MATRIMONI MISTI E UNIONI PARAMATRIMONIALI:
ORDINE PUBBLICO E PRINCIPI SOVRANAZIONALI*
·
1.
Il conflitto con l’ordine pubblico nella creazione del vincolo
matrimoniale e nel riconoscimento dei suoi effetti personali (con particolare
riguardo al ricongiungimento familiare).
·
2.
Il conflitto con l’ordine pubblico nella fase patologica
dell’unione matrimoniale.
·
3.
La questione delle unioni omosessuali.
·
4.
Il riconoscimento delle convivenze more
uxorio.
1. Il conflitto con l’ordine pubblico nella
creazione del vincolo matrimoniale e nel riconoscimento dei suoi effetti personali
(con particolare riguardo al ricongiungimento familiare).
La trattazione della
materia dei matrimoni misti e delle conseguenze giuridiche di tale fenomeno,
sempre più frequente, impone innanzi tutto una verifica dei possibili
problemi di impatto con i principi fondamentali scolpiti nel nostro ordinamento
interno. Come da molti rilevato in dottrina, l’esplicita rilevanza
costituzionale della famiglia (art. 29 Cost.) impone un’attenta difesa
dei principi fondamentali, trasfusi negli istituti giusfamiliari, avverso gli
effetti destabilizzanti che potrebbero derivare dall’applicazione di
norme straniere con essi confliggenti.
Il principale strumento di
tutela a tale scopo fornito dalla vigente l. 218/1995 è il c.d. «limite dell’ordine
pubblico», che può, da
un lato, impedire l’applicazione delle norme straniere (art. 16)[1] e, dall’altro, bloccare il riconoscimento, in
linea di principio automatico, dei provvedimenti giurisdizionali e degli atti
pubblici resi all’estero (artt. 64 ss.)[2].
Le conseguenze del
riconoscimento, o del suo rifiuto, del legame familiare fondato sul diritto di
uno Stato straniero ricadono su diversi profili, attinenti sia alla
costituzione del vincolo, che alla sua crisi ed al relativo scioglimento. Non
solo. Esistono evidenti implicazioni anche sull’esercizio del diritto
all’unità familiare così come esso risulta disciplinato,
per quanto attiene agli stranieri extracomunitari, dagli artt. 28 ss. D. L.vo 286/1998,
e, per quanto concerne cittadini comunitari ed italiani, dal D. L.vo 6
febbraio 2007, n. 30 con il quale è stata attuata la direttiva
2004/38/CE, relativa al diritto dei cittadini dell’Unione e dei loro
familiari di circolare e soggiornare liberamente nel territorio degli Stati
membri.
Iniziando, dunque, dal
profilo della creazione del vincolo, e dei suoi effetti di carattere personale
(con particolare riguardo al ricongiungimento familiare), va detto che, per
quanto attiene alla compatibilità di modelli di matrimonio stranieri (in
particolare del diritto musulmano) con l’ordine pubblico italiano, viene
in rilievo il divieto opposto da diversi ordinamenti d’ispirazione coranica
al matrimonio tra una loro cittadina ed uno straniero non appartenente alla Umma,
ossia alla comunità dei fedeli dell’Islam. Più
precisamente, una donna musulmana può sposare solo un musulmano, mentre
un uomo musulmano può sposare una donna dei paesi delle religioni del
libro (cioè una musulmana, ovvero una cristiana o un’ebrea). Un
impedimento di tale tipo è stato ritenuto incompatibile con il
fondamentale diritto di ogni persona a sposarsi e costituire una famiglia,
oltre che contrario al divieto di discriminazione per motivi religiosi[3]. La cittadina straniera può rivolgersi pertanto
al giudice ordinario, chiedendo di autorizzare la celebrazione anche in assenza
del nulla osta di cui all’art.
116 c.c., rifiutato dalle autorità del suo Stato di cittadinanza per
siffatte ragioni[4].
Il carattere poligamico del
matrimonio musulmano pone poi problemi attinenti al riconoscimento dello stesso
ai fini del ricongiungimento familiare. Si tratta di preoccupazioni
pesantemente avvertite a livello, innanzi tutto, internazionale. Così,
ad esempio, il Comitato per i Diritti Umani (Human Rights Committee) dell’O.N.U. ha affermato nel suo
Commento Generale 28, del 29 marzo 2000, Paragrafo 24, la totale
incompatibilità tra la dottrina dei diritti umani con il divieto delle
«inter-religious marriages» e con la pratica della poligamia[5]. Analogamente l’Assemblea Parlamentare del
Consiglio d’Europa, nella sua risoluzione del 2002, n. 1293 (Situation of Women in Maghreb) ha
chiaramente stabilito che «repudiation and polygamy violate the principle
of human dignity. Polygamous marriages cannot, thus, be recognised by Council of Europe
member states». Analogo sfavore
traspare dalla Direttiva del 2003 dell’Unione Europea (cfr. Direttiva 2003/86/CE
del Consiglio del 22 settembre 2003), relativa al diritto al ricongiungimento
familiare, che, al considerando n. 11, stabilisce che «il diritto al
ricongiungimento familiare dovrebbe essere esercitato nel necessario rispetto
dei valori e dei principi riconosciuti dagli Stati membri, segnatamente qualora
entrino in gioco diritti di donne e di minorenni. Tale rispetto giustifica che
alle richieste di ricongiungimento familiare relative a famiglia poligama
possono essere contrapposte misure restrittive».
Il riscontro
giurisprudenziale di tale impostazione si rinviene in Italia in una decisione del T.A.R. Emilia Romagna, che
negò la possibilità di attribuire alla seconda moglie dello
straniero poligamo lo status di
coniuge stante la contrarietà all’ordine pubblico del legame
poligamico, con conseguente impossibilità di ottenere il ricongiungimento
familiare[6].
Successivamente, la S.C. ha
avuto modo di precisare che la preclusione avverso il matrimonio poligamico
opera solo nei casi di effettiva pluralità di vincoli coniugali in capo
al medesimo soggetto, non invece nei confronti di matrimoni di fatto monogamici
ancorché disciplinati da leggi che, in astratto, ammettono la poligamia.
La Cassazione ha così stabilito che «In virtù del principio
del favor matrimoni, l’atto di
matrimonio non perde validità se non sia stato impugnato per una delle
ragioni indicate dagli artt. 117 e seguenti cod. civ. e non sia intervenuta una
pronuncia di nullità o di annullamento; ne consegue che, in virtù
della validità interinale del matrimonio contratto da cittadino italiano
all’estero, pur secondo una legge prevedente la poligamia e il ripudio,
ma nel rispetto delle forme ivi stabilite e ricorrendo i requisiti sostanziali
di stato e capacità delle persone, non si può disconoscere
l’idoneità di tale matrimonio a produrre effetti nel nostro
ordinamento, finché non si deduca la nullità di tale matrimonio e
non intervenga una pronuncia sul punto. (Nella specie, la S. C. ha confermato
la sentenza di merito che, ritenuto che il profilo dell’ordine pubblico e
del buon costume, connessi alle caratteristiche della poligamia e del ripudio,
proprie del matrimonio islamico, erano estranei al rapporto dedotto in
giudizio, aveva affermato il rilievo in sede ereditaria dello status di coniuge acquisito in
virtù di matrimonio celebrato in Somalia nel rispetto delle forme stabilite
dalla lex loci ed in presenza dei
requisiti di stato e capacità delle persone)»
[7].
Si registra un caso
pressoché equivalente nel Regno Unito, risalente al 1982[8], in cui la Court
of Appeal ha sancito che il matrimonio di fatto monogamo tra due residenti
in Gran Bretagna, celebrato in un Paese straniero che ammetteva la poligamia
(nel caso di specie il Pakistan), non poteva non essere riconosciuto
dall’ordinamento britannico, in quanto «being an English domiciliary, his
capacity to marry was governed by English law which only allowed monogamous
marriages»[9]. Oltre Manica, la residenza/domicilio dei soggetti
viene considerata come l’elemento determinante nel decidere
sull’esistenza di un matrimonio poligamico: se un marito ed una moglie vivono
in Gran Bretagna in un contesto matrimoniale di fatto monogamo, anche se
dovessero esservi altre mogli in un Paese straniero, sposate secondo il diritto
locale, queste eventuali mogli non sono riconosciute dall’ordinamento
inglese, nemmeno se dovessero successivamente trovarsi in Inghilterra.
Le ragioni
dell’impostazione qui in esame vanno rinvenute, per il matrimonio
poligamico, nella violazione dei fondamentali principi di uguaglianza morale e
giuridica tra i coniugi e del divieto di discriminazione in base al sesso che
la configurazione poligamica del matrimonio ipso
facto comporta, essendo evidente lo sbilanciamento a favore del marito di
un istituto che gli consente di prendere contemporaneamente sino a quattro
mogli (si veda anche quanto detto sopra, con riguardo al principio sancito
dallo Human Rights Committee delle
Nazioni Unite e dalla risoluzione del 2002 dell’Assemblea Parlamentare
del Consiglio d’Europa).
Innegabili però
anche le ragioni di tutela delle «mogli
ulteriori» rispetto alla prima,
e della relativa prole. Così nell’esperienza giurisprudenziale
tedesca, in effetti, è stata talora riconosciuta l’efficacia del
matrimonio poligamico al fine di riconoscere anche alla seconda moglie il
diritto ad ottenere il permesso di soggiorno per motivi familiari. Lo stesso
è avvenuto anche in Francia, laddove, ad esempio, nel caso Montcho del
1980, il Consiglio di Stato concesse per primo il permesso di soggiorno alla
seconda moglie di un uomo originario dell’Algeria, dando cosi rilevanza
al diritto al ricongiungimento familiare. Secondo il supremo giudice
amministrativo, la qualità di coniuge legittimo, ai fini del solo
ricongiungimento familiare con uno straniero regolarmente residente in Francia,
avrebbe dovuto essere accertata in base alla legge personale dei richiedenti:
se quest’ultima prevede la poligamia , il diritto a raggiungere il marito
spetta anche alle mogli successive alla prima ed ai relativi figli , le quali
hanno diritto a condurre una vita familiare normale. La successiva legge del 24
agosto 1993 è venuta però a stabilire che, ove un uno straniero
poligamo risieda in Francia con la sua prima moglie, il diritto al
ricongiungimento familiare non può essere concesso ad un’altra
sposa. A meno che tale sposa non sia deceduta o abbia perso i diritti derivanti
dalla parentela, i figli dell’altra sposa non possono godere del diritto
di ricongiungimento familiare[10].
Il problema è che da
un matrimonio poligamico possono nascere figli da ciascuna delle diverse mogli
e l’istituto del ricongiungimento ha anche evidente tratto al rapporto
genitore-figlio, a prescindere dalla relazione tra i due genitori[11]. Di un certo interesse, in questa prospettiva,
potrebbe essere la decisione della Corte d’Appello di Torino del 2001 che
ha permesso l’ingresso in Italia ex
art. 31, terzo comma, D. L.vo
286/1998 della seconda moglie dello straniero poligamo già
soggiornante nel territorio dello Stato con la prima moglie: la Corte territoriale
ha riconosciuto il prioritario interesse del minore a vivere quotidianamente
con entrambi i genitori, nonostante l’accertata natura poligamica del
nucleo familiare nel quale la convivenza si sarebbe effettivamente svolta[12].
Dal canto suo, come
già ricordato, la Direttiva 2003/86/CE
del Consiglio del 22 settembre 2003, relativa al diritto al ricongiungimento
familiare, al considerando n. 11, dispone che «il diritto al
ricongiungimento familiare dovrebbe essere esercitato nel necessario rispetto
dei valori e dei principi riconosciuti dagli Stati membri, segnatamente qualora
entrino in gioco diritti di donne e di minorenni. Tale rispetto giustifica che
alle richieste di ricongiungimento familiare relative a famiglia poligama
possono essere contrapposte misure restrittive». A sua volta,
l’art. 4, comma 4 così dispone: «In caso di matrimonio
poligamo, se il soggiornante ha già un coniuge convivente sul territorio
di uno Stato membro, lo Stato membro interessato non autorizza il
ricongiungimento familiare di un altro coniuge» (e quindi, aggiungiamo
noi, potrebbe convivere con la terza moglie, la quale sarebbe protetta da
questa disposizione, anche «contro» la prima moglie). In deroga al
par. 1, lett. c), gli Stati membri possono limitare il ricongiungimento
familiare dei figli minorenni del soggiornante e di un altro coniuge. La
normativa d’attuazione (d.lgs. 8 gennaio
2007, n. 5) non si è avvalsa di questa facoltà, col rischio
che, a sua volta, essendo il figlio in Italia, l’altra moglie possa
chiedere il ricongiungimento ai sensi dell’art. 29, comma quinto, del T.U.
sull’immigrazione[13].
2. Il conflitto con l’ordine pubblico nella fase
patologica dell’unione matrimoniale.
Il confronto con la
tradizione islamica in materia familiare può rivelarsi problematico
anche sotto il profilo della disciplina della fase patologica del vincolo
coniugale. A tal proposito, va premesso che la nostra giurisprudenza recente ha
manifestato una sempre maggiore disponibilità ad applicare disposizioni
straniere che prevedono modalità di divorzio diverse da quelle
contemplate dalla disciplina materiale italiana: sono state, infatti, ritenute
compatibili con i principi essenziali del foro le norme marocchine ed albanesi
che prevedono il divorzio immediato per maltrattamenti[14], ma anche le norme statunitensi sul divorzio
immediato per mutuo consenso[15].
Quanto sopra rappresenta un
dato certamente significativo se solo si considera che, ancora non molti anni
fa, una decisione di merito ritenne incompatibile con l’ordine pubblico
la legge francese che ammetteva il divorzio per colpa senza un preliminare
periodo di separazione[16].
In questo quadro si viene
del resto a collocare una sentenza del 2009 del Tribunale di Firenze, che ha
accolto l’istanza di divorzio di una donna fiorentina che, dopo essersi
sposata in Italia con un cittadino spagnolo, era andata a vivere nella terra
del marito, dove però il rapporto, dopo solo tre mesi, era naufragato.
Il giudice ha applicato i seguenti principi: ai sensi dell’articolo 31
della l. 218/1995, alla procedura di divorzio va applicata la legge nazionale
comune (cioè la stessa) dei due coniugi al momento della domanda. Se
questa legge comune manca, si applica la legge dello Stato in cui il rapporto
coniugale è stato vissuto per più tempo. Così facendo, la
decisione non ha «recepito» una sentenza straniera, ma ha applicato
direttamente la legge spagnola siccome ritenuta la sola idonea a regolare il
rapporto coniugale di quei coniugi, e questo dopo la positiva verifica, per la
legge spagnola, di «non contrarietà ai principi fondamentali della
Costituzione e dell’ordinamento italiano». Legge che in tal caso
consente lo scioglimento del matrimonio senza passare obbligatoriamente per la
separazione e con una Wartezeit di
soli tre mesi dalla celebrazione delle nozze (c.d. divorcio express)[17].
Anche in questo settore,
non di meno, possono sorgere i c.d. conflits
de civilisations, consistenti nel sistematico ricorso al limite
dell’ordine pubblico. Ciò può accadere, in particolare,
avverso istituti propri della tradizione giuridica musulmana ben difficilmente
conciliabili con i precetti costituzionali che impongono uguaglianza morale e
giuridica tra i coniugi: è quanto avviene in relazione al ripudio, la
cui compatibilità rispetto ai principi fondamentali del sistema italiano
è già stata a più riprese valutata (ed esclusa) dalla
giurisprudenza, contraria ad ammettere nel nostro sistema un istituto che,
nella sua configurazione tradizionale, consente al marito di sciogliere
unilateralmente il legame coniugale previa una semplice dichiarazione, senza
che la moglie possa svolgere alcuna obiezione o avanzare qualsivoglia pretesa.
Infatti, secondo l’interpretazione
dominante in diritto islamico, un uomo ha la possibilità di divorziare ad nutum, mentre la donna non dispone di
tale diritto[18]. Interpretando le fonti internazionali, il Comitato
per i diritti umani (Human Rights
Committee) delle Nazioni Unite ha osservato che gli Stati devono assicurare
a uomini e donne uguali condizioni per ottenere la dissoluzione del vincolo
coniugale (HRC, General Comment 28, Par. 26).
Da tale commento si desume che il divorzio (ripudio) unilaterale del marito
contravviene alle norme di diritto internazionale in materia di diritti umani.
E’ noto che, tradizionalmente
una particolare forma di scioglimento del matrimonio islamico è
costituito dal ripudio (talaq o talalq) pronunciato dal marito nei
confronti della moglie attraverso formule rituali che contengono espressamente
il termine talalq o equivalenti, ma
che esprimano in modo inequivocabile l’intenzione di porre fine
all’autorità maritale sulla sposa. Secondo il diritto islamico il
ripudio può essere revocabile (raj’a)
e irrevocabile (bid’a). Prima
dello scadere del periodo di tre mesi (o di tre cicli mestruali: periodo detto
«idda»[19]) di ritiro legale che la donna è tenuta ad
osservare prima di potersi risposare, il marito ha la facoltà di
ritrattare il ripudio pronunciato e riprendere la vita in comune. Trascorsi i tre
mesi, senza la ritrattazione o senza la pronuncia di un nuovo ripudio
revocabile, il matrimonio è sciolto. Il talaq può essere anche ripetuto nelle stesse formule del
primo, ma non più di tre volte. Infatti, il triplice ripudio è
definitivo. Lo scioglimento del matrimonio è immediato anche in seguito
alla pronuncia per tre volte di seguito della formula di ripudio.
L’osservazione
comparatistica, tuttavia, mostra come, nell’ambito di alcuni ordinamenti
appartenenti all’area islamica, al nomen
iuris ripudio si sia andato nel tempo associando un istituto in effetti
molto simile al divorzio, consistente in
un vero e proprio rimedio avverso il definitivo venir meno dell’armonia
familiare, attuato per mezzo di una procedura giurisdizionale nel cui ambito la
moglie ha l’opportunità di difendersi e svolgere le proprie
domande. In alcuni ordinamenti di ispirazione musulmana, poi, lo stesso ripudio
è stato abbandonato. Ad esempio, l’art. 30 dello Statuto Personale
(codice di famiglie) della Tunisia (1956) proibisce il talaq del marito, in quanto dissoluzione unilaterale ed
extra-giudiziale[20]. Altri ordinamenti (ad
esempio, Marocco, Siria, Algeria, Iran) hanno cercato di limitare i casi di talaq, stabilendo per legge un compenso
pecuniario alla dovuto alla moglie ripudiata. Inoltre, alcuni ordinamenti ad
ispirazione islamica hanno espressamente stabilito la validità dei soli
divorzi registrati in tribunale (Algeria, Libia, Palestina)[21].
Significativa al riguardo
l’evoluzione del diritto marocchino, specie alla luce della riforma del
2004. L’evoluzione storica e sociologica mostra il passaggio dalla forma
di ripudio stragiudiziale concessa al solo marito (talaq), e dalla forma di divorzio per colpa (del marito) concessa
alla sola moglie (tatliq), al nuovo
istituto del divorzio giudiziale per intollerabilità della convivenza (chiqaq), introdotto nel 2004. Sotto il
profilo dell’ordine pubblico potrebbero ritenersi contrari
all’ordine pubblico italiano i divorzi consensuali realizzati dinanzi ad
autorità non giurisdizionali, quali gli adoul, mentre è sicuramente conforme alle nostre regole la
procedura in base alla citata riforma marocchina del 2004 (divorzio c.d. chiqaq). Tale ultima forma di divorzi
assorbe in Marocco ormai il 90% dei divorzi giudiziali. Il grande successo
dell’istituto è che esso esime i contendenti dalla prova di una
colpa in capo alla controparte, esigendo solo l’intollerabilità
della prosecuzione della convivenza. Del resto, anche il numero dei divorzi
unilaterali stragiudiziali si è sensibilmente ridotto, al punto che
l’istituto sta cadendo in desuetudine. Ulteriori informazioni sul diritto
marocchino e sul ripudio sono reperibili ai siti: www.justice.gov.ma; http://adala.justice.gov.ma.
Posto quanto sopra, va
ribadito che il vero e proprio ripudio – che, come causa di scioglimento
del matrimonio, trova anch’esso fondamento nel testo del Corano –
può essere pronunciato, come detto, soltanto dal marito. Quindi l’istituto
del ripudio è caratterizzato dall’unilateralità della
manifestazione di volontà dello scioglimento e dalla
extragiudizialità dell’atto. Nello specifico, si tratta di una
dichiarazione di volontà non recettizia né motivata. Proprio per
tali caratteri, tale istituto contrasta con l’ordine pubblico dei vari
stati europei e costituisce una violazione del principio di uguaglianza
coniugale e della tutela della donna, posta in tal caso in una posizione di
inferiorità rispetto all’uomo. A tali considerazioni si aggiunge
la considerazione dei testi di diritto internazionale (cfr. il già
ricordato avviso dello Human Rights
Committee dell’O.N.U.). Dovrà tenersi presente in proposito
che, secondo il diritto islamico tradizionale (recepito nella gran parte degli
ordinamenti ad ispirazione coranica), la donna può chiedere il divorzio
tramite khul (sulla base di
condizioni specifiche), per mutuo consenso (mubarah)
e per dissoluzione per ordine giudiziale (faskh).
Tale impostazione, dunque, differisce dal talaq
(ripudio unilaterale extra-giudiziale maschile e non motivato), in quanto non
trova spazio l’elemento dell’arbitrarietà[22]. Inoltre il ripudio differisce dalle modalità
di scioglimento del matrimonio comunemente utilizzate in Occidente, in cui
è il giudice a rivestire un ruolo fondamentale nella cessazione del
vincolo e nella regolamentazione delle disposizioni relative al rapporto fra
coniugi. Di conseguenza il ripudio non viene generalmente ammesso nei paesi
europei in quanto contrastante con l’ordine pubblico, pur annettendosi in
alcuni casi effetti a quei ripudi che, nelle modalità di espressione o
di realizzazione, possono approssimarsi agli estremi di un divorzio
consensuale, ad esempio qualora la moglie dia il proprio consenso[23].
A proposito
dell’Italia, in materia di ripudio occorre riferirsi alla Legge del 1995
di riforma del sistema di diritto internazionale privato. In particolare,
l’art. 31 della legge n. 218/1995 utilizza, in ordine allo scioglimento
del matrimonio, gli stessi criteri di collegamento utilizzati in ordine ai
rapporti personali tra i coniugi, ovvero lo scioglimento è sottoposto
alla legge nazionale dei coniugi se è comune; altrimenti alla legge
dello Stato di prevalente localizzazione della vita matrimoniale. Qualora
pertanto si tratti di un musulmano straniero e di una italiana, il diritto
musulmano assumerà rilievo solo nel caso che i coniugi abbiano
prevalentemente condotto la loro vita coniugale in uno Stato islamico. Le norme
islamiche sono invece in principio sempre competenti qualora si tratti di
coniugi musulmani aventi la stessa cittadinanza. In entrambe le
eventualità si pone il problema degli effetti del ripudio per il nostro
ordinamento giuridico soprattutto in questa ultima ipotesi che si pone il
problema ulteriore di considerare se e come esso possa compiersi in territorio
italiano. In Italia infatti lo scioglimento del matrimonio può avvenire
soltanto attraverso l’intervento del giudice, di conseguenza il limite
dell’ordine pubblico non solo preclude che si tenga conto di un ripudio
effettuato per esempio davanti alla guida religiosa (islamica), ma impedisce
anche al giudice di fondare una decisione di divorzio sulla sola richiesta
unilaterale del marito che contenga o configuri un atto di ripudio. Solo di
fronte ad una domanda di scioglimento bilaterale sarebbe consentito al giudice
italiano di pronunciare il divorzio sulla base della legge dello Stato non
islamico nel quale la vita matrimoniale era prevalentemente localizzata o del
diritto italiano.
La norma islamica
potrà essere applicata unicamente laddove configuri il ripudio come
fondamento consensuale che sfoci in un atto giudiziale. La giurisprudenza
italiana fino a poco tempo fa si era sempre rifiutata, in nome
dell’ordine pubblico, di riconoscere il ripudio effettuato
all’estero, a causa della sua unilateralità e del mancato
intervento di organi giurisdizionali e della discriminazione ai danni della
donna. Sotto quest’ultimo profilo, si può richiamare l’art.
5 del protocollo
n. 7 addizionale alla convenzione europea sui diritti dell’uomo,
secondo cui i «coniugi godono
di uguaglianza di diritti e di responsabilità di carattere civile tra
loro e nelle relazioni con i loro figli in merito al matrimonio, durante il
matrimonio e al momento del suo scioglimento». Riconoscere effetti ad un ripudio significherebbe violare
indirettamente tale norma. Da notare che analoga norma è contenuta
nell’International Covenant on Civil and Political Rights, approvato dall’O.N.U. nel 1966,
il cui art. 23.4 stabilisce che «States
Parties to the present Covenant shall take appropriate steps to ensure equality
of rights and responsibilities of spouses as to marriage, during marriage and
at its dissolution».
Per questo non può
non destare sorpresa il provvedimento della Corte d’appello di Cagliari
del 16 maggio 2008, secondo cui è efficace nell’ordinamento italiano
e deve essere trascritto nel registro dello stato civile il provvedimento di
divorzio ottenuto in Egitto attraverso la procedura del talaq (ripudio), pur in
assenza della moglie. Tale procedura non sarebbe contraria all’ordine
pubblico, né violerebbe il diritto del contraddittorio, in quanto in
essa sarebbe stata salvaguardata la possibilità della moglie di
intervenire (la mera possibilità, si badi, non già la presenza).
Significativo il fatto che sul punto relativo all’ordine pubblico in
relazione al principio d’uguaglianza la Corte abbia motivato come segue:
«Peraltro è utile ricordare che nel diritto civile egiziano la
moglie ha un uguale diritto (unilaterale) di sciogliersi dal vincolo
matrimoniale anche in mancanza del consenso del marito, secondo la procedura
del cd. khola, per cui non vi sarebbe
violazione neppure del principio di uguaglianza tra i generi»[24].
Ora, la sopra citata
decisione sembra non aver preso in considerazione l’effettiva distinzione
che si ha nell’ordinamento egiziano tra talaq e khul (o khola). In Egitto la moglie chiede
unilateralmente il divorzio khul,
senza che sia necessario il consenso del marito, a condizione di rinunciare a
tutti i diritti economici. Infatti, al momento delle nozze, l’uomo offre
alla moglie una porzione della dote (muqaddam),
che viene integrata al momento del divorzio unilaterale maschile (talaq) (ripudio). Se invece è la
moglie a chiedere il divorzio, ella rinuncia all’integrazione della muqaddam, e deve restituire la porzione
iniziale della stessa che aveva a suo tempo ricevuto[25]. Non possiamo dunque affermare, sulla base di uno
studio approfondito del divorzio egiziano, che la disciplina sia identica o
quanto meno equivalente per uomo e donna. Per ottenere un divorzio, quindi, la
donna deve poter disporre di una quantità sufficiente di denaro per
«riscattarsi». D’altro canto, l’uomo deve solo
provvedere alla nafaqa (mantenimento)
durante il periodo idda, per tre
mesi, ed al mantenimento (muta’a)
per due anni, secondo le proprie possibilità economiche.
Del tutto condivisibili
appaiono poi le osservazioni svolte in generale sul tema dell’ordine
pubblico da un’Autrice[26], secondo cui
«non si può ritenere di poter operare, sempre a tale
riguardo, una sorta di bilanciamento (o meglio, di compensazione), attribuendo
efficacia a una pronuncia o a un atto di ripudio a seguito di una valutazione
complessiva dell’ordinamento straniero considerato, al fine di verificare
se, all’interno del medesimo, siano previste anche a favore della moglie
forme di scioglimento del matrimonio ad
nutum. Infatti, anche laddove simili forme si rinvengano e venga esclusa la
necessità di una motivazione anche da parte della donna maritata, tale
ipotesi si rivelerebbe parimenti confliggente con il principio che vieta lo
scioglimento del matrimonio ad iniziativa libera e immotivata di un coniuge,
presente nel nostro ordinamento».
La giurisprudenza di altri
Paesi occidentali ha concesso il riconoscimento solo quando il ripudio era, nel
caso di specie, sostanzialmente equivalente a un divorzio consensuale (ossia
quando la moglie era presente alla dichiarazione o comunque ne era a
conoscenza, nonché quando aveva accettato o addirittura richiesto il
ripudio) o quando la donna aveva invocato essa stessa il riconoscimento o vi
aveva acconsentito. Si è anche tentato di imporre con un accordo
internazionale, il superamento del limite dell’ordine pubblico, ma ci si
è riusciti solo in parte, visto che la giurisprudenza cerca comunque
nella garanzia finanziaria un rimedio alla unilateralità del ripudio.
Come rilevato in dottrina, del resto[27], rimane pur sempre da sottolineare che gli effetti
della rigidità di tali valutazioni negative producono ipotesi di
scioglimento di matrimonio claudicanti, a tutto beneficio del marito, salvo che
esso sia chiamato in giudizio al fine di adempiere agli obblighi matrimoniali
di contribuzione. Ed è anche in vista di tali aspetti che i giudici
francesi si sono mostrati in passato propensi al riconoscimento di ripudi
effettuati all’estero.
Occorre poi ricordare che una
espressa soluzione normativa al riguardo è stata fornita, ad esempio,
dalla legge belga di diritto internazionale privato nei confronti di atti di
ripudio pronunciati all’estero (legge 16 luglio 2004, che reca il nuovo
Codice di diritto internazionale privato, riprodotta in Riv. dir. int. priv.
proc., 2005, p. 231 ss.). L’art. 57 consente infatti, sia pure a
titolo eccezionale, il riconoscimento di questi ultimi qualora siano stati
omologati da un giudice del Paese in cui sono stati pronunciati e risultino «deconnessi» per cittadinanza o residenza dei coniugi da ordinamenti che
tali atti vietano, purché la moglie acconsenta a tale riconoscimento in
modo certo e senza costrizioni (anche se non è affatto agevole giungere
ad accertare una inequivocabile volontà della donna in tal senso)[28].
3. La questione delle unioni omosessuali.
Straordinariamente attuali,
e non meno delicate, risultano le problematiche concernenti la
compatibilità con l’ordine pubblico del matrimonio tra persone
dello stesso sesso, recentemente ammesso da alcuni Stati europei (Belgio, Paesi
Bassi, Spagna, Svezia [da maggio 2009]
e Norvegia [dal
gennaio 2009]); una riforma in questo senso è altresì
annunciata in Portogallo).
La questione è stata portata, in Italia, all’attenzione della
Corte d’appello di Roma, chiamata a valutare la possibilità di
trascrivere nei registri dello stato civile il matrimonio contratto in Olanda
da due cittadini italiani di sesso maschile e, più in generale, la
compatibilità di tale modello coniugale rispetto all’archetipo
tutelato dall’art. 29 Cost.[29].
La Corte territoriale, in
primo luogo, riporta la questione nell’ambito della valutazione
internazionalprivatistica per mezzo delle vigenti norme di conflitto (gli artt.
27 e 28 l. 218/1995) da cui il giudice di prime cure, il Tribunale di Latina,
sembrava essersi allontanato valutando l’atto straniero senza tener conto
della lex causae richiamata dalle
norme di conflitto (il diritto italiano). In definitiva, la Corte
d’appello rileva che l’art. 27, l. 218/1995[30] subordina la validità sostanziale del vincolo
coniugale al rispetto dei requisiti previsti dalla legge nazionale di ciascuno
degli interessati; di conseguenza, la cittadinanza italiana di almeno uno dei
protagonisti impedisce il riconoscimento del matrimonio da essi contratto, dal
momento che, in base al diritto materiale italiano, la differenza di sesso tra
i coniugi è un requisito imprescindibile non solo per la
validità, ma addirittura per l’esistenza del vincolo coniugale.
In effetti la dottrina
prevalente considera l’identità di sesso tra gli interessati causa
di inesistenza del matrimonio[31] e così pure la giurisprudenza[32]. In senso conforme, v. anche la circolare
del Ministero dell’interno in materia di registri dello stato civile in
data 26 marzo 2001, che esclude la possibilità di trascrivere il
matrimonio tra omosessuali contratto all’estero dal cittadino italiano.
La circolare recita testualmente: «E’ trascrivibile il primo
matrimonio celebrato secondo il rito islamico tra un cittadino italiano e un
cittadino di religione islamica; mentre non è trascrivibile il
matrimonio celebrato all’estero tra omosessuali, di cui uno italiano, in
quanto contrario alle norme di ordine pubblico».
La soluzione adottata, a
ben vedere, non sembra far leva sulla contrarietà all’ordine
pubblico del rapporto dedotto, bensì sulla conformità del
matrimonio tra omosessuali al modello coniugale contemplato dalla lex causae richiamata dalla norma di
collegamento, e cioè dalla legge italiana. Il limite dell’ordine
pubblico, e tutte le problematiche connesse al suo intervento, vengono invece
in rilievo ogni qual volta si renda necessario valutare gli effetti dell’applicazione
del diritto straniero rispetto ai principi essenziali del foro: è quanto
avverrebbe, ad esempio, nel caso in cui si richiedesse il riconoscimento del
matrimonio omosessuale contratto in Olanda tra cittadini olandesi, e
cioè tra soggetti la cui legge nazionale ammette siffatta
possibilità.
La corte romana, nella
citata decisione, ha osservato che il matrimonio contratto dai due giovani non
poteva essere nella specie trascritto nei registri dello stato civile italiano
perché mancante di uno dei «requisiti essenziali» per la sua
configurabilità come matrimonio nell’ordinamento interno, vale a
dire la diversità di sesso tra i coniugi. I giudici hanno però
lasciato una qualche apertura per il futuro: se da una parte, infatti, la formula
di famiglia come «società naturale» rende inattuabile la
prospettiva volta a riconoscere in via pretoria l’unione tra persone
dello stesso sesso, dall’altra la medesima formula potrebbe consentire la
ricezione da parte del legislatore di nuove figure alle quali sia la
società civile ad attribuire il «senso e il valore»
dell’esperienza di «famiglia». In altre parole, è al
legislatore, e non al giudice, che compete dare attuazione alle istanze
provenienti dalla società nelle forme che lo stesso ritenga più
opportune, nulla ostando, ad opinione del collegio romano, la Carta
costituzionale[33].
In Francia, il 25 novembre 2008, è stata presentata una proposta di
legge tesa a permettre la reconnaissance des unions
conclues dans un autre État de
l’Union européenne par tous
les couples quelle que soit leur orientation sexuelle[34]. Al
momento, ammettendo solo il PACS francese, le coppie gay unite in un vincolo (matrimoniale o para-matrimoniale) secondo
l’ordinamento di un altro stato europeo, si trovano in «une
situation kafkaïenne : l’administration leur demandait de
rompre leur union civile pour pouvoir se pacser» (cit. dalla motivazione
della proposta di legge). Qualora questa proposta diventasse legge, la Francia
renderebbe legittimi anche gli effetti del vincolo matrimoniale contratto in un
altro stato UE tra due persone dello stesso sesso residenti sul territorio
francese (la questione principale riguarderebbe alcuni aspetti del diritto di
successione). Sempre secondo la presentazione della proposta, la legge
così envisagée
consentirebbe «une solution plus adéquate qui s’inspire en
partie du dispositif adopté en Grande-Bretagne en 2004 (Civil
Partnership Act). D’une part, elle pose
le principe selon lequel les mariages, les partenariats et les unions
régulièrement conclus dans un autre État de l’Union
européenne doivent produire des effets de droit en France. D’autre
part, elle autorise les couples auxquels est refusée la reconnaissance
de leur mariage, partenariat ou union à conclure un pacte civil de
solidarité s’ils résident en France».
Proprio il Civil
Partnership Act britannico[35] al
quale fa riferimento la proposta di legge francese riconosce le unioni
legittimamente contratte in un ordinamento straniero, secondo il diritto di
quello stato. Un capitolo intitolato «Overseas relationships treated as
civil partnerships» (par. 212-218) disciplina direttamente la questione,
offrendo definizioni, le condizioni e regole generali, il requisito del sesso
identico tra i partner, e le
eccezioni[36].
Posso del resto confermare
che nel corso di un convegno
tenutosi nell’autunno 2008 a Parigi sul tema dei profili
internazionalprivatistici, i partecipanti (magistrati francesi e non) hanno
nella stragrande prevalenza manifestato l’opinione favorevole a ritenere valablement mariés (ovviamente,
sotto il rispetto delle condizioni fissate dagli ordinamenti d’origine)
anche tali coppie, con conseguente applicazione della disciplina del
regolamento Bruxelles II bis da parte
dei giudici di tutti i sistemi dei paesi membri dell’U.E. In proposito il
relatore ha sottolineato la necessità dell’adozione di una nozione
comunitaria di matrimonio, analogamente a quanto ritenuto, in materia di
adozione, dalla decisione Wagner c/
Lussemburgo, in relazione ad un caso di adozione, in cui la Corte Europea
dei Diritti dell’Uomo ha stabilito che lo statuto personale che vieti
l’adozione da parte del single
viola la Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, in tal modo accedendo
ad una nozione europea di adozione[37].
E proprio in riferimento
alla detta Corte di Strasburgo, potrà aggiungersi che, ancora più
chiaramente, la stessa si è espressa, nel 2008, nel caso E.B. c/Francia, dichiarando la
contrarietà alla Convenzione del diniego dell’idoneità all’adozione
deciso dalle autorità di uno Stato membro che consente per legge di
adottare al singolo, qualora tale diniego sia motivato con la mancanza di un
riferimento genitoriale del sesso opposto a quello dell’aspirante
genitore adottivo celibe o nubile[38]. Con tale arresto, d’altra parte, i giudici
della Corte europea dei diritti dell’uomo si sono collocati nella scia
della precedente decisione resa, nel 1999, in relazione al caso Salgueiro da Silva Mouta c/Portogallo[39], la quale aveva stabilito che una decisione della
Corte d’appello di Lisbona, la quale aveva negato l’affidamento
della figlia minorenne al padre, motivando sulla base
dell’omosessualità di quest’ultimo e della sua convivenza
con un altro uomo, costituisse violazione degli artt. 8 e 14 della Convenzione[40].
Da notare che nel caso Fretté c/Francia[41], risalente al 2002, la Corte di Strasburgo aveva
invece ritenuto, con una maggioranza di soli quattro voti contro tre, che il
rifiuto al ricorrente dell’idoneità all’adozione (in una
fattispecie analoga a quella successivamente affrontata nel caso E.B c/Francia) non integrasse un
trattamento ingiustificatamente discriminatorio poiché, sebbene
l’esclusione fosse avvenuta a causa della sua omosessualità, tale
trattamento differenziato perseguiva il fine legittimo di proteggere il
benessere e i diritti dei minori adottandi e non eccedeva il margine di
apprezzamento da riconoscere agli Stati contraenti, in assenza di un
orientamento comune tra gli ordinamenti giuridici europei e anche
all’interno della comunità scientifica in questa materia.
Si è esattamente
rilevato in dottrina che le differenze tra tale affaire, giunta a decisione nel 2002 e quella E.B. c/Francia, del 2008, «non sono tali da giustificare di
per sé una decisione opposta»[42]. Concordo con tale giudizio, ritenendo però
personalmente erronea la decisione del caso Fretté.
Sul tema se la sentenza del 2008 costituisca o meno un avallo della Corte
europea all’omogenitorialità andrei cauto nel fornire, come pure
è stato fatto in dottrina[43], una risposta negativa. Nessuna affermazione, certo,
arriva da Strasburgo sul diritto di un omosessuale, in quanto partner del genitore biologico, ad
adottare il figlio dell’altro, in forza del rapporto di convivenza
(formalizzata o meno) con quest’ultimo. Una vigorosa affermazione,
invece, discende dal «combinato disposto» delle sentenze Salgueiro da Silva Mouta c/Portogallo ed
E.B., circa la non rispondenza ai
principi della Convenzione europea di pratiche discriminatorie che trovino la
propria «giustificazione» sull’orientamento sessuale del
genitore (attuale o «potenziale» che sia).
In una battuta, il
messaggio che arriva da Strasburgo, se non può ricondursi ad una affirmative action in favore
dell’omogenitorialità, contiene pur sempre un chiaro e netto fin de non recevoir opposto ad ogni
tentativo di considerare l’omogenitorialità come ragione di
trattamento deteriore. Dunque, in questi termini, ed in questi limiti, parlare
di «riconoscimento» e di «avallo» (nel senso, per
l’appunto, di accoglimento di rilevanti istanze di pari trattamento), da
parte della Corte europea, del fenomeno dell’omogenitorialità non
sembra poi così fuori luogo.
La nostra Corte
costituzionale è stata di recente investita nuovamente della questione
di legittimità costituzionale degli artt. 107, 108, 143, 143-bis, 156-bis e 231 c.c., laddove sistematicamente interpretate, non
consentono che le persone di orientamento omosessuale possano contrarre
matrimonio con persone dello stesso sesso. V’è dunque da augurarsi
che la Consulta, prestando orecchio alla puntualizzazione del giudice
rimettente[44], secondo cui «Non si devono dimenticare gli
atti delle Istituzioni europee che da tempo invitano gli Stati a rimuovere gli ostacoli
che si frappongono al matrimonio di coppie omosessuali ovvero al riconoscimento
di istituti giuridici equivalenti», sappia porre adeguato rimedio ad una
disparità di trattamento divenuta ormai intollerabile ed indegna di un
Paese che voglia dirsi civile.
4. Il riconoscimento delle convivenze more uxorio.
La nozione di «unione paramatrimoniale» qui in discorso, infine,
include anche le c.d. «convivenze
di fatto» o «more uxorio», tra persone di sesso diverso o uguale, numericamente assai
diffuse anche in Italia ma qui ancora sfornite di una disciplina organica, come
invece avviene nell’ambito di numerosi ordinamenti sia comunitari sia
extra-europei[45].
È opinione comune
anche da noi che anche la stabile convivenza tra due persone non unite da vincolo
coniugale sia prevista e tutelata dalla Carta costituzionale: secondo
l’opinione prevalente, il fondamento di tale modello relazionale sarebbe
da ricercarsi nell’art. 2 Cost., che tutela le formazioni sociali nelle
quali l’individuo sviluppa la propria personalità; non manca,
d’altra parte, chi riconduce la convivenza more uxorio nell’alveo
dell’art. 29 Cost.
Quale che sia
l’impostazione preferibile, non v’è dubbio che anche il
modello di rapporto di coppia alternativo a quello «consacrato»
nel vincolo coniugale, ha piena cittadinanza nel nostro sistema giuridico e
rientra a pieno titolo nell’ambito delle relazioni familiari, ossia di
quei rapporti caratterizzanti la più intima sfera di affettività
di ogni individuo. Anche la dottrina internazionalprivatistica individua
nell’affettività il tratto saliente di siffatti rapporti,
qualificandoli di conseguenza quali vere e proprie relazioni familiari. Del
resto, è la stessa Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo
del 1948 a prevedere il diritto di ciascuna persona adulta di sposarsi e di
fondare una famiglia, che a sua volta viene protetta dallo Stato (cfr. art. 16[46]). Sebbene la Dichiarazione non sia legally binding, oggi viene considerata
come jus cogens, una norma
inderogabile del diritto internazionale, che sta a fondamento dell’intero
sistema. Di conseguenza, il diritto a fondare una famiglia degli individui, e
l’obbligo dello Stato a proteggere la famiglia, così come viene
fondata dagli individui, si può collocare tra i diritti fondamentali in
diritto internazionale, quindi, parte integrante di ciascun ordinamento
nazionale[47].
Ciò nonostante, il
trattamento sostanziale delle unioni di fatto recanti elementi di
estraneità appare ancora caratterizzato da notevoli riserve e
limitazioni. Da un lato, la dottrina sembra ritenere inevitabili problemi di
ordine pubblico internazionale ogni qual volta si richieda il riconoscimento in
Italia di rapporti corrispondenti ai vari modelli oggi previsti da numerosi
ordinamenti stranieri.
E un’opinione di tal
segno poggia non di rado sul rilievo in base al quale nell’ambito
dell’ordinamento comunitario non è previsto un obbligo di mutuo
riconoscimento tra i vari Stati membri dei modelli familiari previsti nei
singoli sistemi nazionali. Dall’altro, la vigente disciplina del
ricongiungimento familiare, sia nei casi riguardanti cittadini extra-europei
soggiornanti in Italia, sia in relazione alle ipotesi che vedono protagonisti
cittadini comunitari o italiani, espressamente esclude le coppie non unite in
matrimonio dall’esercizio di tale diritto.
Nel primo caso, infatti,
l’art. 29, D. L.vo
286/1998, T.U. in materia di immigrazione e trattamento dello straniero,
espressamente limita al coniuge dello straniero residente la possibilità
di ottenere il ricongiungimento familiare, escludendo dai beneficiari il partner non coniugato. Sul punto
potrà dirsi che la Corte
d’appello di Firenze, con provvedimento del 6 dicembre 2006, ha
stabilito che, poiché il nostro ordinamento subordina il rilascio del
permesso di soggiorno per motivi familiari alla qualità di
«familiare» del soggetto richiedente, il provvedimento
dell’autorità neozelandese che riconosce a due persone del
medesimo sesso la qualifica di partners
di fatto, cioè di conviventi, e non di familiari, non costituisce titolo
idoneo perché possa essere rilasciato il permesso di soggiorno ai sensi
del d.lgs. n. 286/1998[48].
La predetta decisione
è stata confermata dalla Suprema Corte[49]. Secondo, invero, la Cassazione, «In tema di
diritto dello straniero al ricongiungimento familiare, il cittadino
extracomunitario legato ad un cittadino italiano ivi dimorante da
un’unione di fatto debitamente attestata nel paese d’origine del
richiedente, non può essere qualificato come “familiare” ai
sensi dell’ art. 30, primo comma, lettera c), del d.lgs. n. 286 del 1998,
in quanto tale nozione, delineata dal legislatore in via autonoma, agli
specifici fini della disciplina del fenomeno migratorio, non è
suscettibile di estensione in via analogica a situazioni diverse da quelle
contemplate, non essendo tale interpretazione imposta da alcuna norma costituzionale.
Né tale più ampia nozione può desumersi dagli artt. 8 e 12
della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo o dall’art. 9 della
Carta di Nizza (recepita nel Trattato di Lisbona, ratificato dall’Italia
l’8 agosto 2008, ma non ancora da tutti gli Stati membri) in quanto tali
disposizioni escludono il riconoscimento automatico di unioni diverse da quelle
previste dagli ordinamenti interni, salvaguardando l’autonomia dei
singoli Stati nell’ambito dei modelli familiari. Infine, non può
trovare applicazione la più recente normativa di derivazione
comunitaria, in quanto il d.lgs. n. 5 del 2007 si applica soltanto ai familiari
di soggiornanti provenienti da paesi terzi e il d.lgs. n. 30 del 2007 tutela la
libertà di circolazione e di soggiorno dei cittadini UE e dei loro
familiari nel territorio di uno stato membro diverso da quello di appartenenza,
e non il diritto al ricongiungimento familiare con un cittadino di uno Stato
membro regolarmente residente e dimorante nel suo paese d’origine»[50].
Quanto mai deludente la
presa di posizione della Suprema Corte con riguardo al contenuto ed agli
effetti della Carta di Nizza. Secondo la Cassazione, infatti, al fine di
accedere ad una nozione di «familiare» comprensiva anche del
convivente omosessuale non varrebbero le disposizioni dell’art. 9 del
predetto documento sovranazionale[51], posto che, «Se è vero che la
formulazione del citato art. 9 da un lato conferma l’apertura verso forme
di relazioni affettive di tipo familiare diverse da quelle fondate sul
matrimonio e, dall’altro, non richiede più come requisito
necessario per invocare la garanzia dalla norma stessa prevista la
diversità di sesso dei soggetti del rapporto, resta fermo che anche tale
disposizione, così come l’art. 12 CEDU, rinvia alle leggi
nazionali per la determinazione delle condizioni per l’esercizio del
diritto, con ciò escludendo sia il riconoscimento automatico di unioni
di tipo familiare diverse da quelle previste dagli ordinamenti interni che
l’obbligo degli stati membri di adeguarsi al pluralismo delle relazioni
familiari, non necessariamente eterosessuali». Del tutto ignorato
è invece l’art. 21, che, come noto, fonda un chiaro divieto di
trattamenti discriminatori, a ragione, tra l’altro,
dell’orientamento sessuale. Quest’ultimo profilo viene invece
velocemente sfiorato con riguardo agli artt. 8 e 14 della Convenzione europea
dei diritti dell’uomo, in relazione alla (dai ricorrenti) lamentata
«arbitraria ingerenza nelle scelte del modello familiare, avente anche
portata discriminatoria sulla base degli orientamenti sessuali». Ma
questo peculiare aspetto viene invece espressamente scartato dalla Cassazione,
«in quanto la mancata equiparazione al coniuge è prevista in
relazione a qualsiasi tipo di convivenza non matrimoniale, e non soltanto per
quelle tra persone dello stesso sesso». Che la via del matrimonio sia (da
noi) irrimediabilmente sbarrata agli omosessuali non sembra sfiorare neppure
per un attimo le menti dei Supremi Giudici.
Analoga impostazione si
desume dalla disciplina del ricongiungimento familiare dei cittadini comunitari
di cui alla direttiva recepita con D. L.vo 6
febbraio 2007, n. 30: l’art. 2, primo comma, lett. b) n. 2), infatti,
esclude dalla nozione di familiare rilevante ai fini della libera circolazione
il partner che abbia contratto con il
cittadino europeo un’unione registrata sulla base della legislazione di
uno Stato membro, se la legislazione dello Stato membro ospitante non equipara
l’unione registrata al matrimonio; a quanto pare, il medesimo principio
riguarda anche i familiari di cittadini italiani non aventi la cittadinanza
italiana, in forza del disposto dell’art. 23 D. L.vo 30/2007.
* Testo della relazione presentata all’ VIII Forum Nazionale dell’ Osservatorio Nazionale sul Diritto di
Famiglia – Avvocati di Famiglia, svoltosi a Roma nei giorni 20 e 21
novembre 2009 sul tema: «Diritti delle persone e della famiglia.
Problemi, tendenze e ruolo dell’avvocato». Si esprime il più
vivo ringraziamento alla dott.ssa Alice Panepinto per gli spunti forniti.
[1] «Art.
16.
Ordine pubblico.
1. La legge straniera non è applicata se i suoi
effetti sono contrari all’ordine pubblico. 2. In tal caso si applica la
legge richiamata mediante altri criteri di collegamento eventualmente previsti
per la medesima ipotesi normativa. In mancanza si applica la legge
italiana».
[2] «Art.
64.
Riconoscimento di sentenze straniere.
1. La sentenza
straniera è riconosciuta in Italia senza che sia necessario il ricorso
ad alcun procedimento quando: --a) il giudice che l’ha pronunciata poteva
conoscere della causa secondo i princìpi sulla competenza giurisdizionale
propri dell’ordinamento italiano; --b) l’atto introduttivo del
giudizio è stato portato a conoscenza del convenuto in conformità
a quanto previsto dalla legge del luogo dove si è svolto il processo e
non sono stati violati i diritti essenziali della difesa; --c) le parti si sono
costituite in giudizio secondo la legge del luogo dove si è svolto il
processo o la contumacia è stata dichiarata in conformità a tale
legge; --d) essa è passata in giudicato secondo la legge del luogo in
cui è stata pronunziata; --e) essa non è contraria ad altra
sentenza pronunziata da un giudice italiano passata in giudicato; --f) non
pende un processo davanti a un giudice italiano per il medesimo oggetto e fra
le stesse parti, che abbia avuto inizio prima del processo straniero; --g) le
sue disposizioni non producono effetti contrari all’ordine
pubblico».
«Art. 65.
Riconoscimento di provvedimenti stranieri.
1. Hanno effetto in
Italia i provvedimenti stranieri relativi alla capacità delle persone
nonché all’esistenza di rapporti di famiglia o di diritti della
personalità quando essi sono stati pronunciati dalle autorità
dello Stato la cui legge è richiamata dalle norme della presente legge o
producono effetti nell’ordinamento di quello Stato, anche se pronunciati da
autorità di altro Stato, purché non siano contrari
all’ordine pubblico e siano stati rispettati i diritti essenziali della
difesa».
«Art. 66.
Riconoscimento di provvedimenti stranieri di giurisdizione volontaria.
1. I provvedimenti stranieri di volontaria
giurisdizione sono riconosciuti senza che sia necessario il ricorso ad alcun
procedimento, sempre che siano rispettate le condizioni di cui all’art.
65, in quanto applicabili, quando sono pronunciati dalle autorità dello
Stato la cui legge è richiamata dalle disposizioni della presente legge,
o producono effetti nell’ordinamento di quello Stato ancorché
emanati da autorità di altro Stato, ovvero sono pronunciati da
un’autorità che sia competente in base a criteri corrispondenti a
quelli propri dell’ordinamento italiano».
[3] Trib. Taranto, 13 luglio 1996, in Fam. dir.,
1996, p. 446; Trib. Napoli, 29 aprile 1996, in Fam. dir., 1996, p. 446;
Trib. Barcellona, 9 marzo 1995, in Dir. fam. pers., 1996, p. 164; Trib.
Torino, 24 febbraio 1992, in Riv. dir. int. priv. proc., 1992, p. 985;
Trib. Genova, 4 aprile 1990, in Giur. mer., 1992, p. 1195; Trib. Verona,
6 marzo 1987, in Stato civ. it., 1987, II, p. 201.
[4] Corte cost., 30 gennaio 2003, n. 14, in Giust. civ., 2003, I, 1180, il cui testo
si riporta qui di seguito:
«ORDINANZA
nel giudizio di
legittimità costituzionale dell’art. 116 del codice civile
promosso dal Tribunale di Roma con ordinanza del 3 settembre 2001 sui ricorsi
riuniti proposti da Bouaziz Nabiha Bent Ayech ed altri contro il Comune di Roma
iscritta al n. 283 del registro ordinanze 2002 e pubblicata nella Gazzetta
Ufficiale della Repubblica n. 24, prima serie speciale, dell’anno 2002.
Visto l’atto di
costituzione del Comune di Roma nonché l’atto di intervento del
Presidente del Consiglio dei ministri;
udito
nell’udienza pubblica del 5 novembre 2002 il Giudice relatore Francesco
Amirante;
uditi l’avvocato
Roberto Tomasuolo per il Comune di Roma e l’avvocato dello Stato Gaetano
Zotta per il Presidente del Consiglio dei ministri.
Ritenuto che il
Tribunale di Roma, con ordinanza del 3 settembre 2001, ha sollevato questione
di legittimità costituzionale, in riferimento all’art. 2 della
Costituzione, dell’art 116 del codice civile, nella parte in cui impone
allo straniero, il quale voglia contrarre matrimonio in Italia, la
presentazione all’ufficiale dello stato civile di una dichiarazione
dell’autorità competente del proprio paese, dalla quale risulti
che nulla osta al matrimonio secondo le leggi alle quali egli è
assoggettato, ovvero, in subordine, nella parte in cui non prevede che, in
mancanza della predetta dichiarazione, possa essere presentata al detto
ufficiale documentazione idonea ad attestare la mancanza di impedimenti al
matrimonio, secondo la legislazione cui il cittadino straniero è sottoposto;
che il giudice a quo era stato adito, con due distinti
ricorsi ex art. 98, comma secondo,
del codice civile, successivamente riuniti, avverso il rifiuto
dell’ufficiale dello stato civile di procedere alle pubblicazioni di
matrimonio - in ragione della mancanza del certificato richiesto
dall’art. 116 cod. civ. - da due coppie costituite, rispettivamente, da
una cittadina tunisina e da un italiano e da un cittadino siriano a da
un’italiana: nel primo caso l’impedimento al matrimonio derivava
dal divieto, posto dalla legge tunisina, al matrimonio con un cittadino
straniero di religione non islamica, mentre nel secondo dei due giudizi, la
certificazione non era stata rilasciata a causa del mancato svolgimento del
servizio militare di leva da parte del cittadino siriano;
che i nubendi avevano
convenuto in giudizio il Comune di Roma e, premesso di possedere i requisiti
richiesti dagli artt. 84, 85, 86 cod. civ. ed altresì esclusi gli
impedimenti al matrimonio ex artt.
87, 88, 89 cod. civ., avevano chiesto che il Tribunale autorizzasse
l’ufficiale dello stato civile ad effettuare le pubblicazioni;
che il remittente,
sulla premessa della mancata previsione di un provvedimento
“autorizzativo al matrimonio”, ritenuto legittimo il rifiuto
dell’ufficiale dello stato civile, prospetta come risolutiva la
declaratoria d’illegittimità costituzionale dell’art. 116
cod. civ., norma considerata ostativa ad un accoglimento delle domande, sia con
riguardo alla stessa previsione della presentazione della dichiarazione, sia,
in subordine, nella parte in cui non consente ai nubendi di produrre, in
sostituzione della medesima, un’attestazione della mancanza di
impedimenti al matrimonio;
che, a parere del
Tribunale, la norma censurata affiderebbe la capacità matrimoniale dello
straniero ad una mera autorizzazione dell’autorità competente,
senza neppure ipotizzare una motivazione del rifiuto, così frapponendo
un serio ostacolo alla realizzazione del diritto fondamentale a contrarre
matrimonio: ove infatti lo straniero non possa ottenere la dichiarazione per
motivi politici, razziali, religiosi, per una scelta discrezionale
dell’autorità competente, a causa di disposizioni non applicabili
nel nostro ordinamento perché produttive di effetti contrari
all’ordine pubblico od anche soltanto per ragioni contingenti, sarebbe
impossibile qualsiasi controllo delle autorità italiane sui motivi
dell’omessa presentazione;
che, osserva il
giudice a quo, dovendo l’ufficiale dello stato civile limitarsi,
attualmente, a rifiutare le pubblicazioni in mancanza della dichiarazione, in
assenza del potere di valutare eventuale documentazione prodotta dai nubendi, a
seguito della declaratoria d’illegittimità costituzionale invocata
in via principale, questi sarebbe abilitato a procedere alle pubblicazioni, ove
rilevasse la contrarietà all’ordine pubblico di eventuali
impedimenti, in quanto l’interessato potrebbe presentare, in alternativa
alla dichiarazione, la documentazione attestante la mancanza
d’impedimenti sulla base della legge nazionale, secondo le
modalità previste dall’art. 2 del d.P.R. 31 agosto 1999, n. 394;
che, in conseguenza
della declaratoria d’illegittimità prospettata come subordinata,
la norma in questione dovrebbe consentire allo straniero la diretta
presentazione all’ufficiale di stato civile di una documentazione
equipollente alla dichiarazione in argomento ed al giudice, adito avverso il
rifiuto di procedere alle pubblicazioni, la possibilità di riesaminare
la documentazione, di integrarla con i poteri previsti dall’art. 14 della
legge 31 maggio 1995, n. 218 e di procedere all’accertamento delle
condizioni che consentono il matrimonio;
che, nel sollevare la
questione, il giudice remittente ha disposto la notifica dell’ordinanza
al ministero dell’Interno (in quanto competente alla tenuta dei registri
dello stato civile) e ai ministeri della Giustizia e degli Esteri, quali
“controinteressati”;
che è
intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso
dall’Avvocatura generale dello Stato, concludendo per la declaratoria
d’inammissibilità ovvero d’infondatezza della questione e
rilevando preliminarmente l’opinabilità della premessa del
remittente secondo la quale il giudice adito ex art. 98 cod. civ. non potrebbe autorizzare le celebrazione del
matrimonio in assenza della dichiarazione prevista dalla norma impugnata;
che, nel merito,
l’Autorità intervenuta distingue il caso in cui la dichiarazione
di nulla-osta non sia stata rilasciata a causa di disfunzioni organizzative
dell’autorità dello Stato estero (circostanza in cui il nubendo
potrebbe produrre documentazione attestante l’assenza di impedimenti)
dall’ipotesi del rifiuto ad emettere il nulla-osta, in cui la
presentazione della documentazione predetta sarebbe esclusa, ma che
consentirebbe al giudice adito ex
art. 98 cod. civ. di autorizzare il matrimonio (in conformità
all’art. 16 della legge n. 218 del 1995);
che nel giudizio
dinanzi a questa Corte si è costituito il Comune di Roma, affermando
anzitutto il proprio interesse ad un’applicazione della legge non
affidata alla discrezionalità degli ufficiali dello stato civile, e
concludendo nel merito per la declaratoria di non fondatezza della questione.
Considerato che il
giudice a quo pone la questione articolandola in due quesiti collegati da un
rapporto di logica subordinazione, non ostativa all’ammissibilità
dell’impugnativa (sentenza n. 188 del 1995), in quanto egli invoca
un’addizione normativa solo ove non venga accolta la richiesta di
declaratoria d’illegittimità costituzionale prospettata come prima
soluzione;
che il Tribunale di
Roma in via principale dubita, in riferimento all’art. 2 della
Costituzione, della legittimità costituzionale dell’art.116 del
cod. civ., in quanto la prescrizione allo straniero dell’obbligo di
presentare all’ufficiale dello stato civile la dichiarazione
dell’autorità competente del proprio Paese che nulla osta al
matrimonio secondo la legge cui è sottoposto incide, limitandola
gravemente, sulla libertà di contrarre matrimonio;
che la questione,
formalmente proposta con riguardo all’intero art. 116 cod. civ., alla
luce della motivazione va circoscritta al solo primo comma avente ad oggetto la
suindicata prescrizione;
che la questione
è manifestamente inammissibile, in quanto il remittente, per consentire
allo straniero il matrimonio anche nei casi in cui la presentazione del nulla-
osta sia resa impossibile o dalle circostanze di fatto esistenti nel proprio
Paese oppure da una legislazione prevedente condizioni per il matrimonio
contrarie all’ordine pubblico, postula che sia espunta dall’ordinamento
l’intera disposizione concernente il nulla- osta, documento questo che
nella maggior parte dei casi non limita ma facilita l’esercizio della
libertà matrimoniale; che non vi è quindi corrispondenza tra la
questione come proposta e la motivazione che il Tribunale di Roma ha addotto;
che in subordine il
giudice remittente, anche in questo caso al di là della letterale
formulazione del quesito, da individuare nei suoi esatti termini alla stregua
della motivazione, sospetta d’illegittimità costituzionale
l’art. 116 cod. civ. (recte:
l’art. 116, primo comma, cod. civ.) nella parte in cui non prevede che lo
straniero possa provare con ogni mezzo la ricorrenza delle condizioni per
contrarre matrimonio secondo le leggi del proprio Paese ad eccezione, eventualmente,
di quelle che contrastano con l’ordine pubblico;
che tale questione
è manifestamente infondata, anzitutto in quanto il remittente ha
erroneamente valutato l’ambito dei provvedimenti adottabili
all’esito del procedimento ex
art. 98, secondo comma, cod. civ., escludendo la configurabilità di una
decisione autorizzatoria ed omettendo così di verificare la differente
interpretazione della norma censurata derivante dalla possibilità di
autorizzare le pubblicazioni, secondo una soluzione già più volte
seguita dalla giurisprudenza di merito;
che, inoltre, il
giudice a quo considera isolatamente
la norma impugnata, senza inquadrarla nel sistema, in particolare senza
riferirsi al contesto normativo in cui l’applicazione della legge
straniera è esclusa ove i suoi effetti siano contrari all’ordine
pubblico.
Per questi motivi
LA CORTE
COSTITUZIONALE
dichiara la manifesta
inammissibilità della questione di legittimità costituzionale
dell’art. 116 del codice civile, sollevata dal Tribunale di Roma, in riferimento
all’art. 2 della Costituzione, con l’ordinanza in epigrafe;
dichiara la manifesta infondatezza della questione di legittimità
costituzionale del medesimo art. 116 del codice civile, sollevata in via
subordinata dallo stesso Tribunale, in riferimento all’art. 2 della
Costituzione, con l’ordinanza di cui sopra».
[5] «The right to choose one’s spouse may be restricted by laws or
practices that prevent the marriage of a woman of a particular religion with a
man who professes no religion or a different religion. States should provide
information on these laws and practices and on the measures taken to abolish
the laws and eradicate the practices which undermine the right of women to
marry only when they have given free and full consent. It should also be noted
that equality of treatment with regard to the right to marry implies that
polygamy is incompatible with this principle. Polygamy violates the dignity of
women. It is an inadmissible discrimination against women. Consequently, it
should be definitely abolished wherever it continues to exist»: cfr. http://www.unhchr.ch/tbs/doc.nsf/(Symbol)/13b02776122d4838802568b900360e80?Opendocument.
[6] Cfr. T.A.R. Emilia-Romagna, sent. N. 926/94, in Gli
stranieri, gennaio-aprile 1995, II, p. 58 ss.
[7] Cass., 2 marzo 1999, n.
1739, in Riv. dir. int. priv. proc., 1999, p. 613.
[8] Cfr. Hussain v. Hussain ([1982] 1 All ER 369,
(1983) 4 FLR 339.
[9] Si veda per una panoramica completa: Prakash Shah, Attitudes to polygamy in English law, http://www.arts.manchester.ac.uk/casas/papers/pdfpapers/polygamy.pdf.
[10] Cfr. E. Bernardini
e Cannatà, Shari’a e ordinamenti occidentali,
disponibile alla pagina web seguente:
http://host.uniroma3.it/progetti/cedir/cedir/Relazioni/Cannata_Bernardini.pdf.
[11] Sul tema del ricongiungimento genitore-figlio cfr. P.
L. Carbone, Applicabilità del diritto italiano al cittadino mussulmano: il
minore “a carico” può ricongiungersi alla madre, cittadina
del Marocco, in Italia con permesso di soggiorno, Nota a Cass., 9 giugno
2005, n. 12169, in Fam. dir., 2005,
p. 354 ss.; v. inoltre Cass., 17 marzo 2009, n. 8519, in Fam. dir., 2009, p. 995, con nota di Patania: «Ai sensi dell’art. 31 D.Lgs. n.
286/98, il Tribunale può autorizzare l’ingresso e la permanenza di
un familiare di un minore straniero
per un tempo determinato per gravi motivi connessi con lo sviluppo psicofisico
e tenuto conto dell’età e delle condizioni di salute del minore
che si trova sul territorio italiano, dovendosi revocare l’autorizzazione
quando vengano a cessare i gravi motivi di cui sopra».
[12] App. Torino, 18 aprile 2001, in Dir. fam. pers.,
2001, p. 1492.
[13] Interessante sul punto l’esperienza britannica.
Come già detto, nel Regno Unito il diritto al ricongiungimento familiare
viene concesso alle mogli in un matrimonio di fatto monogamico anche se
celebrato secondo un ordinamento che ammette la poligamia. In ogni caso, i
figli nati da una moglie ulteriore, caso in cui il matrimonio sarebbe
considerato void, sono riconosciuti
come aventi diritto alla cittadinanza britannica se il padre risiede in Gran
Bretagna ed ha tale cittadinanza. Il caso Zahra
and Another v. Visa Officer, Islamabad ([1979-80] Imm AR 48) davanti
all’Immigration Appeals Tribunal offre degli importanti
spunti di riflessione sul tema in esame: la legge britannica
sull’immigrazione ha adottato il criterio «traditional or dual
domicile» (ovvero «prenuptial or ‘ante-nuptial») per
escludere mogli ulteriori, semplicemente rifiutando il riconoscimento della
validità del vincolo matrimoniale se contratto (all’estero) dopo
che il marito aveva iniziato a risiedere in Gran Bretagna, per concludere che,
qualora il marito avesse preso una seconda moglie dopo aver trasferito la
propria residenza nel Regno Unito, questa moglie non avrebbe potuto
ricongiungersi al marito. Tuttavia, con il caso Rokeya and Rably Begum v. Entry Clearance Officer, Dacca [1983] Imm
AR 163, la seconda moglie ed i figli nati da tale unione sono stati ammessi in
Gran Bretagna (ricongiungimento), in quanto il marito aveva vissuto tra il
Regno Unito (dove viveva con la prima moglie, riconosciuta
dall’ordinamento britannico) e Bangladesh, quindi non era residente in
Gran Bretagna al momento della celebrazione della seconda unione (ciò
che sarebbe stato motivo di esclusione secondo la giurisprudenza sviluppata in Zahra). Un altro caso, Entry Clearance Officer, Dhaka, v Ranu Begum
and Others [1986] Imm AR 461, ha messo ulteriormente alla prova la teoria
sulla residenza («traditional test»). Il secondo matrimonio
(celebrato in Bangladesh) è stato riconosciuto come valido secondo
l’ordinamento inglese, in quanto il primo vincolo era di fatto venuto
meno, creando in una situazione di separazione consensuale, seppur senza
divorzio. Tuttavia, l’introduzione nel 1988 dell’Immigration Act ha modificato i termini della questione, vietando espressamente
ad una moglie ulteriore di ricongiungersi al marito, qualora vi sia già
una moglie residente e riconosciuta come tale dall’ordinamento inglese.
In giurisprudenza, il caso R. v.
Secretary of State for the Home Department, ex parte Laily Begum ([1996]
Imm AR 582) illustra come la seconda moglie di un cittadino inglese defunto non
abbia potuto ottenere l’ingresso nel paese, sebbene i figli nati da tale
unione avessero la cittadinanza britannica. La motivazione addotta dal giudice
è qui stata che la donna ed i figli avrebbero potuto vivere in
Bangladesh (paese di origine della donna e del defunto marito, prima che
ottenesse la cittadinanza britannica) (cfr. ancora Prakash Shah, op. loc.
ultt. citt.).
[14] V. rispettivamente, Trib. Pordenone, 14 settembre
2005, in Riv. dir, int. priv. proc., 2006, p. 181; Trib. Tivoli, 14
novembre 2002, in Riv. dir. int. priv. proc., 2003, p. 402. V. anche
Trib. Napoli, 26 aprile 2000, in Giur. napoletana, 2000, p. 460 relativa
ad un’ipotesi di applicazione della legge di Cabo Verde.
[15] Cfr. da ultimo Cass., 25 luglio 2006, n. 16978:
«In tema di riconoscimento di sentenza straniera di divorzio, la
circostanza che il diritto straniero (nella specie, il diritto di uno Stato
degli USA) preveda che il divorzio possa essere pronunciato senza passare
attraverso la separazione personale dei coniugi ed il decorso di un periodo di
tempo adeguato tale da consentire ai coniugi medesimi di ritornare sulla loro
decisione, non costituisce ostacolo al riconoscimento in Italia della sentenza
straniera che abbia fatto applicazione di quel diritto, per quanto concerne il
rispetto del principio dell’ordine pubblico, richiesto dall’art.
64, comma 1, lettera g), della legge 31 maggio 1995, n. 218, essendo a tal fine
necessario, ma anche sufficiente, che il divorzio segua all’accertamento
dell’irreparabile venir meno della comunione di vita tra i
coniugi».
Cfr. inoltre Cass., 28
maggio 2004, n. 10378: «Non può essere ritenuta contraria
all’ordine pubblico, per il solo fatto che il matrimonio sia stato
sciolto con procedure e per ragioni e situazioni non identiche a quelle
contemplate dalla legge italiana, una sentenza di scioglimento del matrimonio
pronunciata, fra cittadini italiani, dal giudice straniero il quale abbia fatto
applicazione del diritto straniero. Ed infatti attiene in realtà
all’ordine pubblico solo la esigenza che lo scioglimento del matrimonio
venga pronunciato solo all’esito di un rigoroso accertamento - condotto
nel rispetto dei diritti di difesa delle parti, e sulla base di prove non
evidenzianti dolo o collusione delle parti stesse - dell’irrimediabile
disfacimento della comunione familiare, il quale ultimo costituisce
l’unico inderogabile presupposto delle varie ipotesi di divorzio previste
dall’art. 3 della legge n. 898/70».
Si v. poi anche Cass.,
10 novembre 1989, n. 4769: «A norma dell’art. 797 n. 7 cod. proc.
civ. - come interpretato a seguito dell’introduzione nella legislazione
vigente dell’art. 10 della convenzione dell’Aja dell’1 giugno
1980, resa esecutiva con legge 10 giugno 1985 n. 301, secondo cui ciascuno
stato contraente può rifiutare il riconoscimento di un divorzio (o di
una separazione personale), se è “manifestamente incompatibile con
il suo ordine pubblico” - la sentenza straniera di divorzio è
contraria all’ordine pubblico italiano e non è quindi delibabile
in Italia solo quando sia lesiva dei principi fondamentali ed irrinunciabili
dell’ordinamento interno. Pertanto, con riguardo al principio
fondamentale ed irrinunciabile stabilito nel nostro ordinamento per lo
scioglimento del matrimonio della irreversibile dissoluzione del vincolo, non
può essere negata la delibazione della pronuncia del giudice straniero
(nella specie della Repubblica di Grecia) che abbia sciolto, per mutuo
consenso, il matrimonio fra cittadino italiano e cittadina straniera (greca)
atteso che la disciplina processuale che attribuisca esclusivo valore alla
volontà dei coniugi, quale prova esclusiva del venir meno della comunione
di vita e della impossibilità di ricostituirla, senza alcuna
possibilità per il giudice di contrastare tale richiesta, non è
contraria all’ordine pubblico italiano, tenendo anche presente
l’introduzione nel nostro ordinamento della domanda congiunta di divorzio
(art. 11 della legge 6 marzo 1987 n. 74, che ha sostituito l’art. 4 della
legge 1 dicembre 1970, n. 898) che valorizza proprio la concorde volontà
dei coniugi ai fini dello scioglimento del vincolo».
[16] Trib. Venezia, 14 novembre 1996, in Riv. dir. int.
priv. proc., 1997, p. 158.
[17] Cfr. Trib. Firenze, 18 maggio 2009, n. 1723, su cui
v. http://www.telediritto.it/index.php?option=com_content&view=article&id=754:divorzio-senza-separazione&catid=72:osservatori-minori-e-famiglia&Itemid=53.
[18] Cfr. Baderin, International Human Rights and Islamic Law, Oxford, 2003, p. 149
ss.
[19] Cfr. Corano,
2:234.
[20] Cfr. Baderin, International Human Rights and Islamic Law, loc. cit.
[21] An-Naim, Islamic Family Law in a Changing
World, London, 2002.
[22] Cfr. Baderin, op. loc. ultt. citt.
[23] Sul punto, per un interessante approfondimento, con riguardo
anche al diritto tedesco e a quello francese, si può rinviare
all’articolo di E. Bernardini
e Cannatà, Shari’a e ordinamenti occidentali,
disponibile alla pagina web seguente:
http://host.uniroma3.it/progetti/cedir/cedir/Relazioni/Cannata_Bernardini.pdf.
[24] Il provvedimento è disponibile al seguente
sito web:
[25] Per una panoramica delle leggi del 2000 sul divorzio
in Egitto cfr. Human Rights Watch: http://www.hrw.org/en/node/11887/section/4.
[26] Cfr. Clerici,
La compatibilità del diritto di famiglia mussulmano con
l’ordine pubblico internazionale, in Fam. dir., 2009, p. 202.
[27] Clerici,
La compatibilità del diritto di famiglia mussulmano con
l’ordine pubblico internazionale, cit., p. 202 s.
[28] In Inghilterra, il Recognition of
Divorces and Legal Separations Act 1971 ha posto i criteri per il riconoscimento di divorzi
pronunziati all’estero, mentre il Family
Law Act 1986 è intervenuto per il riconoscimento di divorzi
pronunziati a partire dal 4 aprile 1988 (http://www.ukvisas.gov.uk/en/ecg/settlement/overseasdivorces?gid). Secondo il diritto in vigore,
il divorzio pronunciato in un paese straniero, e secondo il diritto locale in
vigore, viene riconosciuto in Inghilterra, se ha carattere legale nel paese
dove venne pronunciato, e ci fu una sorta di procedura formale (tribunale,
giudice, o altre forme previste dal diritto consuetudinario e tradizionale del
Paese). Per quanto riguarda il Pakistan e il Bangladesh, esistono norme
aggiuntive. Infine, è inderogabile il divieto di talaq e dei suoi effetti se pronunciato in territorio britannico.
[29] App. Roma, 13 luglio 2006, in Guida al dir.,
2006, n. 35, p. 55, che conferma Trib. Latina, 10 giugno 2005, in Riv. dir.
int. priv. proc., 2005, p. 1095 ss., da ultimo commentata da Corbetta, Trascrizione del matrimonio
tra cittadini italiani dello stesso sesso contratto all’estero e diritto
internazionale privato, in Dir. imm. e citt., n. 3-2006, p. 32 ss.
V. anche Schlesinger, Matrimonio
tra individui dello stesso sesso contratto all’estero, in Fam.
dir., 2005, p. 411 ss.; Bonini
Baraldi, Il matrimonio fra cittadini italiani dello stesso sesso
contratto all’estero non è trascrivibile: inesistente, invalido o
contrario all’ordine pubblico?, ibidem, p. 415 ss.; Cavana, Sulla
intrascrivibilità dell’atto di matrimonio validamente contratto
all’estero tra persone dello stesso sesso, in Dir. fam. pers.,
2005, p. 1268 ss.; Orlandi, Matrimonio
contratto all’estero da cittadini italiani dello stesso sesso e sua
efficacia giuridica in Italia, in Giur. merito, 2005, p. 2292 ss.
[30] «Art. 27.
Condizioni per
contrarre matrimonio.
1. La capacità matrimoniale e le altre
condizioni per contrarre matrimonio sono regolate dalla legge nazionale di
ciascun nubendo al momento del matrimonio. Resta salvo lo stato libero che uno
dei nubendi abbia acquistato per effetto di un giudicato italiano o
riconosciuto in Italia».
[31] Cfr. Spallarossa,
Le condizioni per contrarre matrimonio, in P. Zatti (diretto da), Trattato di diritto di famiglia, I, 1, Milano,
2002, p. 513 ss.; Ferrando, Le cause di
invalidità del matrimonio, ibidem, p. 615 ss.; secondo Jemolo, Il matrimonio, in, Trattato
di diritto civile, diretto da Vassalli, Torino, 1961, p. 48 ss., invece,
essa costituirebbe una causa di nullità.
[32] Cfr. Trib. Roma, 28 giugno 1980, in Foro it.,
1981, I, c. 869 e, incidenter tantum, Cass., 9 giugno 2000, n. 7877, in Fam.
dir., 2000, p. 509; Cass., 2 marzo 1999, n. 1739, in Riv. dir. int.
priv. proc., 1999, p. 613; Cass. 22 febbraio 1990, n. 1304, in Riv. dir.
int. priv. proc., 1991, p. 726.
[33] In senso analogo cfr. anche App. Firenze, 30 giugno
2008, in Foro it., 2008, I, c. 3695,
con nota di Del Canto. Anche il
giudice fiorentino chiama direttamente in causa il legislatore, al quale,
com’è avvenuto per «tutti quei paesi ove l’unione in
matrimonio tra persone dello stesso sesso è prevista nei rispettivi
ordinamenti», nulla potrà impedire in futuro di «farsi
interprete del mutato sentire del corpo sociale e legiferare nel senso
auspicato dai reclamanti ...».
[34] «L’article
515-3 du code civil est complété par un alinéa ainsi
rédigé : “Les personnes de même sexe ayant conclu un
mariage et les personnes de sexe différent ou de même sexe ayant
conclu un partenariat civil ou une union civile dans un État membre de
l’Union européenne autre que la France sont autorisées
à s’en prévaloir lorsqu’elles résident sur le
territoire français ; à défaut, elles ont la
possibilité de conclure un pacte civil de
solidarité”». Il testo
integrale della proposta di legge consultabile su http://www.senat.fr/leg/ppl08-111.html.
[35] Il testo del Civil Partnership Act 2004 è
consultabile su http://www.opsi.gov.uk/acts/acts2004/ukpga_20040033_en_1.
Per consultare le «equivalenze» tra unioni, si veda http://www.civilpartnerships.org.uk/RegistrationAndRecognitionOfPartnershipsFormedOverseas.htm.
[36] «Overseas relationships treated as civil
partnerships: the general rule
(1) Two people are to be treated as having formed a civil partnership as a
result of having registered an overseas relationship if, under the relevant
law, they—
(a) had capacity to enter into the relationship, and
(b) met all requirements necessary to ensure the formal validity of the
relationship.
(2) Subject to subsection (3), the time when they are to be treated as
having formed the civil partnership is the time when the overseas relationship
is registered (under the relevant law) as having been entered into.
(3) If the overseas relationship is registered (under the relevant law) as
having been entered into before this section comes into force, the time when
they are to be treated as having formed a civil partnership is the time when
this section comes into force.
(4) But if—
(a) before this section comes into force, a dissolution or annulment of the
overseas relationship was obtained outside the United Kingdom, and
(b) the dissolution or annulment would be recognised under Chapter 3 if the
overseas relationship had been treated as a civil partnership at the time of
the dissolution or annulment,
subsection (3) does not apply and subsections (1) and (2) have effect
subject to subsection (5).
(5) The overseas relationship is not to be treated as having been a civil
partnership for the purposes of any provisions except—
(a) Schedules 7, 11 and 17 (financial relief in United Kingdom after
dissolution or annulment obtained outside the United Kingdom);
(b) such provisions as are specified (with or without modifications) in an
order under section 259;
(c) Chapter 3 (so far as necessary for the purposes of paragraphs (a) and
(b)).
(6) This section is subject to sections 216, 217 and 218».
[37]
«129. La Cour observe qu’en la matière la
situation se trouve à un stade avancé d’harmonisation en
Europe. En effet, une étude de la législation des Etats membres
révèle que l’adoption par les célibataires est permise
sans limitation dans la majorité des quarante-six pays (paragraphe 70
ci-dessus).
(…)
132. La Cour estime que la décision de refus d’exequatur omet de tenir compte de la
réalité sociale de la situation. Aussi, dès lors que les
juridictions luxembourgeoises n’ont pas admis officiellement
l’existence juridique des liens familiaux créés par
l’adoption plénière péruvienne, ceux-ci ne
déploient pas pleinement leurs effets au Luxembourg. Les
requérantes en subissent des inconvénients dans leur vie
quotidienne et l’enfant ne se voit pas accorder une protection juridique
rendant possible son intégration complète dans la famille
adoptive.
133. Rappelant que c’est l’intérêt
supérieur de l’enfant qui doit primer dans ce genre
d’affaires (voir, mutatis mutandis,
Maire, précité,
§ 77), la Cour estime que les juges luxembourgeois ne pouvaient
raisonnablement passer outre au statut juridique créé valablement
à l’étranger et correspondant à une vie familiale au
sens de l’article 8 de la Convention. Cependant, les autorités
nationales ont refusé une reconnaissance de cette situation en faisant
prévaloir les règles de conflit luxembourgeoises sur la
réalité sociale et sur la situation des personnes
concernées, pour appliquer les limites que la loi luxembourgeoise pose
à l’adoption plénière.
(…)
135. La Cour arrive à la conclusion qu’en
l’espèce les juges luxembourgeois ne pouvaient raisonnablement
refuser la reconnaissance des liens familiaux qui préexistaient de facto entre les requérantes et
se dispenser ainsi d’un examen concret de la situation. Rappelant par
ailleurs que la Convention est « un instrument vivant, à
interpréter à la lumière des conditions de vie
actuelles » (voir, parmi d’autres, Johnston et autres,
précité, § 53), elle estime que les motifs invoqués
par les autorités nationales – à savoir l’application
stricte, conformément aux règles luxembourgeoises de conflits de
lois, de l’article 367 du code civil qui réserve l’adoption
plénière aux époux – ne sont pas
« suffisants » aux fins du paragraphe 2 de
l’article 8.
136. Au vu de
ce qui précède, la Cour estime qu’il y a eu violation de
l’article 8 de la Convention».
[38] Corte europea dei diritti dell’uomo, 22 gennaio
2008, in Nuova giur. civ. comm.,
2008, I, p. 667, con nota di Long.
Rimarca Long,
I giudici di Strasburgo socchiudono le
porte dell’adozione agli omosessuali, Nota a Corte europea dei
diritti dell’uomo, 22 gennaio 2008, in Nuova giur. civ. comm., 2008, I, p. 672 s., lamentando che tale
decisione sia stata fraintesa dai media,
che il thema decidendum, come nel
precedente caso Fretté c/ Francia,
era costituito «dal diritto a essere valutati idonei all’adozione e
non il diritto all’adozione, cioè a essere abbinati a un bambino
adottabile dopo l’accertamento dell’idoneità:
l’inesistenza di tale diritto indifferentemente dalle modalità
scelte per vivere la propria vita di coppia costituisce intatti principio ormai
consolidato in tutti i Paesi dell’Europa occidentale». Sta
però di fatto che ciò che appare (gravemente) discriminatorio
verso l’orientamento omosessuale è proprio la negazione del
diritto ad essere valutati idonei all’adozione, per via di tale
orientamento.
[39] Corte europea dei diritti dell’uomo, 21
dicembre 1999, in JCP, 2000, I, p.
203, n. 11, Chron., con nota di Sudre; in Rev. trim. dr. civ., 2000, p. 313 con note di Hauser e di Marguenaud e Raynaud,
ivi, p. 433.
[40] «Articolo 8 - Diritto al rispetto della vita
privata e familiare.
1. Ogni persona ha diritto al rispetto della sua vita
privata e familiare, del suo domicilio e della sua corrispondenza.
2. Non può esservi ingerenza di una
autorità pubblica nell’esercizio di tale diritto a meno che tale
ingerenza sia prevista dalla legge e costituisca una misura che, in una
società democratica, è necessaria per la sicurezza nazionale, per
la pubblica sicurezza, per il benessere economico del paese, per la difesa
dell’ordine e per la prevenzione dei reati, per la protezione della
salute o della morale, o per la protezione dei diritti e delle libertà
altrui».
«Articolo 14 - Divieto di discriminazione.
Il godimento dei diritti e delle libertà
riconosciuti nella presente Convenzione deve essere assicurato senza nessuna
discriminazione, in particolare quelle fondate sul sesso, la razza, il colore,
la lingua, la religione, le opinioni politiche o di altro genere, l’origine
nazionale o sociale, l’appartenenza a una minoranza nazionale, la
ricchezza, la nascita o ogni altra condizione».
[41] Corte europea dei diritti dell’uomo, 26
febbraio 2002, parr. 38, 42.
[42] Long, I giudici di Strasburgo socchiudono le porte
dell’adozione agli omosessuali, cit., p. 673.
[43] Così Long,
op. loc. ultt. citt.
[44] Cfr. Trib. Venezia, 3 aprile 2009, disponibile al
seguente sito web: http://www.personaedanno.it/cms/data/articoli/014238.aspx.
[45] Sul tema v. i contributi online agli indirizzi seguenti:
·
http://giacomooberto.com/convivenzaesuccessioni/convivenzaesuccessioni.htm.
·
http://giacomooberto.com/siofok/rapportsiofok.htm.
·
http://giacomooberto.com/contrattidiconvivenza2/contrattidiconvivenza2.htm.
[46] «(1) Men and women of full age, without any limitation due to race,
nationality or religion, have the right to marry and to found a family. They
are entitled to equal rights as to marriage, during marriage and at its
dissolution.
(2) Marriage shall be entered into only with the free and full consent of
the intending spouses.
(3) The family is the natural and fundamental group unit of society and is
entitled to protection by society and the State».
[47] Jus cogens è
definito nella Vienna convention on the
law of treaties, 1969, art. 53, come segue: «a peremptory norm of general international law is a norm accepted and
recognized by the international community of States as a whole as a norm from
which no derogation is permitted and which can be modified only by a subsequent
norm of general international law having the same character» (cfr. http://untreaty.un.org/ilc/texts/instruments/english/conventions/1_1_1969.pdf).
[48] Il decreto è edito in Fam. dir., 2007, p. 1040, con
nota di Pascucci.
[49] Cfr. Cass., 17 marzo 2009, n. 6441, in Fam. dir., 2009, p. 454, con nota di Acierno.
[50] Da notare che il richiamo della motivazione della
decisione riportata nel testo al trattato di Lisbona, ratificato
dall’Italia l’8 agosto 2008, va aggiornato con la notizia per cui,
con la ratificazione, in data 3 novembre 2009, da parte della Repubblica Ceca,
la procedura di ratificazione del Trattato di Lisbona si è conclusa, con
la conseguente previsione dell’entrata in vigore del predetto trattato nel
corso del mese di dicembre 2009.
[51] «Articolo 9.
Diritto di sposarsi e
di costituire una famiglia.
Il diritto di sposarsi
e il diritto di costituire una famiglia sono garantiti secondo le leggi
nazionali che ne disciplinano l’esercizio».