostituiti, beneficiari
del contratto, medesime persone. Dal punto di vista oggettivo si parla invece
di: azienda, partecipazioni societarie, quote, patrimonio dell’imprenditore,
somme, beni in natura, beni, quanto ricevuto, pagamenti di somme, interessi
legali.
[3] V. la relazione al disegno di legge S/1353. Per la
dottrina che negli ultimi anni ha iniziato ad interrogarsi su un possibile
superamento del divieto dei patti successori v. Lenzi,
Il problema dei patti successori tra
diritto vigente e prospettive di riforma, in Riv. notar., 1989, p.
1209 ss.; Rescigno, Trasmissione della ricchezza e divieto dei
patti successori, in Vita notar., 1993, p. 1281 ss.; Rescigno,
Attualità e destino dei patti successori, in Aa.Vv., La
trasmissione familiare della ricchezza. Limiti e prospettive di riforma del
sistema successorio, Padova, 1995, p. 1 ss.; Caccavale
e Tassinari, Il divieto dei patti successori tra diritto
positivo e prospettive di riforma, in Riv.
dir. priv., 1997, p. 74 ss.; Roppo, Per
una riforma del divieto dei patti successori, in Riv. dir. priv.,
1997, p. 5 ss.; Ieva, Il
trasferimento dei beni produttivi in funzione successoria: patto di famiglia e
patto d’impresa. Profili generali di revisione del divieto dei patti successori,
in Riv. notar., 1997, p. 1371 ss.; Dogliotti,
Rapporti patrimoniali tra coniugi e patti successori, in Fam.
dir., 1998, p. 293 ss.; Zoppini,
Il patto di famiglia (linee per la
riforma dei patti per le successioni future), in Aa. Vv., Studi in memoria di Salis, Torino, 2000,
II, p. 1265 ss. Giudica «inevitabile alla luce del quadro europeo» l’abolizione
del divieto dei patti successori anche S. Patti,
Regime patrimoniale della famiglia e autonomia privata, in Familia,
2002, p. 312. Per uno studio comparatistico del divieto dei patti successori v.
Zoppini, Le successioni in diritto comparato, in Aa. Vv., Trattato di diritto comparato, a cura di
Sacco, Torino, 2002, p. 155 ss.
[4] V. la relazione al disegno di legge C/3870. Ed a
questo proposito si potrà aggiungere che il parere del Comitato economico e
sociale europeo in merito al Libro verde «Successioni e testamenti» (COM (2005)
65 def.) espressamente prevede (cfr. il § 3.2.) che «Se è vero che il diritto
comunitario deve risolvere i problemi di determinazione del foro (o dei fori)
competente(i) e di riconoscimento delle decisioni giudiziarie ai quali si è già accennato, esso dovrà prevedere la possibilità di regolare anche le seguenti questioni: - in
materia di successioni testamentarie: i requisiti di validità del testamento (forma e contenuto, capacità di testare, limitazioni dell’autonomia della
volontà del testatore), le riserve
successorie, le successioni anomale, i patti successori (autorizzati o
vietati), i trust successori, la
qualità di erede (…)». Sul tema v. anche
Petrelli, La nuova disciplina del “patto di famiglia”, in Riv. notar., 2006, I, p. 401 ss.
[5] Ci si riferisce qui alla famosa dinastia francese,
costretta a cedere il suo impero nello champagne
per i dissidi tra i ben trentotto eredi del fondatore (sul tema v. ad esempio Chevrillon, Les Taittinger dans les affres
du pluralisme, in L’Expansion, n. 564, 8 janvier 1998, p.
36 s., disponibile anche al seguente indirizzo web: http://www.lexpansion.com/art/6.0.122647.1.html).
[6] Cfr. Livini,
Mai più liti sulle dinastie aziendali. Il provvedimento bipartisan
facilita i passaggi generazionali nelle imprese italiane, consentendo in
anticipo di designare il successore, in
[7] Cfr. Cfr. Livini,
op. loc. ultt. citt.
[8] Cfr. Montanari,
Le aziende familiari, continuità e successione, Padova, 2003, p. 1 ss.
[9] Cfr. Zoppini,
Il patto di famiglia (linee per la
riforma dei patti sulle successioni future), cit., p. 1267.
[10] Cfr. Sciandra,
Di padre in figlio, un passaggio problematico, disponibile al sito web seguente:
[11] Cfr. Giacomelli
e Trento, Proprietà,
controllo e trasferimenti nelle imprese italiane. Cosa è cambiato nel decennio
1993-2003 ?, in Banca d’Italia, Temi di discussione del Servizio Studi, n. 550, Giugno 2005, disponibile
all’indirizzo web seguente: http://www.bancaditalia.it/ricerca/consultazioni/temidi/td05/td550_05/tema_550.pdf.
Sul punto v. anche Muritano, Strumenti
alternativi per la trasmissione della ricchezza familiare, trust e ruolo del
notaio, p. 3, disponibile al
sito web seguente: http://www.notariato.it/cnn/News/Relazioni_Pesaro/Muritano/OKMuritano.pdf,
il quale, a commento della citata indagine, afferma che «Al fine di
realizzare una successione nell’impresa coerente con gli intendimenti dei
“proprietari” di essa, anziché utilizzare strumenti giuridici tipici
(l’indagine statistica svolta dalla Banca d’Italia mostra peraltro come nella
stragrande maggioranza dei casi il governo delle successioni d’impresa avviene
utilizzando clausole statutarie relative al trasferimento delle partecipazioni
sociali o patti parasociali), si fa quindi ricorso a strumenti giuridici
alternativi (la cui “tenuta” rispetto ai principi del nostro ordinamento è
tutta da verificare) oppure si piegano gli strumenti giuridici tipici verso
finalità diverse».
[12] Cfr. su questi temi, anche per gli ulteriori rinvii, Zoppini, Trasmissione intergenerazionale
della ricchezza: comparazione giuridica ed efficienza economica, p. 1 ss., disponibile all’indirizzo web seguente: http://www.notariato.it/cnn/News/Relazioni_Pesaro/Zoppini/OKzoppini.pdf, il quale rileva che «lo slittamento temporale
dell’acquisto ereditario dei patrimoni, nonché le forme di “successione
anticipata”, non sono senza conseguenze per le regole del diritto delle
successioni, che in primo luogo smarrisce la funzione di dotare
patrimonialmente la generazione successiva. Inoltre, proprio all’interno di
questa strategia di pianificazione ereditaria, l’emersione di un sistema
successorio “parallelo” per effetto di forme di delazione triangolari che
prescindono e “sostituiscono” il testamento, da cui l’espressione will
substitutes utilizzata per indicarli. La realizzazione di questo sistema è,
in larga parte, affidata al ricorso a strumenti negoziali e societari, che
intermediano la trasmissione dei patrimoni e attraverso cui si dispone
(essenzialmente) della ricchezza mobiliare raggirando la vicenda ereditaria».
[13] Così Caccavale,
Appunti per uno studio sul patto di
famiglia: profili strutturali e funzionali della fattispecie, in CNN notizie. Notiziario di informazione del
Consiglio Nazionale del Notariato, 22 marzo 2006, p. 6.
[14] Rileva Zoppini,
Il patto di famiglia non risolve le liti,
in Il Sole 24 ore, 3 febbraio 2006,
p. 27, che la prevalenza dell’interesse dell’impresa rispetto a quello
dell’autonomia privata del disponente sembra risultare del resto anche dal già
citato passo della relazione alla proposta di legge n. 3870 dell’8 aprile 2003
– dal quale ha preso le mosse il provvedimento normativo in commento – secondo
cui «la ratio del provvedimento
deve essere rinvenuta nell’esigenza di superare in relazione alla successione
di impresa la rigidità del divieto dei patti successori, che contrasta non solo
con il fondamentale diritto all’esercizio dell’autonomia privata, ma altresì e
soprattutto con la necessità di garantire la dinamicità degli istituti
collegati all’attività d’impresa».
[15] Cfr. la proposta di legge C/4727/XIV, d’iniziativa
dei deputati Collavini e altri, presentata il 19 febbraio 2004, dal titolo
«Modifiche al codice civile in materia successoria e abrogazione delle
disposizioni relative alla successione necessaria».
[16] Non appaiono pienamente condivisibili, sotto questo
profilo, le argomentazioni di Busani,
È
sancito inoltre che l’attributario dell’azienda o delle quote «compensi» gli
altri legittimari partecipanti alla stipula del patto; a meno che a detta
operazione provveda colui che trasferisce, in Guida al dir., 2006, n.
13 del 1 aprile 2006, p. 45, secondo cui «Prima della riforma che oggi
commentiamo, il tema della organizzazione della successione di un imprenditore
(…) era quasi una mission impossible:
come detto, da un lato, non era consentito stipulare patti, durante la vita
dell’imprenditore, aventi a oggetto le sorti dell’azienda di famiglia dopo la
morte dell’imprenditore stesso; dall’altro, era spesso impossibile
‘compensare’, per mancanza di sostanze, le ragioni dei familiari non
imprenditori rispetto all’attribuzione dell’azienda al figlio o ai figli
dell’imprenditore ritenuti idonei a proseguire l’attività paterna». Il patto di
famiglia non produce, peraltro, effetti traslativi (si badi: traslativi) post mortem, né mortis causa e, d’altro canto, come si vedrà, il problema della
«compensazione» degli altri legittimari continua drammaticamente a porsi, tanto
più che l’improvvida normativa della novella tale obbligo di «compensazione»
pone, non già a carico del disponente, ma dei destinatari dell’azienda o delle
partecipazioni societarie.
[17] Cfr. infra, § 10.
[18] Su questo tema specifico v. Moscati, Trusts e
vicenda successoria, in Europa e dir.
priv., 1998, p. 1075 ss.; Zoppini,
Contributo allo studio delle disposizioni
testamentarie «in forma indiretta», in Aa.
Vv., Studi in onore di P. Rescigno, II, Diritto privato, Milano, 1998, p. 919 ss.
[19] Cfr. l’art. 2, comma 4-novies, l. 14 maggio 2005, n. 80, di conversione, con modificazioni,
del d.l. 15 marzo 2005, n. 35.
[20] Sul punto v. per tutti Tagliaferri, La
riforma dell’azione di restituzione contro gli aventi causa dai donatari
soggetti a riduzione, in Notariato,
2006, p. 167 ss.; cfr. inoltre Consiglio
Nazionale Del Notariato, L’atto di “opposizione” alla donazione (art.
563, comma 4, cod. civ.), Studio
n. 5809/C, disponibile all’indirizzo web
seguente: http://www.notariato.it/cnn/notaio/Studi_e_approfondimenti/Successioni/5809.htm.
[21] Sul tema che, per i suoi multiformi profili, non è
richiamabile neppure per sommi capi in questa sede, si fa rinvio per tutti a Oberto, Contratto e vita familiare, in Aa.
Vv., Trattato del contratto, a cura di Roppo, Milano, 2006 (in corso di
stampa). L’argomento è stato sviluppato in particolare dallo scrivente nei
seguenti lavori: Id., I contratti della crisi coniugale, I,
Milano, 1999, p. 13 ss.; Id., L’autonomia
negoziale nei rapporti patrimoniali tra coniugi (non in crisi), in Familia,
2003, p. 617 ss.; Id., Il regime di separazione dei beni tra
coniugi. Artt. 215-
[22] Il dato normativo proviene dal recepimento della
normativa comunitaria in tema di commercio elettronico, laddove l’art. 11,
d.lgs. 9 aprile 2003, n. 70 («Attuazione
della direttiva 2000/31/CE relativa a taluni aspetti giuridici dei servizi
della società dell’informazione nel mercato interno, con particolare
riferimento al commercio elettronico»), stabilisce l’inapplicabilità
della relativa regolamentazione ai «contratti disciplinati dal diritto di
famiglia». Può ben dirsi, dunque, che – quanto meno già dalla data di tale
intervento – è lo stesso Legislatore ad ammettere che la normativa
tradizionalmente qualificata come giusfamiliare può contenere norme che
disciplinano contratti. Il richiamo legislativo, ad avviso dello scrivente,
deve intendersi effettuato tanto alle convenzioni matrimoniali (sulla cui
natura contrattuale cfr. per tutti Oberto,
L’autonomia negoziale nei rapporti patrimoniali tra coniugi (non in crisi),
cit., p. 617 ss.), quanto ai contratti della crisi coniugale che, come si è detto
in altra sede (cfr. Oberto, I contratti della crisi coniugale, I,
cit., p. 696 ss.), rinvengono il loro fondamento causale in specifiche
disposizioni giusfamiliari.
[23] In proposito andrà menzionato che l’art. 39-novies della l. 23 febbraio 2006, n. 51, di conversione con modifiche del d.l. 30 dicembre 2005, n. 273 («Recante
definizione e proroga di termini, nonché conseguenti disposizioni urgenti.
Proroga di termini relativi all’esercizio di deleghe legislative») ha
introdotto l’art. 2645-ter c.c., secondo il quale «Gli atti in forma
pubblica con cui beni immobili o beni mobili iscritti in pubblici registri sono
destinati, per un periodo non superiore a novanta anni o per la durata della
vita della persona fisica beneficiaria, alla realizzazione di interessi
meritevoli di tutela riferibili a persone con disabilità, a pubbliche
amministrazioni, o ad altri enti o persone fisiche ai sensi dell’articolo 1322,
secondo comma, possono essere trascritti al fine di rendere opponibile ai terzi
il vincolo di destinazione; per la realizzazione di tali interessi può agire,
oltre al conferente, qualsiasi interessato anche durante la vita del conferente
stesso. I beni conferiti e i loro frutti possono essere impiegati solo per la
realizzazione del fine di destinazione e possono costituire oggetto di
esecuzione, salvo quanto previsto dall’articolo 2915, primo comma, solo per
debiti contratti per tale scopo».
Il più grave dei tanti
problemi posti da uno degli ultimi «regali» dell’agonizzante XIV legislatura
consiste nell’accertare se ci si trovi o meno di fronte ad un nuovo tipo di
negozio, qualificabile come «atto di
destinazione per la realizzazione di interessi meritevoli di tutela (riferibili
a persone con disabilità)»: con la precisazione che l’eventuale risposta
positiva dovrebbe indurre a ritenere che, forse per la prima volta, il
Legislatore è riuscito ad introdurre un nuovo tipo negoziale operando
esclusivamente sulle norme concernenti la pubblicità! Sul punto tre sono le
possibili risposte. La prima consiste nel disapplicare puramente e
semplicemente l’art. 2645-ter c.c.,
in quanto diretto all’attribuzione di rilievo sul piano delle sole formalità
pubblicitarie ad un fenomeno (atto di destinazione per la realizzazione di
interessi meritevoli di tutela) che non è regolato dal diritto «sostanziale»
(inteso come contrapposto al «diritto pubblicitario»). La seconda via è quella
di cercare di individuare quali, tra gli istituti vigenti, sarebbero
astrattamente idonei a dar luogo ad atti qualificabili come «di destinazione per
la realizzazione di interessi meritevoli di tutela», pur non potendo gli stessi
concretamente produrre tali effetti, per la presenza di disposizioni in senso
contrario. Disposizioni che dovrebbero dunque ritenersi derogate
dall’introduzione dell’art. 2645-ter
c.c. Ragionando in questi termini si dovrebbe allora dire che tanto il
testamento che il contratto sarebbero istituti potenzialmente idonei a
stabilire effetti di vincolo su determinati beni per tutta la vita di un
disabile, ma, in concreto, non lo possono fare per via di principi quali il
divieto di sostituzione fedecommissaria (al di là degli angusti limiti di cui
all’art. 692 ss. c.c.) o il divieto dei patti successori. In quest’ottica si
potrebbe, a titolo d’esempio, scorgere nella nuova norma il riconoscimento
della validità di disposizioni testamentarie o di patti successori diretti, per
l’appunto, a vincolare per il periodo successivo al decesso del disponente e
per tutta la durata della vita di un determinato soggetto disabile, uno o più
beni. Ne conseguirebbe che gli eredi si vedrebbero costretti a rispettare
siffatti vincoli, ancorchè eventualmente disposti a suo tempo dal de cuius, magari con manifestazione di
volontà inter vivos. Se e come tali
norme dovrebbero poi interagire con i diritti attribuiti ai legittimari appare
un vero e proprio mistero, per la soluzione del quale si potrebbe forse
ricorrere alle disposizioni in tema di cautela sociniana (art. 550 c.c.).
L’ultima soluzione è quella di ipotizzare che il
Legislatore abbia implicitamente inteso dar vita ad un’autonoma figura
negoziale, come appare del resto confermato dal rilievo che la norma in esame
contiene anche disposizioni che con il sistema della pubblicità nulla hanno a
che vedere (si pensi al principio per cui «per la realizzazione di tali interessi può agire, oltre al conferente,
qualsiasi interessato anche durante la vita del conferente stesso»), nonché
dall’espresso richiamo al principio di libertà contrattuale di cui all’art.
1322 c.c. Una figura negoziale che potrebbe dunque costituire il primo esempio
di trust «tricolore», in cui la
destinazione alla realizzazione di interessi meritevoli di tutela viene attuata
tramite una forma di separazione patrimoniale quanto mai accentuata,
estrinsecantesi nel principio per cui «I beni conferiti e i loro frutti possono
essere impiegati solo per la realizzazione del fine di destinazione e possono
costituire oggetto di esecuzione, salvo quanto previsto dall’articolo 2915,
primo comma, solo per debiti contratti per tale scopo». In questo senso sembra
deporre anche il fatto che la terminologia pare ispirata ad alcune (peraltro
ben più ponderate) proposte di legge della XIV legislatura, che, sotto il
titolo, rispettivamente, «Disciplina della destinazione di beni in
favore di soggetti portatori di gravi handicap
per favorirne l’autosufficienza» (cfr. la proposta contrassegnata dal N. 3972,
presentata alla Camera dei Deputati il 14 maggio 2003) e «Norme in materia di trust a favore di soggetti portatori di handicap» (cfr. la proposta contrassegnata
dal N. 2377, presentata alla Camera dei Deputati il 10 maggio 2002), miravano ad introdurre, a tutela delle persone
disabili, la possibilità di dar luogo ad un vincolo assai simile a quello che
si attua negli ordinamenti di common law
con il trust, ma allo stesso tempo coerente
con il nostro sistema civilistico e fiscale e, quindi, di più immediata e
agevole fruibilità per i soggetti interessati.
Naturalmente, che la nuova figura negoziale possa
contenere, oltre ad un profilo di vincolo, anche un vero e proprio momento
dispositivo, come nel caso del trust
(sulla cui ammissibilità nel nostro ordinamento e sui cui risvolti
giusfamiliari si fa rinvio per tutti a Oberto,
Trust e autonomia negoziale nella
famiglia, in Fam. dir., 2004, p.
201 ss., 310 ss.; Id., Il regime di separazione dei beni tra
coniugi. Artt. 215-219, cit., p. 183 ss.; Id.,
Il trust familiare, disponibile al seguente indirizzo web: http://utenti.lycos.it/giacomo305604/milano11giugno2005trust/relazionemilano.htm),
è questione ancora tutta da discutere, posto che il concetto di vincolo non
sembra, di per sé, in grado di abbracciare anche il ben diverso fenomeno
traslativo del diritto dominicale (sul tema, e per perplessità analoghe a
quelle qui espresse, si veda Trib. Trieste, 7 aprile 2006, disponibile al
seguente indirizzo web: http://www.filodiritto.com/index.php?azione=visualizza&iddoc=230;
in un’ottica invece molto diversa si colloca Lupoi,
Gli “atti di destinazione” nel nuovo art.
2645-ter cod. civ. quale frammento di
trust, in Trusts att. fid., 2006,
p. 169 ss.).
[24] Si pensi (ma l’argomento è sviluppato dallo scrivente
in altra sede: cfr. Oberto, Contratto e vita familiare, cit. cap. I,
§§ 1, 6) alle disposizioni del nuovo art. 155, cpv. c.c. (estensibile anche
alla materia divorzile, nonché a quella dei figli di soggetti non coniugati,
come disposto dall’art.
[25] Per ulteriori approfondimenti su questo tema cfr. Oberto, I regimi patrimoniali della famiglia di fatto, Milano, 1991, p. 1
ss., 151 ss.; Id., I contratti della crisi coniugale, I,
cit., p. 33 ss., 43 ss.; Id., I contratti di convivenza tra autonomia
privata e modelli legislativi, in Contratto
e impresa/Europa, 2004, p. 17 ss.; Id., Il
regime di separazione dei beni tra coniugi. Artt. 215-219, cit., p. 213 ss., 243 ss.
[26] E si noti che tale irrilevanza della sopravvenienza
abbraccia non solo gli effetti di una rinunzia, ma «tiene ferma» anche la
valutazione comunque effettuata in sede di patto, anche di fronte ai successivi
mutamenti di valore dei cespiti aziendali, dell’avviamento e in genere dei beni
oggetto del patto di famiglia: in questo senso, su quest’ultimo rilievo, v.
anche Petrelli, op. cit., p. 437.
[27] Oberto, I contratti della crisi coniugale, I,
cit., p. 485 ss.; Id., «Prenuptial
Agreements in Contemplation of Divorce» e disponibilità in via preventiva dei
diritti connessi alla crisi coniugale, in Riv. dir. civ., 1999, II,
p. 171 ss.; Id., Contratto e vita familiare, cit., cap.
IV, §§ 6 ss.
[29] Cfr. ad esempio Merlo,
Il patto di famiglia, in CNN notizie. Notiziario di informazione del
Consiglio Nazionale del Notariato, 14 febbraio 2006, p. 4 (dell’articolo in
formato .pdf).
[30] Su cui v. in particolare Polacco, Della
divisione operata da ascendenti fra discendenti, Verona-Padova, 1884; Bonelli, Il concetto giuridico della divisione d’ascendente per atto fra vivi,
in Foro it., 1897, 8, c. 575 ss.; Belotti, La divisione di ascendente, Padova, 1933; Tedeschi, La divisione
d’ascendente, Padova, 1936.
[31] Cfr. gli artt. 1115 ss. Codice Albertino; artt. 1031
ss. Codice per lo Regno delle Due Sicilie; artt. 1017 ss. Codice civile per gli
Stati di Parma, Piacenza e Guastalla; artt. 1125 ss. Codice civile per gli
Stati Estensi.
[32] La scelta di introdurre un capo numerato come V-bis (e non VI) all’interno di un titolo
(il IV) del libro secondo del c.c., che di capi ne conta solo cinque, sebbene
contraria ad ogni logica apparente, sembra rispondere ai criteri di tecnica
legislativa contenuti nella Circolare del Presidente del Senato in data 20
aprile 2001, dal titolo «Regole e raccomandazioni per la formulazione tecnica
dei testi legislativi», il cui testo è disponibile alla pagina web seguente: http://www.senato.it/istituzione/circolari/circolare3.htm.
Pur non trattando espressamente del caso in oggetto (cioè dell’aggiunta di un
nuovo capo al termine di un titolo), l’art. 6 della predetta circolare sembra
dettare principi analoghi con riguardo alla numerazione degli articoli:
«6. Numerazione e rubricazione degli articoli
aggiuntivi.
a) Gli
articoli aggiuntivi, da inserire con ‘novelle’ in testi legislativi previgenti,
sono contrassegnati con il numero cardinale dell’articolo dopo il quale devono
essere collocati, integrato con l’avverbio numerale latino (bis, ter,
quater, eccetera).
b) Il tipo di
numerazione di cui alla lettera a) è adottato anche per gli articoli aggiuntivi
inseriti dopo l’ultimo articolo del testo previgente.
c) Anche in
caso di articolo unico non recante la numerazione cardinale, gli articoli
aggiuntivi sono denominati: Art. 1-bis, Art. 1-ter, e via
dicendo».
Chiaramente in questo senso v. l’art. 69 del testo
intitolato Regole e suggerimenti per la redazione dei testi normativi, elaborato dall’Osservatorio
legislativo interregionale (disponibile alla pagina web seguente:
http://www.consiglio.regione.toscana.it/leggi-e-banche-dati/Oli/Manuale/drafting.asp#paragrafo%2069),
che stabilisce quanto segue:
«69. Numerazione degli articoli aggiuntivi e
delle partizioni aggiuntive di livello superiore all’articolo
1. Gli articoli aggiuntivi da inserire con modifiche
testuali in testi normativi previgenti vanno contrassegnati con il numero
cardinale dell’articolo dopo il quale essi sono collocati, integrato con
l’avverbio numerale latino (25). Tale criterio va seguito anche nel caso di
articoli da aggiungere dopo l’ultimo del testo previgente, e anche quando gli
articoli sono aggiunti dopo un articolo unico privo di numerazione cardinale.
2. Gli articoli aggiuntivi collocati prima dell’articolo
1 di un atto previgente vanno contrassegnati con il numero “
3. Gli articoli da inserire con modifiche testuali in
testi normativi previgenti, e che si renda indispensabile collocare in
posizione intermedia tra articoli aggiunti successivamente al testo originario,
vanno contrassegnati con il numero dell’articolo dopo il quale sono inseriti,
integrato da un numero cardinale (l’articolo inserito tra l’1 bis e l’1 ter
diviene quindi 1 bis 1).
4. Quando s’inserisce un articolo fra l’articolo 1 e
l’articolo 1 bis lo si indica come articolo 1.1. Quando, in un secondo tempo,
s’inserisce un articolo fra l’1.1 e l’1 bis lo si indica come 1.1.1.
5. Le predette regole si applicano anche nel caso di
partizioni aggiuntive di livello superiore all’articolo.
6. Non usare numeri corrispondenti ad articoli abrogati
in precedenza.
7. Quando si sostituiscono degli articoli non cambiarne
radicalmente l’oggetto: se lo si vuol fare è meglio abrogare l’articolo
originario e aggiungere un nuovo articolo».
[33] Cfr. Merlo,
Il patto di famiglia, cit., p. 4.
[34] Cfr. Mengoni,
La divisione testamentaria, Milano,
1950, p. 20, ss.; Casulli, Divisione ereditaria (dir. civ.), in Noviss. dig. it., VI, Torino, 1960, p.
57 ss.; Cicu, Successioni per causa di morte. Parte generale. Delazione e acquisto
dell’eredità. Divisione ereditaria, Milano, 1961, p. 455 s.; Gazzara, Divisione ereditaria (dir. priv.), in Enc. dir., XIII, Milano, 1964, p. 435 ss.; Forchielli, Della
divisione, in Commentario del codice
civile, diretto da Scialoja e
Branca, Libro secondo, Delle successioni, (art. 713-768),
Bologna-Roma, 1970, sub art. 734, p.
193 ss.; Burdese, La divisione ereditaria, Torino, 1980,
p. 253 ss.; Casulli, Divisione ereditaria (dir. civ.), Appendice, III, Torino, 1982, p. 61; Morelli, La comunione e la divisione ereditaria, Torino, 1986, p. 246 ss.; Amadio, La divisione del testatore, in Aa.
Vv., Successioni e donazioni, a cura di Rescigno, II, Padova, 1994, p.
71 ss.;
[35] Cfr.
[36] Cfr. Amadio,
La divisione del testatore, cit., p.
72.
[37] Cfr. Cicu,
Successioni per causa di morte. Parte
generale. Delazione e acquisto dell’eredità. Divisione ereditaria, cit., p.
456: «Le difficoltà che aveva incontrato la dottrina nella costruzione
giuridica dell’istituto erano dovute alla necessità che si sentiva di
conciliare l’atto inter vivos
col concetto di divisione e di successione ereditaria. Chi vi vedeva
un’anticipata successione andava incontro alla difficoltà di ammettere una
successione a persona vivente, ed una seconda successione alla stessa persona.
Perciò altri vedevano nella divisione un titolo di trasmissione provvisoria, da
diventar definitivo soltanto con la successione; la teoria poteva trovare
sostegno nell’obbligo di collazione delle donazioni: senonchè era opinione
generale che i beni divisi inter vivos non fossero soggetti a
collazione. Altri ancora aveva ritenuto di superare la difficoltà attribuendo
alla divisione fra vivi l’effetto di dare un titolo di acquisto particolare
immediato, ma destinato a trasformarsi, con l’apertura della successione, in
titolo universale: senza tuttavia riuscire a spiegare come il primo titolo,
senza risolversi, potesse essere soppiantato da un diverso titolo. Altri infine
vedeva nella divisione un atto traslativo inter
vivos, ma sottoposto alla condizione risolutiva per il caso che il
beneficato non venisse all’eredità, ritenendo di poter fissare in tal modo il
legame fra l’atto tra vivi e la successione; al che era d’ostacolo l’art. 1003,
per il quale il donatario, rinunziando alla successione, poteva ritenere la
donazione». Rilevano F.S. Azzariti,
Martinez e G. Azzariti, Successioni per causa di morte e donazioni, Padova, 1973, p. 658,
che nell’istituto in questione «si vedeva (…) da alcuni un’anticipata
successione; altri distinguevano in essa due momenti, l’uno attuale e certo, e
cioè quello della donazione, l’altro futuro ed incerto e cioè quello della
divisione; altri ancora negavano sia la figura dell’anticipata successione, sia
quella della donazione che poi si tramutava in divisione, ravvisandovi una
divisione vera e propria, ma con carattere provvisorio, e subordinata al futuro
evento della successione; altri infine riconoscevano nell’atto la doppia natura
di donazione e divisione».
[38] Sebbene contraddistinto dall’esistenza di taluni
effetti mortis causa, come si avrà
modo di vedere: cfr. infra,
§ 8.
[39] Così Denisart, Collection de décisions nouvelles et de notions relatives à la
jurisprudence actuelle, II, Paris, 1775, p. 40.
[40] V. in questo senso la lettera del Cancelliere
d’Aguesseau (cioè del «padre» delle ordonnances
di Luigi XV sulle donazioni, sui testamenti e sulle sostituzioni), del 22 luglio
1731, al primo presidente del parlamento di Normandia, in cui si chiarisce che
«c’est avec réflexion qu’on n’a pas jugé à propos de parler, dans la nouvelle
ordonnance, des démissions de biens (…). Cela regarde la matière des partages et des
dispositions entre enfans, qui forment un autre objet, sur lequel le Roi pourra
s’expliquer dans la suite. Il n’est pas possible d’embrasser toutes les
matieres en même temps, et pour bien juger d’un ouvrage tel que celui dont il
s’agit, il faut attendre que toutes le parties en étant achevées, elles se
prêtent un secours mutuel par le rapport et le concert de leurs dispositions»
(cfr. d’Aguesseau, Lettre ccxcv, du 22 juillet
[41] Cfr. Denisart, op. loc. ultt. citt. Sul tema
della démission de biens nell’antico
diritto francese v. anche Pothier, Coutumes des duché, bailliage et prévôté d’Orléans, et ressort d’iceux,
Paris-Orléans, 1780, p. 616 ss.; secondo il grande giureconsulto
transalpino si trattava di una «anticipation de succession, juris haereditarii praerogatio, suivant
l’expression de d’Argentré» e proprio per questa ragione egli la collocò
nell’appendice al titolo dedicato alle successioni del commentario alle
consuetudini della sua città. «On peut définir la démission de biens – continuava
Pothier – un act par lequel une personne, en anticipant le temps de sa
succession, se dépouille de son vivant de l’universalité de ses biens, et en
saisit d’avance ses héritiers préspomptifs, en retenant néanmoins le droit d’y
rentrer lorsqu’elle le jugera à propos». Non
appartenendo peraltro l’atto, nè alla materia delle donazioni entre-vifs, nè a
quella dei testamenti, esso non era assoggettato alle formalità proprie
dell’uno o dell’altro istituto (Pothier,
op. cit., p. 617). Peraltro, proprio in
considerazione del suo carattere di anticipata successione, la démission doveva necessariamente
investire «l’universalité de biens et non des choses particulieres : car
c’est l’universalité des biens des personnes que
Sulla revocabilità della démission de biens si pronunciò più volte anche il parlamento di
Parigi, che si espresse con svariati arresti, sovente citati dai maestosi in folio degli arrêtistes d’oltralpe. Così, il 20 marzo 1643 (cfr. Soefve, Nouveau recüeil de plusieurs questions notables tant de droit que de
coutumes, jugées par arrests d’audiances du parlement de Paris, I, Paris,
1682, p. 57) decise per la revocabilità ad
nutum di una démission de bien
piuttosto singolare, in quanto aveva ad oggetto l’usufrutto di tutti i beni di
un ottantenne a vantaggio di uno dei suoi due generi, in cambio della promessa,
da parte di costui, «qu’il le logeroit, nourriroit et entretiendroit sa vie
durant et luy baylleroit une somme de cent livres par chacun an pour employer à
ses charitez». Con sentenza dell’11 febbraio 1647 (in du Fresne, Journal des
principales audiences du parlement, avec les arrêtes qui y ont été rendus,
I, Paris, 1757, p. 392 ss.), lo stesso parlamento stabilì che una démission de biens fatta da un padre a
vantaggio di tutti i figli era revocabile, in quanto réputée à cause de mort; il 14 maggio 1647 (in du Fresne, op. cit., p. 404 s.) venne deciso che un partage o démission de bien
da parte dei genitori era sempre revocabile da parte di costoro, anche se i démissionnaires erano stati immessi nel
possesso dei beni. Il medesimo parlamento, poi, con sentenza del 17 marzo 1671
(in Blondeau e Gueret, Journal du palais, ou recueil des principales decisions de tous les
parlements, et cours souveraines de
France, I, Paris, 1737, p. 113 ss.), stabilì che la suocera del démittant, nominata curatrice à la démence di costui, poteva revocare l’atto di démission de biens in precedenza (cioè
prima della nomina della curatrice) compiuto dal genero in favore dei propri
figli, a causa dell’indegnità di uno dei figli stessi, che si era reso
colpevole d’aver contratto matrimonio «sans demander le consentement de son
père»; e ciò, nonostante che la donazione fosse stata seguita da un «partage
entre les frères». Ancora successivamente, la stessa corte, con arresto del 9 agosto 1683 (in Blondeau e Gueret, Journal du
palais, ou recueil des principales decisions de tous les parlements, et cours
souveraines de France, II, Paris,
1737, p. 448 ss., 451 ss.), si pronunziò sulla validità di una démission de biens compiuta dai genitori
verso i propri figli, «à condition de les nourrir et entretenir». Per una
minuziosa rassegna dei pareri degli Autori e delle pronunzie dei parlamenti sul
tema della revocabilità della démission
de biens v. Merlin, Recueil alphabétique des questions de droit
qui se présentent le plus fréquemment dans les tribunaux, II, Paris, 1820,
p. 196 ss., il quale peraltro pone in dubbio la revocabilità della
disposizione, alla luce della contraddittorietà di svariate decisioni e di
alcune opinioni discordi: cfr., in particolare, quella di Auzanet, Coûtumes de la prévôté et vicomté de Paris, in Œuvres de M. Barthelemy Auzanet, ancien avocat au parlement, Paris,
1708, p. 216, secondo cui «les démissions faites par pere et autres ascendans
de tous leurs biens, ou de partie d’iceux, au profit de leurs enfans et
descendans, sont irrevocables». Per ulteriori richiami in tema v. Merlin, Répertoire universel et raisonné de jurisprudence, III, Paris,
1812, p. 517 ss.
[42] Polacco,
op. cit., p. 77 s., cui si fa rinvio
per una dettagliata analisi dell’evoluzione nel diritto romano, dall’epoca
classica a quella giustinianea e postgiustinianea, del testamentum inter liberos e della divisio parentum inter liberos, così come per gli ulteriori
richiami. V.
inoltre Grenier, Traité des donations, des testaments, et de
toutes autres dispositions gratuites, I, Bruxelles, 1826, p. 105 ss.; Voci, diritto ereditario romano, II, Milano, 1963, p. 476 ss.; Burdese, op. cit., p. 252 ss.).
[43] Cfr. Grenier, op. cit., p. 106 s., il quale rimarca che generalmente «le partage
devait être fait entre tous les enfans, et il devait comprendre tous les biens
existants à l’époque où il était fait. Il était tellement favorable, qu’il
pouvait réduire l’enfant à la moindre portion que la loi lui assurait, et dont
on en pouvait le priver par aucun acte. Il était irrévocable dans quelques cas,
comme, par exemple, s’il était fait en contrat de mariage en faveur des
contractans ; ou s’il avait été exécuté par les père et mère, de leur
vivant, en faisant la tradition réelle, en mettant les enfans en possession des
biens partagés, sous la réserve d’une pension».
[44] Cfr. in particolare les coutumes della Bretagna (art. 560), del
Poitou (art. 216), del Borbonese (art. 216), del Nivernese (titolo des Successions, art. 17), d’Amiens
(art. 94) di Borgogna (titolo des
Successions, artt. 7, 8, e 9), di
Péronne (art. 107), di Montdidier e Roye (art. 107), nonchè del Poitou (art.
219).
[45] Cfr. ad esempio Tronçon,
op. cit., p. 563 s., che riporta al
riguardo due decisioni del parlamento di Parigi, di cui una del 6 aprile 1581 e
l’altra del 14 marzo 1603. Si noti che il parlamento di Parigi (ressort la cui consuetudine non
prevedeva espressamente il partage
d’ascendant) si pronunziò più volte (cfr. supra, in questo stesso §) sulla démission de biens, il che giustifica il sospetto che con tale nome
venisse, in buona sostanza, inteso il partage
in quelle regioni di diritto consuetudinario le cui coutumes non prevedevano espressamente tale istituto.
[46] Nell’interpretazione del parlamento di Digione la
regola dei venti giorni valeva peraltro solo nel caso di partage inégal (cfr. Taisand,
op. cit., p. 423).
[47] «Hoc non solum metu
suggestionum: sed ne dividens, nimium vicinus morti, facile erret in aequali
distributione, sed per continuationem quadraginta dierum satis praesumitur
errorem abesse» (così, testualmente, Molineo, in nota all’art. 216 della coutume del Borbonese, in Bourdot de Richebourg, Nouveau coutumier general, ou corps des
coutumes generales et particulieres de France, et des provinces connues sous le
nom des Gaules, III, Paris, 1724, p. 1248).
[48] Cfr. Sallé, L’esprit des ordonnances et des principaux édits et déclarations de
Louis XV, en matière civile, criminelle et bénéficiale, Paris, 1759, p. 143
s. ; v. inoltre Furgole, Traité des testamens, codicilles, donations
à cause de mort, et autres dispositions de dernière volonté, in Œuvres complètes de M. Furgole, III,
Paris, 1775, p. 84 s.
[49] Cfr. ad esempio
l’opinione di Taisand, op. cit., p. 425 e di Auroux des Pommiers, op. cit., 1780, p. 305, secondo cui, in
assenza di una divisione di tutto il patrimonio, il partage sarebbe stato nullo; in senso contrario v. Furgole, op. cit., p. 82 ss., 84: «quoique certains Auteurs ayent cru,
notamment Ferrières, sur
[50] Cfr. Coffinières, Analyse des novelles de Justinien, Paris, 1805, p. 276.
[51] Taisand, op.
cit., p. 427 «…parce que ce partage est un Acte de derniere volonté».
[52] In questo senso v. le
sentenze del parlamento di Parigi del 15 febbraio 1564 e del 27 febbraio
[53] Così Furgole,
op. cit., p. 81 ss.
[54] Cfr. ad esempio Furgole, op. cit., p. 84 s.; cfr. inoltre Buvot,
Nouveau recueil des arrests de Bourgogne,
Geneve, 1623, p. 89 s., 234 ss.; Boucheul,
op. cit., p. 655, che riporta
svariati arresti in questo senso; Le
Grand, Coutume du bailliage de
Troyes, Paris, 1715, p. 41; Perrier e
Raviot, Arrests notables du parlement de Dijon, II, Dijon, 1735, p. 148
s. : «Les partages que les peres et meres font entre leurs enfans, sont
revocables de leur nature, à moins qu’ils ne soient faits par contrat de
mariage, ou par donation entre vifs, quand même ils sont executez par la jouissance
des enfans qui ont été mis en possession de ce qui leur a été donné en
partage»; Berault, Godefroy e d’Aviron, Commentaires
sur la coutume de Normandie, Rouen, 1776, p. 233; Tronçon, op. cit.,
p. 563.
[55] Cfr. Libro VII, cap. 248: «Praecipiente patre
divisionem ab eo factam durare, si modo usque ad extremum ejus vivendi spatium
voluntas eadem perseverasse doceatur».
[56] Cfr. Molineo,
Commentarii in consuetudines parisienses,
in Opera omnia, I, Lutetiae
Parisiorum, 1625, c. 476.
[57] Le Brun, op.cit.,
p. 588.
[58] In questo senso v. Auroux
des Pommiers, op. cit., p. 307
s., secondo cui l’atto sarebbe stato eccezionalmente irrevocabile «quand le
partage est exécuté par les pere et mere, ou l’un d’eux, de leur vivant, en
faisant la tradition réelle, et mettent les enfans en possession des biens
partagés, sous la simple réserve d’une pension»; nello stesso senso, in
precedenza, v. Louet e Brodeau, op. cit., p. 318 ss., ove è riportata una decisione in tal senso
del parlamento di Parigi del 27 maggio 1595, che aveva dichiarato irrevocabile
il partage operato da una madre,
conformemente alla coutume di
Péronne, a motivo del fatto che costei si era riservata l’usufrutto sui beni
medesimi e che pertanto «il y avoit avantage audit partage, par le moïen de la
renonciation que ledit Adrien [cioè il figlio che aveva concesso usufrutto alla
madre, pagando, tra l’altro, alcuni debiti della madre medesima, relativi alle
terre oggetto dell’atto] avoit faite par icelui de quelques droits qui lui
appartenoient». Contra, per la revocabilità anche in caso di partage c.d. anticipé, v.
Ricard, Traité des donations entre-vifs et testamentaires, I, Riom, 1783,
p. 488 s.
[59] Cfr. Le Brun, op. cit., p. 588 s.: «Il faut excepter de cette maxime generale les
decisions ou donations faites par un pere dans les contrats de mariage des ses
enfans : de crainte qu’une famille étrangere, qui a contracté une alliance sur
le fondement d’une disposition de cette nature ne soit trompée, ne alioqui alterutri sponsorum illudatur,
dit Monsieur Coras en ses Centuries, chap. 71». Nel medesimo senso v. anche Boucheul, op. cit., p. 656; Auroux des
Pommiers, op.cit., p. 307: «le
partage est constamment irrévocable, quand il est fait en contrat de mariage en
faveur des contractans»; Ricard, op. cit., p. 488 s. Per un’ampia
disamina sul partage e sulla sua
revocabilità v. anche Merlin, Répertoire universel et raisonné de
jurisprudence, IX, Paris, 1813, p. 55 ss.; per una raccolta di sentenze in
materia v. anche Brillon, Dictionnaire des arrêts, ou jurisprudence
universelle des parlemens de France et autres tribunaux, V, Paris, 1727, p.
83 s.
[60] Cfr. Oberto,
I contratti della crisi coniugale, I,
cit., p. 79 ss.; Id., Gli
accordi sulle conseguenze patrimoniali della crisi coniugale e dello
scioglimento del matrimonio nella prospettiva storica, nota a Cass., 20
marzo 1998, n.
[61] Sul tema dei diritti dei primogeniti e del
maggiorascato rimane memorabile l’eruditissima analisi del Tiraqueau (cfr. Tiraquelli, Commentarii de nobilitate et jure primigeniorum, Lugduni, 1617)
che, trattava, tra l’altro, della questione circa la possibilità di stabilire
in contratto di matrimonio che al primogenito di quell’unione sarebbe stata
devoluta la facoltà di succedere in
integram coniugum haereditatem. La soluzione positiva veniva argomentata,
tra l’altro, sulla base della constatazione per cui «non parvi momenti debet
videri favor honorque matrimonij, quod forte contractum non fuisset, nisi eo
pacto apposito, ut primogenitus succederet» (v. p. 475 ss.); nello stesso
senso, su questo specifico tema, cfr. anche i pareri di Guy Pape (Guidonis Papae, Decisiones, Lugduni, 1593, p. 433 s.) e di Boyer (Boerii, Decisionum aurearum in Sacro Burdegalens. Senatu olim discussarum ac
promulgatarum pars prima, Lugduni,
[62] Da notare che parte della dottrina italiana aveva
lamentato in passato l’assenza di un regime successorio speciale per i beni
produttivi: v. Schlesinger, Successioni (Diritto civile): Parte generale,
in Noviss. dig. it., XVIII, Torino,
1971, p. 749.
[63] «Le démissionnaire qui
avait la propriété sous la condition de la révocation se flattait tojours
qu’elle n’aurait pas lieu. Il traitait avec des tiers, il s’engageait, il
dépensait, il aliénait, et la révocation n’avait presque jamais lieu sans des
procès qui empoisonnaient le reste de la vie de celui qui s’était démis, et qui
rendaient sa condition pire que s’il eût laissé subsister sa démission. On a
supprimé cette disposition ; elle est devenue inutile. Les pères et mères
pourront dans les donations entre-vifs imposer les conditions qu’ils
voudront ; ils auront la même liberté dans les actes de partage, pourvu
qu’il n’y ait rien de contraire aux règles qui viennent d’être exposées, et
suivant lesquelles les démissions des biens, si elles avaient été autorisées,
eussent été déclarées irrévocables» (cfr. Fenet,
Recueil complet des travaux préparatoires
du Code Civil, XII, Paris, 1827, p. 568). Sul concetto dell’irrevocabilità v. inoltre espressamente il rapport di Jaubert nella Communication officielle au Tribunat,
con la quale veniva trasmesso dal Corps
législatif al Tribunato il 3 floreale anno XI (23 aprile 1803) il projet e l’exposé des motifs del titolo (il II del libro III) del Code dedicato alle donazioni e ai
testamenti, in Fenet, Recueil complet des travaux préparatoires du
Code Civil, XII, Paris, 1827, p. 617. Sul partage d’ascendant nel Code
Napoléon v. per tutti Demolombe,
Traité des donations entre-vifs et des
testaments, VI, Paris, 1866, p. 4 ss.; Michaux,
Traité pratique des donations entre-vifs,
entre époux, des partages d’ascendants et des actes qui en dérivent, Paris,
1866, p. 245 ss.; Laurent, Principes de droit civil, Bruxelles, XV,
1878, p. 6 ss.; Baudry-Lacantinerie e
Colin, Traité théorique et pratique de droit civil. Des donations entre-vifs
et des testaments, Paris, 1899, p. 651 ss.
[64] Cfr. Laurent,
op. cit., p. 6 ss.; cfr. inoltre Pacifici-Mazzoni, Successioni, Parte II, VI, Torino, 1928, p. 388 ss. Nello stesso
senso v. anche Cicu, op. cit., p. 455.
[65] Polacco,
op. cit., p. 227.
[66] Polacco,
op. cit., p. 227.
[67] Sul tema cfr. amplius infra, § 6.
[68] Polacco,
op. cit., p. 252 s. Considerazioni
sostanzialmente analoghe sono rinvenibili in Belotti,
La divisione dell’ascendente, Padova,
1933, p. 71 s., secondo cui l’istituto in oggetto non era «una divisione pura e
semplice, perché il momento ‘divisione’, che pure è essenziale in essa, è
inscindibilmente connesso col momento ‘disposizione’. Essa è invece una
donazione, perché non soltanto la legge la fa considerare tale cogli art. 1044
e seg. Cod. civ., ma perché è evidentemente animata da una causa liberalitatis, che si perfeziona colla divisione e
distribuzione dei beni donati. Al tempo stesso però, essa non è una donazione
ordinaria, perché la causa liberalitatis
ora detta è successoria, ossia è la stessa causa che sorregge le disposizioni
successorie. La divisione dell’ascendente è dunque una donazione-divisione,
collettiva, avente una causa successoria».
[69] Tedeschi,
La divisione d’ascendente, Padova,
1936, p. 1 s.
[70] Sul punto v. in dettaglio Polacco, op. cit.,
p. 470 ss.; sui rapporti tra azione di riduzione e rescissione per lesione nel
caso specifico della divisione d’ascendente per atto tra vivi v. sempre Id., op.
cit., p. 483 ss.
[71] Polacco,
op. cit., p. 394.
[72] Si noti che, peraltro, il patto potrebbe
(parzialmente) convertirsi in donazione (sul punto v. infra, § 27), con la conseguenza che
verrebbe aperta la via all’azione di riduzione.
[73] I testi proposti dal gruppo di lavoro coordinato da
Antonio Masi e Pietro Rescigno erano i seguenti:
«Art. 734-bis
(Patto di famiglia).
L’imprenditore può assegnare, con atto pubblico,
l’azienda a uno o più discendenti.
Al contratto devono partecipare oltre all’imprenditore
i discendenti che sarebbero legittimari ove in quel momento si aprisse la
successione.
Coloro che acquistano l’azienda devono corrispondere
agli altri discendenti legittimari e non assegnatari, ove questi non vi
rinunzino in tutto o in parte, una somma non inferiore al valore delle quote
previste dagli articoli 536 e seguenti.
Quanto ricevuto dai contraenti non è soggetto a
collazione o riduzione.
All’apertura della successione, il coniuge e gli altri
legittimari che non vi abbiano partecipato possono chiedere il pagamento della
somma prevista dal terzo comma, aumentata degli interessi legali, a tutti i
beneficiari del contratto».
«Art. 2355-bis (Patto d’impresa).
L’atto costitutivo può prevedere a favore della
società, dei soci o di terzi il diritto di acquistare le azioni nominative
cadute in successione.
Per l’esercizio del riscatto, l’atto costitutivo non
può prevedere un termine superiore a sessanta giorni dalla comunicazione alla
società della apertura della successione. Se non espressamente previsto, il
termine è di sessanta giorni.
Il prezzo deve corrispondere al valore delle azioni e,
salvo patto contrario, deve essere pagato contestualmente all’esercizio del
riscatto.
In caso di mancato accordo, il valore è determinato da
un perito nominato ai sensi dell’art. 2343-bis.
I costi della perizia sono a carico di chi intende
esercitare il riscatto.
Dalla apertura della successione all’esercizio del
riscatto, o all’espresso rifiuto di esercitarlo ovvero alla scadenza del
termine di cui al secondo comma, il diritto di voto per le azioni cadute in
successione è sospeso, ma esse sono tuttavia computate nel capitale ai fini del
calcolo delle quote richieste per la costituzione e per le deliberazioni
dell’assemblea. È altresì sospeso il termine per esercitare il diritto di
opzione».
La formulazione delle norme codicistiche, secondo il
disegno di legge S/2799/XIII, di iniziativa dei senatori Pastore ed altri, era
la seguente :
«Art. 734-bis. Patto di famiglia.
L’imprenditore può assegnare, con atto di donazione,
l’azienda a uno o più discendenti.
Al contratto devono partecipare anche i discendenti
che sarebbero legittimari ove in quel momento si aprisse la successione; possono
parteciparvi, ai soli effetti di cui al sesto comma, il coniuge
dell’imprenditore e coloro che potrebbero divenirne legittimari a seguito di
modificazioni del suo stato familiare.
Gli assegnatari dell’azienda devono liquidare gli
altri partecipanti al contratto, ove questi non vi rinunzino in tutto o in
parte, con il pagamento di una somma corrispondente al valore delle quote
previste dagli articoli 536 e seguenti; i contraenti possono convenire che la
liquidazione, in tutto o in parte, avvenga in natura.
Salvo patto contrario, i beni assegnati con lo stesso
contratto agli altri partecipanti non assegnatari dell’azienda, secondo il
valore attribuito in contratto, sono imputati alle quote di legittima ad essi
spettanti; l’assegnazione può essere disposta anche con successivo contratto
che sia espressamente dichiarato collegato al primo e purché vi intervengano i
medesimi soggetti che hanno partecipato al primo contratto o coloro che li
abbiano sostituiti.
Quanto ricevuto dai contraenti non è soggetto a collazione
o riduzione.
All’apertura della successione dell’imprenditore, il
coniuge e gli altri legittimari che non vi abbiano partecipato possono chiedere
ai beneficiari del contratto il pagamento della somma prevista dal terzo comma,
aumentata degli interessi legali.
Il presente articolo si applica anche alle
partecipazioni sociali».
«Art. 2284-bis. Patto d’impresa.
L’atto costitutivo può prevedere a favore dei soci o
di terzi il diritto di acquistare le quote cadute in successione.
In mancanza di diversa pattuizione contenuta nell’atto
costitutivo, il diritto deve essere esercitato entro sessanta giorni dalla
comunicazione alla società della apertura della successione.
Il prezzo deve corrispondere al valore delle quote e,
salvo patto contrario, deve essere corrisposto contestualmente all’esercizio
del diritto.
In caso di mancato accordo, il valore è determinato da
un perito nominato ai sensi dell’art. 2343-bis.
I costi della perizia sono a carico di chi intende
esercitare il diritto.
Dalla apertura della successione sino all’esercizio
del diritto, all’espresso rifiuto di esercitarlo ovvero alla scadenza del
termine di cui al secondo comma, i diritti connessi alla titolarità delle quote
cadute in successione sono sospesi».
«Art. 2355-bis. Patto d’impresa. L’atto
costitutivo può prevedere a favore della società, dei soci o di terzi il
diritto di acquistare le azioni nominative cadute in successione.
In mancanza di diversa pattuizione contenuta nell’atto
costitutivo ovvero nello statuto sociale, il diritto deve essere esercitato
entro sessanta giorni dalla comunicazione alla società della apertura della
successione.
Si applicano il terzo e il quarto comma dell’articolo
2284-bis.
Dalla apertura della successione sino all’esercizio
del diritto, all’espresso rifiuto di esercitarlo ovvero alla scadenza del
termine di cui al secondo comma, il diritto di voto per le azioni cadute in
successione è sospeso; esse sono tuttavia computate nel capitale ai fini del
calcolo delle quote richieste per la costituzione e per le deliberazioni
dell’assemblea. E’ altresì sospeso il termine per esercitare il diritto di
opzione».
La proposta prevedeva inoltre che all’art. 2479 c.c.
fosse aggiunto il seguente comma:
«Si applicano alla società a responsabilità limitata
le disposizioni dell’articolo 2355-bis, fatta eccezione per l’ultimo
periodo del quarto comma».
[74] Sul punto v. per tutti Ieva, Il trasferimento dei beni produttivi in funzione successoria:
patto di famiglia e patto d’impresa. Profili generali di revisione del divieto
dei patti successori, cit., p. 1377; cfr. inoltre sul tema Perego, La disciplina della prelazione convenzionale e le prelazioni legali,
in Riv. dir. comm., 1982, p. 157 ss.;
Palazzo, Attribuzioni patrimoniali tra vivi e assetti successori per la
trasmissione della ricchezza familiare, in Vita notar., 1993, p. 1228 ss.; Scaglione,
Le successioni anomale nelle società di
capitali, in Vita notar., 1994,
p. 1520 ss. Interessante al riguardo il
testo della clausola contenuta nello statuto della «Giovanni Agnelli e c. ‑
Società in accomandita per azioni», ove all’art. 6 si legge «Le azioni
pervenute in proprietà o altro diritto reale per donazione o successione
legittima o testamentaria a soggetti che non siano discendenti consanguinei
dell’azionista dante causa o di altri possessori di azioni dovranno essere
offerte in opzione a questi ultimi nei modi e con gli effetti di cui ai
precedenti commi [ove sono disciplinate le modalità dell’offerta e il criterio
di determinazione del prezzo di acquisto ‑ n.d.r.]. Fino a quando, non
sia stata fatta l’offerta e non risulti che questa non è stata accettata,
l’erede, il legatario, o il donatario non sarà legittimato all’esercizio del
diritto di voto e degli altri diritti amministrativi inerenti alle azioni e non
potrà alienare le azioni, con effetto verso la società, a soggetti diversi
dagli altri possessori di azioni» (v. il testo in Ieva, op. loc. ultt.
citt.). Sul tema delle clausole che limitino la circolazione delle azioni
nelle s.p.a. e delle quote delle s.r.l. v. ora, rispettivamente, gli artt.
2355-bis e 2469 c.c., così come
risultanti dalle modifiche introdotte dal d.lgs. 17 gennaio 2003, n. 6 («Riforma organica della disciplina delle
società di capitali e società cooperative, in attuazione della legge 3 ottobre
2001, n. 366»).
[75] Sul punto Ieva,
Il trasferimento dei beni produttivi in funzione successoria: patto
di famiglia e patto d’impresa. Profili generali di revisione del divieto dei
patti successori, cit., p. 1380 ss.
[76] Sul tema cfr. amplius infra, § 6.
[77] Cfr. Caccavale,
Appunti per uno studio sul patto di
famiglia: profili strutturali e funzionali della fattispecie, cit., p. 10
ss., secondo cui la natura inter vivos
del patto di famiglia va riconosciuta «per la semplice ma decisiva ragione che
il patto stesso non è disciplinato quale atto mortis causa, mentre, se tale fosse proprio la sua natura,
occorrerebbe anche che, nell’ordinamento positivo, fosse contemplata una
specifica regolamentazione, a essa natura funzionale, altrimenti irreperibile».
[82] In questo senso v. invece Caccavale, Appunti per
uno studio sul patto di famiglia: profili strutturali e funzionali della
fattispecie, cit., p. 13 ss., 17 ss.
[85] Sottolinea
invece la produzione di soli effetti favorevoli verso i legittimari Caccavale, Appunti per uno studio sul patto di famiglia: profili strutturali e
funzionali della fattispecie, cit., p.
17, che rileva come i legittimari non assumerebbero obbligazioni.
[86] Sul tema v. anche infra, § 8.
[87] Cfr. Buffone,
Patto di famiglia: le modifiche al codice
civile, in Altalex, 8 febbraio
2006, disponibile al sito web
seguente: http://www.altalex.com/index.php?idstr=26&idnot=10337;
Salomone, I patti di famiglia, in Il quotidiano giuridico, Ipsoa.it, 17 marzo 2006. Per la natura
donativa del patto è anche Condò, Il patto di famiglia, in FederNotizie, marzo 2006, p. 59.
[88] Salomone,
op.
loc. ultt. citt.
[89] Buffone,
op.
loc. ultt. citt.
[90] Cicu, Successioni per causa di morte. Parte
generale. Delazione e acquisto dell’eredità. Divisione ereditaria, cit., p.
455.
[91] Sul punto v. Merlo,
Il patto di famiglia, cit., p. 2 ss.;
nello stesso senso v. anche Caccavale,
Appunti per uno studio sul patto di
famiglia: profili strutturali e funzionali della fattispecie, cit., p. 24
ss.
[92] Merlo, Il patto di famiglia, cit., p. 3.
[93] Merlo, Il patto di famiglia, cit., p. 3.
[94] Se invece i legittimari non assegnatari rinunziano ai
loro diritti il «modo» non viene neppure in considerazione. Ad analoghe
conclusioni perviene anche Petrelli,
op. cit., p. 407.
[95] Sul tema v. per tutti Carnevali,
La donazione modale, Milano, 1969, p.
2.
[96] Lupetti,
Patti di famiglia: note a prima lettura,
in CNN notizie. Notiziario di
informazione del Consiglio Nazionale del Notariato, 14 febbraio 2006, p. 3
(dell’articolo in formato .pdf).
[98] Questa soluzione è anche prospettata da Merlo, Il patto di famiglia, cit., p. 4. Nello stesso senso v. inoltre Petrelli, op. cit., p. 407, il quale sottolinea come occorra rinunciare ad
incasellare il patto di famiglia in uno degli schemi tipici preesistenti alla
novella.
[99] Lupetti,
Patti di famiglia: note a prima lettura,
cit., p. 3.
[100] Pure prospettata, in alternativa, da Lupetti, Patti di famiglia: note a prima lettura, cit., p. 4.
[101] Invero, se si tiene conto del carattere negoziazione globale che la coppia in crisi attribuisce al momento della «liquidazione» del rapporto coniugale, di fronte alla necessità di valutare gli infiniti e complessi rapporti di dare-avere che la convivenza protratta per anni genera, v’è da chiedersi se, in luogo di una miriade di possibili accordi innominati, non sia possibile tentare di intraprendere un’opera ricostruttiva che faccia perno sull’individuazione di una vera e propria causa tipica del negozio patrimoniale della crisi coniugale, di un vero e proprio contratto, cioè, di definizione della crisi coniugale o, più esattamente, dei suoi aspetti patrimoniali. Tale negozio dovrebbe abbracciare ogni forma di costituzione e di trasferimento di diritti patrimoniali compiuti, con o senza controprestazione, in occasione della crisi coniugale, ancorché non necessariamente in seno ad una separazione consensuale, ben potendo intervenire, oltre che nei casi di separazione legale, annullamento, scioglimento e cessazione degli effetti civili del matrimonio, anche in relazione ad una separazione di fatto, oppure ancora in vista di una possibile crisi coniugale, addirittura prima della celebrazione delle nozze.
L’ipotesi sembra avvalorata
dalla stessa terminologia impiegata dal Legislatore, laddove esso si riferisce
alle «condizioni della separazione consensuale» (art. 711 c.p.c.), e alle
«condizioni inerenti alla prole e ai rapporti economici» in sede di
scioglimento o di cessazione degli effetti civili del matrimonio (art. 4, c.
Ad avviso di chi scrive, dunque, dal momento che l’intento principe delle parti è quello di sistemare definitivamente e in considerazione della crisi coniugale le «pendenze» che un più o meno lungo periodo di vita comune ha determinato, sembra più appropriato parlare di una causa tipica di definizione della crisi coniugale o, se si vuole essere più corretti, ancorché meno efficaci sotto il profilo espressivo, di una causa tipica di definizione degli aspetti economici della crisi coniugale. Ad un siffatto negozio tipico – tipico, appunto, in quanto previsto e disciplinato da apposite disposizioni – potrebbe attribuirsi anche il nome di contratto tipico della crisi coniugale o di contratto postmatrimoniale. Questo negozio potrà pertanto definirsi come quel contratto a titolo oneroso che viene stipulato dai coniugi per regolare i reciproci rapporti giuridici patrimoniali sorti nel corso della loro relazione esistenziale, quando al regolamento di tali rapporti i coniugi stessi intendono condizionare la definizione consensuale della crisi coniugale o di una fase di quest’ultima (separazione di fatto, separazione legale, divorzio). Tale regolamento di rapporti si attua attraverso la previsione di prestazioni vuoi unilaterali, vuoi reciproche, di carattere sia obbligatorio che reale, periodiche o istantanee (cfr. Oberto, I contratti della crisi coniugale, I, cit., p. 703 ss.).
[102] Cfr. Oberto,
I contratti della crisi coniugale, I,
cit., p. 653 ss., II cit., p. 1143 ss.; Id.,
Prestazioni «una tantum» e trasferimenti tra coniugi in occasione di
separazione e divorzio, Milano, 2000, p. 149 ss., 188 ss.; Id., Gli accordi a latere
nella separazione e nel divorzio, in Fam.
dir., 2006, p. 164 s.; Id.,
Contratto e vita familiare, cit.,
cap. IV, § 9.
[103] Per i richiami, Lo
Sardo, La comunione convenzionale
nel regime patrimoniale della famiglia, in Riv. notar., 1991, p. 1254 s. Sul punto v. anche Pittalis, Modifiche convenzionali alla comunione dei beni, in Aa. Vv.,
Trattato di diritto di famiglia, diretto da Zatti, III, Regime
patrimoniale della famiglia, Milano, 2002, p. 442 s. Sembra evidente che la
semplice stipula di una convenzione programmatica di comunione convenzionale
non rappresenti di per sé una donazione. Ad escluderlo varrebbe già infatti il
carattere reciproco delle previsioni, oltre che la (normale) presenza
dell’intento di costituire le premesse economiche per un regolare svolgimento
della vita coniugale, ciò che dovrebbe impedire in limine la possibilità di ravvisare un animus donandi (estremamente chiara sul punto la giurisprudenza
tedesca: cfr. per esempio BGH, 27
novembre
[104] Contra, Caccavale, Appunti per uno studio sul patto di famiglia: profili strutturali e
funzionali della fattispecie, cit., p. 28 s., che proprio dalla
qualificazione del patto alla stregua di una donazione fa derivare la
necessaria presenza di testimoni.
[105] Sul tema della possibilità di dar vita ad un
contratto della crisi coniugale coinvolgente eventualmente terzi soggetti v. Oberto, I contratti della crisi coniugale, II, cit., p. 1153 ss.; Id., Prestazioni «una tantum» e
trasferimenti tra coniugi in occasione di separazione e divorzio, cit., p.
135 ss., 154 ss.
[106] Reputa invece «probabilmente più corretta
l’interpretazione che ritiene necessaria l’assistenza dei testimoni» Petrelli, op. cit., p. 427.
[107] L’opinione dei primi commentatori della Riforma del
1975 era senz’altro favorevole alla sottoposizione alla lett. b) dell’art. 179
c.c. anche delle donazioni indirette (Schlesinger,
Della comunione legale, in Commentario alla riforma del diritto di
famiglia, a cura di Carraro, Oppo e Trabucchi, I, 1, Padova, 1977, p. 396,
nota n. 3; Corsi, Il regime patrimoniale della famiglia,
I, I rapporti patrimoniali tra coniugi in
generale. La comunione legale, in Trattato
di diritto civile e commerciale, già diretto da Cicu e Messineo e
continuato da Mengoni, Milano, 1979, p. 101; Cian
e Villani, Comunione dei beni tra coniugi (legale e
convenzionale), in Noviss. dig. it.,
Appendice, II, Torino, 1981, p. 184; Barbiera,
La comunione legale, in
Trattato di diritto privato,
diretto da Rescigno, III, Torino,
1982, p. 46; Bianca, Diritto civile, II, la famiglia - le successioni, Milano, 1985, p.
156). La tesi contraria, propugnata da alcuni Autori che si sono invece
espressi per la caduta in comunione di tale tipo di liberalità, è basata
su argomentazioni relative
essenzialmente alle difficoltà pratiche ed applicative di individuazione della
categoria in oggetto, con la conseguenza che la soluzione preferibile andrebbe
reperita sulla base della disciplina del c.d. negozio-mezzo (si pensi ad una
compravendita, nella quale il prezzo viene corrisposto dal donante indiretto),
con correlativa ricaduta del bene in comunione (così Zuddas, L’acquisto dei beni pervenuti al coniuge per
donazione o successione, in Aa. Vv.,
La comunione legale, a cura di
Bianca, I, Milano, 1989, p. 411; nello stesso senso, in precedenza, v. anche Bartolini e Gregori, Donazione e acquisti a titolo gratuito in
regime di comunione legale, in Aa. Vv.,
Il nuovo diritto di famiglia. Contributi
notarili, Milano, 1975, p. 163 s. nello stesso senso Di Transo, Comunione legale, Napoli, 1999, p. 40). Questa impostazione è stata
esattamente criticata da quella dottrina che, ponendo innanzi tutto in luce la
variegata molteplicità delle ipotesi riconducibili alla donazione indiretta, ha
individuato il caso più problematico (in relazione alle possibili ricadute ex artt. 177 e 179 c.c.) soprattutto
nell’acquisto di un bene con denaro fornito da un terzo (per tutti v. a Beccara, [Il regime legale]. I beni personali, in Aa. Vv., Trattato
di diritto di famiglia, diretto da Zatti, III, Regime patrimoniale della
famiglia, cit., p. 163 ss.). Al riguardo, va scartato l’argomento
incentrato sul favor communionis,
posto che l’eventuale volontà del donante di
destinare alla comunione il vantaggio oggetto della disposizione
potrebbe sempre concretizzarsi facendo intervenire entrambi i coniugi alla
conclusione del contratto (normalmente di compravendita) che fa da tramite per
la realizzazione della donazione indiretta. Decisivo appare invece il richiamo
al dato letterale. In effetti, proprio sull’impiego, da parte del Legislatore,
del termine «liberalità» (idoneo, come noto, ad inglobare anche la figura della
donazione indiretta: arg. ex art. 809
c.c.), si è fondata la giurisprudenza di legittimità, che nei suoi diversi
interventi sul punto, ha sempre manifestato di optare per la tesi tradizionale
della personalità dell’acquisto (si sono infatti pronunciate per
l’assoggettamento delle donazioni indirette all’art. 179, lett. b), c.c. Cass.,
15 novembre 1997, n.
[109] Ci si intende riferire a Cass., 27 febbraio 2003, n.
[112] Sul tema dei patti successori in generale, e delle
varie categorie di accordi che a tale figura appaiono ascrivibili – argomento,
questo, che non può certo essere trattato in questa sede – v. per tutti Giampiccolo, Il contenuto atipico del testamento. Contributo ad una teoria dell’atto
di ultima volontà, Milano, 1954,
p. 37 ss.; Id., Atto mortis causa, in Enc. Dir., IV, Milano, 1959, p. 232 ss.; De
Giorgi, I patti sulle successioni
future, Napoli, 1976, passim, p.
37 ss.; L. Ferri, Disposizioni generali sulle successioni, in Commentario
del codice civile, diretto da Scialoja e Branca, Bologna-Roma, 1997, p. 99
ss. In particolare sulla distinzione tra atto mortis causa, illecito, e post
mortem e/o sotto modalità di morte, lecito, seguendo la strada già
intrapresa in precedenza dallo stesso Giampiccolo v. De Giorgi, I patti
sulle successioni future, cit.; Capozzi, Successioni e donazioni, I, Milano, 1983, p. 33; Palazzo, Autonomia contrattuale e successioni anomale, Napoli, 1983; Lepri, Patto successorio, in Nuova giur. civ.comm.,
1985, I, p. 95 ss.; Padovini, Rapporto contrattuale e successione a causa
di morte, Milano, 1990; Costanza,
Negozio mortis causa o post mortem, in Giust. civ., 1991, I, p. 956 ss.; Putortì,
Promesse post mortem e patti successori, in Rass. dir. civ.,
1991, p. 789 ss.; Caccavale, Il divieto dei patti successori, in Aa.
Vv., Successioni e donazioni, a cura di Rescigno, I, Padova, 1994, p. 25
ss.; Caccavale,
Patti successori: il sottile confine tra
nullità e validità negoziale, in Notariato, 1995, p. 554 ss.; Antonini, Il divieto dei patti successori,
in Studium Juris, 1996, p. 601
ss.; F. Pene Vidari, Patti successori e contratti post
mortem, in The Cardozo Electronic Law
Bulletin, disponibile all’indirizzo web
seguente: http://www.jus.unitn.it/cardozo/Review/Contract/fpv.htm.
Per l’evoluzione storica dell’istituto cfr. Vismara,
Storia dei patti successori, I, II,
Milano, 1941, passim; Pertile, Storia del diritto italiano, IV, Torino, 1893, p. 4 ss.
[113] Su cui v. supra, § 5.
[114] Ieva, Il
trasferimento dei beni produttivi in funzione successoria: patto di famiglia e
patto d’impresa. Profili generali di revisione del divieto dei patti successori,
cit., p. 1373 s.
[115] Caccavale,
Appunti per uno studio sul patto di
famiglia: profili strutturali e funzionali della fattispecie, cit., p. 20.
[116] Merlo, Il patto di famiglia, cit., p. 5.
[117] E’ opportuno ricordare qui
che non viene soddisfatta l’intera quota di legittima bensì la porzione che a
ciascun legittimario spetterebbe sul bene oggetto del patto di famiglia, che,
nella maggior parte dei casi, non esaurisce l’intero asse ereditario. In altri
termini, occorre calcolare la quota che spetterebbe a ciascun legittimario
immaginando che quel singolo bene cada in successione.
[118] Per un’applicazione giurisprudenziale di siffatto
principio, assolutamente pacifico, v. ad es. Cass., 15 novembre 2004, n. 21616,
secondo cui «La possibilità di essere chiamato, in qualità di legittimario,
alla successione mortis causa di
altra persona ancora in vita non integra una situazione giuridica tutelabile in
sè, nè si risolve in una ragione di credito idonea a legittimare l’interferenza
nella sfera giuridica dell’altro soggetto (nel caso, esercitando un suo
diritto, ad esso surrogandosi ex art.
2900 cod. civ.)».
[119] Merlo, Il patto di famiglia, cit., p. 5; nello
stesso senso v. anche Petrelli, op. cit., p. 408.
[120] Merlo, Il patto di famiglia, cit., p. 5, 8; Petrelli, op. cit., p. 408.
[121] Così invece Caccavale, Appunti per uno studio sul patto di famiglia: profili strutturali e
funzionali della fattispecie, cit., p. 21.
[122] Sul carattere di patto
successorio della rinunzia ex art.
557, cpv., c.c. v. Santoro-Passarelli,
Dei legittimari, in Aa. Vv.,
Codice civile. Libro delle successioni
per causa di morte e delle donazioni, Commentario diretto da D’Amelio,
Firenze, 1941, p. 317, secondo cui «si tratta di un’applicazione particolare
del divieto dei patti successori rinunciativi»; v. inoltre Capozzi, Successioni e donazioni, I, cit., p. 322. Afferma il carattere
eccezionale del patto di famiglia nei confronti del divieto dei patti
successori anche Bolano, I patti successori e l’impresa alla luce di
una recente proposta di legge, in Contratti,
2006, p. 94.
[123] Cfr. quanto esposto supra, § 6,
circa l’immediata efficacia del patto di famiglia. Più
esattamente rileva Petrelli, op. cit., p. 408 s. che «In primo luogo,
il patto di famiglia produce effetti traslativi immediati e definitivi, non collegati cioè
all’apertura della successione: l’azienda o le partecipazioni sociali entrano
immediatamente nel patrimonio dell’assegnatario (con correlativa perdita del
potere di disposizione in capo all’imprenditore), e lo stesso vale per le attribuzioni patrimoniali a favore
dei legittimari. In secondo luogo, e come riflesso di tale efficacia immediata, l’oggetto
del contratto è determinato con riferimento al momento della relativa
stipula, essendo
irrilevanti successive modifiche nella consistenza o nel valore dei beni
attribuiti (il patto successorio istitutivo, al contrario, ha per oggetto l’id quod superest al momento
dell’apertura della successione). In terzo luogo, i beneficiari delle
attribuzioni patrimoniali sono individuati con riguardo al momento in cui il patto si perfeziona, e non con riferimento al
momento della morte: il che significa che nel caso di premorienza
dell’assegnatario al disponente, i beni assegnati, già entrati definitivamente
nel suo patrimonio, faranno parte della sua successione, e non di quella del
disponente».
[124] In questo senso v. Friedmann,
Prime osservazioni sui patti di famiglia,
in FederNotizie, marzo 2006, p. 62.
Per la necessaria partecipazione ai fini della validità del contratto «di tutti
i discendenti che sarebbero in quel momento legittimari» cfr. – anche se con
riferimento alla citata (v. supra, § 5) proposta elaborata dal gruppo di studio in tema di
«Successione ereditaria nei beni produttivi», dal contenuto non esattamente
coincidente con le disposizioni oggi in vigore – Zoppini, Il patto di
famiglia (linee per la riforma dei patti sulle successioni future), cit.,
p. 1269.
[125] Così Buffone,
op. loc. ultt. citt.; nello stesso
senso v. pure Venchiarutti, Patto di famiglia e successione nell’impresa,
in Persona e danno, 20 marzo 2006,
disponibile all’indirizzo web
seguente: http://www.personaedanno.it/site/sez_browse1.php?browse_id=3359&campo1=23&campo2=211a;
in senso contrario v. invece l’opinione di Caccavale,
Appunti per uno studio sul patto di
famiglia: profili strutturali e funzionali della fattispecie, cit., p. 13
ss., che, ad avviso dello scrivente, e come si avrà modo di vedere nel testo,
«pecca» però in senso opposto, arrivando a negare ai legittimari la veste di
parti del patto di famiglia.
[126] Nello stesso senso Venchiarutti,
op. loc. ultt. citt.
[127] In senso conforme v. Petrelli,
op. cit., p. 427 ss.
[128] Contra Petrelli, op. cit., p. 452, secondo cui i legittimari sopravvenuti sarebbero
addirittura vincolati al patto e potrebbero unicamente esperire le azioni ex art. 768-sexies c.c. Ma allo scrivente sembra che un tale stravolgimento di
un fondamentale principio, quale quello della privity of contract, potrebbe essere desunto solo da una chiara
deroga normativa, inesistente nel caso di specie.
[129] Questa è l’opinione di Merlo, Il patto di
famiglia, cit., p. 3.
[130] Così Merlo,
Il patto di famiglia, cit., p. 3.
[131] Sulla norma v. per tutti Tedeschi, op. cit.,
p. 199 ss.; cfr. inoltre Polacco, op. cit., p. 433 ss.
[132] Caccavale,
Appunti per uno studio sul patto di
famiglia: profili strutturali e funzionali della fattispecie, cit., p. 13
ss.
[133] Caccavale,
Appunti per uno studio sul patto di
famiglia: profili strutturali e funzionali della fattispecie, cit., p. 13.
[134] Fietta, Patto di famiglia, in CNN notizie. Notiziario di informazione del
Consiglio Nazionale del Notariato, 14 febbraio 2006, p. 14 (dell’articolo
in formato .pdf).
[136] Sulla base di quanto rilevato nel testo sembra dunque
emergere l’intenzione del Legislatore di attribuire effetti definitivi ed
irrevocabili alle attribuzioni oggetto del patto. In questo senso v. anche Lupetti, Patti di famiglia: note a prima lettura, cit., p. 11, il quale
rimarca che, se si dovesse imporre agli ex legittimari l’obbligo di
restituzione di quanto ricevuto, il patto di famiglia verrebbe ad assumere
connotati di aleatorietà, «in contrasto con la volontà del legislatore di
evitare, quanto più possibile, successioni aleatorie nell’azienda».
L’Autore rileva inoltre che «In realtà,
il motivo per cui il patto di famiglia non è rivedibile nel caso non
sopraggiungano “nuovi” legittimari (che non parteciparono al contratto) deriva
proprio dal fatto che la liquidazione dei diritti di legittima (ivi comprese le
eventuali rinunce) a favore dei partecipanti al patto si atteggia come un patto
successorio, come tale volto a definire da subito, tra i contraenti, i futuri
assetti successori».
[137] L’interrogativo è posto da Fietta, Patto di
famiglia, cit., p. 14.
[139] Così Merlin, Répertoire universel et raisonné de jurisprudence, IX, cit., p. 61.
[140] In questo senso cfr. Bonilini,
Gli effetti patrimoniali, in Bonilini e Tommaseo, Lo
scioglimento del matrimonio, in Il
Codice civile, commentario diretto da Schlesinger, Milano, p. 442; in senso
conforme v. anche Barbiera, Il divorzio dopo la riforma del diritto di
famiglia, in Commentario del codice
civile, diretto da Scialoja e
Branca, Bologna-Roma, 1979, p. 341; Id.,
Il divorzio dopo la seconda riforma,
Bologna, 1988, p. 121; Oberto, I contratti della crisi coniugale, II,
cit., p. 1056 ss.
[141] Cfr. Grziwotz, Wichtige Rechtsfragen zum Getrenntleben und
zur Scheidung, München, 1996, p. 134; Maurer,
Die rechtsgeschäftliche Vertragsübernahme, in BWNotZ, 2005, p. 115. Sull’inapplicabilità
dell’art. 785 cpv. c.c. al divorzio, nel diritto italiano, cfr. Cass., 13 marzo
1976, n.
[142] Cfr. Lupetti,
Patti di famiglia: note a prima lettura,
cit., p. 13.
[143] Sull’ammissibilità di un preliminare di patto di
famiglia cfr. infra,
§ 16.
[144] Per le quali esiste peraltro un elemento normativo
incontestabile dato dal richiamo di cui all’art. 163 c.c. alle convenzioni
«anteriori o successive al matrimonio», oltre ad un’indiscussa e millenaria
tradizione storica.
[145] Sul tema si fa rinvio per tutti a Oberto, I regimi patrimoniali della famiglia di fatto, cit., p. 195 ss.; Id.,
I contratti della crisi coniugale, I,
cit., p. 605 ss.
[146] Così Fietta, Patto di famiglia, cit., p. 2 s.; Petrelli,
op. cit., p. 418 s.
[147] Cfr. Busani, Se si aderisse alla tesi
dell’estensione, nel caso di denaro, strumenti finanziari e immobili, allora
basterebbe conferirli in una “società cassaforte” le cui quote siano oggetto
poi di patto, in Guida al dir., 2006, n. 13 del 1
aprile 2006, p. 46.
[148] Così Iannaccone, op. cit., p. 57.
[149] Così Friedmann, op. cit., p. 62; sostanzialmente nello stesso senso v. anche Bolano, op. cit., p. 94, il quale rileva che «solo colui che abbia una
partecipazione maggioritaria al capitale dell’impresa può, quale dominus effettivo dell’impresa stessa,
deciderne l’eventuale trasmissione». Di analogo avviso è Petrelli, op. cit., p. 415 ss.
[150] Caccavale,
Appunti per uno studio sul patto di
famiglia: profili strutturali e funzionali della fattispecie, cit., p. 8. Lo stesso Condò, op. cit.,
p. 59, il quale pure afferma che le partecipazioni che possono formare oggetto
del patto potrebbero essere solo quelle «di società di famiglia», è costretto
ad ammettere che «Ben difficile sarà identificare quali società si possano
definire di famiglia».
[151] Così Fietta, Patto di famiglia, cit., p. 3. Ammette
l’applicabilità della norma alla cessione del diritto di usufrutto Petrelli, op. cit., p. 420.
[152] Sull’ammissibilità di un patto di famiglia avente ad
oggetto la cessione della nuda proprietà dell’azienda v. – con riguardo alla
citata (v. supra, §
5) proposta elaborata dal gruppo di studio in tema di «Successione
ereditaria nei beni produttivi» – Zoppini,
Il patto di famiglia (linee per la
riforma dei patti sulle successioni future), cit., p. 1269.
[153] Cfr. anche Fietta,
Patto di famiglia, cit., p., 4.
[154] Busani
e Lucchini Guastalla, La
portata degli effetti del patto di famiglia inducono a ritenere che l’atto vada
inquadrato tra quelli di straordinaria amministrazione e che sia necessaria
l’autorizzazione per gli incapaci, in Guida al dir., 2006, n.
13 del 1 aprile 2006, p. 47.
[155] Così, con riguardo alla citata (v. supra, § 5) proposta elaborata dal
gruppo di studio in tema di «Successione ereditaria nei beni produttivi», Zoppini, Il patto di famiglia (linee per la riforma dei patti sulle successioni
future), cit., p. 1272.
[156] Cfr. supra, § 1, nota 1, §§ 3, s.
[157] Così Lupetti, Patti di famiglia: note a prima lettura, cit., p. 6; Petrelli, op. cit., p. 433 s.
[159] In senso contrario è
orientato Lupetti, Patti di famiglia: note a prima lettura,
cit., p. 13, che, riferendosi al caso della
successione per rappresentazione per effetto di rinunzia del legittimario,
riconosce la qualità di «terzi» ex
art. 1372 cpv. c.c. ai discendenti del legittimario, che succedono per
rappresentazione al disponente.
[160] Così Petrelli, op. cit., p. 434 s.
[162] Così Fietta, Patto di famiglia, cit., p. 5.
[163] Cfr. Fietta, Patto di famiglia, cit., p. 5.
[164] Polacco, op. cit., p. 288;
alle medesime conclusioni perveniva anche Belotti,
op. cit., p. 98 s.
[165] Cfr. per tutti Rescigno,
Manuale del diritto privato italiano,
Napoli, 1975, p. 266.
[166] Busani
e Lucchini Guastalla, La
portata degli effetti del patto di famiglia inducono a ritenere che l’atto vada
inquadrato tra quelli di straordinaria amministrazione e che sia necessaria
l’autorizzazione per gli incapaci, cit., p. 47.
[167] Cfr. supra, §§ 6 ss. Contra
Petrelli, op. cit., p. 410.
[168] Sotto il vigore del c.c. 1865 si discuteva circa la
possibilità di riconoscere al consiglio di famiglia o di tutela, ex art. 334, il potere di effettuare una
divisione d’ascendente relativamente al patrimonio dell’interdetto, ma
l’opinione dominante era per la negativa; il motivo di tale soluzione andava
ricercato nel carattere eccezionale della disposizione sopra menzionata
(concernente la dote e le altre stipulazioni contenute nei contratti di
matrimonio) e, soprattutto, l’impossibilità di immaginare che altri
esercitassero quell’ «alta magistratura domestica» di cui il partage d’ascendants costituiva
espressione (cfr. Polacco, op. cit., p. 308; Belotti, op. cit., p. 96 s.).
[170] Su cui v. per tutti Jannuzzi,
Manuale della volontaria
giurisdizione, Milano, 1990, p. 314 ss. In giurisprudenza v. Cass., 19
gennaio 1981, n.
[171] Così Torrente,
La donazione, Milano, 1956, p. 372;
cfr. inoltre Mazzacane, La giurisdizione volontaria nell’attività
notarile, Roma, 1980, p. 163.
[172] Così, per la donazione, Torrente, La donazione,
cit., p. 373; Id., Sull’accettazione della donazione dal padre
al figlio minore, in Foro it.,
1953, I, c. 149; Jannuzzi, Manuale della volontaria giurisdizione,
cit., p. 314. Contra, nel senso
dell’esistenza di un conflitto di interessi tra il minore ed entrambi i
genitori (donante e non donante), con conseguente necessità di nomina di un
curatore speciale, cfr. Cass., 19 gennaio 1981, n. 439, cit.
[173] Sul tema v. infra, § 20.
[174] Cfr. ad es. Cass., 16 settembre 2002, n.
[175] Cfr. Cass., 19 gennaio 1981, n. 439, cit.; in
dottrina v. per tutti Coppola, Donazione da genitori a figlio minore oltre
il conflitto d’interessi, in Fam. dir.,
2003, p. 632 ss.; Badalamenti, Sussiste il conflitto di interessi con il
genitore non donante?, in Vita notar.,
1990, III, p. CXXX ss.
[176] Per le ragioni che inducono ad escludere anche in
questo caso un conflitto d’interessi v. per tutti Badalamenti, op. loc.
ultt. citt.
[177] Sul concetto di continuazione dell’esercizio di
attività di impresa e sulla possibilità che esso comprenda l’acquisto sia a
titolo gratuito che oneroso d’una azienda, che peraltro si trovi già ad essere
costituita, v. per tutti Jannuzzi, Manuale della volontaria giurisdizione,
cit., p. 444 ss., 454 ss.
[178] Sul tema v. per tutti Oberto,
Il regime di separazione dei beni tra
coniugi. Artt. 215-219, cit., p. 59 s.
[179] Cfr. Trib. Pinerolo, 13 dicembre 2005 e Trib.
Pinerolo, 9 novembre
[180] O, come si è
visto, di usufrutto: cfr. supra,
§ 13.
[181] Sull’inammissibilità
di un preliminare di donazione v. per tutti Mirabelli,
Dei contratti in genere (artt. 1321-1469),
nel Commentario del codice civile, Torino, 1980, p. 212 ss.; Scognamiglio, Dei contratti in generale, in Commentario
del codice civile, diretto da Scialoja e Branca, Bologna-Roma, 1970, p. 438
ss. (contra v. però Biondi, Le donazioni, Torino, 1961, p. 1004 ss.; Di Lalla, Incertezze
in tema di promessa di donazione, in Foro
it., 1981, I, 1, c. 1702 ss.; Bertusi
Nanni, Note sul contratto
preliminare di donazione, in Riv.
notar., 1984, p. 123 ss.). La ragione di questa inammissibilità viene
reperita nel fatto che il carattere della spontaneità, implicito nella nozione
legale della donazione (attraverso il riferimento allo spirito di liberalità:
art. 769 c.c.), è incompatibile con l’adempimento e quindi con la natura di
«atto dovuto», propria del definitivo. In giurisprudenza per questa soluzione
cfr. Cass., 12 giugno 1979, n.
[184] Cfr. Rescigno, Manuale del diritto privato italiano, cit., p. 266.
[186] In questo senso v. Cass., 30 dicembre 2003, n.
[187] Cass., 10 gennaio 2004, n.
[188] Cass., 10 gennaio 2004, n. 206, cit.
[189] Cass., 21 ottobre 1995, n.
[190] Così Petrelli,
op. cit., p. 420 s.
[191] Nello stesso senso v. Petrelli,
op. cit., p. 415; contra Condò,
op. cit., p. 59, secondo cui «il
patto di famiglia non potrà superare il diritto di prelazione previsto
dall’art. 230-bis».
[192] Per quest’ultima osservazione v. Merlo, Il patto di famiglia, cit., p. 8 s. Come rilevato dalla Cassazione
(cfr. Cass., 12 gennaio 1989, n.
[193] Così Merlo,
Il patto di famiglia, cit., p. 9.
[194] Contra Petrelli, op. cit., p. 421 s., il quale è peraltro
costretto ad ammettere che il notaio non è in grado di sapere, con i mezzi a sua
disposizione, se con i beni del patrimonio sociale venga o meno esercitata
attività d’impresa.
[195] Sulle società immobiliari di godimento, cfr. per
tutti Ferrero, Le società immobiliari: profili descrittivi
e problemi di validità, in C.N.N.-Luiss,
La casa di abitazione tra normativa
vigente e prospettive, II - Aspetti
civilistici, Milano 1986, p. 11 ss.; Marchetti,
Le società immobiliari, ibidem, p. 213 ss.; De Paola, Immobiliare (società), in Digesto
discipline privatistiche, Sez. comm., VI, Torino 1991, p. 496 ss.; Costa, Le società di godimento tra disciplina civilistica e disciplina fiscale,
in Vita notar., 1995, p. 564 ss.; Baralis, Riflessioni sui rapporti fra legislazione tributaria e diritto civile.
Un caso particolare: le società semplici di mero godimento, in Riv. dir. comm., 2004, p. 171 ss.; in
giurisprudenza v. Cass., 9 luglio 1994 n.
[196] Cfr. per
tutti Galgano, sub art.
[197] Così Fietta, Patto di famiglia, cit., p. 7.
[198] Fietta, Patto di famiglia, cit., p. 7.
[199] Fietta, Patto di famiglia, cit., p. 7.
[200] Sul punto v., anche per i richiami, Merlo, Il patto di famiglia, cit., p. 9; cfr. inoltre Petrelli, op. cit., p. 415 s.
[201] I dati normativi di riferimento, come novellati dal
già citato decreto legislativo n. 6/2003, sono rappresentati dagli artt. 2355-bis c.c.
e 2469 c.c.
[202] Cfr. Merlo,
Il patto di famiglia, cit., p. 9.
[203] Cfr. il resoconto della
seduta della Commissione affari costituzionali del Senato, sottocommissione per
i pareri, del 31 gennaio 2006, n. 276, nel corso della quale il senatore
Pastore, con l’accordo della Commissione, ha sostenuto la conformità della
nuova normativa all’art. 3 Cost. sulla base dei rilievi riportati nel testo; v.
inoltre Petrelli, op. cit., p. 404 s.
[204] Cfr. Fietta, Patto di famiglia, cit., p. 8.
[205] In senso conforme, sul
carattere eccezionale delle norme del patto di famiglia, v. Petrelli, op. cit., p. 405.
[206] Ciò, quanto meno, secondo
la lettura preferibile che dell’art. 14 disp. prel. c.c. dottrina e
giurisprudenza danno, nel senso che, per l’appunto, la norma vieterebbe il solo
procedimento analogico e non l’interpretazione estensiva (per richiami sul
punto v. Guastini, sub art. 14 disp. prel. c.c., in Aa. Vv.,
Commentario al codice civile, diretto
da Cendon, I, Torino, 1991, p. 71 s.).
[207] Sull’immediata operatività
dell’effetto traslativo del patto cfr. supra, § 6.
[208] Ai sensi di questa disposizione «ciascuna nota [di
trascrizione, iscrizione o annotazione] non può riguardare più di un negozio
giuridico o convenzione oggetto dell’atto di cui si chiede la trascrizione,
l’iscrizione o l’annotazione». Sul riconoscimento del negozio giuridico da
parte della legislazione speciale v. per tutti Oberto,
Le cause in materia di obbligazioni, Giuffrè, 1994, p. 215.
[210] Cfr. Fietta, Patto di famiglia, cit., p. 8.
[212] E dunque senza l’intento di
ripetere dal debitore ciò che si è corrisposto al creditore: sul tema v. Torrente, La donazione, cit., p. 42; in giurisprudenza v. Cass., 3 maggio
1969, n. 1465 e, più di recente, Cass., 2 febbraio 2006, n. 2325.
[213] Che anche le liberalità indirette siano soggette a
collazione è desumibile dall’avverbio «indirettamente», di cui al testo
dell’art. 737 c.c.
[214] E lo stesso varrebbe anche
per il caso in cui a tale liquidazione provvedesse un terzo, non legato da un
rapporto di provvista con i beneficiari.
[215] A conclusioni
sostanzialmente diverse perviene Petrelli,
op. cit., p. 440 s., il quale, come
lo scrivente, ammette la possibilità di una liquidazione effettuata dal
disponente, ma la equipara, quanto agli effetti, all’attribuzione compiuta
dagli assegnatari dell’azienda o delle partecipazioni societarie, anche per
quanto attiene alla disposizione di cui all’art. 768-quater, comma quarto, c.c. (esonero da collazione e riduzione),
laddove l’attribuzione in discorso costituisce, come si è detto, una donazione
indiretta a favore degli assegnatari (dell’azienda o delle partecipazioni
sociali), che, in quanto esula dallo schema disciplinato dagli artt. 768-bis ss. c.c., non può beneficiare dei
relativi e speciali effetti mortis causa.
[216] Per il terzo, invece, il
problema non può porsi, atteso che lo stesso non è, per definizione, parte del
patto e che gli effetti descritti dalla norma in oggetto sono riferiti alla
sola successione del disponente.
[217] Cfr. Caccavale,
Appunti per uno studio sul patto di
famiglia: profili strutturali e funzionali della fattispecie, cit., p. 31, secondo cui «Anche il momento
dell’adempimento della predetta obbligazione deve ritenersi rimesso alla
disponibilità delle parti, le quali possono dunque convenire di posticiparlo ad
una fase successiva rispetto a quella della stipulazione del patto e della
eventuale liquidazione della quota dei legittimari».
[218] Sul quale v. Mariconda,
Il pagamento traslativo, in
Contratto e impresa, 1988,
p. 735 ss.; Id., Art. 1333 e
trasferimenti immobiliari, in Corr. Giur., 1988, p. 144 ss.; Sciarrone Alibrandi, Pagamento
traslativo e art. 1333 c.c., in Riv. dir. civ., 1989, II, p. 525 ss.; Costanza, Art. 1333 c.c. e
trasferimenti immobiliari solvendi causa, in Giust. civ., 1988,1, p. 1237 ss.; Gazzoni,
Babbo Natale e l’obbligo di dare,
in Riv. notar., 1991,
p. 1414 ss.; Maccarone, Obbligazione
di dare e adempimento traslativo, in
Riv. notar., 1994,
p. 1319 ss.; Oberto, Prestazioni
«una tantum» e trasferimenti tra coniugi in occasione di separazione e divorzio,
cit., p. 266 ss.; Id., I trasferimenti patrimoniali in occasione
della separazione e del divorzio, in Familia,
2006 (in corso di pubblicazione), § 7.
Sul problema in generale v. poi anche
[219] All’ammissibilità di negozi traslativi a causa
esterna perviene da tempo la più autorevole dottrina: cfr. M. Giorgianni, Causa, in Enc. dir., VI,
Milano, 1960, p. 564 ss.; Natoli, L’attuazione del rapporto obbligatorio.
Appunti dalle lezioni, II, Milano, 1967, p. 42 ss.; Mengoni, Gli acquisti
a non domino, Milano, 1975, p. 200 ss.; per ulteriori richiami cfr. Camardi, Principio consensualistico, produzione e differimento dell’effetto
reale, in Contratto e impresa,
1998, p. 572 ss., 590 ss. Tale conclusione trova, come noto, il suo punto
d’appoggio principale nella constatazione per cui nel nostro ordinamento positivo
non fanno certo difetto bene individuate ipotesi di atti del genere di quelli
testé descritti: si pensi, ad esempio, alle fattispecie disciplinate dagli
artt. 651, 1197 cpv., 1706 cpv. c.c. Neanche il fatto che il nostro sistema
abbia accolto il principio consensualistico può rappresentare un ostacolo al
riguardo, posto che qui il trasferimento non è qualificabile come astratto, ma
è pur sempre operato in virtù del consenso, appoggiato ad una valida causa ed
espresso nel negozio obbligatorio; come si è esattamente rilevato, l’art. 1376
c.c. agevola le parti, ma non può vincolarle contro la loro stessa volontà:
cfr. Chianale, Obbligazioni di dare e atti traslativi solvendi causa, in Riv. dir. civ., II, 1989, p. 246 ss.; Id., Obbligazioni
di dare e trasferimento della proprietà, Milano, 1990, p. 48 ss., cui si fa
rinvio anche per ulteriori richiami dottrinali; analoghe considerazioni anche
in Sacco e De Nova, Il contratto,
nel Trattato di diritto civile
diretto da Sacco, II, Torino, 1993, p. 56; Di
Majo, Causa e imputazione negli
atti solutori, in Riv. dir. civ.,
I, 1994, p. 782, il quale rileva che la causa
solvendi non intende porsi in concorrenza con la «regola consensualistica»,
che trova il suo baricentro nell’art. 1376 c.c., ma, anzi, per così dire, affiancarla
su terreni sui quali quella regola non è destinata a trovare applicazione; cfr.
inoltre Scalisi, Negozio astratto, in Enc. dir., XXVIII, Milano, 1978, p. 52
ss.; Sciarrone Alibrandi, op. cit., p. 525 ss.; Camardi, op. cit., p. 572 ss., 599 ss.; Maccarone,
Considerazioni d’ordine generale sulle
obbligazioni di dare in senso tecnico, in Contratto e impresa, 1998, p. 626 ss., 679 ss.; per una
rivisitazione in chiave critica della figura del negozio astratto v. L. Bozzi, op. cit., p. 199 ss.; sulla distinzione storica tra titulus e modus adquirendi v. Chianale,
Obbligazioni di dare e trasferimento
della proprietà, cit., p. 103 ss.; sull’applicazione specifica del tema
della causa praeterita al caso ai
trasferimenti immobiliari tra coniugi in sede di crisi coniugale cfr. Oberto, I trasferimenti mobiliari e immobiliari in occasione di separazione e
divorzio, in Fam. dir., 1995, p.
165 s.; Id., Prestazioni «una
tantum» e trasferimenti tra coniugi in occasione di separazione e divorzio,
cit., p. 266 ss.; Id., I trasferimenti patrimoniali in occasione
della separazione e del divorzio, in Familia,
2006 (in corso di pubblicazione), § 7. Del resto, che il principio
consensualistico possa essere derogato si desume anche dal secondo comma
dell’art. 1465 c.c. (in materia di risoluzione del contratto per impossibilità
sopravvenuta della prestazione), che consente che l’effetto traslativo o
costitutivo sia differito fino allo scadere di un termine, nonché dalla
ammissibilità nel nostro ordinamento, della clausola che eleva il pagamento del
prezzo a condizione sospensiva di efficacia del contratto (così Maccarone, Obbligazione di dare e adempimento traslativo, cit., p. 1334; Id., Considerazioni
d’ordine generale sulle obbligazioni di dare in senso tecnico, cit., p.
679).
[220] V., in particolare, Navarretta,
La causa e le prestazioni isolate,
cit., p. 8, secondo la quale il tratto distintivo della categoria delle
c.d. prestazioni isolate, ispirata ai Leistungsgeschäfte della
tradizione tedesca, è «il carattere unilaterale dell’effetto dell’attribuzione
patrimoniale».
[221] Cfr. Caccavale,
Appunti per uno studio sul patto di
famiglia: profili strutturali e funzionali della fattispecie, cit., p. 31; Fietta,
Patto di famiglia, cit., p. 10.
[223] Fietta, Patto di famiglia, cit., p. 6; Petrelli, op. cit., p. 439.
[224] Così Fietta, Patto di famiglia, cit., p. 12.
[225] Fietta, Patto di famiglia, cit., p. 7.
[226] Sul punto v.
infra, § 24.
[227] Così Petrelli, op. cit., p. 436 s.
[228] Caccavale,
Appunti per uno studio sul patto di
famiglia: profili strutturali e funzionali della fattispecie, cit., p. 32.
[229] Caccavale,
Appunti per uno studio sul patto di
famiglia: profili strutturali e funzionali della fattispecie, cit., p. 32
s.
[230] Merlo, Il patto di famiglia, cit., p. 8.
[231] Su cui v. per tutti Scognamiglio,
Collegamento negoziale, in Enc. dir., VII, Milano, 1960, p. 375
ss.; Messineo, Contratto collegato, in Enc. dir., X, Milano, 1962, p. 48 ss.; Clarizia, Collegamento negoziale e vicende
della proprietà: due profili della locazione finanziaria, Rimini, 1982; Schizzerotto, Il
collegamento negoziale, Napoli,
1983; Colombo, Operazioni economiche e
collegamento negoziale, Padova,
1999; Lener, Profili del collegamento
negoziale, Milano,
1999.
[232] Merlo, Il patto di famiglia, cit., p. 8.
[233] Sull’immediata operatività degli effetti traslativi
del patto cfr. anche quanto illustrato supra, § 6.
[234] Per l’ammissibilità di un pagamento differito ad una
data eventualmente anche successiva a quella del decesso del disponente v. Petrelli, op. cit., p. 445.
[235] Così invece Petrelli,
op. cit., p. 438; contra, Fietta,
op. loc. ultt. citt.
[236] Lupetti,
Patti di famiglia: note a prima lettura,
cit., p. 9.
[237] Fietta, Patto di famiglia, cit., p. 11 s.
[238] Così Caccavale,
Appunti per uno studio sul patto di
famiglia: profili strutturali e funzionali della fattispecie, cit., p. 34,
il quale però giustifica la conclusione con il non condivisibile assunto
secondo il quale «se gli originari legittimari vengono a mancare, poiché la
liquidazione dovrà andare comunque a beneficio di chi sia legittimario
all’apertura della successione, risulterebbe incongruo farla conseguire a
soggetti che è già stabilito debbano poi riversarla ad altri». Ad avviso dello
scrivente, invece, chi si trovi ad essere legittimario al momento della stipula
del patto ha diritto a trattenere quanto ricevuto (e pertanto a trasmetterlo ai
propri eredi, nel caso di premorienza: sul punto cfr. supra, § 12). Diverso è invece il
discorso per quanto attiene all’individuazione di chi possa partecipare al
patto in veste, per l’appunto, di legittimario o di sostituto di costui.
[239] Sul punto v. supra, § 14 e infra § 25.
[240] Cfr. Caccavale,
Appunti per uno studio sul patto di
famiglia: profili strutturali e funzionali della fattispecie, cit., p. 25
s.
[241] Su cui v. infra, §§ 23 s.
[243] In questo senso cfr. anche Caccavale, Appunti per
uno studio sul patto di famiglia: profili strutturali e funzionali della
fattispecie, cit., p. 35, il quale pone peraltro l’accento sui (condivisibili)
motivi di equità e ragionevolezza di tale soluzione.
[244] Caccavale,
Appunti per uno studio sul patto di
famiglia: profili strutturali e funzionali della fattispecie, cit., p. 35.
[245] Per tutti v. Capozzi,
Successioni e donazioni, I,
cit., p. 303; cfr. inoltre Palazzo,
Le successioni, I, Introduzione al diritto successorio,
istituti comuni alle categorie successorie, successione legale, in Aa.
Vv., Trattato di diritto privato, a cura di
Iudica e Zatti, Milano, 1996, p. 535.
[247] Cfr. Cass., 23 aprile 1969, n. 1311.
[248] Fietta, Il patto di famiglia, cit., p., 9.
[250] Caccavale,
Appunti per uno studio sul patto di
famiglia: profili strutturali e funzionali della fattispecie, cit., p. 35:
[251] Caccavale,
Appunti per uno studio sul patto di
famiglia: profili strutturali e funzionali della fattispecie, cit., p. 35
[252] Caccavale,
Appunti per uno studio sul patto di
famiglia: profili strutturali e funzionali della fattispecie, cit., p. 36
[254] Cfr. il § precedente.
[255] Secondo Fietta,
Patto di famiglia, cit., p. 12 s. non esisterebbero invece motivi per
escludere che l’assegnatario del bene impresa relativamente al resto dell’asse
debba imputare ex se quanto ricevuto, quantificabile nella differenza
del valore attribuito al bene impresa rispetto al valore di quanto da lui
liquidato agli altri legittimari, con la sola precisazione che il bene impresa
andrà pure esso imputato al valore determinato nel patto. Secondo Lupetti, Patti di famiglia: note a prima lettura, cit., p., 12, tale dovere
di imputazione ex se dovrebbe
desumersi dall’interpretazione estensiva (ma forse sarebbe più corretto dire:
dall’estensione analogica) del terzo comma dell’art. 768-quater c.c.; norma che però, come si è cercato di dimostrare, non
si riferisce all’imputazione in senso tecnico e da cui comunque non è possibile
desumere l’obbligo per i legittimari «liquidati» di imputare ex se quanto ricevuto a titolo di
liquidazione.
[257] Così Caccavale,
Appunti per uno studio sul patto di
famiglia: profili strutturali e funzionali della fattispecie, cit., p. 36
[258] Nello stesso
senso v. Merlo, Il patto di famiglia, cit., p. 10. Per la medesima conclusione, con
riferimento alla citata (v. supra, § 5) proposta elaborata dal gruppo di studio in tema di
«Successione ereditaria nei beni produttivi», cfr. Zoppini, Il patto di
famiglia (linee per la riforma dei patti sulle successioni future), cit.,
p. 1272.
[259] Sulla cui peculiare
situazione v. supra,
§ 12.
[260] Merlo, Il patto di famiglia, cit., p. 10.
[261] Questo è invece l’avviso di Fietta, Patto di
famiglia, cit., p. 13.
[262] In questo senso v. anche Merlo, Il patto di
famiglia, cit., p. 10; Petrelli, op. cit., p. 458.
[263] Così Fietta, Patto di famiglia, cit., p. 13 s.
[264] Così Merlo,
Il patto di famiglia, cit., p., 11.
[265] Merlo, Il patto di famiglia, cit., p., 12.
[266] Cfr. Capozzi, Il mutuo dissenso nella pratica notarile, in Vita notar., 1993, p. 635 ss. Secondo Gazzoni, Manuale di
diritto privato, Napoli, 2004, p. 1008, il mutuo dissenso rappresenta un
negozio con esclusivi effetti solutori e non è idoneo a produrre l’effetto
traslativo costituito dal ritrasferimento. Di conseguenza, secondo tale tesi,
l’effetto del ritrasferimento verrebbe prodotto da un atto separato solutionis
causa, giustificato dal pregresso accordo.
[267] Così Merlo,
Il patto di famiglia, cit., p., 13.
[268] Così Merlo,
Il patto di famiglia, cit., p., 13.
[269] Di Majo,
Recesso unilaterale e principio di
esecuzione, in Riv. dir. comm.,
1963, II, p. 112; De Nova, in Sacco e De
Nova, Obbligazioni e contratti,
in Trattato di diritto privato,
diretto da Rescigno, 10, II, Torino, 1982, p. 548; contra Cass., 16 novembre 1973, n. 3071, secondo cui «Non può
configurarsi come recesso unilaterale a norma dell’art 1373 cod. civ. una
facoltà esercitabile, per espressa previsione delle parti, soltanto a contratto
eseguito. (Nella specie
[270] In questo senso v. anche Villani, Il nuovo patto di famiglia, in Pratica fiscale e professionale, n. 10, 6 marzo 2006; Lupetti,
Patti di famiglia: note a prima lettura,
cit., p. 9; Buffone, op. loc. ultt. citt.;
Venchiarutti, op. loc. ultt. citt.
[271] Così Villani, Il nuovo patto di
famiglia, loc. cit.
[273] Per un approfondimento del tema con riguardo agli
accordi in sede di separazione consensuale tra coniugi cfr. Oberto, Simulazioni e frodi nella
crisi coniugale (con qualche accenno storico ad altri ordinamenti europei),
nota a Cass., 5 marzo 2001, n.
[274] Così anche Petrelli,
op. cit., p. 458.
[275] Sulla disciplina della conciliazione stragiudiziale
in materia societaria cfr. Minervini,
La conciliazione stragiudiziale delle controversie in materia societaria, in Società, 2003, p. 657 ss.; Brunelli, Clausole compromissorie, dell’arbitrato
e della conciliazione stragiudiziale in materia societaria, in Aa. Vv., La
riforma delle società. Aspetti applicativi, a cura di Bortoluzzi, Torino, 2004, p. 421 ss.; Miccolis,
La conciliazione e la disciplina del nuovo processo introdotto con il D.Lgs.
n. 5 del
[276] Cfr. Buffone, op. loc. ultt. citt.
[277] Cfr. da ultimo Corte cost., 8 giugno 2005, n. 221,
con ampi richiami ai precedenti della stessa Corte in motivazione.
[278] V. Corte cost., 8 giugno 2005, cit.
[279] Cfr. Busani,
L’incertezza
riguarda il rito da seguire nel processo successivo al tentativo fallito, in Guida
al dir., 2006, n. 13 del 1 aprile 2006, p. 49.
[280] Così Busani,
L’incertezza riguarda il rito da seguire
nel processo successivo al tentativo fallito, cit., p. 49.