SULLA NATURA DELLA COMUNIONE RESIDUALE
AL MOMENTO DELLA CESSAZIONE DEL REGIME
LEGALE
ABSTRACT:
La Cassazione (penale)
si trova ad affrontare per la prima volta ex professo il tema della natura della comunione de residuo, una volta intervenuta una delle cause di
cessazione del regime legale contemplate dall’art. 191 c.c. Pur nella
stringatezza della parte di motivazione attinente a tale profilo, la Corte mostra
di voler propendere per il carattere meramente creditizio (e non reale) del rapporto
che ai sensi dell’art. 178 c.c. si viene ad instaurare tra coniugi sugli
incrementi patrimoniali in questione. La decisione offre così lo spunto per una
rivisitazione delle principali questioni che ruotano attorno all’individuazione
dei diritti di compartecipazione differita competenti ai coniugi, a seguito
dello scioglimento del regime legale, in una prospettiva estesa anche al
diritto comparato.
Sommario: 1. La fattispecie affrontata dalla decisione in commento ed i
limiti della presente indagine. – 2. La natura della
comunione residuale, nel quadro delle scelte che un legislatore (serio)
dovrebbe operare, optando per un regime di compartecipazione differita agli
acquisti. – 3. Altre questioni astrattamente riferibili alla disciplina
della compartecipazione differita al valore degli acquisti. Strumenti di tutela
del coniuge titolare del diritto di partecipazione. Rilevanza delle passività e
possibile compartecipazione per quote non uguali. – 4. Illustrazione delle due principali tesi che si contendono
il campo sulla natura della comunione residuale, una volta che sia intervenuta
la cessazione del regime. La sistematica elusione del problema da parte della
giurisprudenza di legittimità. – 5. Preferibilità della
tesi della natura creditizia del diritto di compartecipazione. – 6. Confutazione delle critiche alla tesi della natura
creditizia del diritto di compartecipazione. Rilievo dell’argomento fondato
sulla comparazione. – 7. Valutazioni conclusive circa la decisione
in commento.
1. La
fattispecie affrontata dalla decisione in commento ed i limiti della presente
indagine.
La sentenza in commento conferma la decisione con la
quale il G.I.P., in funzione di giudice dell’esecuzione, aveva rigettato l’istanza
di restituzione pro quota di un
terreno e di un opificio, di cui con precedente sentenza era stata disposta la
confisca a carico del coniuge della ricorrente. Riconosciuta la natura di beni
appartenenti alla comunione de residuo
del marito, ex art. 178 c.c., dato
atto dell’intervenuta cessazione del regime legale per effetto di convenzione
di separazione dei beni stipulata successivamente all’acquisto di quei cespiti,
la Cassazione ritiene non proponibile la rivendica della quota su di essi da
parte della moglie, che aveva in primo luogo invocato il carattere reale del
diritto spettante al coniuge dell’imprenditore ex art. 178 c.c., ma si era anche appellata (in via, evidentemente,
subordinata) al mancato rispetto delle formalità previste dall’art. 179 c.c.
per la conservazione del carattere personale del bene in capo al coniuge
imprenditore.
Non si tratta certo della prima occasione in cui la
Suprema Corte si trova a doversi confrontare con le conseguenze penali (o
comunque collegate a questioni penali o, lato
sensu, di pubblica sicurezza) dell’adesione all’una o all’altra delle tesi
che si contendono il campo in merito ad uno o più aspetti della comunione
legale. Basti ricordare la fattispecie risolta nel medesimo 2010 da una
sezione, quella volta, civile, in merito alle conseguenze sulla comunione
(immediata) del provvedimento di confisca emesso, ai sensi dell’art. 2-ter, l. 31 maggio 1965, n. 575, su beni
di persona sottoposta a procedimento di prevenzione per sospetta appartenenza ad
associazione di tipo mafioso [1]. E’ evidente che, in casi come questo, esattamente
come quelli di opposizione alle esecuzioni iniziate da creditori particolari di
un coniuge, il giudice si trova di fronte non già ad un conflitto
endoconiugale, bensì ad una coppia che, se ci si passa l’espressione, cerca di
«salvare il salvabile», tentando di rivendicare in capo al coniuge non
coinvolto nel provvedimento penale o amministrativo (o comunque «espropriativo»)
la quota (vera o supposta che sia) in comunione.
Ora tocca ad una sezione penale affrontare due distinti
problemi attinenti alla comunione de
residuo.
Il primo [2] riguarda i rapporti tra l’art. 178 c.c. [3], da un lato, e l’art. 179, lett. d), c.c., dall’altro.
Qui sarà qui solo il caso di dire che la decisione – nell’escludere il rilievo,
nella specie, dell’art. 179 c.c. e dunque la caduta in comunione immediata dei
beni aziendali acquistati senza il rispetto delle prescrizioni di cui al citato
articolo – si schiera (condivisibilmente, ad avviso di chi scrive) con l’opinione
dominante, la quale evidenzia la correttezza della scelta legislativa, fondata
sulla distinzione tra beni aziendali (cui si riferisce l’art. 178 c.c.) e beni
relativi all’attività professionale del coniuge (cui si riferisce l’art. 179
c.c.), giustificandola in base al maggior valore normalmente rivestito dal
complesso dei beni destinati all’esercizio dell’impresa, rispetto a quelli che
servono allo svolgimento di un’attività professionale non imprenditoriale [4]. L’argomento, in considerazione della sua notorietà e
del numero di contributi sullo stesso rinvenibile, non verrà trattato nel
presente commento. Esso è stato da chi scrive affrontato funditus nell’opera sulla comunione legale richiamata in nota, cui
ci si permette pertanto di fare integrale rinvio [5].
Vale la pena, invece, soffermarsi in questa sede sull’altro
tema toccato dalla decisione, che forma precipuo oggetto dei §§ che seguono.
Lo studio del panorama europeo dei sistemi di
comunione degli (e di compartecipazione differita agli) acquisti operati dai
coniugi [6] mostra quali siano gli snodi inevitabili che un ipotetico
legislatore, il quale intendesse optare in astratto per l’uno o più degli
svariati modelli disponibili, sarebbe inevitabilmente portato ad affrontare. La
circostanza che ciò sia avvenuto solo in parte, e oltre tutto in maniera
piuttosto approssimativa ed incompleta, ad opera del nostro riformatore del
1975, porta come conseguenza che, a distanza di alcuni decenni, debbano darsi
come ancora irrisolti problemi che diversi ordinamenti stranieri hanno invece
adeguatamente affrontato da tempo, apprestando vie e rimedi che avrebbero
potuto essere, puramente e semplicemente, trasposti nel nostro sistema.
Il
primo profilo attiene all’individuazione del quid costituisca oggetto di
compartecipazione differita, nel momento in cui il diritto acquista attualità
all’atto della cessazione del regime, e cioè se tale entità costituisca una situazione
di contitolarità reale, ovvero una mera pretesa a livello di credito di valore,
espresso in numerario.
Sul
punto, si staglia come netta, agli occhi del comparatista, una preferenza per
una compartecipazione in termini di valore, con conseguente determinazione finale
di un credito in denaro. Possono ascriversi a questa regola, oltre ai regimi
legali tedesco e svizzero, quelli convenzionali di compartecipazione agli
acquisti francese, spagnolo, catalano e belga in altra sede illustrati [7],
sebbene la concreta liquidazione del credito possa talora comportare anche l’assegnazione
di beni di un coniuge all’altro [8].
Non
fanno peraltro difetto, nel panorama offerto dall’indagine comparata, taluni
sistemi nei quali il diritto maturato al momento della cessazione del regime
consiste in una vera e propria contitolarità reale. E’ il caso della société
d’acquêts (regime legale) del Québec [9],
posto che, ai sensi dell’art. 467 cpv.
del relativo code civil, all’atto della cessazione del
regime, ogni coniuge conserva la titolarità dei propres ed acquista il diritto di «accepter le partage des acquêts
de son conjoint ou d’y renoncer, nonobstant toute convention contraire» (cfr.
poi quanto previsto dall’art. 481 dello stesso Code, secondo cui la massa dei beni in comunione «est partagée, par
moitié, entre les époux», anche se è lasciata ai coniugi la scelta di
corrispondere la parte dovuta «en numéraire ou par dation en paiment»). Analoga
via è battuta dal regime (questa volta convenzionale) brasiliano della participação final nos aqüestos [10],
ove l’art. 1672 del relativo codice civile prevede chiaramente che ogni coniuge
consegue, all’atto dello scioglimento, il diritto alla metà degli acquisti
operati in costanza di regime, laddove l’attribuzione di un credito pari alla
metà del valore dei beni è disposta soltanto in via suppletiva, «se não for
possível nem conveniente a divisão de todos os bens em natureza» (art. 1684 del
medesimo codice).
Naturalmente,
a tali ultimi esempi andrebbero aggiunti i regimi legali dei Paesi Scandinavi
(ove pure la contitolarità sulla massa in comunione opera in modo reale a
partire dal momento della cessazione del regime) [11],
qualora questi dovessero essere annoverati optimo iure tra quelli a
compartecipazione differita. In realtà, le limitazioni al potere dispositivo
dei coniugi, già operanti durante la vigenza del regime, inducono ad avvicinare
questi ordinamenti piuttosto a quelli di comunione, che non a quelli di
compartecipazione (differita). In questi ultimi, invero, la tutela del coniuge
passa attraverso impugnative che generano effetti per lo più «interni» (nelle
relazioni, cioè, inter coniuges, mercé la concessione di rimedi di tipo
sostanzialmente risarcitorio o perequativo), ovvero, quando tali sistemi
concedono un’impugnativa verso terzi, ciò fanno solo per gli atti compiuti a
titolo gratuito, ovvero fraudolenti, se a titolo oneroso: la «logica di fondo»
rimane, dunque, quella lato sensu revocatoria. Il coniuge leso non si
rivolge al terzo per far valere in via «reipersecutoria» la sua (com)proprietà,
ma per ottenere la declaratoria di inefficacia di un atto in frode di una
pretesa fondamentalmente creditoria ch’egli avanza verso il coniuge. Negli
ordinamenti scandinavi, invece, l’impugnativa dell’atto dispositivo, allorché
concessa, è legata non tanto al carattere (eventualmente) fraudolento dello
stesso (nel senso di: diretto a frustrare una pretesa risarcitoria), quanto
alla preminente circostanza della pretermissione del coniuge, per ottenere una
dichiarazione di «invalidità» dell’atto dispositivo; con un meccanismo, quindi,
che appare proprio dei (o comunque – facendo salve, beninteso, le particolarità
dei vari sistemi e le difficili trasferibilità delle astratte categorie
giuridiche – non troppo lontano dai) sistemi di comunione attuale ed immediata.
Ed
in questo (cioè proprio nel carattere del rimedio concesso per la violazione
delle regole d’amministrazione), forse, potrebbe risiedere la «vera» differenza
tra comunione e compartecipazione, al di là delle confusioni terminologiche sul
punto, cui non è estraneo lo stesso legislatore, il quale (come più volte posto
in luce) usa talora il termine «comunione» per designare fenomeni puramente
compartecipativi, con esclusione di qualsivoglia effetto di contitolarità
immediata: dalla germanica Zugewinngemeinschaft [12]
all’italica comunione de residuo.
Andrà
ancora aggiunto che l’opzione legislativa, invece, per il mero diritto «finale»
di credito comporta inevitabilmente l’ulteriore necessità di individuare
legislativamente con precisione se tale diritto investe quei soli incrementi di
valore dei rispettivi patrimoni che derivano dall’acquisizione ai patrimoni
medesimi, in costanza di regime, di nuovi «beni», cioè di nuove entità
patrimoniali, oggettivamente individuabili (si pensi, sostanzialmente, alla
soluzione propria del regime legale elvetico, ma anche a quella dei regimi
convenzionali di partecipazione spagnolo e francese, nonché a quella dell’ordinamento
italiano, per ciò che attiene alla comunione residuale), ovvero, in
alternativa, se in qualche modo vadano computati (oltre agli incrementi di cui
sopra) anche i meri incrementi di valore di cespiti di cui i coniugi già erano
titolari in epoca anteriore all’instaurazione del regime (questa è, ad esempio,
la soluzione tedesca) [13].
Altro
punto fondamentale, legato all’opzione di politica legislativa per la
compartecipazione di tipo obbligatorio (e non reale) attiene alla
determinazione del valore iniziale: si tratta, cioè, di stabilire se i beni
esistenti al momento di entrata in vigore per la coppia del regime di compartecipazione
vadano stimati al valore che essi avevano in quel momento (ovviamente
rivalutato in base agli indici relativi alla perdita di potere d’acquisto della
moneta), ovvero a quello che quegli stessi beni posseggono al momento dello
scioglimento (o, in alternativa, a quello della divisione). La prima soluzione
è, ad esempio, quella seguita dalla Zugewinngemeinschaft [14];
la seconda, quella della participation aux acquêts francese [15].
Sarà
il caso di aggiungere, chiudendo questa breve panoramica comparata, che anche
la recente convenzione bilaterale franco-tedesca sul regime patrimoniale dei
coniugi si muove proprio nella direzione della predisposizione di un regime convenzionale
di partecipazione agli acquisti (participation aux acquêts/Wahl-Zugewinngemeinschaft),
modellato su quello conosciuto dal Code Civil agli artt. 1569-1581, come
regime convenzionale e dal BGB ai §§ 1363-1390 ss. come regime legale [16].
Il
secondo punto di un qualche rilievo con riguardo all’alternativa «comunione vs.
compartecipazione differita al valore degli acquisti» concerne l’individuazione
degli strumenti di tutela del coniuge il cui patrimonio, in costanza di regime,
abbia subito il minor incremento rispetto a quello del consorte. Non è qui
possibile accennare alla sintomatica (e, per molti versi, dolorosa) esperienza
della tutela (rectius: degli sforzi per pervenire ad una tutela) del
coniuge debole nel contesto della comunione residuale italiana [17].
Qui varrà la pena ricordare che, nel sistema tedesco, il § 1379 BGB
prevede un preciso dovere di informazione sulla consistenza patrimoniale dei
coniugi, non solo al momento dello scioglimento del regime, ma anche in caso di
richiesta anticipata di Ausgleich da parte di uno di essi. A tale
disposizione s’aggiunge poi quanto stabilito dai commi secondo e terzo del §
1375 BGB, a mente dei quali si imputano al patrimonio finale dei coniugi
anche, in linea di massima, le attribuzioni patrimoniali effettuate a titolo
gratuito, così come gli atti di dispersione del patrimonio, ovvero ancora gli
atti fraudolentemente posti in essere al fine di danneggiare l’altro coniuge,
ad eccezione di quelli cui quest’ultimo abbia espressamente consentito.
In
maniera assai simile procedono il codice civile svizzero, per il relativo regime
legale [18],
nonché, per i rispettivi sistemi convenzionali di partecipazione, quello
francese [19],
quello spagnolo [20],
quello catalano [21]
e quello brasiliano [22],
tutti volti, in buona sostanza, a concedere la possibilità di attaccare l’atto
dispositivo a titolo gratuito (sempre, o con l’eccezione delle donazioni d’uso),
oltre a quello a titolo oneroso, peraltro solo a condizione che abbia carattere
fraudolento [23]
(e dunque, come si diceva, in buona sostanza, in un’ottica «revocatoria» di
atti in pregiudizio di un credito pecuniario). Il codice québécois, dal
canto suo, si limita, sempre con riferimento al regime legale della société
d’acquêts, a vietare i negozi dispositivi inter vivos di «acquêts à
titre gratuit, si ce n’est de biens de peu de valeur ou de cadeaux d’usage» [24].
Tuttavia è altresì disposto (conformemente a quanto avviene in Francia per la participation
aux acquêts: cfr. art. 1571 c.c. fr.) che, allorquando un bene acquistato,
o il cui valore sia accresciuto in costanza di regime, sia stato alienato prima
della cessazione della société, «l’enrichissement est évalué au jour de
l’aliénation»: il che induce a ritenere che nel computo del credito dell’altro
coniuge si proceda fittiziamente a tenere conto anche di tale entità
patrimoniale [25].
Il terzo punto-chiave attiene ai rapporti con i
creditori, specie allorquando la concezione della comunione differita del
genere «creditizio»: la questione è qui di sapere se il valore dei beni (con
conseguente determinazione del credito di partecipazione) vada calcolato al
netto dei debiti personali dei coniugi.
La tendenza sulla questione sembra uniformemente
orientata a considerare la sola componente dell’incremento patrimoniale al
netto dei debiti: ciò è stabilito, in linea generale, dal § 1375 BGB per la tedesca Zugewinngemeinschaft («Endvermögen ist das Vermögen, das einem Ehegatten
nach Abzug der Verbindlichkeiten bei der Beendigung des Güterstands gehört»), dall’art.
210 del codice civile svizzero («L’aumento è dato dal valore totale degli acquisti,
inclusi i beni reintegrati ed i compensi e dedotti i debiti che li gravano»),
per il locale regime legale di partecipazione agli acquisti, dal sistema
spagnolo, che, nella determinazione del patrimonio finale per il calcolo del
credito di partecipazione prevede la deduzione di tutti i debiti non ancora
estinti [26], stabilendo altresì che «Los créditos que uno de los
cónyuges tenga frente al otro, por cualquier título, incluso por haber atendido
o cumplido obligaciones de aquél, se computarán también en el patrimonio final
del cónyuge acreedor y se deducirán del patrimonio del cónyuge deudor» (art.
1426), così come dal modello francese (cfr. art. 1574 cpv. c.c. fr.), secondo cui «De l’actif ainsi reconstitué, on déduit
toutes les dettes qui n’ont pas encore été acquittées, y compris les sommes qui
pourraient être dues au conjoint». Da questi ordinamenti sembra discostarsi quello catalano,
che limita la deduzione ai debiti «contrets durant la vigència del règim per
qualsevol dels cònjuges amb vista al manteniment de les despeses familiars»,
soggiungendo che «Aquesta deducció s’ha de fer d’acord amb les normes de
contribució a les despeses familiars» (art. 56, lett. c.
Diversamente
operano i sistemi partecipativi che attribuiscono un vero e proprio diritto di
contitolarità reale differito nel tempo.
Così
il codice québécois si preoccupa di fare espressamente salvi i diritti
dei creditori sui patrimoni personali dei coniugi anche dopo lo scioglimento
del regime legale della société des acquêts, peraltro solo fino al
momento del partage finale. Dopo siffatto evento «les créanciers
antérieurs peuvent uniquement poursuivre le paiement de leur créance contre l’époux
débiteur, à moins qu’il n’ait pas été tenu compte de cette créance lors du
partage. En ce cas, ils peuvent, après avoir discuté les biens de leur
débiteur, poursuivre le conjoint. Chaque époux conserve alors un recours contre
son conjoint pour les sommes auxquelles il aurait eu droit si la créance avait
été payée avant le partage»: cfr. art. 484 cpv. del Code civil du Québec.
Da notare che l’ultimo comma di tale articolo conserva una sorta di bénéfice
d’émolument [27]:
«Le conjoint de l’époux débiteur ne peut, en aucun cas, être appelé à payer une
somme supérieure à la part des acquêts qu’il a reçue de son conjoint». Quest’ultima
disposizione viene sostanzialmente ripresa dal sistema brasiliano della participação
final nos aqüestos [28]
che, per il resto, preferisce eludere il problema della tutela dei creditori
personali all’atto della cessazione del regime, affrontando la questione dal
solo punto di vista della comunicazione dei debiti, cioè della determinazione
del lato passivo del rapporto obbligatorio [29].
Ultima
delle «grandi questioni» ineludibili del sistema di compartecipazione agli
incrementi patrimoniali conseguiti post nuptias attiene al profilo della
liceità di una clausola che preveda tale compartecipazione in misura non
egualitaria tra i coniugi. Anche qui, nel panorama di diritto comparato, spicca
il modello francese, che, in linea con quanto stabilito per il regime legale [30]
(oltre che nel solco, come visto, di una plurisecolare tradizione) attribuisce
piena libertà di previsione di un partage inégal [31].
Analogamente, sebbene con talune limitazioni, procedono il legislatore spagnolo
[32] e
quello catalano [33].
Piena libertà contrattuale viene garantita (anche) su questo punto dal sistema
tedesco, pure in assenza di una specifica disposizione al riguardo [34].
Tornando a considerare il nostro ordinamento ed
avvicinandoci al cuore della motivazione della sentenza qui in esame, va
rimarcato come uno dei rompicapo più ardui con i quali dobbiamo confrontarci
nel tentativo di dipanare la matassa delle questioni poste dal regime di
comunione legale attiene all’individuazione della natura della comunione de residuo, una volta che sia
intervenuta una delle cause di scioglimento del regime previste dall’art. 191
c.c.
Al riguardo, due tesi si contendono il campo.
Da un lato, quella della formazione ex lege di una situazione di reale
contitolarità circa i diritti in oggetto e, dall’altro, quella della natura
puramente creditizia delle pretese dei coniugi, che si risolverebbero in una
mera partita di conto tra i valori delle due masse, con conseguente nascita di
un diritto di credito, in capo al coniuge titolare della massa meno
consistente, sulla differenza tra la metà del valore del patrimonio dell’altro
– ovviamente, si sta qui parlando solo di quello rilevante ex art. 177, lett. b) e c), nonché eventualmente 178 c.c. – e la
metà della propria massa ugualmente destinata alla comunione residuale [35]. Valori, questi, che, secondo tale seconda tesi,
andrebbero calcolati, oltre tutto, una volta dedotti i rispettivi debiti
personali [36].
Prima di prendere posizione sul punto sarà opportuno
soffermarsi un momento ad esaminare le decisioni in cui la questione in esame è
stata, per così dire, solo sfiorata dalla giurisprudenza di legittimità. Una
consistente serie, verrebbe da dire, di occasioni mancate in cui la questione
non era, certo, stata sollevata dalle parti, ma in relazione alle quali una
presa di posizione al riguardo (eventualmente anche d’ufficio) avrebbe potuto
determinare un esito diverso delle relative controversie e, soprattutto,
avrebbe potuto contribuire a fare chiarezza su di un aspetto ancora estremamente
oscuro del regime legale.
In primis potrà citarsi la decisione con cui nel 1986 la
Suprema Corte stabilì, per la prima volta, che ai beni aziendali ex art. 178 c.c. non poteva trovare
applicazione l’art. 179, lett. d), c.c. Nella specie si trattava di risolvere
un conflitto tra il coniuge dell’imprenditore e i creditori particolari di
quest’ultimo, che avevano pignorato per intero un bene aziendale, sulla base
dell’assunto secondo cui tale immobile, ancorché acquistato in regime legale,
doveva ritenersi personale dell’imprenditore, perché obiettivamente destinato
all’impresa gestita da quest’ultimo. Pur dovendosi occupare di rapporti
relativi ad un regime di comunione ancora in atto, la Corte affermò che «allo
scioglimento della comunione, del valore di essi [scil.: dei beni in comunione de
residuo] si dovrà tener conto in accredito al coniuge non imprenditore» [37]. La frase, pur se in evidente obiter (la situazione, lo si ripete, non concerneva una comunione
sciolta), sembra mostrare un netto favore per la tesi del mero diritto di
credito.
In successive decisioni, però, la Cassazione, dovendo
pronunziarsi sulla titolarità (dopo lo scioglimento del regime) di saldi attivi
di conti correnti o di depositi bancari contenenti proventi di attività
separata di uno dei coniugi ex art.
177, lett. c), c.c., non ha esitato ad esprimersi in termini di
«contitolarità», proprio come se il coniuge agente fosse diventato, all’atto
del verificarsi di una delle situazioni previste dall’art. 191 c.c., contitolare
del diritto di credito verso la banca, e non creditore di un valore verso il
coniuge [38]. In nessuno di tali arresti il tema è stato peraltro
preso espressamente e consapevolmente in esame [39].
Non sono mancate poi occasioni in cui la Cassazione,
pur senza esprimersi su questioni di rivendica o di contitolarità, ha emesso
decisioni logicamente incompatibili con la tesi della mera pretesa creditoria ex communione de residuo. Così nel 2000,
di fronte alla rivendica della quota avanzata dalla moglie di un fallito su
beni appresi dal curatore, la Corte ha deciso che il fallimento di uno dei
coniugi in comunione legale «determina la comunione de residuo, sui beni destinati post
nuptias all’esercizio dell’impresa, soltanto rispetto ai beni che dovessero
residuare dopo la chiusura della procedura» [40], mentre analogo principio è stato ribadito quattro
anni dopo [41]. E’ evidente che, se si fosse optato per la tesi del
rapporto meramente obbligatorio verso il coniuge, la rivendica della quota sui
beni del fallito non avrebbe dovuto trovare accoglimento per l’assorbente
ragione dell’inconfigurabilità di un diritto reale su tali cespiti.
5. Preferibilità
della tesi della natura creditizia del diritto di compartecipazione.
Se la tesi della natura reale della partecipazione de residuo del coniuge ha il pregio di
corrispondere maggiormente al tenore letterale della disposizione, che parla,
per l’appunto, di «comunione» [42], nonché il vantaggio ermeneutico di unificare le
problematiche della natura giuridica e del trattamento normativo della
comunione (già) immediata e di quella differita, nella fase successiva allo
scioglimento [43], va detto che siffatta soluzione sembra presentare
problemi quasi insolubili, quando si procede all’esame delle relative
conseguenze pratiche. Basti pensare al fatto che oggetto della comunione de residuo sono non solo somme di
denaro, ma anche beni, sia mobili che immobili (si ponga mente in particolare
alle fattispecie riconducibili al disposto dell’art. 178 c.c.). In tal caso,
affermare l’automatico venire in essere di una situazione di contitolarità
reale in capo a tali cespiti verrebbe a porre problemi insormontabili nei
rapporti con i terzi, ai quali può sfuggire (ed anzi normalmente sfugge) l’esistenza
di ragioni che determinano l’assoggettamento a comunione di beni a questa
apparentemente sottratti.
A ciò s’aggiunga che, come esattamente rilevato in
dottrina, l’accoglimento della tesi che afferma la natura «reale» del rapporto
porterebbe all’inaccettabile risultato di «incrementare i legami economici fra i
due soggetti proprio quando e anzi addirittura proprio perché si sono prodotte vicende che, secondo la stessa previsione
legislativa, ne dovrebbero invece comportare la rescissione» [44], onde fuori dalla realtà appare il suggerimento [45] di procedere alla stipula di accordi inter coniuges diretti ad attribuire all’imprenditore
il diritto di continuare ad utilizzare in via esclusiva i beni aziendali (dall’affitto,
all’usufrutto d’azienda, alla locazione, al comodato).
Se, invero, non vi è dubbio che simili contratti siano
leciti ed assolutamente auspicabili, è quanto mai improbabile immaginare che un
consenso delle parti possa raggiungersi sul punto in una situazione di
scioglimento del regime legale che, come noto, il più delle volte s’accompagna
alla crisi del rapporto coniugale. Una crisi, oltre tutto, nel quadro della
quale l’eventuale presenza di una disponibilità alla risoluzione amiable del rapporto trova riscontro,
per lo più, in una sistemazione globale volta ad imprimere un assetto definitivo
ai reciproci rapporti sul piano della titolarità distinta dei diritti reali (e
dunque, in buona sostanza, su quello della divisione del patrimonio,
eventualmente unita all’effettuazione di prestazioni periodiche o una tantum), piuttosto che nella attribuzione
di diritti di godimento.
Quindi, il problema della comunione de residuo o viene accantonato «in
blocco» mediante una negoziazione globale dei diritti spettanti a ciascun
coniuge a seguito della rottura del rapporto, oppure permane intatto, di fronte
all’incapacità delle parti di rinvenire una soluzione transattiva. Il tutto
aggravato, poi, dal fatto che la legge non concede al coniuge imprenditore (a
differenza del partecipante all’impresa familiare ex art. 230-bis c.c.)
alcun diritto di prelazione, né in caso di scioglimento inter vivos, né nell’ipotesi di scioglimento mortis causa [46].
Ciò posto, rimane il fatto che sembra, a dir poco,
incoerente, da parte del legislatore, garantire da un lato la massima autonomia
e libertà del coniuge verso taluni beni che, nel corso dello svolgimento del
regime legale, assumono natura personale, per poi imporgli, dall’altro, il
pesante vincolo della contitolarità proprio al momento dello scioglimento della
comunione [47]. Il passaggio automatico dei beni comuni de residuo dalla titolarità e
disponibilità esclusive del coniuge al patrimonio in comunione si tradurrebbe
in una menomazione dell’autonomia e della libertà del coniuge stesso, che il
legislatore ha, invece, inteso salvaguardare nella fase precedente allo
scioglimento [48].
D’altro canto si consente al coniuge, in coerenza con
la stessa ratio e senza menomare la
libertà personale del primo, di partecipare, sotto forma di diritto di credito,
alla ricchezza prodotta durante la convivenza familiare. La ricostruzione che
appare quindi preferibile, proprio per la sua coerenza con la ratio legis [49], risulta seguita in giurisprudenza dall’unico, e
ormai remoto, precedente di merito [50].
Passando all’esame critico delle principali obiezioni
mosse alla tesi sopra indicata come preferibile, va dato conto dell’opinione di
chi propone di trarre argomenti dalla diversa dizione letterale usata dal
legislatore nell’art. 178, rispetto a quella di cui alle lett. b) e c) dell’art.
177 c.c., secondo cui i beni e gli incrementi della comunione residuale d’impresa
(art. 178 c.c.) «si considerano oggetto della comunione». Tale espressione («si
considerano», e non «sono»), più che costituire indice dell’incertezza della
terminologia legislativa, potrebbe rappresentare secondo taluno l’indizio della
volontà del legislatore di sottoporre la comunione residuale d’impresa ad un
regime normativo diverso da quello della comunione residuale non d’impresa [51].
Ma questa ricostruzione è stata esattamente criticata,
rilevandosi che la struttura semantica della norma, proprio per la sua
ambiguità, non rappresenta elemento ermeneutico probante: se è vero, infatti,
che nel caso descritto dall’art. 178 c.c. ci troviamo di fronte ad una finzione
[52], ciò può semplicemente voler dire che la voluntas legis, equipara tale
situazione, ancorché obiettivamente diversa da quella della comunione legale, quoad effectum, a quella dei beni in
comunione.
Ciò risulta tanto più vero, se si ha riguardo al fatto
che la natura reale della comunione residuale non d’impresa (quella, cioè,
descritta dall’art. 177, lett. b) e c), c.c.) contrasta con la ratio di tale figura di comunione, che –
come già si è detto – è volta a conciliare l’esigenza di garantire a ciascun
coniuge la libera disponibilità dei propri frutti e proventi con la necessità
di assicurare, in forza del principio solidaristico, ad entrambi i coniugi, e
quindi anche al coniuge non diretto produttore del reddito, la partecipazione,
sia pure differita, alla ricchezza prodotta durante la convivenza familiare [53]. In questa prospettiva, appare, come si diceva,
quanto meno strano limitare, nella fase successiva allo scioglimento della
comunione legale, con l’asserita prospettazione di un vincolo legale di natura
reale sui beni della comunione de residuo,
quella libertà di godimento e di disposizione sui frutti e proventi personali
assicurata al coniuge percettore sino a quel momento, posto che lo scioglimento
della comunione legale, semmai, dovrebbe cristallizzare o addirittura attenuare
i vincoli patrimoniali tra i coniugi, anziché incrementarli sul piano della
contitolarità reale [54].
Né appare condivisibile l’opinione di chi, con
particolare riguardo ai cespiti descritti dall’art. 178 c.c., propone che in
comunione cada non la metà dell’azienda o degli incrementi, bensì la metà del «saldo
attivo del patrimonio aziendale» (o dei suoi incrementi). In dottrina si è,
infatti, presentata la constatazione secondo cui «al coniuge estraneo all’impresa
fino al momento dello scioglimento non possono (...) accollarsi le obbligazioni
contratte nell’esercizio dell’impresa né può, per altro verso, attribuirgli una
metà dei beni aziendali, a prescindere da tali obbligazioni, così come non si
può costringerlo a divenire imprenditore né spogliare l’altro coniuge del
diritto esclusivo e personale d’impresa»; posta tale (condivisibile) premessa,
si è ritenuto di dover desumere che l’unica conclusione fedele del dettato
normativo sarebbe «quella secondo cui, dopo lo scioglimento della comunione e
sino alla divisione, il coniuge dell’imprenditore – divenuto comproprietario
dell’azienda e legittimato, quindi, a farla comprendere nella divisione stessa –
rimane tuttavia estraneo all’impresa, per il cui esercizio dovrà dirsi che l’altro
coniuge si avvale, fino alla divisione, di un’azienda parzialmente altrui» [55].
Di contro, deve però dirsi che il «saldo attivo del
patrimonio aziendale» è un’entità astratta che non può riferirsi se non al
valore monetario del complesso dei beni che costituiscono l’azienda stessa,
dedotte le passività: con il che si finisce, dunque, per ammettere l’impossibilità
di una reale contitolarità di diritti sui beni in oggetto a favore di una
ricostruzione che, come quelle proposta dall’opinione maggioritaria,
attribuisce al coniuge non titolare del diritto reale una (eventuale, una volta
effettuati i dovuti calcoli) pretesa di carattere creditorio. Né d’altro canto
sembrano individuabili soluzioni fondate su di una scissione tra titolarità dei
beni ed esercizio dei poteri di amministrazione sugli stessi, in assenza di
possibili riferimenti normativi al riguardo [56].
Contro la tesi qui difesa non vale poi obiettare che
la natura creditizia della comunione residuale sciolta non sembra essere stata
espressamente prevista da alcuna specifica norma e che l’art. 192 c.c., nel
regolare i rimborsi e le restituzioni da effettuare allo scioglimento della
comunione, non prevede che in tale momento il coniuge titolare dei beni in
oggetto debba rimborsarne il valore alla comunione [57].
Trattasi, senza dubbio, di affermazioni non infondate;
peraltro, è altrettanto vero che una «lettura combinata» degli artt. 177, lett.
d) e cpv. c.c., da un lato, e degli artt. 177, lett. b) e c), nonché 178 c.c.,
dall’altro, potrebbe forse fornire una soluzione normativa non
pregiudizialmente contraria alla ravvisabilità della natura creditizia del
diritto spettante al coniuge ex
communione de residuo. Da tale lettura, si diceva, sembra infatti emergere
il principio secondo cui, laddove si tratti della sorte di utilità derivanti da
un’attività (imprenditoriale o meno) del coniuge, il profilo che rileva per la
caduta in comunione (reale) degli acquisti è dato dallo svolgimento in comune di siffatta attività, come si desume, per l’appunto,
dalla disciplina della comunione delle aziende «gestite da entrambi i coniugi».
Il che lascia supporre, a contrario,
che ad analoghe conclusioni possa anche non pervenirsi con riguardo ad acquisti
che si pongano quale frutto o provento di attività
(imprenditoriale o meno non rileva, alla luce delle norme appena citate) individuale: ne deriva che, laddove un
richiamo al concetto di «comunione» affiora nel tessuto normativo in relazione
all’attività di un singolo coniuge, esso ben possa essere letto alla stregua
dell’indicazione dell’esistenza di un mero diritto di compartecipazione dell’altro,
sul piano creditizio, agli incrementi di valore conseguiti dal patrimonio del
primo per effetto di tale attività, non esercitata in comune con il partner.
E proprio questa lettura trova definitivo sostegno
dalla interpretazione fondata sulla comparazione. Ed invero, come già posto in
evidenza [58], la nostra comunione de residuo altro non è se non la trasposizione (sebbene
relativamente ad alcune limitate categorie d’acquisti e nel contesto di un più
generale regime imperniato invece sul carattere immediato del coacquisto) di un
modello ben presente in diverse parti del nostro Continente, fondato proprio su
di una compartecipazione
differita al valore degli incrementi patrimoniali conseguiti post nuptias.
Modello, questo, che trova il suo archetipo (oltre che la consacrazione a
livello di gesetzliches Güterrecht) nella germanica Zugewinngemeinschaft,
ma che appare ben presente (pure qui, come regime legale) anche nel sistema elvetico
della partecipazione agli acquisti (Errungenschaftsbeteiligung - participation aux acquêts), oltre che, a
livello di regime elettivo, nella francese participation aux acquêts,
ovvero nello spagnolo régimen de
participación, così come nel catalano règim
de participació en els guanys. Ora, come già illustrato a suo tempo, tali
forme (che sarebbe corretto qualificare non già come «comunione», bensì alla
stregua) di «compartecipazione» differita agli acquisti si caratterizzano per
il fatto che ciò che viene spostato nel tempo (al momento, cioè, dello scioglimento del regime)
non è (almeno di regola) la costituzione di una situazione di contitolarità
reale di beni, ma la nascita di un credito alla metà del plusvalore realizzato
dal patrimonio del coniuge (variamente determinato) durante la vigenza del
rapporto matrimoniale [59].
Inutile dire, infine, che l’accoglimento della tesi
della natura «creditizia» della comunione de
residuo dispiega rilevanti conseguenze pratiche anche in relazione a
settori (almeno apparentemente) assai distanti da quelli strettamente attinenti
alla disciplina sostanziale della comunione. Si pensi, ad esempio, alla
possibilità per un coniuge di intervenire in via cautelare, una volta cessato
il regime, ed alla conseguente scelta tra il rimedio del sequestro giudiziario
(che presuppone una concezione in chiave «proprietaria» del rapporto), ovvero
conservativo (che si potrebbe prestare alla tutela di una posizione meramente
«creditizia») [60]. Si pensi anche al modo in cui vanno formulate le
domande giudiziali di azioni dirette all’accertamento della caduta in comunione
residuale – una volta intervenuta la cessazione del regime – di utilità quali,
ad es., le quote di società di persone, con conseguente alternativa tra la
rivendica della quota in comunione sulla partecipazione societaria (nel caso si
dovesse aderire alla tesi della titolarità reale), ovvero la condanna al
pagamento del relativo valore [61].
7. Valutazioni
conclusive circa la decisione in commento.
Numerose altre questioni si ricollegano al tema della
natura della comunione residuale: da quella della concreta determinazione del credito in relazione all’eventuale
deducibilità delle spese affrontate per l’acquisto, per la produzione o per l’incremento
di valore dei beni [62], a quella dei rapporti con i creditori personali dell’uno
e/o dell’altro coniuge al momento della cessazione del regime, con particolare
riguardo al quesito se il valore dei cespiti vada computato o meno al netto dei
debiti particolari [63]. Non essendo qui possibile affrontare simili
argomenti, fatto rinvio alle opportune sedi, non rimarrà che portare a
compimento questa annotazione ponendo in rilievo come, a ben vedere, la vera ratio decidendi della sentenza della
Cassazione penale in merito all’inammissibilità della rivendica di cui si
discute sia, con ogni probabilità, ancora diversa da quella discussa nei §§
precedenti: dalla considerazione, cioè, del carattere meramente obbligatorio
del diritto di partecipazione de residuo
del coniuge. Quest’ultima idea – per le ragioni esposte, del tutto
condivisibile ed idonea a fondare da sola la soluzione nella specie
correttamente adottata dal S.C. – appare, a ben vedere, presentata alla stregua
di una mera «pezza d’appoggio» [64] di quello che emerge, invece, come l’argomento
principe.
Quest’ultimo ruota, invero, intorno alla
considerazione per cui il diritto del coniuge non imprenditore non potrebbe
dirsi addirittura neppure sorto, neanche dopo la cessazione del regime:
cessazione che – si ripete – nella specie era pacificamente intervenuta, essendo
infatti assodato che i due avevano prima della controversia «opportunamente»
stipulato una convenzione di separazione dei beni. E ciò, secondo la
Cassazione, per il seguente testuale motivo: «finché il bene immobile continua
ad essere utilizzato nell’esercizio dell’impresa, restando nella effettiva
disponibilità esclusiva del coniuge imprenditore, non vengono meno le funzioni
proprie dell’istituto della comunione de
residuo, di assicurare la piena libertà dell’imprenditore nelle sue scelte
di politica aziendale e di garantire i creditori che abbiano fatto affidamento
sulla consistenza della compagine dell’impresa, consentendo a questi ultimi di
soddisfare le proprie pretese mediante l’aggressione di tutti i beni che ne
fanno parte».
Poste tali premesse, la decisione conclude quindi nel
senso che lo scioglimento della comunione residuale ex art. 178 c.c. implica necessariamente «che il bene che residui
al momento della richiesta di scioglimento non faccia più parte dei beni
strumentali all’esercizio dell’impresa e non venga più utilizzato a tale
scopo».
Trattasi, nella specie, di considerazioni e di
conclusioni che, se esposte in relazione alla fase anteriore alla cessazione
del regime, appaiono più che condivisibili, ma che, ove riferite (come nella
specie) al periodo successivo a tale evento, risultano del tutto inaccettabili.
Invero, a parte
l’improprio richiamo alla «richiesta di scioglimento», laddove lo scioglimento
del regime, come noto, non è legato ad alcuna «richiesta», ma consegue
automaticamente al verificarsi di uno degli atti o dei fatti descritti dall’art.
191 c.c., resta il fatto che la «realizzazione» della comunione residuale viene
dall’art. 178 c.c. – così come del resto dagli artt. 177, lett. b) e c) c.c. –
collegata alla cessazione del regime legale. Cessazione che non può trovare la
sua causa se non, per l’appunto, in una delle situazioni elencate dal citato
art. 191. A parte, poi, siffatto assorbente rilievo, corre altresì il dovere di
evidenziare la considerazione pratica per cui legare l’attuazione della
comunione de residuo alla cessazione
della destinazione aziendale dei beni potrebbe, in buona sostanza, concretarsi
in un rinvio sine die del fatidico e
sovente troppo a lungo atteso momento del redde
rationem.
[1] Cfr. Cass., 5 marzo 2010, n. 5424, in Fam. dir., 2010, p. 1009, con nota di Antonuccio.
[2] Sebbene presentato, a quanto pare, per secondo nel ricorso, se non addirittura in via, come detto nel testo, subordinata.
[3] Cui, per identità di questioni, debbono aggiungersi gli artt. 177, lett. b) e c), c.c.
[4] Cfr. Cass., 29 novembre 1986, n. 7060, in Foro it., 1987, I, c. 810, con nota di Jannarelli; in Giust. civ., 1987, I, p. 293. Su tale decisione v. le osservazioni svolte da Oberto, Comunione legale, regimi convenzionali e pubblicità immobiliare, in Riv. dir. civ., 1988, II, p. 187 ss. La soluzione è stata ribadita successivamente da Cass., 21 maggio 1997, n. 4533, nonché da Cass., 19 settembre 2005, n. 18456, cit. Nello stesso senso, per la giurisprudenza di merito, v. Trib. Vigevano, 20 febbraio 1979, in Dir. giur., 1980, p. 382; in Dir. fam., 1981, p. 118; Trib. Monza, 14 novembre 1988, in Giust. civ., 1989, I, p. 696; in Fam. dir., 1990, p. 179; Trib. Piacenza, 9 aprile 1991, in Riv. not., 1993, p. 124; in Dir. fam., 1991, p. 1033 (la decisione risulta riportata con la data del 1° marzo 1991 in Giur. merito, 1993, p. 64 e in Riv. not., 1991, p. 723); Trib. Monza, 1° giugno 1995, in Gius, 1995, p. 3911. Contra, l’isolato precedente costituito da Trib. Lucca, 8 maggio 1978, in Riv. dir. ipot., 1978, p. 2578, con nota di Ghigo. Si veda inoltre, sempre in senso contrario alla tesi prospettata nel testo, l’unico (ed assai remoto) precedente edito nel campo amministrativo: «I mutui agevolati in favore di coltivatori diretti per l’acquisto di terreni, previsti dalla legge 26 maggio 1965, n. 590 non possono essere concessi allorché il coniuge del beneficiario, in regime di comunione legale (e come tale soggetto che consegue pro quota la proprietà del fondo) eserciti altra attività lavorativa. Tuttavia il mutuo può concedersi allorché il coniuge privo dei requisiti soggettivi stabiliti dalla legge acconsenta a che il fondo rustico, acquistato dal mutuatario, sia escluso dalla comunione, ai sensi dell’art. 179, lett. d), cod. civ., nuovo testo introdotto dalla legge 19 maggio 1975, n. 151» (cfr. Cons. Stato, 7 maggio 1986, in Riv. not., 1987, II, p. 908). Da notare, infine, il mero errore materiale della motivazione della sentenza qui in commento, che cita la decisione del 1986 come recante il n. 4533, anziché il n. 7060.
[5] Cfr. Oberto, La comunione legale tra coniugi, nel Trattato di diritto civile e commerciale, già diretto da Cicu, Messineo e Mengoni, continuato da Schlesinger, I, Milano, 2010, p. 1009 ss.
[6] Cfr. Oberto, La comunione legale tra coniugi, I, cit., p. 172 ss., 393 ss.
[7] Cfr. Oberto, La comunione legale tra coniugi, I, cit., 156 ss., 172 ss.
[8]
E’ questo ad esempio il caso – anche per quanto attiene a quest’ultimo
aspetto afferente al momento della concreta divisione del patrimonio – dello
spagnolo régimen de participación, per il quale il relativo codice
civile prevede, fermo restando il principio generale per cui «el crédito de
participación deberá ser satisfecho en dinero» (art. 1431), la possibilità che
tale credito sia estinto «mediante la adjudicación de bienes concretos, por
acuerdo de los interesados o si lo concediese el Juez a petición fundada del
deudor» (art. 1432). Nell’ipotesi ulteriormente subordinata in cui non si
trovassero beni nel patrimonio del debitore, viene concesso al coniuge
creditore il diritto di rivolgersi verso i terzi aventi causa, mediante domanda
giudiziale volta a «impugnar las enajenaciones que hubieren sido hechas a
título gratuito sin su consentimiento y aquellas que hubieren sido realizadas
en fraude de sus derechos», purché l’azione sia intentata entro due anni dallo
scioglimento del regime e fatti salvi i terzi aventi causa a titolo oneroso ed
in buona fede (artt. 1433 s.).
Anche ai sensi dell’art. 1576 cpv. del Code francese, nel regime convenzionale di participation aux acquêts, il credito di partecipazione (che normalmente «donne lieu à paiement en argent»: pagamento che il giudice può, in presenza di determinate circostanze, dilazionare nel tempo) «peut toutefois donner lieu à un règlement en nature, soit du consentement des deux époux, soit en vertu d’une décision du juge, si l’époux débiteur justifie de difficultés graves qui l’empêchent de s’acquitter en argent». Potranno citarsi, inoltre, all’incirca negli stessi termini, gli artt. 58 e 59 del Codi de familia catalano, circa il règim de participació en els guanys. A determinate condizioni, anche in Germania il coniuge ausgleichsberechtigt, disciolto il sistema legale della Zugewinngemeinschaft, può (eccezionalmente) chiedere al giudice l’attribuzione in proprietà di determinati cespiti dell’altro (cfr. § 1383 BGB).
[9] Cfr. Oberto, La comunione legale tra coniugi, I, cit., p. 180, 184, 189, 221, 387, 395 ss.
[10] Cfr. Oberto, La comunione legale tra coniugi, I, cit., p. 180, 190, 221, 395, 400.
[11] Su tali ordinamenti cfr. Oberto, La comunione legale tra coniugi, I, cit., p. 183, 189, 201 ss.
[12] Gemeinschaft, appunto, e non Beteiligung, come invece correttamente detto dal legislatore elvetico; l’errore è evitato anche dai legislatori francese (participation), spagnolo (participación), catalano (participació) e brasiliano (participação), nonché dallo stesso codice québécois, che ricorre all’espressione société, per evitare quella communauté (termine riservato, invece, ai vari tipi di «vera» comunione convenzionale, cui fa richiamo l’art. 492 del Code civil du Québec).
[13] Per un raffronto tra le diverse soluzioni nei regimi legali tedesco e svizzero cfr. Oberto, La comunione legale tra coniugi, I, cit., p. 187 ss. Per una critica di questo profilo della Zugewinngemeinschaft cfr. Battes, Sinn und Grenzen des Zugewinnausgleichs, in FuR, 1990, p. 311 ss., 323; Reiners, Die Errungenschaftsgemeinschaft des gemeinspanischen Código Civil und die Zugewinngemeinschaft des BGB – Eine rechtsvergleichende Darstellung, Bonn, 2001, p. 247 s.
[14] Cfr. § 1376, primo comma, BGB: «Der Berechnung des Anfangsvermögens wird der Wert zugrunde gelegt, den das beim Eintritt des Güterstands vorhandene Vermögen in diesem Zeitpunkt, das dem Anfangsvermögen hinzuzurechnende Vermögen im Zeitpunkt des Erwerbs hatte». Per una critica di questo profilo della Zugewinngemeinschaft cfr. Wacke, Grundzüge des ehelichen Güterrechts, in Jura 1 (1994), p. 624; Reiners, Die Errungenschaftsgemeinschaft des gemeinspanischen Código Civil und die Zugewinngemeinschaft des BGB – Eine rechtsvergleichende Darstellung, cit., p. 247 s.
[15] Cfr. art. 1571, primo comma, c.c. fr.: «Les biens originaires sont estimés d’après leur état au jour du mariage ou de l’acquisition, et d’après leur valeur au jour où le régime matrimonial est liquidé.S’ils ont été aliénés, on retient leur valeur au jour de l’aliénation. Si de nouveaux biens ont été subrogés aux biens aliénés, on prend en considération la valeur de ces nouveaux biens».
[16] Per ulteriori informazioni e rinvii al riguardo cfr. Oberto, Breve prontuario per le cause che presentano elementi di estraneità (questioni processuali), disponibile al sito web seguente: http://giacomooberto.com/prontuario.htm#par23d.
[17] Cfr. Oberto, La comunione legale tra coniugi, I, cit., p. 903 ss.
[18] Il predetto codice elvetico dispone (art. 208, primo comma; cfr. anche art. 220, per l’azione di «reintegrazione» delle donazioni) che «Sono reintegrate negli acquisti: 1. le liberalità fatte da un coniuge negli ultimi cinque anni prima dello scioglimento del regime dei beni senza il consenso dell’altro, eccettuati i regali d’uso; 2. le alienazioni fatte da un coniuge durante il regime dei beni con l’intenzione di sminuire la partecipazione dell’altro»; esso soggiunge poi (art. 208 cpv.) che «In caso di controversie inerenti a tali liberalità o alienazioni, la sentenza è opponibile al terzo beneficato sempreché la lite gli sia stata denunciata».
[19] Cfr. artt. 1573, 1574 e 1577 c.c. francese.
[20] Cfr. artt. 1416, 1423 e 1424 c.c. spagnolo.
[21] Cfr. art. 60 codice di famiglia catalano.
[22] Cfr. artt. 1675 e 1676 c.c. brasiliano.
[23] E in ciò si può forse anche scorgere un’eco dell’antica regola del droit coutumier, che proprio in siffatto genere di atti poneva il limite al potere dispositivo del marito: cfr. Oberto, La comunione legale tra coniugi, I, cit., p. 102, 246 ss.
[24] Cfr. art. 462 c.c. del Québec.
[25] Ciò che, naturalmente, non può che determinare problemi di coordinamento con il carattere tendenzialmente «reale» della divisione envisagée dal diritto québécois: stabiliscono in proposito gli artt. 480 e 481 c.c. del Québec, rispettivamente, che «480. 1. Si le compte accuse un solde en faveur de la masse des acquêts, l’époux titulaire du patrimoine en fait rapport à cette masse partageable, soit en moins prenant, soit en valeur, soit avec des propres. 2. S’il accuse un solde en faveur de la masse des propres, l’époux prélève parmi ses acquêts des biens jusqu’à concurrence de la somme due». «481. Le règlement des récompenses effectué, on établit la valeur nette de la masse des acquêts et cette valeur est partagée, par moitié, entre les époux. L’époux titulaire du patrimoine peut payer à son conjoint la part qui lui revient en numéraire ou par dation en paiement».
[26] Cfr. art. 1422 c.c. spagnolo: «El patrimonio final de cada cónyuge estará formado por los bienes y derechos de que sea titular en el momento de la terminación del régimen, con deducción de las obligaciones todavía no satisfechas».
[27] Su cui cfr. Oberto, La comunione legale tra coniugi, I, cit., p. 50, 400; II, Milano, 2010, p. 1393 ss.
[28] Cfr. art. 1686 c.c. brasiliano: «As dívidas de um dos cônjuges, quando superiores à sua meação, não obrigam ao outro ou a seus herdeiros».
[29] Stabilisce infatti l’art. 1677 c.c. brasiliano che «Pelas dívidas posteriores ao casamento, contraídas por um dos cônjuges, somente este responderá, salvo prova de terem revertido, parcial ou totalmente, em benefício do outro».
[30] Cfr. Oberto, La comunione legale tra coniugi, I, cit., p. 401, 801; II, cit., p. 2020.
[31] Cfr. art. 1581 c.c. francese: «1. En stipulant la participation aux acquêts, les époux peuvent adopter toutes clauses non contraires aux articles 1387, 1388 et 1389. 2. Ils peuvent notamment convenir d’une clause de partage inégal, ou stipuler que le survivant d’eux ou l’un d’eux s’il survit, aura droit à la totalité des acquêts nets faits par l’autre. 3. Il peut également être convenu entre les époux que celui d’entre eux qui, lors de la liquidation du régime, aura envers l’autre une créance de participation, pourra exiger la dation en paiement de certains biens de son conjoint, s’il établit qu’il a un intérêt essentiel à se les faire attribuer».
[32] Cfr. artt. 1429 e 1430 c.c. spagnolo: «1429. Al constituirse el régimen podrá pactarse una participación distinta de la que establecen los dos artículos anteriores, pero deberá regir por igual y en la misma proporción respecto de ambos patrimonios y en favor de ambos cónyuges». «1430. No podrá convenirse una participación que no sea por mitad si existen descendientes no comunes».
[33] Cfr. art. 50 codice di famiglia catalano: «1. El pacte que atribueixi una participació diferent de la meitat dels guanys solament és vàlid si s’estableix amb caràcter recíproc i igual a favor de qualsevol dels cònjuges. 2. La invalidesa del pacte determina la participació en la meitat dels guanys».
[34] Thiele e Rehme, J. von Staudingers Kommentar zum Bürgerlichen Gesetzbuch mit Einführungsgesetz und Nebengesetzen, Viertes Buch, Familienrecht, §§ 1363-1563, Berlin, 2000, p. 246 s., anche per ulteriori rinvii: «Wie der Zugewinnausgleich ehevertraglich ganz ausgeschlossen werden kann, ist auch eine nur die Beteiligungsquote betreffende Änderung möglich. Die Ehegatten können vereinbaren, daβ die Ausgleichsforderung mehr oder weniger als die Hälfte des Überschusses betragen soll. Sie können dem ausgleichspflichtigen Ehegatten eine bestimmte Quote des Überschusses vorab belassen und lediglich den Rest hälftig teilen, wie es noch in den Regierungsentwürfen vorgesehen war (…). Es können auch – ganz oder teilweise – Sachleistungen vereinbart werden».
[35] Sul primo orientamento v. per tutti Oppo, Responsabilità patrimoniale e nuovo diritto di famiglia, in Riv. dir. civ., 1976, I, p. 108, il
quale afferma che i beni soggetti a comunione de residuo diventano comuni nel momento in cui questa opera; cfr.
inoltre Jannarelli, Impresa e società nel nuovo diritto di
famiglia, in Foro it., 1977, V,
c. 270, con specifico riguardo ai beni e agli incrementi aziendali; De Marchi, Natura e oggetto della comunione legale, in Aa. Vv., Il nuovo diritto di famiglia. Contributi
notarili, Quaderni della Riv. not., Milano, 1975, p. 542; De Paola e Macrì, Il nuovo regime patrimoniale della famiglia,
Milano, 1978, p. 212; Detti, Oggetto, natura e amministrazione della
comunione legale, in Riv. not.,
1976, p. 1173; Gionfrida Daino, Scioglimento della comunione legale e
diritto del coniuge sulle somme depositate in conto corrente intestato all’altro
coniuge, Nota a Pret. Bari, 6 febbraio 1982, in Giur. merito, 1984, p. 616, anche con riferimento all’ipotesi in
cui i beni comuni de residuo consistano
in crediti verso terzi; Di Transo, La
comunione de residuo, in Aa.Vv., Scritti in onore di Capozzi,
I, 1, Milano, 1992, p. 531 ss.; Prosperi,
Sulla natura della comunione legale,
Napoli, 1983, p. 151, nt. 240; Santosuosso,
Delle persone e della famiglia. Il regime
patrimoniale della famiglia, famiglia, in Commentario del codice civile, I, 1, III, Torino, 1983, p.
178; M. Dogliotti, L’oggetto della comunione legale tra
coniugi: beni in comunione de residuo
e beni personali, in Fam. dir.,
1996, p. 386; Selvaggi, La comunione legale tra coniugi, in Nuova giur. civ. comm., 1987, II, p. 19;
T. Auletta, La comunione legale, in Trattato di diritto privato diretto
da Bessone, IV, Il diritto di famiglia, II, Torino, 1999, p. 112 ss.; Galasso, Del
regime patrimoniale della famiglia, I, Art. 159-230, in Commentario
del Codice Civile Scialoja-Branca a cura di Galgano, Bologna-Roma, 2003, p.
240, p. 450; Benanti, Scioglimento
della comunione legale e operatività della comunione differita, in Familia, 2005, p. 1076 ss.
Per il
secondo orientamento (per l’affermazione, cioè, della natura meramente
creditizia della comunione residuale al momento della cessazione del regime
legale) v. invece Busnelli, La
«comunione legale» nel diritto di famiglia riformato, in Riv.
not., 1976, p. 36 ss.; Cian,
Introduzione generale, sui presupposti
storici e sui caratteri generali del diritto di famiglia riformato, in Commentario alla riforma del diritto di
famiglia, a cura di Carraro, Oppo e Trabucchi, I, 1, Padova, 1977, p.
54; F. Corsi, Il regime
patrimoniale della famiglia, I, in Trattato di diritto civile e
commerciale, diretto da Cicu e Messineo, continuato da Mengoni, Milano,
1979, p. 95 e 191; Schlesinger,
Della comunione legale, in Commentario al diritto italiano della
famiglia, diretto da Cian, Oppo e Trabucchi, III, Padova, 1992, p.
122, 145; Cian e Villani, La comunione dei beni tra
coniugi (legale e convenzionale),
cit., in Riv. dir. civ., 1980, I, p. 346;
A. e M. Finocchiaro, Diritto di famiglia, I, Milano, 1984, p.
966 s.; Parente, Struttura e natura della comunione residuale
nel sistema del codice riformato, Nota a Trib. Camerino, 5 agosto
Secondo Schlesinger,
Della comunione legale, Della
comunione legale, in Commentario alla riforma del diritto di famiglia,
a cura di Carraro, Oppo e Trabucchi, I, 1, Padova, 1977, p. 383 si tratterebbe
di una vera e propria situazione di contitolarità, la quale avrebbe però
efficacia meramente interna, nei rapporti tra i coniugi. D’altro canto, il
medesimo Autore, nella seconda versione del suo fondamentale contributo in
materia (cfr. Schlesinger, Della comunione legale, 1992, cit., p.
121 s.), ha precisato che occorrerebbe distinguere a seconda dei rapporti
coinvolti. La situazione di contitolarità scatterebbe automaticamente per la
sola titolarità dei beni, laddove per i crediti occorrerebbe ancora distinguere
tra crediti di entrambi i coniugi e crediti di uno solo di essi. Per i primi la
situazione di contitolarità perdurerebbe anche dopo lo scioglimento del regime,
laddove per quelli individuali, essendo inapplicabile la presunzione di cui all’art.
195 c.c., andrebbe escluso qualsiasi effetto reale, e quindi qualsiasi
automatica acquisizione di una contitolarità del credito, di fronte ai
debitore, a favore dell’altro coniuge (nello stesso senso v. successivamente
anche Mascia, La comunione de residuo, in Aa.
Vv., Gli aspetti patrimoniali della famiglia. I rapporti patrimoniali tra
coniugi e conviventi nella fase fisiologica ed in quella patologica, a cura
di Giacomo Oberto, Padova, 2011, p. 516). Peraltro, se si pone mente a quanto
si è cercato di chiarire in altra sede, circa la necessità, perché possa porsi
un problema di caduta in comunione de
residuo, che il credito sia già stato estinto per adempimento (cfr. Oberto, La comunione legale tra coniugi, I, cit., p. 887 ss.), appare
evidente che l’interrogativo posto dall’eminente Autore non sembra aver ragione
di sussistere. In comunione de residuo
cadrà l’importo percepito e dunque effettivamente entrato nel patrimonio del
coniuge, purché non consumato al momento dello scioglimento.
Infine, secondo un orientamento che potrebbe
dirsi intermedio tra i due che si contendono il campo (cfr. E. Russo, L’oggetto della comunione legale e i beni personali. Artt. 177-179, in Il codice civile,
Commentario diretto da Schlesinger, Milano, 1999, p. 401 ss, 456 s.), la
comunione de residuo attribuirebbe la
contitolarità su frutti e beni aziendali, in quanto tali beni consistono in
cose determinate; opererebbe invece sul piano creditorio per proventi, utili ed
incrementi, in quanto si tratta di cespiti non determinati. Ma la distinzione
non sembra giustificata dal tenore delle norme in discussione e, se si pone
mente al fatto che, tanto per fare un esempio, un immobile aziendale ben può
costituire «incremento» ai sensi degli artt. 177 cpv. o 178 c.c. (cfr. Oberto, La comunione legale tra coniugi, II, cit., p. 2368 ss.), appare
subito evidente come la proposta distinzione non possa risultare condivisibile.
[36] Su questo specifico profilo v. peraltro le osservazioni critiche svolte in Oberto, La comunione legale tra coniugi, I, cit., p. 921 ss.
[37] Cfr. Cass., 29 novembre 1986, n. 7060, cit.: «Ma, proprio in considerazione del maggiore valore che di regola hanno i beni destinati ad un’impresa, è stabilito che tali beni non siano “personali” del coniuge, bensì formano oggetto della comunione de residuo, il che significa che, allo scioglimento della comunione, del valore di essi si dovrà tener conto in accredito al coniuge non imprenditore. Con questa disciplina si è cercato di contemperare le due esigenze. Inquadrando i beni così acquistati nella categoria dei beni oggetto della comunione de residuo, si soddisfa, seppure parzialmente l’esigenza di tutelare l’altro coniuge al quale è riservata l’aspettativa in ordine a quei beni quando la comunione sarà sciolta. Si soddisfa d’altra parte l’esigenza fondamentale delle imprenditore di potere fare scelte soltanto sue negli acquisti e di disporre liberamente dei beni così acquistati e destinati: è infatti sufficiente il regime di comunione de residuo per attribuire al coniuge la libera disponibilità di questi beni».
[38] Cfr. Cass. 16 luglio 2008, n. 19567: «In definitiva, dall’analisi che precede si ricava che, ai sensi dell’art. 177 cod. civ., lett. c), il saldo attivo del conto corrente bancario intestato soltanto ad uno dei coniugi in regime di comunione legale dei beni (titolarità individuale) e nel quale siano confluiti proventi dell’attività separata svolta dallo stesso, entra a far parte della comunione legale dei beni al momento dello scioglimento della comunione stessa, con conseguente sorgere, solo da tale momento, di una titolarità comune dei coniugi sul saldo stesso». V. anche Cass., 6 maggio 2009, n. 10386, in Corr. tribut., 2009, p. 2979, con nota di Friedmann; in Fam. dir., 2009, p. 888, con nota di Marzano, secondo cui «Il saldo attivo di un conto corrente bancario, intestato – in regime di comunione legale dei beni – soltanto ad uno dei coniugi, e nel quale siano affluiti proventi dell’attività separata svolta dallo stesso, se ancora sussistente, deve considerarsi pure facente parte della comunione legale dei beni».
[39] Ad analogo ordine d’idee sembra potersi ascrivere anche Pret. Bari, 6 febbraio 1982, in Giur. it., 1983, I, 2, c. 8; in Giur. merito, 1984, p. 616, con nota di Gionfrida Daino; ad avviso di questa decisione «Con lo scioglimento della comunione legale tra coniugi i proventi dell’attività separata ed i frutti dei beni personali, non consumati, si acquisiscono automaticamente al patrimonio comune; e ciò anche se essi si sostanzino in crediti nei confronti di terzi». La sentenza in oggetto ha peraltro aggiunto che «Scioltasi la comunione legale per morte di uno dei coniugi, il coniuge superstite non può pretendere la metà della somma depositata in conto corrente intestato al de cuius finché non sia intervenuta la divisione dell’intera massa comune, mentre non assume rilevanza l’adesione manifestata dagli eredi intervenuti in giudizio».
[40] Cass., 9 marzo 2000, n. 2680, in Foro it., 2000, I, c. 3551; in Dir. fall., 2001, II, p. 392, con nota di Bonavitacola; in Fallimento, 2001, p. 39, con nota di Caravaglios.
[41] Cass., 14 aprile 2004, n. 7060, in Fallimento, 2005, p. 146, con nota di Figone.
[42] Per i richiami cfr. Parente, Struttura e
natura della comunione residuale nel sistema del codice riformato, cit., c.
2345.
[43] Così Benanti, Scioglimento della comunione legale e operatività della comunione differita, cit., p. 1080.
[44] Così Cian
e Villani, La comunione
dei beni tra coniugi (legale e convenzionale), cit., p. 347.
[45] In questo senso v. invece Benanti, Scioglimento della comunione legale e operatività della comunione differita, cit., p. 1092 s.
[46] Contra Benanti, Scioglimento della comunione legale e operatività della comunione differita, cit., p. 1093 s., che propone l’estensione in via analogica della norma dettata sull’impresa familiare. Ma le norme sulla prelazione, in quanto limitative del principio generale della libertà negoziale (che investe in primis anche il profilo della scelta del contraente), hanno sicuramente natura eccezionale. Per la questione dell’inapplicabilità dell’art. 732 c.c. si fa rinvio a Oberto, La comunione dei beni tra coniugi, II, p. 1914 ss., 2037. Il problema (sollevato da Benanti, Scioglimento della comunione legale e operatività della comunione differita, cit., p. 1093) di un eventuale diritto dell’imprenditore, in sede di procedura divisoria, all’assegnazione preferenziale dei beni dell’azienda ex art. 178 c.c. non ha ragione di porsi, ove si esprima preferenza per la tesi della natura creditizia della partecipazione del coniuge non titolare dei beni in comunione de residuo (sul punto v. anche Oberto, La comunione dei beni tra coniugi, II, cit., p. 2043 ss.).
[47]
Cfr. Galasso,
Del regime patrimoniale della famiglia,
I, cit., p. 526, il quale osserva, con specifico riguardo all’art. 178 c.c.,
che l’iniziativa economica del singolo coniuge, ampiamente tutelata durante la
fase fisiologica del rapporto, verrebbe di fatto fortemente limitata in
conseguenza dell’acquisto della contitolarità dell’azienda ad opera dell’altro
coniuge, che in tal modo verrebbe ad assumere la qualifica di imprenditore.
[48] Su questo argomento insiste, tra gli altri, Spitali, [Il regime legale]. L’oggetto, cit., p. 137. Anche Cian e Villani, La comunione dei beni tra coniugi (legale e convenzionale), cit., p. 347, rilevano come, prospettando la comunione de residuo alla stregua di una situazione creditoria, si mantenga ferma, anche dopo lo scioglimento, quella libertà di esercizio dei poteri di disposizione e godimento su frutti e proventi personali, riconosciuta prima dello scioglimento stesso: in tal modo, quei poteri continuano a spettare in via esclusiva al medesimo coniuge cui già inerivano, semplificando i rapporti con i terzi e garantendo la persistenza del regime di tutela della libertà personale del coniuge percettore.
[49] Così Parente,
Struttura e natura della comunione
residuale nel sistema del codice riformato, cit., c. 2346, il quale
soggiunge che la conclusione riceve ulteriori avalli se applicata alla figura
della comunione residuale d’impresa (art. 178 c.c.), la cui ratio polivalente rispetto a quella
sottesa alla comunione residuale non d’impresa, si arricchisce del profilo di
tutela dei creditori particolari dell’impresa stessa, al cui preventivo
soddisfacimento è sicuramente subordinata l’aspettativa creditizia del coniuge
non imprenditore, oltre che di quello di protezione della libertà professionale
imprenditoriale del coniuge esercente, correlata all’esposizione esclusiva di
questi al rischio d’impresa con conseguente sottrazione dell’altro coniuge.
Secondo tale Autore «Queste concorrenti motivazioni rafforzano l’opinione che
il coniuge titolare dell’impresa, in forza dell’aspettativa creditizia nascente
dalla comunione residuale a favore dell’altro, sia tenuto a versare solo l’equivalente
monetario degli investimenti, utili ed incrementi d’impresa ex art. 178 c.c., secondo il loro
valore, determinato in base all’ultimo bilancio e all’inventario finale, al
momento di scioglimento della comunione legale. La diversa conclusione, implicante
la prospettazione di una comunione residuale d’impresa di natura reale, non
solo è incompatibile con l’esigenza di mantenimento dell’unità aziendale che
esclude la possibilità di attribuire la contitolarità dei singoli beni
destinati all’esercizio dell’impresa a persone estranee alla stessa, ma è
tecnicamente inconcepibile proprio con riferimento ad una delle tipologie
legislative di comunione de residuo d’impresa:
quella sugli incrementi (art. 178 c.c.). Infatti, tali incrementi, non avendo
un’autonoma rilevanza giuridica ed economica rispetto al patrimonio aziendale,
non si prestano a fenomeni di contitolarità in senso reale. Essi, invece, ben
si amalgamano con il concetto di pretesa creditizia alla metà del saldo attivo,
dopo soddisfatti i creditori dell’impresa, risultante dalla differenza di
valore del patrimonio aziendale tra la data d’instaurazione del regime di
comunione legale e quella di scioglimento dello stesso. La stessa conclusione
deve estendersi al plusvalore dei beni aziendali, correlato al mutamento
favorevole delle condizioni monetarie e del mercato, tra la data d’insorgenza
del regime di comunione e quella di scioglimento. Tale plusvalore, infatti, al
pari degli incrementi, non si presta, per sua intrinseca natura, ad un’individuazione
in bene giuridico autonomo, suscettibile di essere oggetto di un fenomeno di
comunione di natura reale».
[50] Trib. Camerino, 5 agosto
[51] Cfr. per i richiami Parente, Struttura e
natura della comunione residuale nel sistema del codice riformato, cit., c.
2345; v. inoltre L. Balestra,
Attività d’impresa e rapporti familiari,
in Trattato teorico-pratico di diritto privato, diretto da Alpa e S.
Patti, Padova, 2009, p. 67 s. Nel senso criticato nel testo v. ad es. Burdese, Se,
scioltosi il matrimonio e venuto meno il regime di comunione legale tra coniugi
per morte di uno di loro, il regolamento della cosiddetta comunione de
residuo trovi applicazione in concorso
con la disciplina delle successioni, e in caso affermativo come quest’ultima si
coordini col primo, in Aa. Vv., in Questioni di diritto patrimoniale della famiglia discusse da vari
giuristi e dedicate ad Alberto Trabucchi, Padova, 1989, p. 347 ss., secondo
cui l’espressione «si considerano», in luogo di quella «costituiscono»
comporterebbe la possibilità di ritenere i (soli) beni ex art. 178 c.c., oggetto di possibile imputazione relativamente al
valore, e non già di comunione, laddove gli acquisti ex art. 177, lett. b) e c), c.c., cadrebbero in una situazione di
effettiva contitolarità, una volta disciolto il regime legale.
[52] In questo senso cfr. L. Balestra, op. loc. ultt. citt.
[53] Così Parente,
Struttura e natura della comunione
residuale nel sistema del codice riformato, cit., c. 2345.
[54] Cfr. Parente,
Struttura e natura della comunione
residuale nel sistema del codice riformato, cit., c. 2345.
[55] Così G. Gabrielli e Cubeddu, Il regime patrimoniale dei coniugi, Milano, 1997, p. 209 ss.
[56] Per una serie di proposte dottrinali volte, de iure condendo, a far sì che la comunione de residuo, attuata in forma «reale», consenta pur tuttavia, sul piano dell’amministrazione, al coniuge originario titolare di continuare a mantenere poteri di amministrazione in via esclusiva, fino alla divisione della comunione, ovvero fino alla cessazione dell’attività d’impresa cfr. Benanti, Scioglimento della comunione legale e operatività della comunione differita, cit., p. 1091 s.
[57] Così Benanti, Scioglimento della comunione legale e operatività della comunione differita, cit., p. 1081.
[58] V. supra, §§ 2 e 3.
[59]
Molto chiaro sul punto l’art. 1569 c.c. fr., che con periodare quasi
didascalico e descrittivo, stabilisce che «Quand les époux ont déclaré se
marier sous le régime de la participation aux acquêts, chacun d’eux conserve l’administration,
la jouissance et la libre disposition de ses biens personnels, sans distinguer
entre ceux qui lui appartenaient au jour du mariage ou lui sont advenus depuis
par succession ou libéralité et ceux qu’il a acquis pendant le mariage à titre
onéreux. Pendant la durée du mariage, ce régime fonctionne comme si les époux
étaient mariés sous le régime de la séparation de biens. A la dissolution du
régime, chacun des époux a le droit de participer pour moitié en valeur aux
acquêts nets constatés dans le patrimoine de l’autre, et mesurés par la double
estimation du patrimoine originaire et du patrimoine final. Le droit de
participer aux acquêts est incessible tant que le régime matrimonial n’est pas
dissous. Si la dissolution survient par la mort d’un époux, ses héritiers ont,
sur les acquêts nets faits par l’autre, les mêmes droits que leur auteur». Il
regime convenzionale in discorso venne introdotto dalla riforma del 13 luglio
1965, traendo espressamente ispirazione dalla novella che in Germania aveva
reso nel 1957 legale il sistema della Zugewinngemeinschaft.
Non per nulla era stato già un comparatista del calibro di Henri Capitant a
proporne l’adozione già nel 1922, cui aveva fatto seguito un disegno di legge
del ministro guardasigilli René Renoult, rimasto però senza seguito (cfr. Patarin e Morin, La réforme des
régimes matrimoniaux, Paris, 1974, II, p. 120; Malaurie e Aynès,
Les régimes matrimoniaux, Paris,
2007, p. 345 ss.; tali Autori danno peraltro conto dello scarso successo, nella
pratica, dell’istituto: situazione, questa, da «addebitarsi» alla notevole souplesse del regime legale d’Oltralpe).
Per quanto attiene al diritto spagnolo,
stabilisce l’art. 1431 del código civil
che «El crédito de participación deberá ser satisfecho en dinero. Si mediaren
dificultades graves para el pago inmediato, el Juez podrá conceder
aplazamiento, siempre que no exceda de tres años y que la deuda y sus intereses
légales queden suficientemente garantizados».
Per il sistema legale tedesco e per quello svizzero, nonché per ulteriori spunti e richiami sulla partecipazione agli acquisti nei sistemi francese, spagnolo, catalano, belga, québécois e brasiliano, cfr. Oberto, La comunione dei beni tra coniugi, I, cit., p. 142 ss., 187 ss., 393 ss.
[60] Sul tema cfr. anche Oberto, La comunione dei beni tra coniugi, II, cit., p. 2284 ss.
[61] Sul tema si potrà richiamare la decisione con cui la Cassazione ha dichiarato che le quote di s.n.c. sono idonee a cadere in comunione (addirittura) immediata (cfr. Cass., 2 febbraio 2009, n. 2569, in Fam. dir., 2009, p. 1114, con nota di Rando; in Giur. it., 2009, p. 1175, con nota di Cavanna; in Giur. comm., 2009, p. 1171, con nota di Tripputi; in Fam. dir., 2009, p. 799, con nota di Delmonte; in Giur. it., 2009, p. 1372, con nota di Fessia; in Vita not., 2010, p. 619, con nota di Castellano; in Le società, 2010, p. 176, con nota di Pertoldi; in Giur. comm., 2010, p. 411, con nota di Cennerazzo). In tal caso la Corte, confermando la decisione di merito che aveva statuito che tali cespiti formavano «oggetto della comunione» ha affermato la riferibilità dell’acquisto all’art. 177, lett. a), c.c., peraltro non prendendo in considerazione il disposto dell’art. 178 c.c. Nella specie, tra l’altro, poiché il regime legale era già cessato, la domanda diretta al semplice accertamento che le quote formavano «oggetto della comunione» ben avrebbe potuto essere riferita tanto alla (ormai disciolta) comunione immediata che a quella de residuo; diverso sarebbe stato il caso se il petitum avesse avuto ad oggetto una rivendica della quota (inammissibile, aderendo alla tesi obbligatoria), o, in alternativa, la condanna al pagamento della metà del valore (inammissibile, aderendo alla tesi della contitolarità reale): cfr. Oberto, La comunione legale tra coniugi, I, cit., p. 564, 581 s.; II, cit., p. 2361.
[62] Su cui cfr. Oberto, La comunione legale tra coniugi, I, cit., p. 881 ss.
[63] Per la negativa cfr. Oberto, La comunione legale tra coniugi, I, cit., p. 921 ss.
[64] Sul punto la decisione in commento si esprime come segue: «Peraltro, è stato anche osservato da questa Corte che all’atto dello scioglimento della comunione deve tenersi conto del valore dei beni facenti parte della comunione de residuo in accredito al coniuge non imprenditore (cit. sez. I n. 7060 del 1986), sicché il coniuge non imprenditore acquista la effettiva disponibilità del bene facente parte della comunione de residuo a titolo di proprietà solo per effetto della sua assegnazione in sede di divisione».