CONTRATTI DI
CONVIVENZA
E DIRITTI
DEL MINORE(*)
Sommario: 1. Contratti di convivenza e
modelli europei. – 2. La disciplina pattizia dei rapporti
con la prole ed il relativo fondamento nel diritto italiano. – 3.
Accordi sulla prole naturale e titolo esecutivo. – 4.
Ulteriori istituti a tutela dei diritti patrimoniali della prole nella
famiglia di fatto (clausole penali, trasferimenti mobiliari ed immobiliari, trust). |
1. Poiché non mi illudo di poter fornire, nell’arco di
una ventina di minuti, un quadro neppure vagamente esaustivo delle questioni che
attengono ai contratti di convivenza, mi limiterò a qualche brevissimo flash, a qualche spunto tra i tanti che
si potrebbero trarre in questa materia, cercando altresì di dare qualche
indicazione più specifica relativamente alla seconda parte del titolo della mia
relazione, concernente i diritti e la situazione della prole con riguardo ai
rapporti pattizi tra conviventi more
uxorio.
La regolamentazione per via di convenzione
delle convivenze more uxorio non
rappresenta, contrariamente a quello che si può ritenere, una novità di questi
ultimi anni: nelle mie ricerche storiche ho infatti potuto rinvenire traccia di
contratti tra conviventi risalenti addirittura al Medioevo; d’altro canto lo
stesso atteggiamento tenuto per lunghi anni dai Parlamenti francesi durante l’Ancien Régime nei confronti delle donazioni alle concubine, viste come
donazioni remuneratorie e quindi in qualche modo salvate dalla taccia di
contrarietà all’ordine pubblico che secondo alcuni le inficiava, la dice lunga
su una sensibilità che nel corso dei secoli è andata via via maturando nei
confronti di queste relazioni.
Se ci avviciniamo ai giorni nostri
constatiamo che la questione a livello europeo ha cominciato ad essere
approfonditamente discussa già alcune decine d’anni fa. Ricordo, in
particolare, che, tra la fine degli anni Settanta e i primi anni Ottanta del
secolo scorso, i notai tedeschi, così come quelli olandesi e belgi, curavano
pubblicazioni ed organizzavano convegni diretti all’approfondimento dei temi
legati ai contratti di convivenza e ai rapporti patrimoniali nella famiglia di
fatto. Posso ancora aggiungere che già nel 1985 l’Unione Internazionale dei
Magistrati, in un convegno tenuto ad Oslo (e che segnò l’inizio della mia
collaborazione con questo organismo), emise una conclusione con cui si
invitavano le persone conviventi more
uxorio a regolamentare in maniera pattizia i loro rapporti patrimoniali.
Risale al 1988 una raccomandazione del Consiglio d’Europa (la numero 3 di
quell’anno) diretta a far sì che le legislazioni dei vari Stati non considerino
nulli i contratti (così come le disposizioni testamentarie) conclusi
nell’ambito della famiglia di fatto, sol perché stipulati tra persone
conviventi more uxorio. E’ evidente
come il principio di fondo che ispirava questa raccomandazione fosse quello di
invitare i Legislatori degli Stati membri a tenere conto del fatto che questi
negozi di per sé stessi non si possono considerare come in contrasto con il
buon costume.
Come tutti sanno, a livello legislativo si
fa un gran discutere oggi di legislazioni sul modello del PA.C.S. francese o del partenariato registrato dei sistemi
dell’Europa centro-settentrionale. Sul punto la precedenza spetta ad alcuni
Paesi extraeuropei, in particolare ad alcuni Stati dell’Australia e del Canada.
In effetti, il primo Stato a disciplinare positivamente il fenomeno fu, in
Canada, l’Ontario nel 1978 e, in Australia, il Nuovo Galles del Sud nel 1984.
La storia di questa legislazione australiana è quanto mai interessante, perché
già oltre venti anni fa, quel Legislatore non solo autorizzò espressamente la
conclusione di contratti di convivenza, ma previde anche espressamente che
simili intese potessero occuparsi anche delle clausole relative ad un’eventuale
rottura dell’unione, stabilendo preventivamente le conseguenze di carattere
patrimoniale conseguenti ad una possibile crisi del rapporto. Questa disciplina
ha generato in Australia un movimento d’opinione che ha portato a livello
legislativo a far sì che lo stesso principio venisse esteso con una riforma del
2000 alle persone coniugate, cui è stata espressamente concessa la possibilità
di stipulare, già all’atto della celebrazione delle nozze, delle intese in contemplation of divorce, proprio
sulla base del presupposto che sembrava ingiusto che una simile previsione
fosse stabilita con riguardo alle convivenze more uxorio e nulla fosse invece previsto relativamente alla
situazione delle persone coniugate.
Se si tiene poi conto di quella «stagione
della negozialità» che interessa ormai da alcuni anni a questa parte la
famiglia italiana ed europea, si deve constatare che è proprio la via
negoziale, la via contrattuale, quella scelta per disciplinare le relazioni tra
conviventi more uxorio. In effetti,
se consideriamo i possibili atteggiamenti che un ipotetico Legislatore può
assumere di fronte alla famiglia di fatto, dobbiamo ammettere che tale
Legislatore si viene a collocare di fronte all’alternativa tra estendere
puramente e semplicemente all’unione libera la disciplina matrimoniale e
lasciare libera la volontà delle parti. La prima «tentazione» affiora
storicamente ogni tanto; cito sempre al riguardo l’esempio di un codice che
segnò la storia giuridica del nostro Continente, anche se non vide, di fatto,
mai la luce: intendo riferirmi al Codice Federico, commissionato dal Re di
Prussia Federico II ad un grande giurista del diciottesimo secolo, Samuele
Cocceio. Orbene, questo codice prevedeva appunto che, se due persone avessero
convissuto per lungo tempo come marito e moglie senza essere sposate, il giudice
avrebbe dovuto loro applicare automaticamente le regole del matrimonio, oltre a
«qualche altra pena da lui ritenuta opportuna», per sanzionare questa
situazione ritenuta come peccaminosa.
Ora, questo atteggiamento, per così dire,
«punitivo» non è certo quello recepito dalle legislazioni dei Paesi europei che
hanno deciso di intervenire sulla materia, atteso che la via prescelta è stata,
per l’appunto, quella della negozialità. L’argomento potrebbe essere sviscerato
molto a lungo. Basterà dire che, fondamentalmente, due sono i modelli che
troviamo in Europa: da una parte quello dei Paesi neolatini, di cui il PA.C.S.
rappresenta l’esempio più eclatante e poi quello dell’Europa
centro-settentrionale, in cui spicca la eingetragene
Lebenspartnerschaft tedesca. Nel primo caso si tratta di una disciplina
rivolta ad unioni tra persone di sesso diverso, così come del medesimo sesso;
nel secondo ci troviamo invece di fronte ad una regolamentazione esclusivamente
diretta a convivenze omosessuali. Ma quello che interessa è il diverso
atteggiamento di fondo che, perlomeno ad una prima lettura, colpisce il
giurista: nell’Europa neolatina, infatti, abbiamo come prius il contratto (o il patto: in un primo tempo si parlava in
Francia di contrat d’union sociale o
di contrat d’union civile – C.U.S. o C.U.C., poi si è passati dal «contratto» al «patto», perché si
volevano evidenziare anche i profili di carattere non strettamente
patrimoniale). Nel modello mitteleuropeo-nordico emerge invece con maggior
prepotenza, rispetto al contratto, il profilo della celebrazione o, quanto
meno, di un surrogato di celebrazione, che tiene luogo del matrimonio (un
ulteriore passo è poi stato compiuto da quei Paesi che, come si sa, si sono
spinti ad estendere tout-court la
possibilità di stringere il vincolo coniugale anche alle coppie omosessuali).
Ma la cosa interessante è che, se andiamo
al di là di questa superficie, scopriamo che anche nei sistemi dell’Europa
centro-settentrionale, dove pure il prius
è costituito da una sorta, come dicevo, di surrogato di celebrazione,
l’elemento contrattuale è comunque imprescindibile. Pensiamo al fatto che, ad
esempio, il Legislatore tedesco fino a non molto tempo fa (più esattamente alla
legge 6 febbraio 2005) prescriveva per il partenariato omossessuale registrato
un requisito che probabilmente non esisteva da alcun’altra parte del mondo con
riguardo al matrimonio. E’ noto infatti che, in ogni ordinamento, il fatto che
due persone si sposino senza stabilire alcunché relativamente ai loro rapporti
patrimoniali non produce conseguenze pregiudizievoli sotto il profilo della
validità del negozio giuridico matrimoniale: il Legislatore applica il regime
patrimoniale legale ed il matrimonio è valido. Nel caso dell’originaria
versione dell’eingetragene Lebenspartnerschaft,
invece, era previsto che costituisse necessario elemento di quella forma di
«celebrazione» una dichiarazione sul regime patrimoniale prescelto, che poteva
avere ad oggetto il regime «legale» della Ausgleichsgemeinschaft,
modellato sulla falsariga della Zugewinngemeinschaft,
oppure un regime diverso, fondato su un contratto notarile alternativo. In ogni
caso, la dichiarazione di scelta del regime rappresentava un elemento
costitutivo per la venuta in essere della relazione di partenariato registrato.
E questo dà una misura della rilevanza, anche in tali ordinamenti, dell’aspetto
contrattuale (per la cronaca potrà rilevarsi come la già citata riforma del
2005 abbia parificato il trattamento di questo peculiare aspetto a quello in
vigore per i coniugi, eliminando la necessità di indicazione del regime
prescelto e facendo valere, in caso di mancata scelta, il regime patrimoniale
legale della Zugewinngemeinschaft).
Si noti poi, per incidens, che, nelle legislazioni delle regioni autonome
spagnole che sono intervenute sull’argomento, il profilo contrattuale si
estende ad abbracciare anche il momento dell’eventuale scioglimento
dell’unione, prevedendosi espressamente che in questi contratti le parti
debbano pure occuparsi di che cosa succederà nel caso il rapporto di convivenza
dovesse dissolversi.
Se passiamo dal piano comparatistico a
quello sopranazionale europeo, possiamo prendere in considerazione il
regolamento 2201 del 2003, recentemente entrato in vigore, che ha sostituito il
precedente regolamento 1347 del 2000 sulla competenza, riconoscimento,
esecuzione delle decisioni in materia matrimoniale e di responsabilità
parentale. Questo regolamento ha tra l’altro stabilito, all’articolo 46, che il
riconoscimento e l’esecuzione transnazionali non riguardino soltanto i
provvedimenti giurisdizionali, ma anche gli atti autentici ricevuti ed
esecutivi in uno stato membro, così come «gli accordi» tra le parti. Ora,
questo inciso sugli accordi, che non era presente nel precedente regolamento,
acquista un significato particolare se poniamo mente al campo di applicazione
di questo nuovo strumento che, a differenza di quello ora abrogato, si estende
anche alla materia della responsabilità parentale relativa alla prole naturale,
e quindi anche dei figli delle convivenze more
uxorio.
Si noti poi che
2. Veniamo ora a trattare molto brevemente anche alle
questioni «di casa nostra». Sappiamo tutti che in Italia non esiste una
disciplina organica della famiglia di fatto, ma esistono varie norme sparse nei
campi più disparati. Peraltro, sin da quando ho iniziato ad occuparmi della
materia, ho sempre sostenuto l’ammissibilità di simili negozi sulla base del
principio di libertà contrattuale, come del resto ritenuto dalla stessa Corte
di cassazione nel 1993. Ma qui dove sta il problema? Il problema sta nel fatto
che l’ubi consistam di queste intese, da rinvenirsi nell’art. 1322 c.c.,
presuppone, per l’appunto, la natura contrattuale delle medesime. La natura
contrattuale dell’accordo presuppone però a sua volta, ex art. 1321 c.c., il carattere patrimoniale della prestazione.
Se mi è concesso un paragone con un altro
campo di indagine, a me particolarmente caro, quello dei contratti della crisi
coniugale, devo osservare che le due situazioni a confronto appaiono molto
diverse. Nei contratti della crisi coniugale abbiamo dei riferimenti normativi
precisi: l’art. 711 c.p.c. e l’art. 4, tredicesimo comma, della legge sul
divorzio parlano di «condizioni» della separazione e di «condizioni» del
divorzio, con un termine molto ampio (quello, appunto, di «condizioni»), nel
quale possiamo far rientrare profili non solo di carattere patrimoniale, ma
anche di natura personale, ivi compresi i rapporti relativi alla prole. Sul
versante delle intese tra conviventi more
uxorio, invece, siamo inchiodati al concetto di patrimonialità della
prestazione. Gilda Ferrando e Michele Sesta ricorderanno sicuramente che,
quando venimmo coinvolti in una commissione che doveva studiare questo
argomento, ci chiedemmo per prima cosa se fosse veramente necessaria una legge
che riconoscesse validità ai contratti di convivenza. La risposta che ritenemmo
di dare fu positiva, in primo luogo perché sull’ammissibilità di questi
contratti sussistono ancora alcune isolate voci contrarie, ma soprattutto
perché, comunque, i profili di carattere personale e l’aspetto dei rapporti con
la prole appaiono ancora, per così dire, in sospeso. Ma sospesi a che cosa?
Quando mi occupai per la prima volta della
questione, ormai diversi anni fa, assunsi una posizione molto scettica, proprio
in considerazione di quanto appena rilevato. La materia dei rapporti con la
prole è – dicevo – materia intoccabile, intangibile; sono diritti
indisponibili, il contratto pertanto non ne può trattare, non ne può disporre.
Nel corso degli anni successivi ho però constatato che in dottrina e, soprattutto,
in giurisprudenza, vi sono state prese di posizione molto diverse, al punto da
convincermi a modificare, almeno in parte, la mia iniziale idea.
Con ogni probabilità, è necessario
distinguere due profili: quello, che potremmo chiamare «genetico», attinente
alla costituzione del rapporto parentale, da quello «funzionale», relativo alla
gestione del rapporto medesimo. Per comprendere quanto sopra cito un esempio
piuttosto clamoroso. Nel 1986
A questo punto l’uomo convenne in giudizio
la donna, chiedendo che questa venisse condannata a rimborsagli quanto alla
stessa pagato per il mantenimento del minore, a titolo di risarcimento del
danno per violazione dell’obbligo contrattualmente assunto di non procreare. I
giudici dei vari gradi del giudizio rigettarono la richiesta, affermando che
tale accordo era contrario ai principi fondamentali di quello che noi in Italia
chiameremmo «ordine pubblico» e che i tedeschi esprimono con l’ampia figura dei
gute Sitten (buoni costumi), attesa
la violazione del principio di libertà personale nella sfera più intima. Potrà
essere interessante aggiungere che, svariati anni dopo, il Tribunale di Milano,
con una sentenza del 19 novembre
Tutto questo per dire che bisogna tenere
distinto il profilo «genetico», dell’instaurazione del legame di filiazione, da
quello della gestione del rapporto genitoriale con la prole minorenne. Qui, in
effetti, il discorso cambia, perché viene in gioco un elemento diverso,
costituito dall’art. 317-bis c.c.
Norma, questa, di tutt’altro che agevole lettura, ma che con un po’ di fantasia
e con tanta buona volontà possiamo intendere come una disposizione che
autorizza l’interprete a riconoscere la validità di una forma di accordo di
separazione consensuale tra persone conviventi more uxorio. In che senso? Ritengo che Gilda Ferrando sia stata la
prima ad evidenziare un importante obiter
dictum della Corte di cassazione, in una sentenza di ormai diversi anni fa
(la n. 5847 del 1993), secondo cui l’intervento del tribunale per i minorenni
previsto dall’articolo 317-bis
avrebbe carattere «meramente eventuale e successivo».
E in effetti, se andiamo a leggere questa
norma, constatiamo come essa parta innanzi tutto dal presupposto che due
persone convivano: in questo caso vi è un esplicito rinvio all’art. 316 c.c.,
che contiene, per l’appunto, il principio dell’accordo: la base normativa di
siffatta intesa negoziale possiamo dunque trovarla pacificamente riconosciuta.
Nel caso, invece, di disaccordo, o comunque nel caso in cui l’accordo sia in
contrasto con l’interesse del minore, interviene il giudice. E’ vero quindi che
l’intervento giudiziale è visto soltanto come dispiegantesi in una fase
successiva, posto che la disposizione non prevede, almeno espressamente, un
procedimento di omologa delle condizioni della separazione della rottura della
convivenza more uxorio, come è invece
stabilito dall’art. 158 c.c. per le famiglie fondate sul matrimonio. Ripeto,
però, che, con un po’ di buona volontà, questo riconoscimento della validità e
dell’efficacia delle intese inter partes
è desumibile dall’art. 317-bis,
atteso che da questa disposizione può evincersi che è rimessa in prima battuta
alla volontà delle parti la regolamentazione dei profili attinenti alla
gestione della potestà sui figli minori, personali o patrimoniali che siano. E’
peraltro chiaro che, se questa intesa dovesse rivelarsi, in ipotesi, contraria
agli interessi del minore e ai principi inderogabili scolpiti negli artt. 147 e
148 c.c., il tribunale per i minorenni ben potrebbe e dovrebbe intervenire,
assumendo i provvedimenti necessari, senza essere in alcun modo vincolato dagli
accordi presi dai genitori.
3. Il riconoscimento della tendenziale ammissibilità
degli accordi dei genitori naturali, conviventi o non conviventi more uxorio, sulla regolamentazione di
tutti gli aspetti della potestà genitoriale, sia nella situazione di eventuale
convivenza, sia in quella di un’eventuale separazione, forma precipuo oggetto
di una ricca giurisprudenza di merito, la quale si è trovata a fare i conti con
il seguente problema concreto. Come si può, una volta constatata la presenza di
un accordo tra i genitori, «inchiodare» le parti alle loro responsabilità, ed ottenere
uno strumento che ci garantisca dal rischio che una di esse cambi
successivamente idea?
A ben vedere, sfrondando il dibattito di
tutti gli orpelli, il quesito fondamentale è questo: se abbiamo una coppia che si
separa e la coppia è coniugata si arriva a un documento (il verbale di
separazione consensuale) munito di forza esecutiva; nel caso invece della
famiglia di fatto si arriva, a tutto concedere, a un documento che – ancorché
vincolante per le parti – non può essere posto alla base di un’azione
esecutiva. Ciò, ovviamente, a meno che il tribunale non intenda in qualche modo
recepire l’accordo in un suo provvedimento o emanare una decisione che assuma i
caratteri di una sorta di decreto di omologa analogo a quelli che il tribunale
ordinario emana ai sensi dell’art. 158 c.c.
La questione pone, a mio avviso, un
problema di legittimità costituzionale.
A mio sommesso avviso la questione
potrebbe invece essere (ri)proposta sotto questo altro angolo visuale: un
medesimo tipo di accordo, caratterizzato dalla vincolatività scaturente
dall’art. 1372 c.c. (e poco importa se la norma sia espressamente dettata solo
per i rapporti patrimoniali, atteso che il principio è sicuramente estensibile
anche ai negozi familiari non patrimoniali: sul punto sarà appena il caso di
rinviare alle chiarissime pagine di Santoro-Passarelli o di Jemolo), può essere
garantito dalla presenza di un titolo esecutivo (il verbale ex art. 158 c.c.) se concerne la prole
legittima, laddove ciò non accade se quello stesso tipo d’intesa riguarda
invece la prole naturale. Naturalmente si potrà obiettare che esistono dei
rimedi, miranti a determinare la creazione di un titolo esecutivo: l’accordo
sulla prole naturale può (almeno per ciò che concerne i profili patrimoniali)
essere fatto valere in sede di procedimento contenzioso ordinario, ovvero
essere posto alla base di una richiesta per decreto ingiuntivo. Taluno ha posto
anche in luce che l’intesa potrebbe essere recepita da un atto notarile (o,
secondo una recentissima riforma, essere racchiusa in una scrittura privata
autenticata), così acquistando efficacia di titolo esecutivo ex art. 474 c.p.c., per le obbligazioni
aventi ad oggetto pagamento di somme di denaro. Ma tutti quelli appena indicati
sono strumenti costosi, che presuppongono una parte ben assistita ed avvisata,
e che comunque marcano una ingiustificata disparità di trattamento, fondata sul
solo fatto di appartenere alla categoria dei figli legittimi, piuttosto che a
quella dei figli naturali.
La soluzione pratica potrebbe essere
reperita sfruttando addirittura alcune indicazioni date dalla stessa Corte
costituzionale che, per almeno due volte, ha respinto domande dirette ad
ottenere l’estensione – per via di pronunzie di accoglimento – ai figli
naturali di rimedi concessi a tutela di quelli legittimi, affermando poi, in
buona sostanza (cioè per via di decisioni interpretative di rigetto),
l’applicabilità ai primi di norme dettate per i secondi. Mi riferisco alla
sentenza n. 166 del 1998, sull’art. 155 c.c., e alla n. 99 del
4. Due parole, in chiusura, su altre questioni che, per
ragioni di tempo, non potrò trattare a dovere. Innanzi tutto vorrei
approfittare della presenza di avvocati familiaristi per ribadire la
raccomandazione che non mi stanco mai di ripetere, sull’opportunità di
inserire, negli accordi di separazione, di divorzio, o di regolamentazione
della crisi dell’unione di fatto, di clausole penali per l’inadempimento di
prestazioni sia patrimoniali, che personali. Se è vero come è vero che le
disposizioni codicistiche in tema di contratto in generale costituiscono l’ossatura del negozio giuridico generale e
sono dunque (come affermato da Santoro-Passarelli) applicabili anche al negozio
giuridico familiare, laddove non vi siano norme in deroga, mi chiedo perché non
si potrebbe valorizzare il «vecchio» istituto della clausola penale, stabilendo
che per ogni giorno di ritardo nel pagamento dell’assegno, o per ogni giorno di
ritardo nella (e chiedo venia per il termine orrendo) «riconsegna» del minore,
legittimo o naturale che sia, sia dovuta una certa somma di denaro. Non mi
sembrano necessari commenti per illustrare l’efficacia deterrente che potrebbe
assumere un tale accorgimento.
Altro punto che non ho tempo di sviluppare
è quello dei trasferimenti immobiliari o mobiliari in sede di crisi coniugale;
la giurisprudenza è assolutamente costante nel ritenerli validi in sede di
contratti della crisi coniugale: non vedo per quale ragione non potremmo
pensare anche di estenderli ad accordi nell’ambito della famiglia di fatto.
Questi negozi dovrebbero ritenersi validi pure a favore dei figli, posto che
giurisprudenza e dottrina in tema di rapporti con la prole legittima sono
favorevoli a trasferimenti di questo tipo, quanto meno sin da una sentenza
della Cassazione del 1987 (la n. 9500), che ha fatto scuola. Pur in assenza di
precedenti specifici, non sembra sussistano ragioni che ostino all’ipotizzabilità
(e alla convenienza) di simili accordi anche relativamente alla prole naturale.
Di ostacoli, invece, ne vedo molti (ma qui
veramente il discorso meriterebbe un convegno a parte), sulla questione del trust, a partire dal fatto che la
convenzione dell’Aja del 1985 sul tema è una convenzione di diritto
internazionale privato e non una convenzione di diritto materiale uniforme. Le
relative norme, dunque, presuppongono la presenza di un conflitto di
ordinamenti e quindi la presenza di elementi di estraneità che non possono
risolversi nel solo fatto che le parti abbiano deciso di rinviare ad una norma
straniera (e dunque nel mero capriccio delle parti stesse). Con tutti i dubbi
relativi all’ammissibilità della costituzione di un trust «interno» tra cittadini italiani, residenti in Italia e su
beni qui situati, rimane il fatto che l’istituto offre uno strumento molto
flessibile; sicuramente più flessibile ed utile del fondo patrimoniale:
istituto, questo, inapplicabile, come noto, alla famiglia di fatto, anche se,
come ho cercato di dimostrare in altre sedi, risultati sostanzialmente analoghi
(tutela del convivente debole e della prole) ben possono essere ottenuti
tramite la stipula di contratti di convivenza. E se il problema pratico da
risolvere è solo quello di fornire idonea garanzia per l’adempimento di
determinate obbligazioni, non vedo per quale ragione un contratto di
convivenza, così come un contratto della crisi coniugale, non possa far ricorso
ad uno strumento «sperimentato» con successo per secoli, quale l’ipoteca
volontaria.
(*)
Trascrizione della relazione presentata al convegno sul tema «Il minore nelle
nuove famiglie. Tecniche di tutela e prospettive di emancipazione», organizzato
dall’Associazione italiana dei magistrati per i minorenni e per la famiglia, in
cooperazione con Magistratura Democratica, svoltosi a L’Aquila il 13 maggio
2005. Per i necessari approfondimenti (così come per i richiami alla dottrina
ed alla giurisprudenza cui si accenna nel testo della presente relazione)
rinvio ai seguenti miei scritti: I regimi patrimoniali della famiglia di
fatto, Collana delle Memorie dell’Istituto Giuridico dell’Università di
Torino, serie III, memoria XXXVIII, Giuffrè, Milano, 1991, passim; Partnerverträge
in rechtsvergleichender Sicht unter besonderer Berücksichtigung des
italienischen Rechts, in Zeitschrift für das gesamte Familienrecht
(FamRZ), 1993, pag. 1 ss.; Le prestazioni lavorative del convivente more
uxorio, Serie «Le monografie di Contratto e impresa», diretta da Francesco
Galgano, CEDAM, Padova, 2003, passim; I
contratti di convivenza tra autonomia privata e modelli legislativi, in Contratto e impresa/Europa, 2004, pag.
17 ss. (lo scritto è altresì disponibile dal 1° gennaio 2004 al seguente sito web:
https://www.giacomooberto.com/contrattidiconvivenza2/contrattidiconvivenza2.htm);
Trust e autonomia negoziale nella
famiglia, in Famiglia e diritto,
2004, pag. 201 ss. (parte prima), pag. 310 ss. (parte seconda; lo scritto è altresì disponibile dal 25
gennaio 2004 al seguente sito web: