TRA AUTONOMIA PRIVATA E
MODELLI LEGISLATIVI *
(Ciò che turba gli uomini non sono i fatti, ma le idee preconcette che sui fatti gli uomini si costruiscono) Epitteto, Manuale, 5. |
Sommario: 1. La negozialità dei conviventi more uxorio tra autonomia privata e modelli legislativi: spunti di diritto comparato. – 2. La negozialità dei conviventi more uxorio tra autonomia privata e modelli legislativi: la dimensione internazionale del problema. – 3. La negozialità dei conviventi more uxorio tra autonomia privata e modelli legislativi: lo scenario italiano. – 4. Contratti di convivenza e obbligazioni naturali tra conviventi more uxorio. – 5. Contratti di convivenza e buon costume. – 6. Contratti di convivenza e ordine pubblico: i rapporti di carattere personale e quelli relativi alla prole. – 7. Il contenuto dei contratti di convivenza: contribuzione e mantenimento. – 8. Il contenuto dei contratti di convivenza: il regime comunitario dei beni. – 9. Il contenuto dei contratti di convivenza: il regime separatista dei beni; impresa familiare e fondo patrimoniale. – 10. Il contenuto dei contratti di convivenza: spunti in tema di trust. – 11. Il contenuto dei contratti di convivenza: pattuizioni in vista di un’eventuale rottura del rapporto. – 12. La manifestazione del consenso. Forma e prova del contratto di convivenza. – 13. Scioglimento del contratto di convivenza e cessazione del ménage di fatto. – 14. Contratti di convivenza ed effetti post mortem. – 15. I contratti e i patti di convivenza nella prospettiva de iure condendo: brevi cenni. |
1. La
negozialità dei conviventi more uxorio tra autonomia privata e modelli legislativi:
spunti di diritto comparato.
«Alors, malgré le cri des
lois et l’indignation des mœurs, les concubinaires jouiraient impunément de la
récompense du vice ; ils pourraient se présenter dans les tribunaux, leurs
contrats à la main, et en demander l’exécution. Une pareille idée est révoltante» [1]. Lo scandalo con il quale il conte Merlin, Grande
Ufficiale della Legion d’Onore, Consigliere di Stato, Procuratore Generale
Imperiale presso la Corte di Cassazione e Membro dell’Istituto di Francia si scagliava
contro la possibilità che i giudici fossero costretti ad occuparsi di contratti
tra «concubini» ha ormai dovuto cedere il passo a realtà ben diverse. Peraltro,
l’indagine storica dimostra come la preventiva soluzione per via negoziale dei
numerosi e complessi problemi patrimoniali della famiglia di fatto non
costituisse – neppure nell’epoca napoleonica – una novità, dal momento che si
danno testimonianze di contrats de concubinat,
in Francia, e cartas de mancebía
e compañería,
in Spagna, risalenti addirittura ai secoli XIII e XIV [2]. Del resto, come dimostrato in altra sede [3], già sotto l’Ancien
Régime, nelle regioni d’Oltralpe rette da quelle coutumes che
prevedevano un espresso divieto di liberalità tra concubinaires – e
comunque in tutto il territorio francese, allorquando, a partire dalla seconda
metà del XVII secolo, ebbe ad affermarsi la tesi della nullità di tali atti per
contrarietà ai buoni costumi – non mancarono certo autori e giudici favorevoli
alla validità di quei contratti a titolo gratuito che fossero giustificati
dall’intento rimuneratorio, ovvero da quello di risarcire la ex convivente per
il «disonore» arrecatole dal rapporto concubinario, specie allorquando si
trattasse di prestazioni alimentari.
Ma è nel corso dell’ultimo ventennio che si sono
andate facendo sempre più numerose le pubblicazioni straniere, di taglio sia
teorico che pratico, nelle quali si è suggerito alle coppie conviventi more uxorio
di pianificare la vita in comune mediante la stipulazione di apposite convenzioni
(cohabitation contracts, Partnerschaftsverträge, contrats de ménage) [4], proponendo talora anche veri e propri modelli e
«contratti tipo» [5].
Da diversi anni questa via viene del resto
espressamente consentita (si direbbe, anzi, quasi caldeggiata) dal Legislatore
in taluni sistemi di common law, che hanno avvertito la necessità di intervenire al riguardo [6], mentre già nel 1985 l’Unione Internazionale dei
Magistrati approvava, tra le conclusioni del congresso di Oslo (18 e 19 giugno
1985), quella secondo cui «Il est souhaitable que les concubins puissent régler
contractuellement au moins leurs droits de propriété» [7]. Al 1988 risale poi la raccomandazione del Consiglio
d’Europa diretta a impedire che i contratti tra conviventi vengano considerati
nulli dalle relative disposizioni nazionali per il solo fatto di essere stati
stipulati tra persone «living together as an unmarried couple» [8].
Estremamente significativo appare inoltre che, proprio
nella direzione della negozialità, additata dallo scrivente diversi anni or
sono [9], e non certo in quella dell’imposizione di effetti
giuridici conseguenti alla sola sussistenza del ménage de fait (alla
maniera di alcuni ordinamenti dell’America Latina [10]), si muovano le soluzioni normative che di recente,
in vari paesi dell’Europa continentale, si sono prefissate di affrontare e
risolvere i problemi giuridici posti dalle convivenze omo- ed eterosessuali [11]. Al riguardo, ed in prima approssimazione, potrà
dirsi che queste legislazioni appaiono riconducibili a due grandi categorie,
grosso modo corrispondenti alle aree geografiche «latina» e
«mitteleuropea-nordica» del nostro continente. Nelle prime, il cui prototipo è
costituito dal PACS francese, l’intento del Legislatore sembra essere
quello di fornire uno strumento posto a disposizione di coppie tanto etero- che
omosessuali, laddove nelle seconde, tra le quali fa spicco la eingetragene
Lebenspartnerschaft tedesca, solo il ménage tra persone del
medesimo sesso è preso in considerazione. Nelle prime, la preoccupazione sembra
volta a porre in risalto il carattere non matrimoniale dell’unione, mentre
nelle seconde appare assai più evidente l’intento di apprestare un istituto di
tipo para-matrimoniale, sino a giungere al caso dei Paesi Bassi e del Belgio,
dove le forme di partenariato registrato introdotte alcuni anni or sono (anche
per coppie eterosessuali) si trovano ora a convivere con un matrimonio che ha
di recente perduto il tradizionale requisito della diversità di sesso tra i
contraenti.
Proprio questa fondamentale distinzione fa sì che, nel
primo tipo di ordinamenti, il prius sia costituito dal contratto, e
dunque da una manifestazione di volontà principalmente diretta a disciplinare i
rapporti patrimoniali, ancorché estesa a ricomprendere profili di carattere
personale. Il negozio viene comunque inserito in un meccanismo pubblicitario
tendente ad apprestare forme di opponibilità ai terzi, nonché un surrogato di
«celebrazione» che si sostanzia, in realtà, nella registrazione dell’accordo,
ma che, nell’intento (per lo meno in quello «politico») del Legislatore,
dovrebbe soddisfare (almeno per il momento) le istanze dei movimenti per la
parità dei diritti tra tutti i soggetti dell’ordinamento, a prescindere dalla
loro inclinazione sessuale. Così, in Francia, le parti debbono avere
previamente stipulato una convention in duplice esemplare; il
cancelliere del tribunal d’instance ove è situata la residenza comune,
ai sensi dell’art. 515-3 del Code Civil (introdotto dalla legge n.
99-944 del 15 novembre 1999), «vise et date» i due esemplari «et les restitue à
chaque partenaire». Analogamente, in Belgio, la Loi instaurant la cohabitation légale
del 23 Novembre 1998, modificando l’art. 1476 del codice civile, ha stabilito
che la déclaration de cohabitation légale sia compiuta au moyen d’un
écrit remis contre récépissé à l’officier de l’état civil du domicile commun.
Quest’ultimo, verificata la sussistenza,
nella dichiarazione di provenienza degli interessati, degli elementi richiesti
dalla legge, «acte (…) la déclaration dans le registre de la population» [12]. In Spagna la legge catalana n. 10 del 15 luglio 1998
(d’unions estables de parella/de
uniones estables de pareja) stabilisce che l’ «unione stabile» omosessuale si costituisca per
atto pubblico, mentre quella eterosessuale può risultare da una convivenza di
durata almeno triennale o dalla nascita di un figlio; peraltro questa
disciplina, così come quelle di altre comunità autonome di quel regno,
autorizzate a legiferare nel campo del diritto di famiglia [13], si completa con un’articolata normativa locale, che consente la registrazione dei
contratti di convivenza negli atti di stato civile [14].
Nella seconda categoria di ordinamenti,
invece, il prius sembra essere rappresentato, più che dal negozio sugli
aspetti patrimoniali, dalla dichiarazione effettuata di fronte all’ufficiale
dello stato civile (o ad altro pubblico ufficiale, variamente designato dalla
legge), che viene ad assumere, anche nei suoi profili esteriori, il significato
non già di una mera consegna d’un documento contenente la volontà negoziale
delle parti, bensì di una vera e propria celebrazione, con la pubblica
esternazione di un consenso in grado di produrre effetti di tipo
para-matrimoniale. Così, mentre in Germania il § 1 del Gesetz zur Beendigung
der Diskriminierung gleichgeschlechtlicher Gemeinschaften:
Lebenspartnerschaften – LpartG, del 16 febbraio 2001, prevede una
dichiarazione delle parti, di fronte al pubblico ufficiale competente, miteinander
eine Partnerschaft auf Lebenszeit führen zu wollen [15], in Svezia la cerimonia
assume aspetti del tutto analoghi a quelli di una celebrazione nuziale, ivi
compresa la dichiarazione, da parte del pubblico ufficiale, che i contraenti
sono divenuti «partners registrati» [16]; quest’ultima soluzione
– molto vicina al contenuto d’una proposta assai dibattuta in Germania e
respinta all’ultimo momento dal parlamento tedesco [17] – finisce con il far
assumere all’atto di costituzione dell’unione registrata una configurazione
molto simile a quella di un negozio giuridico «a struttura complessa», secondo
la definizione talora attribuita dalla dottrina italiana al matrimonio [18].
Lasciando
da parte approfondimenti impossibili in questa sede, sarà solo il caso di
ricordare che un siffatto approccio normativo è stato ritenuto compatibile con
una disposizione di livello costituzionale che, quasi riecheggiando l’art. 29
della Legge fondamentale italiana, stabilisce che «Ehe und Familie stehen unter
dem besonderen Schutze der staatlichen Ordnung» (cfr. l’art. 6, co. 1, GG).
Ci si intende qui riferire alla decisione del 17 luglio 2002 con cui la Corte
costituzionale federale tedesca [19] ha respinto la
questione sollevata sulle disposizioni della legge relative alla eingetragene
Lebenspartnerschaft, constatando come queste non impediscano in alcun modo
alle coppie di sesso diverso di contrarre matrimonio [20]. Dopo aver rimarcato
che il matrimonio, così come previsto dall’Art. 6 cit., è un’unione
fondamentalmente eterosessuale, e che pertanto «Die eingetragene
Lebenspartnerschaft ist keine Ehe im Sinne von Art. 6 Abs. 1 GG», la Corte ha
pure escluso che in qualche modo l’unione matrimoniale possa risultare
svantaggiata o danneggiata dalla introduzione della Lebenspartnerschaft,
istituto esclusivamente rivolto a persone che non possono contrarre tra di loro
matrimonio [21].
Tornando alla distinzione tra le due categorie
d’ordinamenti, cui si faceva cenno sopra, va rimarcato come anche nei sistemi
di cui al secondo gruppo, a parte l’evidente rilievo dell’aspetto negoziale,
costituito dal fatto che l’unione nasce comunque sulla base dell’accordo delle
parti, il profilo contrattuale-patrimoniale emerga con imperiosa evidenza.
Così, il Legislatore della Lebenspartnerschaft tedesca, dopo avere
anticipato, al § 1, che uno dei presupposti per la costituzione di un’unione
registrata è che i contraenti abbiano effettuato di fronte al pubblico
ufficiale una apposita dichiarazione sul regime patrimoniale che intendono
adottare, prosegue al § 6, co. 1, stabilendo che le parti debbono espressamente
dichiarare se le stesse optano per il regime della Ausgleichsgemeinschaft
(una sottospecie di quella Zugewinngemeinschaft che governa i rapporti
patrimoniali tra coniugi come regime legale), ovvero se esse hanno deciso di
stipulare un apposito Lebenspartnerschaftsvertrag per atto notarile, ai
sensi del successivo § 7. L’enfasi posta sul negozio di tipo patrimoniale
risulta, anche in relazione agli ordinamenti dell’area «mitteleuropea-nordica»
(oltre che, ovviamente, rispetto agli altri), addirittura maggiore di quella che
caratterizza il momento costitutivo dell’unione matrimoniale, in relazione al
quale il Legislatore non si cura di prevedere, tra gli elementi essenziali
della celebrazione, alcun tipo di dichiarazione sul regime che reggerà la
futura famiglia, fissando invece solo il subentro automatico di un regime
legale, in caso di mancata effettuazione della scelta [22].
2. La
negozialità dei conviventi more uxorio tra autonomia privata e modelli
legislativi: la dimensione internazionale del problema.
Importanti iniziative in questo campo sembrano
profilarsi poi a livello comunitario. Così, mentre per effetto del recente
recepimento nell’ordinamento italiano della direttiva sul commercio elettronico
il nostro Legislatore è stato costretto ad ammettere expressis verbis
che anche il settore del diritto di famiglia può contenere norme che
disciplinano contratti [23], con un dato positivo che viene in tal modo ad
avvalorare la tesi della praticabilità di un accostamento – quello, per
l’appunto, tra contratto e famiglia – che da alcuni anni a questa parte ha
attirato l’attenzione della dottrina [24], il nuovo regolamento «Bruxelles II bis»
dell’Unione Europea in tema di competenza, riconoscimento ed esecuzione delle
decisioni in materia matrimoniale e di responsabilità parentale, abrogativo del
regolamento attualmente in vigore in questo campo (il n° 1347/2000), recante la
data del 27 novembre 2003 e il n° 2201/2003 [25] prevede, all’art. 46, che «Les actes authentiques
reçus et exécutoires dans un État membre ainsi que les accords entre parties
exécutoires dans l’État membre d’origine sont reconnus et rendus exécutoires
dans les mêmes conditions que des décisions» [26].
La differenza rispetto al regolamento attualmente in
vigore appare evidente: mentre quest’ultimo si limita (cfr. art. 13, 3° co.) ad
equiparare alle decisioni «les actes authentiques reçus et exécutoires dans un
État membre ainsi que les transactions conclues devant une juridiction au cours
d’une instance et exécutoires dans l’État membre d’origine», con la conseguenza
che, per esempio, nel nostro ordinamento esso appare riferibile ai soli accordi
tra coniugi omologati in sede di separazione consensuale [27], il nuovo strumento sarà applicabile anche alle
intese non omologate [28], dovendosi qui riferire il concetto di «esecutorietà»
a quella vincolatività che, nel nostro ordinamento, è espressa dall’art. 1372
c.c. [29]. Ma ciò che più rileva ai fini della presente
indagine, è che il nuovo strumento viene ad incidere – a differenza di quello
attualmente in vigore – proprio sul settore della potestà genitoriale sui figli
naturali: tra gli accordi cui fa riferimento la norma in oggetto ben potranno
dunque rientrare anche quelli relativi all’esercizio della potestà conclusi tra
genitori conviventi nell’ambito di una famiglia di fatto, ovvero al momento
della rottura di quest’ultima [30].
Deve poi aggiungersi che alla materia dei rapporti
negoziali tra conviventi more uxorio, sia di sesso diverso, che del
medesimo sesso, la Commissione dedicherà sicuramente particolare attenzione nel
corso dei prossimi anni. Invero, nel solco delle conclusioni del Consiglio
Europeo di Tampere (15 e 16 ottobre 1999) che, anche nel campo del «diritto
materiale (rectius: sostanziale)», hanno invitato la Commissione a
«procedere ad uno studio globale sulla necessità di ravvicinare le legislazioni
degli Stati membri in materia civile per eliminare gli ostacoli al corretto
svolgimento dei procedimenti civili» [31], la Commissione ha di recente affidato a un istituto
di ricerca [32] uno studio sui regimi matrimoniali delle coppie
coniugate e sui rapporti patrimoniali tra conviventi nel diritto internazionale
privato e nel diritto interno degli Stati dell’Unione [33].
Tale studio – propedeutico alla redazione di una
apposita proposta di regolamento per l’armonizzazione dei principi di diritto
internazionale privato, ma anche di diritto interno, in queste materie – se, da
un lato, constata le abissali differenze esistenti tra i sistemi che hanno
proceduto ad una regolamentazione legislativa della possibilità per i
conviventi di disciplinare per via negoziale i propri rapporti e quelli che
(come il nostro) nulla hanno previsto al riguardo, dall’altro contiene alcune
interessanti indicazioni per il coordinamento delle regole di conflitto
(ponendo in luce, per esempio, la necessità di fare perno sulla legislazione
del Paese in cui il contratto è stato registrato), insistendo poi
sull’opportunità di fare uso dei poteri normativi dell’Unione al fine di
limitare in maniera consistente il ricorso al principio dell’ordine pubblico
nei singoli stati membri. Questa indicazione è ribadita, con particolare
enfasi, nel campo della disciplina del partenariato tra persone del medesimo
sesso.
Proprio con specifico riguardo al peculiare aspetto
della disciplina negoziale e normativa delle unioni omosessuali, sia consentito
subito aggiungere che, come dimostrato da tempo in altra sede [34], nessun dubbio può sorgere neppure da noi
sull’ammissibilità pure in questo caso di contratti di convivenza, negli stessi
limiti valevoli per le coppie eterosessuali [35]. Ciò appare tanto più vero alla luce non solo della
recente creazione, nel campo del diritto di famiglia, di uno «spazio
giudiziario comune europeo» [36], ma anche della costituzione in fieri, nel
nostro continente, di un vero e proprio «spazio giuridico comune», con
il già ricordato avvicinamento delle legislazioni sostanziali envisagé
dalle conclusioni del Consiglio Europeo di Tampere: dati, questi, alla luce dei
quali l’Italia non può più ostinarsi a rimanere sorda alle voci che da ogni parte
(del resto) d’Europa si levano a tutela delle convivenze tra persone del
medesimo sesso che desiderino sottoporre i loro rapporti ad effetti giuridici [37].
3. La
negozialità dei conviventi more uxorio tra autonomia privata e modelli
legislativi: lo scenario italiano.
Di fronte allo scenario testé delineato, la dottrina
italiana appariva sino a non molti anni fa assai riluttante. Non è certo questa
la sede nella quale si possa sviluppare per esteso l’argomento dei contratti di
convivenza e dei contratti tra conviventi more uxorio. Sia consentito in
proposito solo un rinvio agli appositi studi dello scrivente [38] su di un tema che oggi come oggi non può più certo
dirsi «abbastanza inesplorato in Italia» [39] e sul quale anche nel nostro Paese cominciano a registrarsi
significative aperture [40], al punto che persino la giurisprudenza, dopo anni di
silenzio [41], ha finito con il recepire tale prospettiva,
lasciando definitivamente da parte le remore e i dubbi derivanti da possibili
considerazioni d’ordine pubblico o di buon costume [42].
E’ del resto evidente che la via contrattuale consente
di superare quella soglia minimale di tutela costituita dal richiamo allo
schema delle obbligazioni naturali che, come messo in evidenza in altra sede,
evolvendosi da una concezione «indennitaria» e «retributiva», ha portato i
Supremi Giudici ad escludere la soluti retentio in relazione a quegli
spostamenti patrimoniali attuati in favore del convivente «debole», vuoi di
fatto (si pensi alla traditio brevi manu di beni mobili), vuoi tramite
negozi comunque nulli per difetto di forma (per lo più si trattava di donazioni
dirette, sovente dissimulate da compravendite, non rispettose della forma
solenne) [43]. La considerazione continua a valere anche di fronte
al successivo passaggio dalla citata concezione «indennitaria» e «retributiva»
dell’obbligazione naturale tra conviventi a quella «contributiva» [44]: radicale mutamento
di prospettiva, quest’ultimo, in forza del quale l’obbligo morale e
sociale rilevante ex art. 2034 c.c. nell’ambito della famiglia di fatto
è (non più quello di ricompensare la compagna per i servizi ricevuti o di
corrispondere l’indennizzo per un supposto pregiudizio riconnesso al rapporto more
uxorio, ma) un dovere di solidarietà che impegna entrambi i partners
ad una reciproca assistenza morale e materiale, nonché alla effettuazione di
contribuzioni, ora in denaro, ora in natura, proporzionate alle proprie
capacità di lavoro, sia professionale che casalingo [45]. Invero, a fronte di questa consapevolezza non ha
ancora trovato adeguata soluzione, sul piano giurisprudenziale, il caso,
tutt’altro che infrequente, nel quale un convivente non adempia (tout court,
ovvero adempia, ma non in maniera adeguata) all’obbligazione naturale sullo
stesso gravante, allorquando l’altro abbia invece contribuito al ménage
familiare, mediante la prestazione della propria attività lavorativa, o la
messa a disposizione di propri cespiti patrimoniali [46].
Venendo così al nucleo centrale dell’argomento, vale a
dire all’individuazione delle clausole che possono caratterizzare un contratto
di convivenza, andrà subito detto che l’espressione «contratto di convivenza»
non viene qui assunta a designare l’accordo con cui due persone si impegnano a
convivere more uxorio: ogni vincolo di carattere personale sfugge, come si vedrà,
alla regolamentazione pattizia. La terminologia abbraccia piuttosto tutte
quelle intese di contenuto patrimoniale che i conviventi – indipendentemente
dalla presenza o meno di un impegno formale a condividere la futura esistenza, ma
comunque sul presupposto di quest’ultima – possono concludere al fine di
regolare i rispettivi rapporti economici, sottoponendo a regole prefissate la
soluzione degli eventuali problemi che potrebbero insorgere durante il ménage. Poste tali premesse, appare
chiaro che eventuali dubbi in punto meritevolezza di tutela (cfr. art. 1322
c.c.) sembrano superabili sulla base della considerazione che degna di
protezione appare ogni pattuizione la quale si prefigga di evitare liti future
e di fornire un minimo di sicurezza economica al partner «debole» [47].
Secondariamente, può aggiungersi che gli aspetti
salienti di tali convenzioni dovrebbero essere costituiti dall’assunzione di un
obbligo reciproco di contribuzione nell’interesse della famiglia (ovvero
dell’obbligo di mantenimento a carico di uno dei conviventi verso l’altro), con
la specificazione delle relative modalità qualitative e quantitative, nonché
dall’eventuale regime degli acquisti da operarsi congiuntamente o
separatamente. Naturalmente, le intese immaginabili sono svariate, e
innumerevoli sono le combinazioni delle medesime, ma, prima ancora di passare
in rassegna i possibili contenuti e le forme di un cohabitation contract
all’italiana, occorrerà fare un breve cenno ad alcuni temi d’ordine generale,
quali quelli del riflesso sui contratti di convivenza dell’obbligazione
naturale esistente tra le parti, nonché della validità di questi negozi sotto
il profilo del buon costume e dell’ordine pubblico.
Lo «scenario italiano» si completa con un’analisi
delle proposte attualmente sul tappeto in materia di accordi, patti e contratti
di convivenza: al tema sarà dedicato il paragrafo conclusivo del presente
scritto [48].
4.
Contratti di convivenza e obbligazioni naturali tra conviventi more uxorio.
Il primo e più serio ostacolo alla configurabilità di
un contratto di convivenza deriva dalla pacifica riconduzione dei doveri di
reciproca assistenza e contribuzione tra conviventi more uxorio allo schema
delle obbligazioni naturali [49]. E’ noto infatti che, a differenza del diritto
romano, il quale attribuiva all’obbligazione naturale la natura di un vero e
proprio rapporto giuridico obbligatorio (anche se sui generis),
riconnettendovi una serie di effetti ulteriori rispetto al fenomeno della soluti retentio [50], il nostro ordinamento non riconosce ai doveri morali
e sociali di cui all’art. 2034 c.c. la caratteristica della giuridicità [51]. In quest’ottica, trasformare in qualche modo
l’obbligazione naturale in civile appare quanto meno problematico. Una simile
operazione, espressamente consentita dalle fonti romane sotto la specie della
novazione [52], e ancora ritenuta ammissibile dalla giurisprudenza
italiana sotto il codice abrogato [53], sembra oggi urtare irrimediabilmente con il disposto
dell’art. 2034 cpv. c.c., il quale (a differenza dell’art. 1237 cpv. c.c. 1865)
esplicitamente esclude che i doveri morali e sociali in oggetto producano
qualsiasi altro effetto giuridico al di là di quello della non ripetibilità di
quanto eventualmente prestato.
Alla luce di tale dato positivo anche la
giurisprudenza, dopo l’entrata in vigore del codice attuale, si è venuta
orientando in senso decisamente contrario [54], secondo un indirizzo che annovera in dottrina
autorevoli sostenitori, i quali non hanno mancato di rimarcare come un
contratto avente a oggetto l’assunzione come civile di un’obbligazione naturale
costituirebbe, in buona sostanza, un negozio ricognitivo, ovvero novativo, di
un debito giuridicamente inesistente e come tale sarebbe inammissibile, perché
tanto la ricognizione che la novazione presuppongono la validità del titolo
costitutivo dell’originaria obbligazione [55].
Ora, non c’è dubbio che debba escludersi in limine
ogni possibilità di novazione di un’obbligazione naturale in civile, posto che il
fenomeno disciplinato dagli artt. 1230 ss. c.c. (come del resto qualsiasi
istituto concernente la parte generale delle obbligazioni) postula la
preesistenza di un rapporto giuridico obbligatorio che nella specie difetta.
Del pari è destinato a rimanere privo d’effetti ogni atto unilaterale
(confessione stragiudiziale, promessa di pagamento, riconoscimento di debito,
promessa contenuta in titolo di credito) meramente «riproduttivo» dell’obbligo
naturale [56].
Ma la conclusione non può essere la stessa per quanto
concerne la promessa contenuta in un contratto. Quest’ultimo, infatti, ben può
avere una sua causa autonoma rispetto all’obbligazione naturale sussistente tra
le parti, anche se tramite esso i contraenti raggiungano ugualmente lo scopo di
dare esecuzione al dovere morale o sociale [57]. Il risultato può essere ottenuto ponendo la
prestazione oggetto dell’obbligazione naturale in corrispondenza biunivoca con
un’altra prestazione, di natura reale o obbligatoria, la quale a sua volta può
costituire oggetto di un’altra obbligazione naturale (per esempio, Tizio
promette a Caio di adempiere nei suoi confronti un’obbligazione prescritta, in
cambio dell’impegno di Caio di saldare a Tizio la residua parte di un debito
facente parte di un concordato fallimentare). Il negozio viene così ad assumere
una sua causa autonoma, consistente nello scambio tra due sacrifici reciproci,
mentre, rispetto a tale schema, la volontà di adempiere il preesistente dovere
morale o sociale degrada al rango di semplice motivo. Il risultato è solo
apparentemente analogo a quello emergente da due distinte e parallele
ricognizioni dei rispettivi debiti naturali: ciò che qui spinge i soggetti ad
adempiere non è più la «voce della coscienza», ma la certezza nell’assunzione,
come civile, dell’impegno reciproco in capo alla controparte.
Queste premesse consentono di superare anche
l’ostacolo costituito dalla lettera dell’art. 2034 cpv. c.c. All’uopo si può
suggerire una lettura sistematica dello stesso che ne limiti la portata
negativa a quei soli effetti legali normalmente riconnessi alle obbligazioni
civili, senza estenderla a quelli eventualmente scaturenti da un distinto
negozio, dotato di una sua causa autonoma [58]. Se è dunque nello scambio tra le vicendevoli
promesse di adempiere i doveri morali e sociali scaturenti dal legame more uxorio
che va ricercata la causa dei contratti di convivenza, deve però subito
aggiungersi che, nel caso in cui la promessa di adempimento di un obbligo
morale o sociale scaturisse da una sola parte determinando l’impoverimento del
promittente e l’arricchimento del promissario, il requisito causale dovrebbe
essere surrogato dal rispetto della forma solenne prescritta per la donazione [59].
Le considerazioni di cui sopra, già presentate
all’attenzione della dottrina diversi anni or sono [60], hanno ricevuto accoglienza generalmente favorevole [61]: significativo appare del resto il fatto che la
questione non sia stata neppure sfiorata nel più volte citato leading case
della Cassazione in materia di contratti tra conviventi more uxorio [62].
5.
Contratti di convivenza e buon costume.
Il problema della validità del contratto di convivenza
sotto il profilo del buon costume si presenta, in prospettiva storica, come
inscindibilmente connesso alla vexata
quaestio della validità delle
donazioni tra conviventi, posto che queste ultime costituirono per secoli gli
strumenti attraverso cui venivano regolati i rapporti economici delle unioni
extramatrimoniali. Lo sfavore con cui la donazione alla concubina era vista sotto
l’Ancien Régime [63] non poteva non ripercuotersi sulla considerazione
della liceità di un contratto diretto alla costituzione di un rapporto di
convivenza di fatto. In effetti, proprio quest’ultimo era riportato da molti
dei primi commentatori del Code Napoléon come il classico esempio di
negozio contra bonos mores [64]. Va peraltro subito aggiunto che in quei tempi la
distinzione di questa figura rispetto alla donazione effettuata allo scopo di
convincere una donna a intraprendere una relazione concubinaria si prospettava
come assai ardua. Il più delle volte, infatti, la donna che si «adattava» a
convivere more uxorio altro non aveva da offrire, in cambio del mantenimento
promesso dall’uomo, se non il proprio corpo (eccezion fatta per il lavoro
domestico, che peraltro non era allora tenuto in alcuna considerazione).
Dunque, la disponibilità della convivente a instaurare una relazione
concubinaria poteva essere vista tanto come cause
(intesa in Francia nel senso di motivo) di una liberalità il cui oggetto era rappresentato
dalla contribuzione dell’uomo, quanto come controprestazione di un contratto
oneroso di convivenza (laddove la prestazione dell’uomo consisteva, appunto,
nell’erogazione del mantenimento).
L’attuale considerazione a livello normativo e sociale
del lavoro domestico consente di affermarne l’idoneità a porsi in
corrispondenza biunivoca con un eventuale obbligo di mantenimento, nell’ambito
di un negozio a titolo oneroso, così facendo necessariamente passare in secondo
piano l’aspetto sessuale. L’accordo sull’assetto economico da imprimere al ménage assume dunque una sua piena
autonomia rispetto all’impegno a convivere e pertanto neppure un’eventuale
immoralità di quest’ultimo potrebbe riverberare i suoi effetti sul primo.
D’altro canto, si è già chiarito che la causa del contratto di convivenza
risiede non già nel legame more uxorio in sé [65], ma nello scambio delle vicendevoli promesse di
adempiere le reciproche obbligazioni naturali: rispetto a questo schema, come
già detto, il rapporto pseudo-matrimoniale si viene piuttosto a porre come un
motivo.
Trattasi peraltro di motivo comune a entrambi i
contraenti, oltre che (almeno per i contratti comunque diretti a favorire
l’instaurazione o la prosecuzione del rapporto) esclusivo: pertanto, ai sensi
dell’art. 1345 c.c., il problema di un’eventuale illiceità si ripresenta in
termini assai simili a quelli che per decenni si sono posti in relazione alla
donazione. Ben potranno allora richiamarsi i risultati cui dottrina e
giurisprudenza sono pervenute, un po’ ovunque, in quella sede, sottolineando
come i contratti di convivenza diretti alla regolamentazione dei rapporti
patrimoniali dei partners non possano
per ciò solo essere ritenuti immorali, se non nel caso in cui «la
contre-prestation est constituée uniquement par le consentement à des relations
charnelles». A maggior ragione, dunque, tali negozi non contrastano con il buon
costume quando emerga dagli stessi chiaramente l’intento primario dei partners di garantire reciprocamente il
proprio futuro, ponendo le basi economiche per la fondazione di una comunità
familiare, anche se soltanto di fatto.
In quest’ottica si è posta anche in Italia la
giurisprudenza di legittimità, la quale ha affermato che la convivenza more
uxorio tra persone in stato libero non costituisce causa di illiceità e,
quindi, di nullità di un contratto attributivo di diritti patrimoniali (nella
specie, comodato) collegato a detta relazione, in quanto tale convivenza,
ancorché non disciplinata dalla legge, non contrasta né con norme imperative,
non esistendo norme di tale natura che la vietino, né con l’ordine pubblico,
che comprende i principi fondamentali informatori dell’ordinamento giuridico,
né con il buon costume, inteso, a norma delle disposizioni del codice civile
(vedi artt. 1343, 1354), come il complesso dei principi etici costituenti la
morale sociale di un determinato momento storico, bensì ha rilevanza nel
vigente ordinamento per l’attribuzione di potestà genitoriali nell’ipotesi
disciplinata dall’art. 317-bis c.c., come nella normativa della legge 27
luglio 1978 n. 392 in ordine alla successione nel contratto di locazione [66].
6.
Contratti di convivenza e ordine pubblico: i rapporti di carattere personale e
quelli relativi alla prole.
Se è vero che nessun principio d’ordine pubblico
sembra opporsi in limine alla stipula di un contratto di
convivenza, assai diverso è il discorso allorché si scende alla disamina dei
possibili contenuti del negozio. I canoni fondamentali del nostro sistema
pongono infatti un ostacolo insuperabile in merito all’inserimento di aspetti
di carattere personale.
Anzi, assorbente rispetto a questa considerazione
appare quella per cui i doveri di fedeltà, assistenza morale, collaborazione e
coabitazione, proprio perché privi del requisito della patrimonialità, si
mostrano inidonei, innanzitutto, a costituire «prestazione» ai sensi dell’art.
1174 c.c., e, secondariamente, a essere dedotti in contratto, ex art. 1321 c.c. [67]. Ma il richiamo alle regole d’ordine pubblico sarebbe
inevitabile nel caso si fosse tentati di imporre il rispetto di tali impegni
per via indiretta, mediante la pattuizione di una penale (per es.: ti darò la
somma x se ti sarò infedele, oppure se ti abbandonerò prima o dopo una certa
data), che non sfuggirebbe alla sanzione della nullità per violazione del
principio della libertà personale [68].
Ciò detto, va però subito precisato che la possibilità
di attribuire un qualche rilievo sul piano negoziale a taluni aspetti di
carattere personale non pare totalmente esclusa. Si è infatti già posto in luce
che la deduzione in condizione di un comportamento umano può supplire al
divieto di dedurre tale comportamento in obbligazione. Al riguardo, potrebbero
astrattamente configurarsi due schemi: a) condizione che subordina una
prestazione patrimoniale da un convivente all’altro all’esecuzione di una
prestazione non patrimoniale da parte dell’autore della promessa (per esempio:
ti prometto che ti darò cento se non ti sarò fedele, se tra dieci anni non
coabiterò più con te, se tra cinque anni non ti avrò dato un figlio, ecc.); b)
condizione che subordina una prestazione patrimoniale all’effettuazione di una
non patrimoniale da parte, questa volta, del destinatario della promessa (ti
prometto che ti darò cento se mi sarai fedele, se tra dieci anni coabiterai ancora
con me, se tra cinque anni mi avrai dato un figlio, ecc.). Ora, la prima delle
due clausole, che costituisce certamente una penale, è nulla poiché in essa la
deduzione in condizione finisce con il mascherare l’assunzione di un vero e
proprio obbligo alla prestazione non patrimoniale, sanzionato con la
corresponsione dell’importo di cui alla promessa. D’altro canto, l’impegno
sottoscritto dal promittente appare vincolato alla mera volontà di quest’ultimo
e pertanto in contrasto con il disposto dell’art. 1355 c.c. Al contrario, la
clausola sub b), che potrebbe definirsi come «premiale», in quanto
diretta ad attribuire una sorta di compenso per l’effettuazione di una
prestazione (non patrimoniale) da parte del promissario, non sembra in grado di
suscitare obiezioni [69].
Riprendendo l’esame dei vari aspetti in ordine ai
quali l’assunzione di un impegno deve ritenersi vietata, occorre soffermarsi in
primo luogo sull’impegno a convivere. Già si è illustrata l’invalidità di
qualsiasi penale correlata al venir meno della coabitazione. Un corollario di
tale conclusione è rappresentato dalla illiceità di una condizione apposta a un
eventuale mutuo concesso da un convivente all’altro, che sottoponesse
sospensivamente l’esigibilità del credito del mutuante all’evento della
cessazione della convivenza, sempre che l’importo in questione, specie se
rapportato alle condizioni patrimoniali del mutuatario, fosse tale da
restringere in maniera intollerabile la libertà di quest’ultimo di porre fine
in ogni tempo al rapporto [70].
La contrarietà rispetto all’ordine pubblico
risulterebbe poi particolarmente evidente non soltanto nell’impegno che
vincolasse la libertà dei conviventi esplicitamente imponendo un obbligo di
fedeltà, ma anche in un’espressa rinuncia al diritto di porre fine in qualsiasi
momento al ménage [71]. Lo stesso è a dirsi (e sul punto in Germania si
annovera già un precedente) circa la promessa dei partners (o di uno di essi) avente a oggetto la prosecuzione della
coabitazione, vuoi per un periodo illimitato, vuoi per una «durata garantita
minima» [72], così come qualsiasi vincolo relativo alla fissazione
della residenza (comune o meno) in un determinato luogo piuttosto che in un
altro. Con speciale riguardo a questi ultimi aspetti va ricordato che la
giurisprudenza italiana ha conosciuto fino a oggi fattispecie del genere in
relazione a quei contratti di mantenimento vitalizio con i quali il
vitaliziante si era impegnato, tra l’altro, a convivere con il vitaliziato o
comunque a fornire presso quest’ultimo assistenza materiale e morale in ore sia
diurne che notturne, anche se poi lo specifico aspetto della contrarietà
all’ordine pubblico per violazione della libertà personale del vitaliziante non
è stato affrontato [73]. Ma la soluzione non sembra possa essere diversa da
quella che afferma la nullità delle clausole testamentarie che sottopongono
l’istituzione d’erede o il legato alla condizione che il beneficiario conviva
(o non conviva) con un altro soggetto [74], e ciò in considerazione del fatto che la libertà di
scelta dei soggetti con cui condividere la propria esistenza, così come quella
di muoversi a proprio talento, e di soggiornare in un luogo anziché in un altro
a seconda del proprio interesse o del proprio diletto, costituisce
innegabilmente un aspetto di quel diritto alla libertà personale che non
tollera restrizioni di sorta [75].
Di una certa utilità potrebbe invece rivelarsi la
dichiarazione, da inserirsi in un eventuale contratto scritto, circa il fatto
che i contraenti attualmente convivono e hanno fissato la propria residenza in
comune in un certo luogo, soprattutto al fine di evitare future contestazioni
circa possibili effetti collegati all’inizio dell’effettiva convivenza o
comunque all’individuazione della residenza dell’uno o dell’altro (si pensi a
una dichiarazione recettizia prevista in contratto come necessaria al fine
della produzione di certi effetti giuridici, o alla notifica di atti
giudiziari), in presenza di divergenti risultanze anagrafiche. L’accorgimento
appare consigliabile anche alla luce di quella giurisprudenza che attribuisce a
queste risultanze un valore meramente presuntivo, consentendo all’interessato
di superarle semplicemente mediante la produzione di un contratto in cui la
controparte abbia dichiarato di risiedere in un altro luogo [76].
Venendo ora a temi quali la procreazione e la prole
deve affermarsi la nullità di ogni impegno che preveda l’esecuzione di
prestazioni di carattere sessuale – in relazione al quale emergerebbe anche
l’aspetto della contrarietà al buon costume) [77] – o, ancora, l’assunzione di un determinato cognome [78], la procreazione (eventualmente mediante il ricorso a
metodi di fecondazione artificiale), o la non procreazione, per mezzo
dell’imposizione dell’obbligo di far uso di sistemi contraccettivi [79].
Nella monografia sui regimi patrimoniali della
famiglia di fatto lo scrivente aveva espresso l’opinione secondo cui sarebbe
stato impossibile regolare sotto qualsiasi forma gli aspetti involgenti i
rapporti di filiazione e l’esercizio della potestà dei genitori, che risultano
già disciplinati da norme di carattere imperativo [80]. La conclusione va sicuramente ribadita per tutto
quanto attiene al momento costitutivo del rapporto di filiazione (o comunque di
un rapporto para-familiare). Pertanto, oltre alla già illustrata nullità di
ogni promessa avente a oggetto la procreazione ovvero l’astensione dalla
procreazione, va affermata l’invalidità dell’obbligo che i conviventi
eventualmente assumessero di manifestare la propria disponibilità
all’affidamento familiare, o al compimento di un’eventuale adozione, nei limiti
in cui, ovviamente, essa possa ritenersi consentita ai soggetti non coniugati.
Lo stesso è a dirsi per l’impegno, da parte di uno o di entrambi, a effettuare,
o ad astenersi dall’effettuare, il riconoscimento della prole generata
dall’unione, o, ancora, a far precedere uno dei due riconoscimenti all’altro,
strumento che altrimenti potrebbe servire (con le limitazioni, beninteso,
fissate dall’art. 262 c.c.) a conseguire lo scopo di far assumere ai figli il
cognome di uno piuttosto che dell’altro dei genitori.
Diverse appaiono invece le conclusioni per ciò che
attiene agli aspetti attinenti all’esercizio della potestà sui figli comuni.
Invero, come dimostrato in dottrina [81], dall’art. 317-bis
c.c. sembra potersi ricavare per implicito il riconoscimento da parte del
legislatore della validità di intese dirette a regolare tale aspetto, sia in
relazione alla coppia in situazione «fisiologica» (mercé il rinvio all’art. 316
c.c.), sia a quella in situazione «patologica» (in cui l’intervento del giudice
è previsto in funzione meramente suppletiva). La giurisprudenza sembra del
resto secondare questa interpretazione, ammettendo la validità di accordi
aventi ad oggetto l’affidamento della prole naturale [82]. Nessun dubbio dovrebbe poi porsi sull’ammissibilità
dell’eventuale regolamentazione pattizia della misura in cui ciascuno dei
conviventi contribuirà al mantenimento dei figli (eventualmente anche non
minorenni) [83].
7. Il
contenuto dei contratti di convivenza: contribuzione e mantenimento.
Una volta esaurito – nell’ambito del § dedicato
all’ordine pubblico – l’esame dei possibili contenuti di carattere non
patrimoniale, c’è da chiedersi quali siano in concreto i singoli rapporti
patrimoniali della famiglia di fatto che possano formare oggetto di
regolamentazione negoziale.
In primo piano si pone l’impegno reciproco di
contribuire alle necessità del ménage
mediante la corresponsione (periodicamente o una tantum) di somme di
denaro, ovvero tramite la messa a disposizione di propri beni o della propria
attività lavorativa, eventualmente anche soltanto domestica [84]. La validità di tale impegno, che dovrebbe fissare
altresì misura e modalità della contribuzione di ciascuno, non sembra possa
contestarsi [85], così come quella di una promessa avente a oggetto la
reciproca assistenza materiale per il caso di necessità [86]. Al riguardo potrebbe rivelarsi di una certa utilità
la previsione di eventuali situazioni alla stregua di «cause di giustificazione»
per il mancato adempimento dell’obbligo contributivo, come per esempio nel caso
in cui una delle parti dovesse trovarsi senza sua colpa nell’impossibilità di
ricevere reddito (si pensi alla disoccupazione involontaria). Attesa
l’irriferibilità alla famiglia di fatto del disposto dell’art. 160 c.c., sembra
doversi concedere comunque ai conviventi la facoltà di derogare al criterio di
una contribuzione «in relazione alle proprie sostanze e alla propria capacità
di lavoro professionale o casalingo» scolpito per i coniugi dall’art. 143 c.c.,
norma sicuramente non estensibile in via analogica ai conviventi more uxorio
[87].
Appare quindi
senz’altro ammissibile una pattuizione con la quale le parti si impegnino a
contribuire in misura paritaria al ménage, pur in presenza di una
situazione di squilibrio patrimoniale e reddituale delle medesime [88].
La dottrina italiana pare orientata a individuare
quale contenuto dei contratti di convivenza l’obbligo di corresponsione di
somme di denaro a titolo di mantenimento da parte del partner più abbiente in favore di quello più bisognoso [89]. Ma c’è da chiedersi se invece non convenga optare
per forme negoziali più collaudate, quali per esempio il contratto di
mantenimento vitalizio [90]. Si tratta della convenzione con la quale una parte
attribuisce all’altra il diritto di esigere, vita natural durante, di essere
mantenuta, quale corrispettivo dell’alienazione di un bene mobile o immobile o
della cessione di un capitale [91]. Più precisamente, l’obbligo del vitaliziante consiste
non già nel versamento di somme di denaro, ma nella corresponsione, in natura,
di vitto, alloggio vestiario e assistenza medica, anche se la prassi conosce
altre pattuizioni di carattere accessorio [92].
Proprio l’appartenenza di tali prestazioni al novero
di quelle di fare, anziché di dare, ha da sempre indotto la dottrina
maggioritaria a evidenziare l’atipicità del contratto in esame rispetto alla
rendita vitalizia, secondo una tesi che riscuote ora anche il consenso della
Suprema Corte, e che pare senz’altro preferibile, anche in considerazione del
cospicuo numero di altri elementi differenziatori nei riguardi della figura
regolata dall’art. 1872 ss. c.c. [93]. Nell’ambito dei rapporti tra conviventi more uxorio
il contratto di mantenimento vitalizio potrebbe però assumere un ulteriore
connotato caratterizzante, idoneo ad allontanarlo definitivamente dalla rendita
vitalizia. Nello schema negoziale potrebbe infatti mancare la cessione della
proprietà di determinati beni dal vitaliziato al vitaliziante, (specie quando
uno dei due difettasse dei mezzi necessari per un’operazione del genere). In
tal caso la controprestazione, a fronte dell’impegno del vitaliziante, potrebbe
essere costituita da un obbligo reciproco di assistenza materiale, oppure
potrebbe mancare del tutto. Ma a questo punto occorre ammettere che il primo
caso non sembra differire di molto dal contratto di contribuzione che si è
cercato di enucleare in precedenza, mentre nel secondo appare inevitabile
riconoscere la presenza di una donazione. Proprio per questo, la previsione
dell’obbligo di mantenimento a carico di una soltanto delle parti, senza alcuna
controprestazione, richiede necessariamente il rispetto della forma solenne, ex art. 782 c.c. [94].
Non va trascurato poi che un accordo del genere
potrebbe dar luogo a sospetti di contrarietà al buon costume, inducendo a
ritenere che la controprestazione per l’impegno a mantenere sia in realtà
costituita dal consenso alle relazioni sessuali; appare quindi consigliabile
che nel contratto di convivenza l’eventuale obbligo di mantenimento assunto da
uno dei contraenti a vantaggio dell’altro venga posto in corrispondenza
biunivoca con un reciproco dovere di contribuzione, ovvero con un’altra
prestazione a carico del beneficiario, che potrà essere costituita dalla
cessione di un capitale, ovvero dalla prestazione di lavoro domestico, o ancora
dalla messa a disposizione di certi beni [95], usando peraltro l’accortezza, qualora vi sia
sproporzione tra le prestazioni, di osservare la forma solenne prevista per la
donazione.
Un problema legato a siffatto tipo di negozi riguarda la possibilità della
previsione di eventuali limiti d’ordine temporale all’obbligo di contribuzione
così fissato. In proposito, si può innanzitutto ritenere valida anche
un’espressa subordinazione degli effetti del vincolo obbligatorio alla durata
del rapporto di fatto, in quanto una clausola del genere verrebbe a concretare
una condizione risolutiva ordinariamente (e non meramente) potestativa. Inutile
dire che una siffatta cautela appare consigliabile per il partner che
figuri quale unico (o prevalente) obbligato e voglia porsi al riparo dal
rischio di dover continuare ad adempiere anche dopo la rottura del legame. Come
si è invero dimostrato in altra sede, la presupposizione non sembra poter
giocare alcun ruolo nel contesto dei rapporti tra conviventi. Assai più
delicato appare invece l’aspetto della possibilità di pattuire una durata
minima del periodo di corresponsione della contribuzione (consistente
eventualmente anche nella prestazione lavorativa, specie se domestica) o del
mantenimento, indipendentemente dalla durata del ménage. Una simile
clausola – una delle poche in grado di costituire una vera garanzia per il
convivente «debole» – potrebbe infatti venirsi a scontrare con quel principio
generale d’ordine pubblico che fa divieto ai soggetti di assumere vincoli
giuridici di durata eccessiva. L’ammissibilità di un impegno del genere
apparirebbe dunque a prima vista collegata al rispetto di convenienti limiti di
tempo, la cui concreta estensione dovrebbe essere di volta in volta accertata,
tenute in considerazione le particolarità del caso concreto. Peraltro, proprio
l’indiscussa validità del contratto vitalizio di mantenimento induce ad
affermare che una prestazione di tipo contributivo-assistenziale possa essere
efficacemente assunta anche per un numero considerevole di anni, ovvero per
tutta l’esistenza del beneficiario; l’unico limite sarà dunque costituito dalla
durata della vita del creditore della prestazione.
8. Il
contenuto dei contratti di convivenza: il regime comunitario dei beni.
Il contenuto più importante di un contratto di
convivenza, in grado di predisporre uno strumento veramente incisivo a
vantaggio del partner «debole»
potrebbe essere costituito dalla riproduzione per via negoziale di quello che
nella famiglia legittima è il regime legale. Al riguardo va subito detto che,
pur non sussistendo in linea di principio nel nostro ordinamento ragioni per
ritenere vietata tale operazione [96], l’effetto non potrebbe comunque mai essere quello di
un’applicazione dell’istituto della comunione coniugale nella sua interezza.
Invero, è evidente che, per il principio della privity of contract (art. 1372 c.c.), non
potrebbero essere imitati gli effetti «esterni» tipici della comunione, che
pure di tale regime costituiscono uno dei punti più qualificanti. Si pensi, in
particolare, all’opponibilità ex lege della proprietà comune ex art. 177, lett. a), c.c., anche in
difetto di trascrizione dell’acquisto in favore di entrambi [97], con il connesso rimedio dell’annullabilità degli
atti di disposizione relativi ai beni immobili o mobili registrati compiuti da
un coniuge senza il necessario consenso dell’altro, ai sensi dell’art. 184, co.
1 e 2, c.c. Quanto sopra era già stato chiaramente espresso, in termini
identici, dall’autore di questo studio diversi anni or sono [98]: sbalorditive appaiono dunque le asserzioni di chi,
probabilmente senza aver letto il contributo citato, vorrebbe (impropriamente)
imputare allo scrivente l’intento di… perseguire la «possibilità di fruire
degli effetti cc.dd. esterni della comunione legale, quale l’automatica
opponibilità del coacquisto, anche se trascritto in favore di un solo coniuge» [99].
Gioverà dunque ribadire – a scanso d’equivoci – che
ciò che si può prevedere è, invece, un regime di comunione (ordinaria) in
relazione a tutti (o eventualmente ad alcuni) i beni da acquistarsi durante la
convivenza, anche da parte di uno solo dei conviventi. L’effetto potrebbe
essere conseguito mediante la pattuizione di una versione contrattuale
dell’«acquisto automatico» di cui all’art. 177 lett. a), c.c. e, dunque, di un
effetto reale di trasferimento di una quota ideale dei diritti acquisiti (non
necessariamente pari al 50%) [100] che si dovrebbe verificare automaticamente all’atto
stesso del perfezionamento di ogni negozio acquisitivo da parte di uno dei partners. Un’altra possibilità sarebbe
costituita da un impegno di natura meramente obbligatoria a trasferire la
titolarità di una quota del diritto acquistato, con un meccanismo analogo a
quello di cui all’art. 1706 c.c. [101].
Nessuna obiezione sembra sollevabile circa la
determinabilità dell’oggetto di un simile contratto. E’ infatti noto che tale
requisito può ritenersi soddisfatto anche quando, una volta individuati nel
titolo gli elementi necessari e sufficienti per compiere la determinazione,
quest’ultima avvenga sulla base di eventi esteriori, quali comportamenti o
dichiarazioni delle stesse parti o di terzi: basti pensare alla nota teoria
giurisprudenziale della «determinabilità ex
post» [102]. L’impostazione sembra del resto ricevere un conforto
legislativo dalla disciplina normativa della cessione dei crediti d’impresa,
che ammette, per l’appunto, tale cessione «anche prima che siano stipulati i
contratti dai quali [i crediti stessi] sorgeranno» (cfr. art. 3, l. 21 febbraio
1991, n. 52). A tale proposito, al fine di prevenire liti future, sarà
opportuno identificare con estrema precisione tanto il dies a quo che quello ad quem per l’operatività
dell’effetto acquisitivo (per l’individuazione di quest’ultimo si potrebbe, per
esempio, richiedere l’invio di una lettera raccomandata).
Come già anticipato, il limite principale
dell’istituto che si è tentato di delineare è costituito dai rapporti con i
terzi. Invero, l’opponibilità a questi ultimi della comproprietà sui beni
acquistati nel corso della convivenza non potrebbe essere riprodotto nemmeno
mediante il ricorso al meccanismo della trascrizione del contratto di
convivenza. Tale contratto, tanto nella sua versione a effetti reali differiti,
che in quella a effetti meramente obbligatori, non potrebbe certo operare
all’atto della sua conclusione il trasferimento di alcun diritto reale
immobiliare, ma si configurerebbe come una sorta di mero «accordo
programmatico». Conseguentemente, non soltanto si esulerebbe dalle ipotesi per
le quali l’istituto della trascrizione è (tassativamente) previsto, ma verrebbe
anche a mancare quella specifica indicazione dei singoli beni oggetto
dell’atto, che, sola, può rendere tecnicamente sottoponibile il negozio a
pubblicità (cfr. artt. 2659, n. 4, 2665 c.c.) [103]. L’unico rimedio di natura reale competente al partner «pretermesso» sarebbe allora
quello della proposizione contro l’altro di un’azione di rivendica (nel caso di
effetto reale differito), ovvero di una domanda ex art. 2932 c.c. (nel caso di semplice obbligo a trasferire) con
immediata trascrizione dell’atto di citazione, ai sensi e per gli effetti,
rispettivamente, degli artt. 2653, n. 1 o 2652, n. 2, c.c.
Quel fenomeno tipico del regime comunitario tra
coniugi rappresentato dall’indisponibilità della quota, se non con il consenso
di entrambi [104], potrebbe essere conseguito mediante un vincolo
pattizio di inalienabilità sulle rispettive porzioni dei beni acquistati,
vincolo la cui previsione, in considerazione dei particolari rapporti esistenti
tra le parti, potrebbe ritenersi determinata da un interesse «apprezzabile» ex art. 1379 c.c. Proprio per via di
questa norma, però, esso andrebbe contenuto entro convenienti limiti di tempo,
né potrebbe essere opposto ai terzi, nemmeno mediante il meccanismo della
trascrizione [105]. L’unico rimedio prevedibile in sede di stipula del
contratto di convivenza sembra dunque costituito da una penale a vantaggio del
convivente «pretermesso», che sarebbe così liberato dall’onere di fornire la
dimostrazione (per il vero tutt’altro che agevole) di aver subito un danno per
effetto della alienazione della sola quota di comproprietà del partner.
Per quanto concerne l’amministrazione dei beni in
comunione l’art. 1100 c.c. lascia alle parti la massima discrezionalità,
espressamente enunciando il carattere dispositivo delle norme di cui al capo I
del titolo VII: potranno quindi fissarsi a piacimento regole
sull’amministrazione straordinaria ovvero ordinaria, prevedendone il carattere
congiunto ovvero disgiunto, così come enucleando singoli atti in relazione ai
quali venga imposto l’agire congiunto piuttosto che disgiunto [106]. Sarà appena il caso di aggiungere che un eventuale
patto di indivisione sarà soggetto alle disposizioni di cui all’art. 1111 cpv.
c.c., mentre i rimedi da applicarsi in caso di «blocco» nell’amministrazione o
di decisioni pregiudizievoli per le cose comuni saranno quelli ex artt. 1105 e 1109 c.c. e non già
quelli di cui agli artt. 181, 182 e 183 c.c.
Relativamente allo scioglimento della comunione
convenzionale tra conviventi occorrerà fare richiamo innanzitutto alla già
illustrata necessità di legare il dies
ad quem a un evento ben preciso, quale, per esempio, l’invio di una
lettera raccomandata con avviso di ricevimento. Per il resto, sarà d’uopo
rinviare a un apposito § nel quale verranno passati in rassegna i problemi
ricollegati alla cessazione del ménage.
In questa sede si potrà ricordare soltanto che è stata suggerita la redazione
di una lista dei beni mobili apportati da ciascuno dei conviventi, che avrebbe
carattere di negozio ricognitivo e servirebbe, in caso di rottura, a evitare
problemi in relazione alla rivendica di singoli beni [107], in tal modo supplendo alla mancanza tra conviventi
di una regola analoga a quella di cui all’art. 219 c.c. Peraltro l’utilità di
tale espediente appare assai dubbia, essendo controversa, come noto,
l’estensibilità dell’effetto di cui all’art. 1988 c.c. (astrazione processuale)
ai rapporti di carattere reale [108]. Si potrebbe allora consigliare di specificare
accanto a ognuno dei singoli beni il rispettivo titolo d’acquisto: la
sottoscrizione apposta dal partner
assumerebbe così valore confessorio non solo in ordine alla proprietà (ed è
noto che sotto questo profilo la dichiarazione sarebbe irrilevante,
risolvendosi in un giudizio), ma anche sulle vicende (e dunque su meri fatti)
che giustificano l’acquisto singolarmente in capo a ciascuno dei conviventi. In
ogni caso potrebbe anche essere utile convenire una presunzione (iuris tantum) di comproprietà di determinati beni [109] (per esempio, tutti i mobili che si troveranno
nell’immobile destinato a residenza comune al momento della cessazione del
rapporto), che non sembra, almeno come tale, porsi in contrasto con l’art. 2698
c.c.
9. Il contenuto dei contratti di convivenza: il regime
separatista dei beni; impresa familiare e fondo patrimoniale.
L’ipotesi comunitaria
sopra delineata costituisce sicuramente, come si diceva, quella in grado di predisporre
uno dei più idonei strumenti a vantaggio del convivente «debole». Ciò non
esclude, ovviamente, che l’interesse delle parti sia invece diretto
all’attuazione di una rigida separazione dei patrimoni, magari seguendo una
tendenza che pare delinearsi con sempre maggior vigore nell’ambito della stessa
famiglia fondata sul matrimonio [110]. Chi scrive ha già avuto modo di chiarire che
l’espressa previsione, da parte dei conviventi, di un regime di separazione,
lasciando del tutto invariati i rapporti reciproci, esporrebbe il contratto al
rischio di una declaratoria di nullità per assenza di causa [111]. Peraltro, un’esplicita esclusione del regime
comunitario [112] potrebbe rivelarsi utile al solo fine di superare
quella praesumptio hominis di comproprietà dei beni acquisiti durante la
convivenza che una parte, seppure minoritaria, della dottrina vorrebbe ritenere
operante (quasi a imitazione della teoria dell’implied cohabitation contract)
tra conviventi in merito agli acquisti effettuati durante il rapporto.
Ad una coppia che
avesse l’intenzione di mantenere un regime rigorosamente separatista andrebbe
comunque consigliato di pattuire in maniera espressa il diritto alla
restituzione di quegli importi eventualmente versati da ciascuno dei conviventi
a titolo di contributo per gli acquisti
di beni effettuati a nome dell’altro. Svariati modelli stranieri
suggeriscono invero l’inserimento nei contratti di convivenza di clausole
intese ad attribuire (o a negare) un determinato significato negoziale ai
comportamenti che i conviventi terranno in futuro, durante il ménage:
trattasi di accordi di sicura utilità, in considerazione della loro funzione
preventiva rispetto a possibili controversie al momento dello scioglimento.
Così, ad esempio, le parti potrebbero fissare in contratto una presunzione di
mutuo [113], ovvero – al contrario – prevedere come normale il
carattere liberale dell’atto, fatto salvo il caso di un’espressa pattuizione di
una restitutio [114]. Allo stesso modo è consigliabile disciplinare l’eventuale
rimborso per l’utilizzazione di beni del compagno [115].
L’opinione di cui sopra, già espressa dallo scrivente [116], è stata criticata da chi [117], con particolare riguardo agli accordi diretti a
chiarire preventivamente la sorte di attribuzioni patrimoniali compiute «a
senso unico», nonché l’onerosità o meno dei servizi prestati, ha rilevato che
tali patti «sono diretti a stabilire preventivamente la causa dei vari negozi
che in futuro stipuleranno i conviventi nello svolgimento della loro convivenza
senza espressamente indicarne la causa». Sulla base di siffatta premessa se ne
è concluso che le clausole qui consigliate contrasterebbero con la regola
secondo cui «tutti i negozi, dato il principio della causalità delle
attribuzioni patrimoniali accolto dal nostro ordinamento, devono indicare, a
pena di nullità, la loro causa», che non potrebbe «essere semplicemente
determinabile mediante la relatio ad un precedente negozio normativo».
Sul punto
sarà sufficiente ricordare, tanto per portare un paio di esempi, come la nostra
più autorevole dottrina ammetta – e da tempo – la piena validità di negozi
traslativi a causa esterna [118], ipotesi alla quale può poi essere affiancata anche
quella del contratto normativo o programmatico, specie tenuto conto
dell’incontestabile dato normativo scolpito nell’art. 1321 c.c., da cui emerge
che, mercé lo strumento contrattuale, le parti possono non solo costituire od
estinguere, bensì anche «regolare» rapporti giuridici, senza che la
disposizione distingua a seconda che tali rapporti giuridici siano già in
essere o meno inter partes. Del resto, una volta ammessa la validità del
negozio d’accertamento nel nostro ordinamento, non si riuscirebbe a comprendere
per quale ragione tale istituto non dovrebbe avere cittadinanza nel sistema
vigente sol perché concluso in via preventiva rispetto ai negozi che si pongono
quali possibili fonti, a loro volta, di situazioni di incertezza [119].
Sempre in materia di istituti familiari o
para-familiari, va detto che la pattuizione di un regime analogo a quello
dell’impresa familiare non sembra ammissibile. Invero, l’assunzione per via
contrattuale dell’impegno a prestare la propria collaborazione continuativa in
cambio dei diritti previsti dall’art. 230-bis c.c. non sembra sfuggire
agli schemi (variamente applicabili, a seconda della concreta strutturazione
dell’accordo) del lavoro subordinato, dell’associazione in partecipazione o
della società. D’altro canto, non può negarsi che, se tra le parti esiste una
volontà diretta a formalizzare in qualche modo la partecipazione del convivente
«debole» all’impresa gestita dall’altro, sia più logica la costituzione di una
società, nella quale la posizione del primo potrebbe essere meglio tutelata
mediante la fissazione di una quota certa di partecipazione [120].
Per quanto riguarda il fondo patrimoniale, a
prescindere dalle corali considerazioni della dottrina sulla scarsa utilità
dell’istituto, che ha trovato concreta e rigogliosa applicazione praticamente
al solo fine di frodare i creditori [121], va detto che uno degli aspetti più qualificanti
dello stesso, cioè il vincolo di inalienabilità e di inespropriabilità sui beni
che ne formano oggetto, non potrebbe in ogni caso essere riprodotto, neppure
per via indiretta, in quanto effetto di norme (cfr. artt. 169 e 170 c.c.)
dirette a regolare i rapporti verso i terzi e dunque non riproducibili a mezzo
di uno strumento, quale quello contrattuale, destinato a generare effetti
esclusivamente inter partes (cfr. art. 1372 cpv., c.c.). E’ chiaro del
resto che una diretta applicazione degli artt. 167 ss. c.c. sarebbe comunque
esclusa dal fatto che l’istituto in oggetto non può prescindere dalla presenza
di una famiglia legittima.
10. Il contenuto dei contratti di convivenza: spunti in
tema di trust.
Proprio l’ostacolo segnalato in chiusura del §
precedente, relativo alla riferibilità del fondo patrimoniale alla sola
famiglia legittima, potrebbe forse essere aggirato mediante il ricorso allo
strumento del trust, istituto che tanta fortuna ha avuto nella
regolamentazione dei rapporti patrimoniali tra conviventi nei paesi di Common
Law. Si noti peraltro che, in quei sistemi, il richiamo alla figura in
esame ha avuto luogo proprio al fine di superare – nei casi sottoposti
all’esame dei giudici – l’assenza di esplicite pattuizioni, mediante
l’applicazione di procedimenti induttivi, se non addirittura di vere e proprie
finzioni (implied, resulting o constructive trust), che,
attingendo a piene mani dall’equity, hanno finito con il riconoscere ad
un partner diritti dominicali su cespiti patrimoniali acquistati
dall’altro in costanza di rapporto [122].
La costituzione in
Italia per via negoziale di un trust a beneficio di una famiglia di
fatto, pur in assenza di un qualsiasi elemento di estraneità (che non sia
quello della legge scelta dalle parti: ma qui il richiamo ad un supposto
«elemento di estraneità» sembra assumere il sapore di un artificio), sarebbe
immaginabile solo a condizione che si fornisse alla convenzione dell’Aja del
1985, ratificata con l. 16 ottobre 1989, n. 364 (entrata in vigore il 1°
gennaio 1992) [123], una lettura tale da consentire di ritenere
autorizzata la creazione di trusts «interni», superando le pur numerose
e gravi perplessità sollevate, relative – a tacer d’altro – al disposto
dell’art. 2740 c.c., al principio del numerus clausus dei diritti reali,
a quello della tassatività delle ipotesi in cui è consentito creare enti dotati
di autonomia patrimoniale, a quello della tassatività delle fattispecie
soggette a trascrizione, al profilo di un’eventuale antiteticità rispetto
all’art. 2744 c.c., in relazione alla possibilità di costituire, tramite trust,
nuovi meccanismi di garanzia, alla potenziale frizione con i principi del
nostro sistema successorio, pur nell’àmbito delle clausole c.d. di salvaguardia
di cui agli artt. 15 e ss. della Convenzione: si pensi, in particolare, al
divieto dei patti successori [124] e di sostituzione fedecommissaria [125], all’inapponibilità di pesi e condizioni sulla
legittima e, più in generale, alle norme a tutela della successione necessaria [126].
A ben vedere, la vera difficoltà sembra essere quella
di estrapolare da norme tipicamente di conflitto, quali quelle di cui alla
citata convenzione dell’Aja, una regola di diritto interno, applicabile ai casi
in cui non siano prospettabili collisioni tra diversi ordinamenti [127]. Il tema ha, come noto, scatenato furibondi dibattiti
dottrinali, sui quali non è possibile in questa sede soffermarsi [128]. Basti solo ricordare, a conferma dei dubbi
sull’accettabilità della tesi che asserisce la validità dei trusts «interni»,
che proprio quei lavori preparatori della Convenzione cui i fautori di tale
opinione fanno richiamo [129] contengono, in realtà, il chiaro riferimento al
potere del giudice di dichiarare la nullità di un trust «parce qu’il
estime qu’il s’agit d’une situation interne» [130]. A ciò s’aggiunga che pure l’argomento [131] fondato sulla disparità di trattamento ingenerata
dalla soluzione che non ammette il trust «interno» rispetto alle
situazioni caratterizzate da un obiettivo elemento di estraneità – nelle quali
non vi è dubbio che la validità del trust debba essere riconosciuta –
non sembra del tutto convincente. Pare infatti a chi scrive che scopo delle
norme di diritto internazionale privato sia (e si perdoni l’apparente
paradosso) proprio quello di creare disparità di trattamento, al fine di
adattare la soluzione alle peculiarità di una fattispecie obiettivamente
caratterizzata da elementi di estraneità e dunque obiettivamente diversa da
quella in cui tali elementi di estraneità sono assenti. In altre parole, è proprio
la presenza di elementi di estraneità «oggettivi» (e dunque distinti dal mero
capriccio delle parti) ad imporre (ai sensi del secondo, anziché del primo
comma, dell’art. 3 Cost.) un trattamento differenziato di situazioni
obiettivamente distinte. D’altro canto, sarà sufficiente riflettere sul fatto
che l’argomento fondato sulla disparità di trattamento, così come proposto in
dottrina, ove spinto alle sue estreme conseguenze, porterebbe puramente e
semplicemente all’inaccettabile risultato di una declaratoria di
incostituzionalità di tutte le norme di diritto internazionale privato.
Peraltro, anche volendo dare per scontata la soluzione
positiva all’interrogativo circa l’ammissibilità di trusts «interni» (e
comunque in ogni caso, avuto riguardo all’ipotesi di riconoscimento di trusts
dotati di elementi di estraneità diversi dal mero capriccio delle parti), va
tenuto presente che, nello specifico settore dei rapporti personali e
patrimoniali tra coniugi (e con la prole), l’art. 15 della Convenzione dell’Aja
stabilisce che «La Convention ne fait pas obstacle à l’application des
dispositions de la loi désignée par les règles de conflit du for lorsqu’il ne
peut être dérogé à ces dispositions par une manifestation de volonté, notamment
dans les matières suivantes: a) la protection des mineurs et des incapables; b)
les effets personnels et patrimoniaux du mariage». Tra queste disposizioni
troviamo, dunque, quelle imperative dettate dal codice in tema di convenzioni
matrimoniali [132] e tra queste ultime, in particolare, quella che pone
il divieto di costituzione, sotto ogni forma, di beni in dote (art. 166-bis
c.c.). In proposito appare piuttosto evidente come, tramite il ricorso al trust,
si potrebbe dar luogo ad apporti patrimoniali di provenienza della moglie (o della
sua famiglia), nella veste di costituente, in favore del marito (nella veste di
trustee), con conferimento di potere di amministrazione esclusivo in
capo a quest’ultimo, con vincolo di utilizzo e destinazione ad onera
matrimonii ferenda, con divieto di alienazione dei cespiti «segregati» ed
obbligo di restituzione per il caso di separazione legale o scioglimento del
vincolo matrimoniale [133]. In questa fattispecie appare difficilmente
contestabile l’operatività, anche in relazione ad un ipotetico trust «interno»,
della norma codicistica citata, proprio per effetto del rinvio di cui all’art.
15 della Convenzione dell’Aja [134].
E’ evidente, d’altro canto, che questo specifico
discorso non varrebbe per la famiglia di fatto, in relazione alla quale non
possono trovare applicazione né l’art. 166-bis c.c., né l’art. 15, lett.
b), della Convenzione dell’Aja. Peraltro sarebbe legittimo porsi
l’interrogativo sulla possibilità di estrapolare dal divieto codicistico di
costituzione di dote un principio d’ordine pubblico (interno e internazionale)
più ampio, che legando la norma ordinaria al canone costituzionale di pari
dignità tra uomo e donna anche al di fuori dell’unione coniugale, vieti
comunque la stipula di negozi fondati sull’idea (rectius: sul
pregiudizio) secondo cui la donna (o, per essa, la sua famiglia), dovrebbe in
qualche modo «compensare» con un apporto patrimoniale il «peso» che essa viene
a costituire per l’uomo con la creazione di una nuova famiglia (legittima o di
fatto) [135].
Poste dunque tutte queste premesse e avvertenze, se si
dovesse arrivare a riconoscere cittadinanza all’istituto del trust
«interno», il costituente (uno dei conviventi, o entrambi, ovvero anche un
terzo), potrebbe avvalersene per separare (o, secondo l’orrida terminologia in
voga, «segregare») parte del proprio patrimonio, dettando al trustee
norme a beneficio dell’unione di fatto e magari provvedere anche in ordine
all’eventuale scioglimento di quest’ultima. Del resto non è raro rinvenire
nella letteratura favorevole alla ammissibilità di trusts «interni»
specifiche applicazioni di tali fenomeni alla convivenza more uxorio.
Così si è ipotizzato il caso dell’uomo che intenda provvedere alla propria
compagna non abbiente, senza tuttavia fare danno alla propria famiglia
legittima e al tempo stesso commisurando le elargizioni alle effettive
necessità della convivente [136], oppure, si è prospettato un complesso caso pratico
di trust finalizzato ad eseguire l’obbligazione naturale gravante su un
convivente dotato di un patrimonio assai più consistente di quello della
propria compagna [137]. Ancora, si è proposto di «abbinare» la creazione di
un trust a contratti quali l’assicurazione sulla vita o il deposito
bancario: la designazione di un fiduciario quale beneficiario della polizza
sulla vita, infatti, garantirebbe il settlor che l’arricchimento del
beneficiario avvenga attraverso la corresponsione di utili prodotti in forza di
un’oculata amministrazione delle somme dovute dall’assicuratore [138], mentre l’intestazione di un deposito bancario ad un bare
trustee, a beneficio prima del disponente e poi del partner
superstite di questi, risolverebbe i problemi relativi al residuo non prelevato
in vita, di cui il titolare dovrebbe disporre per testamento (nel caso di
cointestazione di conto bancario congiunto semplice con il partner, nel
quale gli intestatari possono ritirare l’intera somma congiuntamente e,
disgiuntamente, solo una porzione pari alla propria quota), eliminando altresì
i rischi di un prelevamento totale da parte del partner (nel caso di
conto congiunto solidale) [139].
In vista di una possibile rottura si dovrebbero poi inserire apposite
previsioni volte a disciplinare la sorte dei cespiti patrimoniali, magari
prevedendo una qualche forma di «ultrattività» del trust a tutela della
parte debole e/o della prole. In ogni caso – a scanso di pericolosi equivoci –
sarebbe opportuno (e la regola vale anche per i temi che saranno trattati nel
prossimo §) individuare in maniera esplicita e certa le situazioni nelle quali
la convivenza si dovrebbe considerare come venuta meno (invio di una lettera,
fissazione di residenze anagrafiche distinte, ecc.).
Una delle ragioni per le quali parte della dottrina
raccomanda la creazione di trusts tra conviventi è rappresentata dalla
possibilità di far assumere ad essi una valenza post mortem, il che
peraltro – a parte la questione del possibile contrasto con il divieto dei
patti successori, quanto meno sotto il profilo della frode alla legge – può
porre problemi in relazione al profilo della tutela dei legittimari. Al
riguardo si precisa in dottrina che, mentre nel negozio di trasferimento dei
beni dal settlor al trustee, non è rintracciabile alcuna
liberalità, per mancanza dell’animus
donandi in capo al primo e dell’elemento oggettivo dell’arricchimento in
capo al secondo, costituirebbe, invece, donazione indiretta l’attribuzione che
il settlor attua a favore del beneficiario [140]. Tuttavia, la stessa dottrina ammette che assai
problematica appare la tutela dei legittimari nelle diverse fattispecie che la
pratica propone [141]. Sono, invece, sicuramente soggetti a riduzione da
parte dei legittimari quei trusts che siano stati costituiti per
testamento: d’altro canto, le norme nazionali sulle successioni sono fatte
esplicitamente salve dall’art. 15 della Convenzione dell’Aja. Comunque, si
consiglia l’inserimento, nell’atto istitutivo, di una clausola di salvaguardia
che faccia obbligo, al fiduciario o al beneficiario finale del patrimonio, di
garantire i diritti dei legittimari del disponente, ove lesi al momento della
sua morte, integrando automaticamente, con beni o denaro, pur nei limiti del
valore del trust, la quota loro riservata dalla legge. Come si avrà
peraltro modo di vedere [142], la tutela del convivente superstite sembra attuabile
anche mercé negozi o istituti maggiormente «collaudati» nel nostro ordinamento.
11. Il contenuto dei contratti di convivenza:
pattuizioni in vista di un’eventuale rottura del rapporto.
Alcune normative straniere incoraggiano espressamente
la conclusione di accordi in contemplation di una possibile rottura del
rapporto di convivenza. E’ il caso, ad esempio, degli artt. 3 (per le
convivenze eterosessuali) e 22 (per le convivenze omosessuali) della già citata
legge catalana n. 10 del 15 luglio 1998 (d’unions estables de parella/de uniones estables de pareja), secondo cui i conviventi, sin dall’inizio della
loro unione, «pueden regular las compensaciones económicas que
convengan en caso de cese de la convivencia con el límite de los derechos que
regula este capítulo, que son irrenunciables hasta el momento en que son
exigibles». Ben prima di tale disposizione, nel 1984, il De Facto
Relationships Act del Nuovo Galles del Sud (Australia) aveva stabilito
(art. 44) che un accordo di convivenza potesse essere «made in contemplation of
the termination of a domestic relationship». Si noti che proprio tale
disposizione (ora inserita nel Property (Relationships) Act) determinò
l’introduzione in Australia dei prenuptial agreements, stipulati anche
eventualmente in contemplation of divorce, per effetto della riforma di
cui al Family Law Amendment Bill 1999, fondata sulla constatazione per
cui «it seemed ‘illogical’ that parties to a de facto relationship may
have contractual rights or entitlements enforceable by a court, whereas
agreements by parties who intend to marry will generally after marriage not be
recognised as binding or enforceable by the Family Court» [143].
Anche in dottrina la promessa dell’effettuazione di
prestazioni di carattere economico per il periodo successivo alla rottura viene
generalmente ritenuta valida [144]. Ma, a ben vedere, occorre ancora distinguere due
ipotesi. Si profila infatti la necessità di evitare che la pattuizione possa
essere qualificata come clausola penale per il caso di abbandono (giustificato
o ingiustificato: come si è visto non fa differenza): ché, in tale fattispecie,
la disposizione sarebbe nulla in quanto eccessivamente limitativa della libertà
del contraente. Diverso è il discorso ogni qual volta sia possibile appurare
che l’intento delle parti non era diretto a configurare uno strumento di
dissuasione per il convivente intenzionato a por fine al ménage, bensì a predisporre una forma di «soccorso» per le
necessità del soggetto destinato a trovarsi sprovvisto della fonte di reddito
su cui prima poteva contare [145].
Si è da parte di taluno suggerito di effettuare un
richiamo alla normativa in tema di assegno di separazione o di divorzio [146]. Ora, se pure non esistono ostacoli in linea di
principio a riconoscere la validità di un accordo del genere, va subito
precisato che non appaiono riproducibili per via negoziale tutti quegli
strumenti tecnici approntati dal legislatore a tutela dei rapporti giuridici
sussistenti tra separati o divorziati (obbligo di prestare garanzia, sequestro,
ordine di pagamento al terzo debitore del coniuge, o ex coniuge, obbligato:
cfr. artt. 156, commi quarto e ss. c.c.; 211, l. 19 maggio 1975, n. 151; art.
8, l. 1 dicembre 1970, n. 898, così come sostituito dall’art. 13, l. 6 marzo 1987,
n. 74) [147]. Allo stesso modo, non sarà possibile attribuire
alcun rilievo a un ipotetico «addebito» della rottura, per le già esposte
ragioni d’ordine pubblico. Piuttosto, sarà più opportuno fissare nello stesso
contratto di convivenza l’an e il quantum dell’assegno o, quanto meno,
parametri certi per la sua determinazione (per esempio, una percentuale del
reddito annuo risultante dall’ultima dichiarazione ai fini IRPEF), così come la
durata e le cause di estinzione dello stesso (per esempio, passaggio a nuova
convivenza o celebrazione di matrimonio da parte dell’avente diritto e/o
dell’obbligato) [148].
Un’apposita clausola potrebbe concernere
l’attribuzione del diritto di abitazione sulla casa in cui si svolgeva la
convivenza per il periodo successivo alla rottura del ménage. Al riguardo, occorre distinguere a seconda che l’immobile
sia in proprietà di uno dei conviventi (o di entrambi), ovvero formi oggetto di
un rapporto locatizio. Nella prima ipotesi, la relativa pattuizione potrebbe
configurare, in alternativa, un diritto reale di abitazione, ovvero un
comodato, in ogni caso sotto condizione sospensiva della rottura del rapporto [149]. Se invece l’immobile fosse semplicemente detenuto in
conduzione, l’accordo sortirebbe l’effetto di una cessione condizionata del
rapporto locatizio, avente anche un valore «esterno», nei confronti del
locatore [150]. Siffatto accordo potrebbe pure essere concluso, ad
avviso dello scrivente, in via preventiva. Un analogo patto, diretto ad
attribuire il diritto di abitazione sulla ex residenza comune, di proprietà di
uno dei conviventi (o di entrambi), per il caso di cessazione del rapporto
determinata dalla morte di quest’ultimo [151], se da un lato potrebbe in un certo senso «porre
rimedio» al mancato riconoscimento di un diritto del convivente superstite,
verrebbe dall’altro a scontrarsi irrimediabilmente con il divieto dei patti
successori.
12.
La manifestazione del consenso. Forma e prova del contratto di convivenza.
Qualsiasi accordo tra i conviventi diretto a regolare
gli aspetti della vita in comune deve risultare da un’esplicita manifestazione
di volontà delle parti, non potendosi condividere la tesi (isolata) di chi
vorrebbe ammettere la possibilità di desumere la conclusione di un contratto di
convivenza dal comportamento dei partners,
«come espressione di una loro concorde volontà attuosa» [152].
In altri termini, secondo la teoria qui criticata, la
semplice instaurazione di una convivenza more
uxorio dovrebbe indurre a ritenere
l’esistenza di un accordo implicito diretto, quanto meno, alla prestazione
della contribuzione reciproca, se non alla ripartizione in misura uguale degli
incrementi di ricchezza accumulati durante il rapporto. La proposta riecheggia
assai da vicino la tesi dell’implied cohabitation contract, che tanta fortuna ha avuto oltre Oceano. Nata molti anni
or sono per risolvere i problemi posti dalla collaborazione spontaneamente
prestata da alcuni appartenenti a comunità familiari agricole [153], la teoria in oggetto trovò la sua consacrazione nel
celebre caso Marvin v. Marvin
(1976) [154], con riguardo alla domanda svolta dalla ex convivente
del noto attore Lee Marvin, la quale aveva preteso una qualche forma di
partecipazione agli incrementi patrimoniali conseguiti da quest’ultimo durante
il ménage. La Corte Suprema della
California decretò in proposito la possibilità per il giudice di «inquire into
the conduct of the parties to determine whether that conduct demonstrates an
implied contract or implied agreement of partnership or joint venture, or some
other tacit understanding between the parties», anche se poi, nel caso di
specie, negò che un simile accordo potesse essere desunto sulla base del
comportamento tenuto dalla coppia. Sulla scia di questo precedente
l’applicazione dell’implied contract alla famiglia di fatto ha
portato all’accoglimento di numerose domande proposte da ex conviventi «deboli»
a titolo di compenso per la collaborazione prestata.
Le conclusioni dei giudici d’oltre Oceano, favorite da
quella labilità di confini tra contract
e quasi-contract caratteristica dei sistemi di common law [155], non possono però essere trasposte nei sistemi di
matrice romanistica, nei quali si suole pretendere che la manifestazione
dell’intento negoziale sia chiara ed inequivocabile [156]. Ora, proprio l’originario rifiuto dei conviventi more uxorio
di sottoporre i reciproci rapporti a effetti giuridici di sorta impedisce di
desumere dal loro comportamento una volontà negoziale. L’assunto è del resto
suffragato anche dalla constatazione che non risulterebbero comunque in alcun
modo determinate, né determinabili, la natura e la misura della
controprestazione dovuta in cambio dei servizi prestati dal convivente «debole»
e dunque verrebbe meno uno degli elementi essenziali di quel contratto la cui
conclusione si vorrebbe argomentare dall’instaurazione dell’unione
extramatrimoniale.
Come la teoria del contratto implicito, così quella
del contratto di fatto si prefigge di superare l’ostacolo rappresentato
dall’assenza di un esplicito accordo tra le parti interessate, in tutte le
situazioni in cui la «coscienza sociale» avverte la necessità di far insorgere
tra di esse dei rapporti giuridici. Con tale espressione si suole infatti
indicare quel rapporto negoziale instaurato non già mercé lo scambio dei
consensi, bensì per mezzo dell’esecuzione di una delle due prestazioni (o di
entrambe) non qualificata da una precedente proposta della controparte. Lo
schema sembrerebbe quindi calzare a pennello, specie ponendo mente al caso
della prestazione di lavoro domestico da parte di un convivente, non preceduta
da alcuna manifestazione di volontà, ma di cui l’altro si sia concretamente
avvantaggiato: a carico di quest’ultimo si potrebbe dunque affermare
l’esistenza di un’obbligazione ex contractu di corrispondere una
«retribuzione», vuoi in denaro, vuoi mediante qualche altra forma di
contribuzione.
Ma nemmeno tale conclusione può accogliersi. A parte
infatti il rilievo che la teoria dei faktischen Vertragsverhältnisse
sembra ormai abbandonata anche in Germania, ove pure aveva visto la luce, va
rilevato come la nostra dottrina abbia sempre manifestato la propria
propensione a risolvere le situazioni solitamente ricondotte alla figura del
rapporto contrattuale di fatto mediante un approccio di tipo «tradizionale»,
vale a dire facendo leva sulla concludenza o meno del comportamento posto in
essere dagli interessati.
Non solo. Come è stato messo in evidenza in altra
sede, nel nostro codice non mancano certo istituti che rispondono allo schema
del contratto di fatto, sostanziandosi in rapporti che, pur non sorgendo dallo
scambio di contrapposte dichiarazioni, vengono ciò non di meno disciplinati
alla stregua di contratti, come la mediazione, o i fenomeni di cui agli artt.
2126 e 2332 c.c. in materia, rispettivamente, di lavoro subordinato e società,
o, ancora, come nel caso dell’attuazione unilaterale di un rapporto locativo
dopo la sua scadenza, ai sensi dell’art. 1591 c.c. A ben vedere, si tratta di
fattispecie di natura quasi-contrattuale, cui però il legislatore ha ritenuto
di ricollegare la disciplina di singoli contratti tipici. Ora, proprio per il
già evidenziato carattere eccezionale delle ipotesi quasi-contrattuali non
sembra lecito ammettere, al di fuori di tali schemi, che un contratto si formi
sulla base della sola attuazione, vuoi unilaterale, vuoi bilaterale, non
preceduta da una proposta. Un contratto di fatto tra conviventi potrebbe dunque
apparire astrattamente configurabile soltanto laddove si volesse invocare una
di quelle ipotesi normative testé enunciate: società o lavoro subordinato: ma
di questo argomento si è già discorso in altra sede [157]. Per il resto valgano le lapidarie conclusioni di uno
studioso tedesco: «Die Unsicherheiten, die mit einem angeblich geschlossenen
Zusammenlebens- Vertrag verbunden sind, lassen diese Konstruktion zudem auch
nicht im Interesse der beteiligten Personen als ratsam erscheinen» [158].
In linea generale non è richiesto, per la
manifestazione di volontà in esame, il rispetto di speciali regole di forma.
Così non è necessario l’atto pubblico, proprio perché, almeno di regola, con
tale negozio i conviventi intendono disciplinare i reciproci rapporti a
prescindere da ogni spirito di liberalità [159]
Il rispetto della forma solenne appare poi
consigliabile, al fine di evitare successive contestazioni, anche nel caso di
un semplice squilibrio tra il valore delle prestazioni poste in corrispondenza
biunivoca nell’ambito del contratto di convivenza (per esempio: la
corresponsione da parte dell’uomo di una somma a titolo di contribuzione per le
necessità della donna superiore al valore del lavoro domestico che la stessa si
impegna a prestare), anche se, stricto
iure, le formalità della donazione
non andrebbero ritenute necessarie in ossequio alla teoria che configura il negotium mixtum cum donatione alla stregua di una donazione
indiretta [160]. In ogni caso, la redazione di un documento scritto
appare raccomandabile per evidenti ragioni d’ordine probatorio.
Proprio in ordine a quest’ultimo aspetto, va rilevato
come la dottrina e la giurisprudenza, tanto in Italia che in Francia, tendano a
ravvisare nella convivenza more uxorio, anche se in concorso con altri
elementi, una situazione di «impossibilità morale (...) di procurarsi una prova
scritta» tale da consentire, ai sensi dell’art. 2724, n. 2 c.c. (e dell’art.
1348 del Code), la dimostrazione per
testi o presunzioni di qualsiasi contratto [161] concluso tra i conviventi e dunque anche di un
negozio diretto a regolare ex novo i rispettivi rapporti patrimoniali
o a modificare i preesistenti, pur se conclusi per iscritto [162]. Non sembra dunque inopportuno suggerire, a chi
volesse evitare di doversi trovare un giorno ad affrontare l’infido terreno
della prova testimoniale, di inserire nel documento contenente il contratto di
convivenza una clausola che vincoli le parti al rispetto della forma scritta (ex art. 1352 c.c.) nel caso le stesse
decidessero di apportare modifiche di sorta agli accordi raggiunti.
13.
Scioglimento del contratto di convivenza e cessazione del ménage di fatto.
Passando all’esame dei problemi posti dallo
scioglimento del contratto di convivenza, a parte l’ipotesi del mutuo dissenso [163], v’è da chiedersi se sia opportuno legare
espressamente la cessazione degli effetti dell’accordo anche a situazioni
diverse, che avessero a verificarsi durante l’unione e in particolare alla
rottura del ménage.
Molti dei modelli stranieri sembrano porre una certa
enfasi sul punto, senza peraltro indicare un rimedio di carattere unitario.
Secondo taluni, infatti, la soluzione andrebbe cercata in una espressa
condizione risolutiva, legata al semplice abbandono della vita comune (che
comunque deve ritenersi verificabile in qualsiasi momento e senza restrizioni
di sorta) [164], mentre per altri occorrerebbe invece attribuire un
diritto di recesso ad nutum in capo a ciascuno dei contraenti,
che sarebbe così tenuto a informare l’altro secondo modalità stabilite [165]. La risposta a tale interrogativo non può che essere
data caso per caso. Invero, se il rapporto è strutturato come a prestazioni
corrispettive (si pensi all’obbligo reciproco di contribuzione), un’adeguata
soluzione sembra già rinvenibile nell’ambito dei rimedi sinallagmatici [166], tra cui, in particolare, l’exceptio inadimpleti contractus e la facoltà di sospensione
dell’esecuzione, ex artt. 1460 e 1461
c.c. Nelle altre ipotesi (si pensi a un impegno di mantenimento unilaterale, o
a un contratto diretto all’instaurazione di un regime analogo a quello della
comunione legale), appare invece opportuno legare lo scioglimento del contratto
all’esercizio di uno ius poenitendi rimesso a ciascun convivente
da esercitarsi mediante atto scritto da comunicare alla controparte e con
effetto (per evitare pericolose incertezze) dalla data della comunicazione
stessa [167]. Nessuna obiezione sembra possa muoversi alla pattuizione
di una clausola compromissoria, ovvero di deroga alla competenza territoriale
dell’autorità giudiziaria, nonché all’inserimento (consigliabile laddove il
negozio venga perfezionato dopo che si sia già iniziato a convivere) di un
accordo di carattere transattivo in relazione ai rapporti pregressi [168].
Nel caso le parti non abbiano previsto l’ipotesi di
cessazione del ménage, c’è da
chiedersi se in qualche modo si possano interrompere gli eventuali rapporti di
durata a titolo gratuito, specie qualora il soggetto cui è imputabile la
rottura sia nel contempo il beneficiario delle attribuzioni. L’unico strumento
astrattamente ipotizzabile, soprattutto in relazione a quegli impegni di lunga
durata (o addirittura di carattere vitalizio) la cui originaria previsione
abbia tratto la propria ragion d’essere da un legame affettivo ormai cessato,
sarebbe quello della presupposizione. Ma la soluzione deve essere scartata, per
effetto dell’impossibilità di ravvisare il fondamento negoziale degli atti in
oggetto nell’affidamento (fallace) delle parti su di un (improbabile) carattere
durevole dell’unione [169].
Sempre nel campo delle donazioni si pone il problema
di un’eventuale revocabilità per ingratitudine nei confronti del partner responsabile del naufragio del rapporto.
Con riguardo alle donazioni tra coniugi, dottrina e giurisprudenza tendono a
ravvisare la presenza di un’«ingiuria grave» ex art. 801 c.c. nella violazione di quel dovere giuridico di
fedeltà [170], che invece, nell’ambito della relazione more uxorio,
non ha (né può avere, nemmeno ex contractu) cittadinanza. Ciò peraltro
non esclude ancora che un obbligo di tal genere si instauri tra i conviventi
sul piano morale. Ne consegue che – fermo restando il diritto di por fine in
ogni momento all’unione – non può negarsi rilievo al comportamento del soggetto
che durante il ménage intrattenga
relazioni con terze persone all’insaputa del partner.
14.
Contratti di convivenza ed effetti post
mortem.
Una delle clausole di cui all’estero viene con maggior
frequenza raccomandato l’inserimento nei contratti di convivenza concerne la
previsione di effetti giuridici destinati a prodursi dopo la morte di uno dei
contraenti e a beneficio dell’altro, quale strumento al fine di assicurare la
tranquillità economica del partner
superstite [171]. Nel nostro ordinamento, però, la proposta viene
inevitabilmente a scontrarsi con il divieto dei patti successori [172] il quale, come noto, investe non soltanto i negozi
con cui un soggetto dispone della propria successione, bensì anche quelli con i
quali ci si obbliga a istituire erede taluno [173], come in quei casi, su cui la giurisprudenza ha già
avuto modo di pronunziarsi, che vedevano la promessa di istituzione di erede
scambiarsi con l’impegno della controparte di accudire alle faccende domestiche
del de cuius [174], ovvero di fornire a quest’ultimo alloggio e
assistenza per il resto dei suoi giorni [175].
Ma non basta. La dottrina e la giurisprudenza
dominanti vanno da tempo affermando la nullità non solo del patto successorio,
ma anche del testamento che vi abbia dato esecuzione, dal momento che la
presenza di un impegno a testare in un determinato modo escluderebbe la
spontaneità dell’atto di ultima volontà , pur restando salva la possibilità
(per il vero assai remota) di una convalida ex
art. 590 c.c. [176]. La gravità di tali conseguenze deve indurre dunque
alla massima attenzione circa l’eventuale predisposizione nel contratto in
esame di effetti destinati a operare sul patrimonio di uno dei conviventi dopo
la sua morte. Al riguardo, c’è da chiedersi quale sia l’interesse dei partners a concludere un patto
successorio e in quale modo lo stesso possa essere soddisfatto mediante negozi
che non siano vietati, né direttamente, né mediante la regola della frode alla
legge.
Sul primo interrogativo va detto che l’interesse in
discorso sembra essere quello di operare trasferimenti di diritti che godano, a
un tempo, delle due caratteristiche dell’irrevocabilità, da un lato, e della
operatività dal momento della morte del dante causa dall’altro [177]. E’ chiaro che il primo dei due obiettivi potrebbe
essere agevolmente raggiunto mercé il contratto (si pensi soprattutto alla
donazione), che presenta però anche l’«inconveniente» di determinare la perdita
immediata dei diritti trasferiti, mentre il secondo potrebbe essere conseguito
con il testamento, che peraltro è un atto per sua natura revocabile usque ad vitae supremum exitum.
I requisiti comunemente indicati come caratteristici
dei patti successori istitutivi (o confermativi) sono, come noto, i seguenti:
a) che la convenzione sia stipulata prima dell’apertura della successione; b)
che con essa il promittente abbia inteso provvedere in tutto o in parte alla
propria successione, privandosi così dello ius
poenitendi; c) che l’acquirente abbia
contrattato o stipulato come avente diritto alla successione stessa; d) che i
diritti oggetto del patto facciano parte di una successione ancora da aprirsi;
e) che l’acquisto avvenga successionis
causa, e non ad altro titolo [178]. Di particolare importanza appare dunque quest’ultimo
elemento, posto che i contratti di cui si discute sono sicuramente stipulati
prima dell’apertura della successione e (almeno generalmente) su diritti
destinati a far parte della stessa. Occorre perciò chiedersi se vi siano atti
destinati a produrre effetti (o, quanto meno, taluni effetti) solo dopo la
morte del titolare dei diritti alienati, ma che possano ciò non di meno
qualificarsi come inter vivos.
Al riguardo è stata individuata una nuova categoria di
negozi tra vivi, definiti post mortem, nei quali l’evento del decesso
di uno dei contraenti non è considerato o elevato dalle parti a causa
dell’attribuzione, bensì è ritenuto un mero requisito condizionante la
produzione degli effetti definitivi propri del negozio, senza escludere la
produzione di effetti limitati o prodromici, peculiari al contratto sottoposto
a condizione sospensiva, consistenti nell’aspettativa tutelata dalla legge
(art. 1356 c.c.) dell’acquisto del diritto. Non è questa la sede per una
disamina dei singoli istituti: sarà sufficiente, ai fini della presente
indagine, un richiamo a quelli che maggiormente si prestano a soddisfare le
esigenze di tipo successorio proprie della coppia di fatto.
Si è già avuto modo di dire che la donazione pura e
semplice è (problemi di riduzione a parte) l’istituto destinato a realizzare
nel migliore dei modi l’interesse del beneficiario, in quanto atto, a
differenza del testamento, essenzialmente irrevocabile (se non nelle
circoscritte ipotesi dell’ingratitudine e della sopravvenienza di figli); essa
presenta peraltro la già segnalata controindicazione di privare immediatamente
il donante della disponibilità dei beni donati, cui il disponente in vita non
intende invece rinunziare. Quest’effetto indesiderato può essere, almeno in
parte, evitato per mezzo della donazione con riserva di usufrutto a vantaggio
del donante (art. 796 c.c.), la cui validità è fuori discussione, in quanto in
essa il trasferimento della proprietà è immediato [179]. Dibattuta è invece la possibilità di sottoporre gli
effetti di una donazione alla morte del disponente: tale eventualità va però
negata, tanto con riguardo alla cosiddetta donatio
mortis causa, la quale non si distingue da un patto successorio istitutivo
a titolo gratuito [180], quanto con riferimento alla liberalità sottoposta
alla condizione della morte (si moriar) o della premorienza (si praemoriar)
del donante [181], la cui invalidità andrebbe comunque affermata sotto
il profilo della frode alla legge [182].
Uno strumento che può consentire di raggiungere
lecitamente risultati sostanzialmente analoghi a quelli di un patto successorio
è costituito dal contratto a favore di terzo con prestazione da effettuarsi
dopo la morte dello stipulante (art. 1412 c.c.), e – in particolare –
dall’assicurazione sulla vita a favore di un terzo (art. 1920 ss. c.c.). In
entrambi i casi, infatti, la causa dell’acquisto da parte del terzo (cioè il
convivente superstite) è rappresentata non già dalla morte dello stipulante, ma
dal contratto. Inoltre, ogni dubbio in punto frode alla legge è eliminato
dall’evidente diversità di «risultati giuridici» rispetto al patto successorio,
posto che il rapporto contrattuale intercorre non già fra il beneficiario e lo
stipulante, ma tra quest’ultimo e il promittente. Per giunta, il diritto
acquistato, stando almeno all’opinione prevalente, non proviene dal patrimonio
dello stipulante, ma è un rapporto autonomo che trae la sua origine dal
contratto e che si trasmette al terzo inter
vivos [183]. La tranquillità del convivente «debole» ben potrà,
dunque, essere garantita anche per il periodo successivo alla morte del partner per mezzo di un contratto di
assicurazione sulla vita di quest’ultimo, l’impegno a sottoscrivere (magari
reciprocamente) il quale può essere assunto nel contratto stesso di convivenza [184]. Con riferimento a quest’ultima clausola andrà
osservato che un eventuale inadempimento rispetto a tale obbligo esporrebbe gli
eredi del soggetto inadempiente al risarcimento dei danni verso il superstite,
che potrebbe così richiedere a essi il pagamento della somma che avrebbe
ottenuto qualora il de cuius avesse concluso l’assicurazione.
Sempre in relazione al contratto a favore di terzi e a
quello di assicurazione sulla vita, si potrebbe suggerire di inserire nello
stesso contratto di convivenza (per iscritto) quella rinunzia al potere di
revoca del beneficio attribuito al terzo prevista dagli artt. 1412 e 1921, co.
2, c.c. per il caso la prestazione debba essere effettuata dopo la morte dello
stipulante, e che, secondo taluni, costituirebbe un’eccezione al divieto dei
patti successori [185]; ad essa dovrebbe accompagnarsi, nell’atto medesimo,
la dichiarazione del beneficiario di voler profittare del beneficio,
dichiarazione che, ai sensi delle disposizioni testé citate, produce l’effetto
di paralizzare un’eventuale revoca [186].
Un’ulteriore applicazione del contratto a favore di
terzi può essere ravvisata nella costituzione di una rendita vitalizia a
vantaggio del convivente, oppure di un vitalizio alimentare, in relazione ai
quali occorrerà però avere l’accortezza di pattuire espressamente
l’intrasmissibilità del potere di revoca agli eredi dello stipulante [187]. Non va però trascurato che i negozi in questione –
come del resto ogni disposizione a favore di terzi compiuta animo donandi – assumono il carattere di donazioni indirette e sono
quindi assoggettabili a riduzione [188].
Abbandonando invece la figura del negozio a favore di
terzo, ci si imbatte subito in due rimedi suggeriti in Francia, ma che non
sembrano avere ancora suscitato interesse da noi. Il primo concerne il cosiddetto
acquisto en tontine, con cui si pattuisce, all’atto della stipula di un
contratto di acquisto da parte di entrambi i conviventi, che il primo di essi a
morire si considererà come non fosse mai stato titolare del diritto, che si
riterrà invece come sin ab initio trasferito in capo al solo
superstite. Un medesimo avvenimento, cioè la morte di uno dei due partners, fungerebbe così, al contempo,
da condizione risolutiva dell’acquisto in capo al premorto e sospensiva del
trasferimento in capo all’altro. La clausola, non prevedendo (a differenza di
quella detta d’accroissement, colpita da nullità), un trasferimento mortis causa, sfugge al divieto dei patti successori [189]. L’altro espediente suggerito dalla pratica
d’Oltralpe è costituito dall’acquisto «incrociato» in capo, rispettivamente,
all’uno e all’altro dei conviventi, della nuda proprietà su di una metà del
bene e dell’usufrutto sulla rimanente metà. Ne consegue che, alla morte del
primo degli acquirenti, il superstite acquista la proprietà piena della quota
di cui era nudo proprietario, mentre rimane usufruttuario dell’altra quota,
così evitando di perdere la disponibilità del bene stesso [190].
Un’ultima via per eludere
in qualche modo le aspettative dei legittimari può essere costituita dalla…
trasformazione del convivente in legittimario mediante adozione, ovviamente a
condizione che di tale atto sussistano i presupposti. Il rimedio è però
sconsigliabile per il suo carattere intimamente irreversibile: in caso di
rottura, invero, i partners si
vedrebbero condannati, paradossalmente, a restare uniti per il futuro da un
rapporto indissolubile [191].
15. I
contratti e i patti di convivenza nella prospettiva de iure condendo:
brevi cenni.
In conclusione di questo
scritto potrà farsi un breve cenno ad alcune delle varie proposte presentate al
Parlamento italiano nel corso della XIV Legislatura per il riconoscimento
legislativo degli accordi (o patti) di convivenza. Tra queste, in particolare,
andranno qui ricordate la «proposta Belillo» (C/795, Disciplina dei patti di
convivenza), presentata il 13 giugno 2001 di iniziativa dell’on. Belillo e
altri, la «proposta Grillini» (C/3296, Disciplina del patto civile di
solidarietà e delle unioni di fatto), presentata il 21 ottobre 2002 di
iniziativa dell’on. Grillini e altri, nonché la «proposta Rivolta» (C/4334, Disciplina
del patto civile di solidarietà), presentata il 2 ottobre 2003, di
iniziativa dell’on. Rivolta e altri. A queste sia consentito aggiungere la più
risalente proposta «privata», redatta dallo scrivente il 28 febbraio 2000,
nell’ambito dei lavori di una riunione di esperti convocata presso il
Dipartimento per le Pari Opportunità della Presidenza del Consiglio dei
Ministri, inviata in pari data all’Ufficio Legislativo del suddetto Dipartimento
e pubblicata nel proprio sito web il 10 giugno 2000 [192].
Iniziando dalle questioni di tipo più
squisitamente terminologico, andrà detto che, come già anticipato, il
riferimento al concetto di «patto» o di «accordo» appare necessario laddove si
intenda far produrre all’intesa effetti di carattere non solo patrimoniale, ma
anche personale: un campo, questo, in cui l’intervento normativo è
indispensabile per supplire ai limiti imposti dal ricorso allo strumento di cui
all’art. 1321 c.c. che, tra gli elementi essenziali del paradigma contrattuale,
annovera, come noto, la patrimonialità del rapporto. D’altro canto, fornire un
esplicito ed apposito ubi consistam legislativo ai patti di convivenza,
anche per ciò che attiene agli aspetti più squisitamente patrimoniali, appare
importante, avuto riguardo ai dubbi di cui si è dato sin qui conto: dubbi, come
si è visto, tutti superabili, ma che un «tratto di penna» del Legislatore
potrebbe forse mettere definitivamente (e finalmente!) a tacere.
Per ciò che attiene,
dunque, ai profili di carattere personale, si potrà ricordare che la «proposta
Grillini», dopo aver definito all’art. 2 il «patto civile di solidarietà» come
«l’accordo tra due persone di sesso diverso o dello stesso sesso stipulato al
fine di regolare i propri rapporti personali e patrimoniali relativi alla loro
vita in comune», stabilisce all’art. 10 (Rapporti personali) che «Ciascun
contraente del patto civile di solidarietà è tenuto a comportarsi secondo buona
fede e correttezza, collaborando alla vita di coppia, in ragione delle proprie
capacità e possibilità». La «proposta Belillo», dopo aver previsto [193], all’art. 1, co. 2, che
«Gli accordi possono altresì disciplinare aspetti non patrimoniali, con le
modalità e nei limiti previsti dalla presente legge», si scorda però poi di
trattare della questione per ciò che attiene ai rapporti tra i partners,
mentre la «proposta Rivolta» sembra voler deliberatamente disinteressarsi della
questione. La proposta pubblicata dallo scrivente, dopo aver previsto, all’art.
1, co. 2, che gli accordi fra conviventi «possono coinvolgere anche profili di
carattere non patrimoniale, nei limiti di quanto stabilito dalla presente
legge», prosegue, all’art. 2, stabilendo che «I conviventi possono pattuire
che, durante il loro rapporto, entrambi saranno tenuti, ciascuno in relazione
alle proprie sostanze e alla propria capacità di lavoro professionale o
casalingo, a contribuire ai bisogni della convivenza, nonché a prestarsi
reciproca assistenza morale e materiale ed a collaborare nell’interesse della
famiglia».
L’obbligo di
contribuzione materiale è poi previsto anche dall’art. 11, co. 1, della
«proposta Grillini», dall’art. 2 della «proposta Belillo», nonché dall’art.
230-octies c.c. contenuto nella «proposta Rivolta», sulla scorta del
progetto presentato dallo scrivente, che peraltro vi aggiunge l’espressa
possibilità per le parti di prevedere «clausole penali per il caso di
violazione degli obblighi assunti»: clausole che, in mancanza di una procedura
di «addebito» (istituto, questo, che peraltro sembra avviato sul viale del
tramonto anche nell’ambito della famiglia legittima) servirebbero a porre in
evidenza il carattere giuridicamente vincolante degli obblighi al riguardo
contratti, oltre che ad assicurarne l’esatto assolvimento.
Il regime patrimoniale
di cui alla «proposta Grillini» si fonda (cfr. art. 11, co. 3 e 4) sulla
libertà di scelta tra il regime di «comunione legale regolata dal libro I,
titolo VI, capo VI, sezione III, del codice civile» (regime che – a ben vedere
– non potrebbe più definirsi, nel caso di specie, come «legale», nascendo
dall’accordo delle parti, anziché «per default» dalla legge) e quello di
«comunione convenzionale regolata dal libro I, titolo VI, capo VI, sezione IV,
del codice civile» (con il problema, non risolto dalla proposta, costituito dal
fatto che una semplice «scelta» dovrebbe dar luogo ad un regime che andrebbe
dettagliatamente regolato da una serie di intese, le quali a loro volta non
possono essere contenute se non in un apposito contratto); in caso di mancata
effettuazione della scelta il regime sarebbe quello separatista. L’art. 230-nonies
della «proposta Rivolta» prevede invece l’alternativa «secca» tra il regime di
separazione dei beni (che si dovrebbe «presumere» in mancanza di scelta) e un
non meglio precisato «regime di comunione per i beni che verranno acquistati a
titolo oneroso posteriormente alla conclusione del contratto», di cui il
progetto non si degna neppure di specificare la natura (appartenenza alla species
definita dagli artt. 177 ss. c.c., o a quella di cui agli artt. 1100 ss.
c.c.?). La «proposta Belillo» appare muta sul profilo del regime patrimoniale,
mentre quella dello scrivente (art. 6, co. 3) prevede la possibilità che le
parti s’accordino per l’instaurazione di un regime di comunione convenzionale
ad effetto reale, ovvero, in alternativa, meramente obbligatorio, stabilendo
altresì che, in difetto di pattuizioni in proposito e qualora non sia stato
redatto inventario dei beni mobili, «ciascun convivente può provare con ogni
mezzo nei confronti dell’altro la proprietà esclusiva di un bene. I beni
acquistati nel corso della convivenza e di cui nessuno dei conviventi può
dimostrare la proprietà esclusiva, sono di proprietà indivisa per pari quota di
entrambi».
Da segnalare poi la proposta, avanzata dallo scrivente
(cfr. art. 3) ed accolta nella «proposta Belillo», di considerare, in assenza
di pattuizione ad hoc, alla stregua di obbligazioni naturali ex
art. 2034 c.c. le attribuzioni patrimoniali effettuate fra i conviventi in
ragione della prestazione di reciproca contribuzione, nonché di assistenza
morale e materiale, compiute in qualunque forma in proporzione ai propri
redditi, alle proprie sostanze e alle proprie capacità di lavoro professionale
o casalingo, presumendo invece donazioni le attribuzioni patrimoniali gratuite
eccedenti la misura di cui sopra [194]. La soluzione pare consigliata da alcune oscillazioni
giurisprudenziali [195].
Per ciò che attiene allo
scioglimento del vincolo, tutte le proposte qui citate ammettono la possibilità
che il contratto definisca, già dal momento della sua conclusione, le
conseguenze patrimoniali di un’eventuale rottura: cfr. gli artt. 20, co. 1,
della proposta Grillini, 4, co. 1, della «proposta Belillo» e 230-undecies
c.c. di cui alla «proposta Rivolta», il tutto conformemente all’art. 7, co. 1,
della proposta dello scrivente, secondo cui «I conviventi possono, sin
dall’inizio del loro rapporto, così come in ogni momento, disciplinare le
conseguenze patrimoniali e personali di un’eventuale cessazione della
convivenza. Essi possono anche prevedere, per il periodo successivo, la
corresponsione di un assegno di mantenimento, oppure di una somma una tantum,
ovvero ancora il trasferimento di diritti su uno o più beni». Il suggerimento è
correlato, del resto, alla proposta di consentire tale tipo di intese
preventive anche ai coniugi, in contemplation di una possibile crisi
coniugale [196]. La «proposta Grillini»
vi aggiunge poi (cfr. art. 20, co. 2) l’obbligo di prestare gli alimenti fino
al termine di due anni dallo scioglimento del patto, qualora una delle parti
del patto stesso versi nelle condizioni previste dall’articolo 438, co. 1, c.c.
Siffatto obbligo cessa comunque nel momento il cui l’avente diritto contrae
matrimonio o un nuovo patto civile di solidarietà.
Particolare attenzione viene attribuita al problema
della casa familiare, in caso di cessazione della convivenza: cfr. gli artt.
19, co. 2, della «proposta Grillini», 4, co. 2, 3 e 4 della «proposta Belillo»
e 230-duodecies c.c. della «proposta Rivolta» (limitatamente al caso di
morte del convivente). Peraltro solo la proposta dello scrivente cerca di farsi
compiutamente carico pure del delicato profilo dell’opponibilità
dell’assegnazione convenzionale al terzo proprietario o al terzo locatore
dell’immobile (cfr. art. 8). Sia la «proposta Grillini» (cfr. art. 19), che la
«proposta Belillo» (art. 6) intervengono infine sullo spinoso profilo degli
accordi relativi alla prole, cercando di riprodurre per i conviventi legati dal
patto un sistema di norme analogo a quello vigente per i coniugi. Questo
aspetto è invece del tutto ignorato dalla «proposta Rivolta», mentre la
proposta dello scrivente prevede un apposito procedimento di omologazione, ad
instar di quanto disposto dagli artt. 158 c.c. e 711 c.p.c. [197].
* Testo della relazione presentata all’incontro di
studio sul tema «I rapporti familiari non fondati sul matrimonio», organizzato
dal Consiglio Superiore della Magistratura – Nona Commissione, Tirocinio e
Formazione Professionale, svoltosi a Roma dal 26 al 28 gennaio 2004. Lo studio
è disponibile dal 1° gennaio 2004 al sito web seguente:
https://www.giacomooberto.com/contrattidiconvivenza2/contrattidiconvivenza2.htm.
[1] Cfr. Merlin, Répertoire universel et
raisonné de jurisprudence, II, Paris, 1812, p. 723.
[2] Cfr. Aubenas,
Cours d’histoire du droit
privé, VI, Aix en Provence, 1958, p.
35, che riferisce di un contrat de concubinat
predisposto in Bonifacio (Corsica) dal notaio genovese De Porta nel 1287. La
cosiddetta Carta de Avila del 1361, sotto
il titolo «carta de mancebía e compañería», costituisce poi un eloquente
esempio di contratto tra un uomo e la sua barragana,
con cui il primo concedeva a quest’ultima determinati diritti sulle sue
rendite, oltre che quelli di spartire con lui «pan e mesa e cuchiello por todos
los días que (...) visquiéredes» (v. Fosar
Bennloch, Las uniones libres, in Estudios de derecho
de familia, III, Barcelona, 1985, p. 15).
[3] Oberto,
Le prestazioni lavorative del convivente more uxorio, Padova, 2003, p. 1
ss.
[4] E’ impossibile in questa sede fornire un’esauriente
elencazione dei contributi stranieri sull’argomento. L’autore si permette
pertanto, premesso qualche cenno bibliografico essenziale, di fare richiamo a Oberto, I regimi patrimoniali della famiglia di fatto,
Torino, 1991, p. 8 ss., 151 ss. (per alcuni spunti in tema di rilievo delle
prestazioni di lavoro nell’ambito dei contratti di convivenza cfr. ora anche Id., Le prestazioni lavorative del
convivente more uxorio, cit., p. 101 ss.). Il rinvio vale non soltanto per
un’integrazione dei riferimenti dottrinali e giurisprudenziali, ma anche per
l’approfondimento di quelle considerazioni teoriche che, in seno ad un lavoro
esclusivamente rivolto all’esame dei profili contrattuali, non possono trovare
un’esaustiva trattazione.
La maggiore attenzione al fenomeno dei contratti di
convivenza è stata dedicata dagli studiosi di common law. Per quanto concerne
la dottrina statunitense v. per tutti Weitzman,
Legal Regulation of Marriage: Tradition and Change, in California Law Review, 62, 1974, p. 1249 ss.; Glendon, State, Law and Family
- FFamily Law in transition in the United States and Western Europe, Amsterdam, 1977; Weitzman
e Lenou, The marriage
contract, spouses, lovers and the
law, 1981, New York; Weyrauch e Katz, American Family Law in Transition, Washington, 1983, p. 171
ss.; Bruch, Nonmarital Cohabitation in the
Common Law Countries: A Study
in Judicial-Legislative Interaction, in The American Journal of Comparative Law, 1981, p. 221; Smith, Property Rights arising from Relationship of Couple
Cohabiting without Marriage, in American Law Review, 3, 4th 13, p.
20.
[5] Cfr. per gli Stati
Uniti, Weitzman, Legal Regulation of Marriage, cit., p. 1250 ss.; Lindey e Parley, Lindey on Separation Agreements and Antenuptial
Contracts, III, New York, 1998, Chapter 95; per la Gran Bretagna v.
in particolare Barton, Cohabitation Contracts. Extra-marital partnership and law reform,
[6] Cfr. il De Facto Relationships Act (1984)
del Nuovo Galles del Sud, in Australia (il testo normativo, variamente
rimaneggiato, si chiama ora Property [Relationships] Act - 1984), nonché
il Family Law Reform Act, entrato in vigore il 31 marzo 1978
nello stato dell’Ontario (Canada), su cui cfr. in dettaglio Oberto, I regimi patrimoniali della famiglia di fatto,
cit., p. 11 s.
[7] Cfr. Oberto, La famiglia di fatto nel diritto comparato,
in Giur. it., 1986, c. 110. Le
conclusioni delle commissioni di studio dell’Unione Internazionale dei
Magistrati sono disponibili all’indirizzo web seguente:
[8] Cfr. la Recommendation N° R(88)3 of the
Committee of Ministers to Member States on the validity of contracts between
persons living together as un unmarried couple and their testamentary dispositions
(adottata dal Comitato dei
Ministri il 7 marzo 1988, durante la 415a riunione dei
Vice-Ministri; disponibile al sito web seguente:
http://www.social.coe.int/en/cohesion/fampol/recomm/family/R(88)3.htm),
Considering that the aim of the Council of Europe is to achieve a
greater unity between its members, in particular by promoting the adoption of
common rules in legal matters;
Considering that many problems concerning persons living together as an
unmarried couple may be resolved by the conclusion of contracts between such
persons or by testamentary dispositions made by one in favour of the other;
Noting that in some countries such contracts and testamentary
dispositions might be considered to be contrary to public policy or morality,
Recommends that the governments of member states take the necessary
measures:
i. to ensure that contracts relating to property between persons living
together as an unmarried couple, or which regulate matters concerning their
property either during their relationship or when their relationship has
ceased, should not be considered to be invalid solely because they have been
concluded under these conditions;
ii. to apply the same principle to testamentary dispositions». Per un richiamo ai
possibili problemi d’ordine pubblico e buon costume cfr. infra, §§ 5 e 6.
[9] Oberto,
I regimi
patrimoniali della famiglia di fatto,
cit., p. 8 ss., p. 151 ss.; prima ancora v. Oberto,
La famiglia di fatto nel diritto
comparato, cit., c. 108 ss.
[10] Per un richiamo ai quali e per la critica alla
relativa soluzione, in forza di considerazioni d’ordine storico oltre che
costituzionale, cfr. per tutti Oberto,
I regimi patrimoniali della famiglia di fatto, cit., p. 22 s., nota 1,
p. 24 ss. Sarà interessante notare che la scelta di politica legislativa volta
ad applicare alla famiglia di fatto il regime matrimoniale, pur in assenza di
una manifestazione di volontà al riguardo, risponde ad una logica «punitiva»,
evidenziata dall’analisi storica; così, ad esempio, il progetto del «codice
Federico» del Cocceo prevedeva, al § 37 (Parte I, Libro II, Titolo III,
Articolo I) che «Lorsque deux personnes auront vécu longtems ensemble comme
mari et femme, et qu’ensuite l’une d’elles prétendra que leur mariage n’a pas été
béni, Nous voulons que ce nonobstant, le mariage subsiste, en punition de leur
commerce, et qu’il soit béni et ordonnons en outre qu’on leur fasse encore
subir quelque peine» (cfr. [von Cocceji],
Projet du corps de droit Frédéric ou corps de droit pour les états de sa
majesté le roi de Prusse, I, suivant l’édition de Halle, 1751, p. 153).
[11] Come rilevato da Sesta,
Diritto di famiglia, Padova, 2003, p. 350 ss. «La prima legge che si è
occupata del fenomeno è stata quella danese, del 1989; essa ha istituito il
modello della registered partnership, per cui la registrazione
dell’unione produce i medesimi effetti giuridici del matrimonio, salvo quanto
previsto in materia di adozione e di potestà dei genitori. Tale modello è stato
seguito negli anni successivi anche da Norvegia (1993), Svezia (1994), Islanda
(1996), Olanda (1998), e Germania (2001). Tali ordinamenti hanno quindi optato
per una tendenziale equiparazione tra le unioni familiari eterosessuali e
quelle omosessuali. Una siffatta evoluzione delle normative nazionali è stata
condivisa dal Parlamento europeo, le cui risoluzioni dell’8 febbraio 1994 e del
16 marzo 2000, finalizzate alla rimozione di ogni forma di discriminazione
verso le persone omosessuali, richiedono un maggiore impegno della Commissione
e degli Stati membri nella tutela delle relazioni familiari fra persone dello
stesso sesso, attraverso l’apertura del matrimonio civile o di uno ‘strumento
giuridico equivalente’. Invero, altri Paesi non hanno seguito la via
dell’equiparazione, preferendo forme di tutela autonome e settoriali. Si tratta
delle normative introdotte in Belgio (1998), Catalogna (1998) e Francia (1999).
Queste si basano, generalmente, sulla parificazione delle coppie di conviventi;
in tal modo, senza alcuna equiparazione all’istituto del matrimonio, viene
offerta alle coppie di persone dello stesso sesso la medesima tutela prevista
per i conviventi (…). Recentemente, nei Paesi Bassi, è stata attuata una
radicale riforma della normativa del matrimonio civile, che ammette alla celebrazione
dell’atto anche due persone dello stesso sesso. Nell’ordinamento olandese,
dunque, l’istituto ha perso la sua tradizionale funzione di fondamento della
famiglia legittima, essendo ora basato sulla assoluta irrilevanza del sesso dei
nubendi. Le nuove norme dimostrano che l’ordinamento ha privilegiato le scelte
inerenti alla parità di trattamento, già anticipate, ma non compiutamente
realizzate, dalla figura della registered partnership». Ai Paesi di cui
sopra s’aggiunga ancora la Finlandia (ove un’apposita legge è stata approvata
nel 2002), nonché il Lussemburgo, la Svizzera e il Regno Unito, in cui sono
attualmente in discussione progetti di legge sulle coppie di fatto. Per quanto
attiene in particolare a quest’ultima realtà nazionale, il progetto del governo
britannico è consultabile al seguente indirizzo web:
http://www.dti.gov.uk/consultations/pdf/consult-civil.pdf.
Per informazioni sulla proposta elvetica
cfr. invece il sito
http://www.admin.ch/cp/f/39f838b8_1@fwsrvg.bfi.admin.ch.html.
Sul tema delle convivenze omosessuali e delle relative
soluzioni legislative all’estero cfr. Quadri,
Problemi giuridici attuali della famiglia di fatto, in Fam. e dir., p. 502 ss.; Calo’, Le convivenze registrate in Europa, Milano, 2000, passim; Caricato, La legge tedesca sulle
convivenze registrate, in Familia, 2002, p. 501 ss.; Aa. Vv., Matrimonio, Matrimonii, a cura di F. Brunetta d’Usseaux e A. D’Angelo, Milano, 2000, passim; Ieva, I contratti di convivenza. Dalle legge francese alle proposte italiane,
in Riv. notar., 2001, p. 37 ss.; del Prato, Patti di convivenza,
in Familia, 2002, p. 970 ss. Per un’ampia panoramica delle questioni sul
tappeto cfr. inoltre Busnelli, La
famiglia e l’arcipelago familiare, in Riv. dir. civ., 2002, p. 509
ss.; cfr. inoltre Vitucci, Dal dì
che nozze… Contratto e diritto della famiglia nel pacte civil de
solidarité, in Familia, 2001, p. 713 ss.; Ferrando, Il matrimonio, Milano, 2002, p. 192 ss.; Sesta, Diritto di famiglia,
cit., p. 349 ss. Per una recente ed esaustiva analisi comparativa cfr. Boele-Woelki e Fuchs (a cura di), Legal Recognition of Same-Sex Couples
in Europe, Antwerp – Oxford – New York, 2003; all’interno di quest’ultimo
lavoro collettaneo si potrà segnalare, sul tema specifico della discriminazione
nei confronti delle coppie omosessuali e delle relative dichiarazioni a livello
internazionale, il contributo di Ytterberg,
All Human Beings are Equal, but Some are More Equal than Others–Equality in
Dignity without Equality in Rights, ivi, p. 1 ss.
[12] Si noti che il Belgio, con la legge 13 febbraio 2003
(Loi ouvrant le mariage à des personnes de même sexe et modifiant certaines
dispositions du Code civil), ha eliminato – come i Paesi Bassi – il
requisito della diversità di sesso per il matrimonio (peraltro escludendo
effetti in relazione alla filiazione e all’adozione: cfr. il nuovo art. 143, 1°
co., c.c. ai sensi del quale «Deux personnes de sexe différent ou de même sexe
peuvent contracter mariage»).
[13] Per
l’Aragona cfr. la legge 6/1999, del 25 marzo 1999 (relativa a parejas
estables no casadas); per la Navarra cfr. la Ley Foral 6/2000 del 3
luglio 2000 (para la igualdad jurídica de las parejs estables); per le
Isole Baleari cfr. la legge 18/2001 del 19 dicembre 2001 (de Pareja Estables);
per la Comunidad Autónoma di Valencia cfr. la legge 1/2001 del 6 aprile
2001 (por la que se regulan las uniones de hecho); per la Comunidad
Autónoma di Madrid cfr. la legge 11/2001 del 19 dicembre 2001 (de
Uniones de Hecho de la Comunidad de Madrid); per le Asturie cfr. la legge
4/2002 del 23 maggio 2002 (de Parejas Estables).
[14] Sul punto cfr. Sánchez
Bayón, Estudio de la reciente normativa española sobre uniones de
hecho, reperibile all’indirizzo web seguente: http://www.fiscalia.org/doctdocu/doct/unioneshecho.pdf.
[15] La disposizione prosegue stabilendo che (similmente a
ciò che è prescritto per il matrimonio) «Die Erklärungen können nicht unter
einer Bedingung oder Zeitbestimmung abgegeben werden. Die Erklärungen werden wirksam,
wenn sie vor der zuständigen Behörde erfolgen».
[16] Cfr. la Section
7
[17] Si vedano i commi 2 e 3
della versione originaria del § 1 del Gesetz zur Beendigung der
Diskriminierung gleichgeschlechtlicher Gemeinschaften: Lebenspartnerschaften –
LpartG (cfr. Deutscher Bundestag – 14. Wahlperiode,
Drucksache 14/3751), che qui di seguito vengono riportati in confronto
con le corrispondenti norme del BGB sulla celebrazione del matrimonio:
§ 1, co. 2 e 3, LPartG |
§ 1312 BGB |
(2) Der
Standesbeamte soll die Lebenspartner einzeln befragen, ob sie eine
Lebenspartnerschaft begründen wollen. Wenn die Lebenspartner diese Frage
bejahren, soll der Standesbeamte erklären, dass die Lebenspartnerschaft
nunmehr begründet ist. Die Begründung der Lebenspartnerschaft kann in
Gegenwart von bis zu zwei Zeugen erfolgen. |
(1) Der Standesbeamte soll bei der Eheschließung die
Eheschließenden einzeln befragen, ob sie die Ehe mit einander eingehen
wollen, und, nachdem die Eheschließenden diese Frage bejaht haben,
aussprechen, dass sie nunmehr kraft Gesetzes rechtmäßig verbundene Eheleute
sind. Die Eheschließung kann in Gegenwart von einem oder zwei Zeugen
erfolgen, sofern die Eheschließenden dies wünschen. |
(3) Der
Standesbeamte trägt die Begründung der Lebenspartnerschaft in das
Lebenspartnerschaftsbuch ein. |
(2) Der Standesbeamte
soll die Eheschließung in das Heiratsbuch eintragen. |
[18] Sull’ampio e risalente dibattito circa la natura
giuridica del matrimonio e sul ruolo che in esso svolge l’ufficiale dello stato
civile cfr. per tutti Vassalli, Lezioni
di diritto matrimoniale, Padova, 1932, p. 15 ss., spec. P. 95 (ove l’Autore
definisce espressamente il matrimonio quale «negozio giuridico complesso»); Jemolo, Il matrimonio, Torino,
1950, p. 35 ss.; Gangi, Il
matrimonio, Torino, 1969, 27 ss.; Ferrando,
Il matrimonio, Milano, 2002, p. 175 ss.; Ead., Matrimonio e famiglia, in Aa. Vv., Trattato di diritto di
famiglia, diretto da Paolo Zatti, I, Famiglia e matrimonio, 1,
Milano, 2002, p. 161 ss.; per un richiamo ai precedenti storici del dibattito
in Francia e in Germania cfr. Oberto,
La promessa di matrimonio tra passato e presente, Padova, 1996, p. 185
ss.
[19] Reperibile al seguente indirizzo web:
http://www.bundesverfassungsgericht.de/entscheidungen/frames/ls20020717_1bvf000101.
[20] «Da ihnen die
eingetragene Lebenspartnerschaft verschlossen bleibt, können sie durch dieses
Institut nicht vom Eheschluss abgehalten werden».
[21] «Zwar hat der
Gesetzgeber in weiten Bereichen die Rechtsfolgen des neuen Instituts der
eingetragenen Lebenspartnerschaft den eherechtlichen Regelungen nachgebildet.
Dadurch werden die Ehe oder Ehegatten jedoch nicht schlechter als bisher
gestellt und nicht gegenüber der Lebenspartnerschaft oder Lebenspartnern
benachteiligt. Dem Institut der Ehe drohen keine Einbußen durch ein Institut,
das sich an Personen wendet, die miteinander keine Ehe eingehen können». La decisione ha sollevato le autorevoli (ma, a
sommesso avviso dello scrivente, ingiustificate) critiche di Busnelli, La famiglia e l’arcipelago
familiare, cit., p. 524 ss., secondo cui la Corte si sarebbe limitata ad
«aggirare l’ostacolo». Ma, a chi scrive, pare che l’apprestamento da parte del
Legislatore di uno strumento negoziale alternativo al matrimonio, specie se in
relazione a situazioni in cui il matrimonio non è previsto, non costituisca né
possa in alcun modo costituire una forma di violazione della «speciale
protezione» di cui il matrimonio gode, posto che nessun soggetto
dell’ordinamento vede perciò la propria libertà subire restrizioni, né i
vantaggi concessi dalla legge al matrimonio vengono in qualche modo eliminati o
ridotti.
[22] A titolo d’esempio potranno porsi a confronto le
relative disposizioni del diritto tedesco:
§ 6, co. 1, LPartG |
§ 1363, co. 1, BGB |
(1) Vor der Begründung der
Lebenspartnerschaft haben sich die Lebenspartner über den Vermögensstand zu
erklären. Dabei müssen die Lebenspartner entweder erklären, dass sie den
Vermögensstand der Ausgleichsgemeinschaft vereinbart haben, oder sie müssen
einen Lebenspartnerschaftsvertrag (§ 7) abgeschlossen haben. |
(1) Die Ehegatten leben im Güterstand der
Zugewinngemeinschaft, wenn sie nicht durch Ehevertrag etwas anderes
vereinbaren. |
[23] Cfr. l’art. 11 d. legis. 9 aprile 2003, n. 70
«Attuazione della direttiva 2000/31/CE relativa a taluni aspetti giuridici dei
servizi della società dell’informazione nel mercato interno, con particolare
riferimento al commercio elettronico», il quale stabilisce l’inapplicabilità
della relativa regolamentazione ai «contratti disciplinati dal diritto di
famiglia». Il richiamo legislativo, ad avviso dello scrivente, deve intendersi
effettuato tanto alle convenzioni matrimoniali (sulla cui natura contrattuale cfr.
per tutti Oberto, L’autonomia
negoziale nei rapporti patrimoniali tra coniugi (non in crisi), in Familia,
2003, p. 617 ss.), quanto ai contratti della crisi coniugale che, come si è
dimostrato in altra sede (Oberto,
I contratti della crisi coniugale, I, Milano, 1999, p. 696 ss.),
rinvengono il loro fondamento causale in specifiche disposizioni giusfamiliari.
[24] Per i necessari richiami si rinvia ad Oberto, I contratti della crisi
coniugale, I, cit., p. 28 ss., 129 ss.; Id.,
L’autonomia negoziale nei rapporti patrimoniali tra coniugi (non in crisi),
cit., p. 617 ss.
[25] Règlement (CE)
No 2201/2003 du Conseil du 27 novembre 2003 relatif à la compétence, la
reconnaissance et l’exécution des décisions en matière matrimoniale et en
matière de responsabilité parentale abrogeant le règlement (CE) no 1347/2000.
[26] Il testo del nuovo regolamento (che sarà applicabile
a partire dal 1 marzo 2005) è reperibile all’indirizzo web seguente:
http://europa.eu.int/eur-lex/pri/fr/oj/dat/2003/l_338/l_33820031223fr00010029.pdf
Per alcune informazioni al riguardo cfr. la pagina web
seguente:
http://www.europa.eu.int/scadplus/leg/fr/lvb/l33194.htm.
Per un primo commento sul nuovo regolamento e su alcune questioni connesse cfr.
Oberto, Judicial Co-operation
in Cross-border Family Law Matters, dal 23 ottobre 2003 al sito web
seguente:
[27] Sul punto cfr. Oberto,
Il Regolamento del Consiglio (Ce) n. 1347/2000 del 29 maggio 2000 relativo alla
competenza, al riconoscimento e all’esecuzione delle decisioni in materia
matrimoniale e di responsabilità parentale nei confronti dei figli comuni,
in Contratto e impresa / Europa, 2002, p. 373.
[28] Si pensi a quelle a latere c.d. «successive»,
nonché a quelle concluse nell’ambito di una separazione di fatto, riconosciute
come valide ed efficaci dalla dottrina e dalla giurisprudenza italiane (sul
tema v., anche per i necessari rinvii, Oberto,
I contratti della crisi coniugale, I, p. 321 ss., II, p. 1413 ss.
[29] Per quel che può rilevare, nel corso della conferenza
europea dal titolo «Judicial Co-operation in Cross-border Family Law Matters»,
organizzata dalla Commisione Europea e dalla Presidenza Italiana, svoltasi a
Lecco nei giorni 9-11 ottobre 2003, è stato fornito un espresso chiarimento in
tal senso da parte delle rappresentanti della Commissione Europea (Marie-Odile
Baur, Sonya Djemni-Wagner e Monika Ekström), in risposta ad una precisa domanda
sul punto formulata dallo scrivente. La differenza tra le due situazioni è
altresì resa «plasticamente» dal raffronto tra le disposizioni transitorie dei
due regolamenti, laddove quella del regolamento più recente aggiunge il
richiamo «aux accords entre parties conclus», inesistente nello strumento
attualmente in vigore:
Art. 42, co. 1, regolamento n. 1347/2000 |
Art. 64, co. 1, regolamento n. 2201/2003 |
Les dispositions du
présent règlement ne sont applicables qu’aux actions judiciaires intentées,
aux actes authentiques reçus et aux transactions conclues devant une
juridiction au cours d’une instance, postérieurement à son entrée en vigueur. |
Les dispositions du
présent règlement ne sont applicablesqu’aux actions judiciaires intentées,
aux actes authentiques reçus et aux accords entre parties conclus
postérieurement à la date de sa mise en application telle que prévue à
l’article 72. |
[30] Sulla validità di tali accordi nel diritto italiano
cfr. infra, § 6.
[31] «VII. Maggiore convergenza
nel settore del diritto civile
38. Il Consiglio europeo
invita il Consiglio e la Commissione a predisporre una nuova legislazione
procedurale nelle cause transnazionali, in particolare sugli elementi
funzionali ad una cooperazione agevole e ad un migliore accesso alla
legislazione, ad esempio misure preliminari, raccolta delle prove, ordini di
pagamento e scadenze.
39. Per quanto concerne
il diritto materiale, occorre procedere ad uno studio globale sulla necessità
di ravvicinare le legislazioni degli Stati membri in materia civile per
eliminare gli ostacoli al corretto svolgimento dei procedimenti civili. Il
Consiglio dovrebbe riferire in merito entro il 2001»
(cfr. http://europa.eu.int/council/off/conclu/oct99/oct99_it.htm#justice).
[32] Più esattamente si tratta di una Association
momentanée tra il TMC Asser Instituut dell’Aja (TMCAI) e il Département
de Droit international della Facoltà di Giurisprudenza dell’Università
cattolica di Lovanio (UCL). Coordinatori della ricerca sono Michiel J. de Rooij e Michel Verwilghen.
[33] Il testo del relativo rapport final è
disponibile in formato .pdf al seguente sito web:
[34] Oberto,
I regimi patrimoniali della famiglia di fatto, cit., p. 6 ss., nota 9; Id., Le prestazioni lavorative del
convivente more uxorio, cit., p. 125 ss.
[35] Weitzman, Legal
Regulation of Marriage, cit., p. 1255, 1273 ss.; in generale sui problemi
giuridici delle convivenze tra persone del medesimo sesso negli Stati Uniti v. Shapiro e Schultz, Single-sex Families: The Impact of Birth
Innovations upon traditional Family Notions, in Journal of Family Law, 24
(1985-86), p. 271 ss.; Merin, Equality
for Same Sex Couples: The Legal Recognition of Gay Partnerships in Europe and
the United States, Chicago, 2002; Strasser,
On Same-Sex Marriage, Civil Unions, and the Rule of Law: Constitutional
Interpretation at the Crossroads, Westport, 2002.
[36] Sul tema, per la dottrina italiana, cfr. Finocchiaro, Dopo l’entrata in
vigore prevista il 1° marzo 2001 cadono i precedenti accordi internazionali,
in Guida al Diritto, Il Sole-24 ore, 5 agosto 2000, p. 113 ss.; Bonomi, La nuova disciplina europea della competenza e del riconoscimento in
materia matrimoniale e di potestà dei genitori, in Riv. dir. int.,
2001, p. 298 ss.; Giacalone, Le
conclusioni del Consiglio europeo di Tampere in vista della semplificazione e
dell’accelerazione processuale: il punto sui lavori in tema di cooperazione giudiziaria
civile nell’Unione europea, relazione presentata all’incontro di studio sul
tema «I procedimenti semplificati ed accelerati nelle controversie civili ed
amministrative nei paesi dell’U.E.», organizzato dal Consiglio Superiore della
Magistratura e svoltosi a Roma dal 15 al 17 aprile 2002; Uccella, La prima pietra per la
costruzione di un diritto europeo delle relazioni familiari: il regolamento n.
1347 del 2000 relativo alla competenza, al riconoscimento e all’esecuzione
delle decisioni in materia matrimoniale e in materia di potestà dei genitori
sui figli di entrambi i coniugi, in Giust. civ., 2001, p. 2005 ss.; Figone, Brevi note sul Regolamento
del Consiglio CE n. 1347/2000, in Fam. e dir., 2002, p. 101ss.; Oberto, Il Regolamento del Consiglio
(Ce) n. 1347/2000 del 29 maggio 2000 relativo alla competenza, al
riconoscimento e all’esecuzione delle decisioni in materia matrimoniale e di
responsabilità parentale nei confronti dei figli comuni, cit., p. 361 ss.; Id., Schema ipertestuale di una
relazione sul tema: Il Regolamento del Consiglio (Ce) n. 1347/2000 del 29
maggio 2000 relativo alla competenza, al riconoscimento e all’esecuzione delle
decisioni in materia matrimoniale e di responsabilità parentale nei confronti
dei figli comuni, dal 26 aprile 2002 al seguente sito web:
https://www.giacomooberto.com/regolamentouetorino/schema.htm;
Id., Schema ipertestuale di
una relazione sul tema: La cooperazione giudiziaria in materia civile
nell’ambito dei paesi dell’Unione Europea. La rete europea di formazione
giudiziaria, dal 4 luglio 2002 al seguente sito web:
https://www.giacomooberto.com/csm/uditori/cooperazionecivile.htm
(a questi scritti si fa rinvio anche per i richiami alla dottrina straniera).
[37] Il tema è approfondito in Oberto, Le prestazioni lavorative del convivente more
uxorio, cit., p. 120 ss. Sulle proposte legislative in materia cfr. anche infra, § 15.
[38] Oberto, La famiglia di fatto nel diritto comparato,
cit., c. 110; Id., I regimi patrimoniali della famiglia di
fatto, cit., p. 7 ss., 151 ss.; Id.,
Contratti di convivenza e
contratti tra conviventi «more uxorio», in Contratto e impresa, 1991, p. 369 ss.; Id., Partnerverträge in
rechtsvergleichender Sicht unter besonderer Berücksichtigung des italienischen
Rechts, in FamRZ, 1993, p. 1 ss.
[39] Così invece Franzoni,
I contratti tra conviventi «more
uxorio», in Riv. trim. dir. proc. civ.,
1994, p. 737 ss.; Id., Le convenzioni patrimoniali tra conviventi more
uxorio, in Il diritto di famiglia,
Trattato diretto da G. Bonilini e G. Cattaneo, II, Il regime patrimoniale della famiglia, Torino, 1997, p. 461 ss.
[40] Per la precisione andrà aggiunto che, nella dottrina
italiana, i primi spunti in senso favorevole alla soluzione negoziale dei
problemi legati alla famiglia di fatto si trovano già in Gazzoni, Dal concubinato alla famiglia di fatto, Milano, 1983, p. 150 ss.,
156 ss.; dopo lo sviluppo di questa prospettiva nelle analisi sopra citate
dello scrivente, v., per una valutazione in senso positivo di quest’ottica, M. Bernardini, La convivenza fuori del matrimonio tra contratto e relazione
sentimentale, Padova, 1992,
p. 204 ss.; Dogliotti, Famiglia di fatto, in Digesto disc. priv., Sez. civile, VIII,
Torino, 1992, p. 195 s.; Busnelli e
Santilli, La famiglia di fatto, in Commentario
al diritto italiano della famiglia, a cura di Cian, Oppo e Trabucchi, VI,
Padova, p. 779 ss.; V. Carbone, Autonomia privata e rapporti patrimoniali
tra coniugi (in crisi), nota a Cass., 22 gennaio 1994, n. 657, in Fam. e
dir., 1994, p. 146 ss.; Franzoni, I contratti tra conviventi «more uxorio»,
loc. cit.; Quadri, Rilevanza attuale della famiglia di fatto ed
esigenze di autoregolamentazione, in Dir.
fam. pers., 1994, p. 301 ss.; D’Angeli,
La tutela delle convivenze senza
matrimonio, Torino, 1995, p. 86;
Gigliotti, Rottura della convivenza more uxorio e affidamento
del figlio naturale: rilevanza dell’accordo parentale sulle condizioni della
«separazione», in Dir. fam. pers., 1995, I, p. 611 ss.; Morelli, Il nuovo regime patrimoniale della famiglia, Padova, 1996, p. 65
s.; Angeloni, Autonomia privata e potere di disposizione
nei rapporti familiari, Padova, 1997, p. 509 ss.; V. Franceschelli, Rapporto
di fatto, in Digesto disc. priv.,
Sez. civile, XVI, Torino, 1997, p. 283; Franzoni,
Le convenzioni patrimoniali tra
conviventi more uxorio, loc. cit.; A.
Fuccillo, Accordi di convivenza:
alcuni aspetti problematici, in Famiglia
e circolazione giuridica, a cura di G. Fuccillo, Milano, 1997, p. 68 ss.,
79 ss.; Ferrando, Convivere
senza matrimonio: rapporti personali e patrimoniali nella famiglia di fatto,
in Fam. e dir., 1998, p. 183 ss.; Quadri,
Problemi giuridici attuali della famiglia di fatto, cit., p. 503 ss.; Tommasini, La famiglia di fatto,
in Aa. Vv., Il diritto di
famiglia, I, in Trattato di diritto privato, diretto da Mario
Bessone, vol. IV, Torino, 1999, p. 499 ss.; Aa.
Vv., Matrimonio, Matrimonii, a
cura di F. Brunetta d’Usseaux e A. D’Angelo,
Milano, 2000, passim; Balestra,
Gli effetti della dissoluzione della
convivenza, in Riv. dir. priv.,
2000, p. 468 ss.; Calo’, Le convivenze registrate in Europa,
cit., passim; Solaini, La
famiglia di fatto, in La famiglia, in Il diritto privato nella
giurisprudenza, a cura di Cendon, I, Torino, 2000, p. 493 ss.; Alagna, Famiglia di fatto e famiglia
di diritto a confronto: spunti in tema di rapporti bancari, in Dir. fam.
pers., 2001, p. 281 ss.; Dogliotti,
La forza della famiglia di fatto e la
forza del contratto. Convivenza more uxorio e presupposizione, nota a Trib. Savona, 7 marzo 2001, in Fam. e dir., 2001, p. 529 ss.; Ieva, I contratti di convivenza. Dalle legge francese alle proposte italiane,
cit., p. 37 ss.; Pinori e Traverso, Finisce l’amore, si va dal giudice, Milano, 2001, passim; Spadafora, Rapporto di convivenza more uxorio e autonomia privata, Milano, 2001, passim; Vitucci, Dal dì che nozze… Contratto
e diritto della famiglia nel pacte civil de solidarité, cit., p. 713 ss.; Aa. Vv., Convivenza e situazioni di
fatto, in Trattato di diritto di famiglia diretto da Paolo Zatti, I,
Famiglia e matrimonio, Milano, 2002, p. 803 ss.; Balestra, Un recente convegno francese sulle convivenze
fuori dal matrimonio, in Familia, 2002, p. 439 ss.; Busnelli, La famiglia e l’arcipelago
familiare, cit., p. 509 ss.; Caricato,
La legge tedesca sulle convivenze registrate, in Familia, 2002,
p. 501 ss.; del Prato, op. cit.,
p. 975 ss.; Marella, Il
diritto di famiglia fra status e contratto: il caso delle convivenze non
fondate sul matrimonio, in Aa. Vv.,
I contratti di convivenza, a cura di Moscati e Zoppini, Torino, 2002, p.
71 ss.; Zoppini, Tentativo
d’inventario per il «nuovo» diritto di famiglia: il contratto di convivenza,
in Aa. Vv., I contratti di
convivenza, a cura di Moscati e Zoppini, cit., p. 26 ss.; Ferrando, Il matrimonio, cit.,
p. 230; Zatti, Familia, familiae
– Declinazione di un’idea, in Familia, 2002, p. 9 ss., p. 337
ss.; Asprea, La famiglia di
fatto in Italia e in Europa, Milano, 2003, p. 143 ss.; Ferrando, Le contribuzioni tra
conviventi fra obbligazione naturale e contratto, nota a Trib. Savona, 29
giugno 2002, in Fam. dir., 2003, p. 598 ss.; Sesta, Diritto di famiglia, cit., p. 347 ss.
Contra Trabucchi,
Pas par cette voie s’il vous plaît!,
in Riv. dir. civ., 1981, I, p. 349
ss.; Prosperi, A proposito di una recente monografia in
tema di «famiglia di fatto», in Rass.
dir. civ., 1984, p. 203 ss.;
difficilmente valutabile è, invece, la posizione di Caravaglios, La
comunione legale, Milano, 1995, p. 1246 ss., che, da un lato, sembra voler
rigettare la soluzione contrattuale (peraltro identificandola tout court con la proposta dello
scrivente di adozione di un regime di comunione di fonte convenzionale, proposta
che dell’opzione negoziale non costituisce se non una delle molteplici, ed
ampiamente illustrate, alternative) e dall’altro presenta lo schema di un
articolato contratto di convivenza.
Si noti, infine, che il riferimento al
ricorso agli strumenti dell’autonomia negoziale compare poi in alcuni degli
interventi e delle relazioni al (e delle conclusioni del) XXXIII Congresso
Nazionale del Notariato (v. Consiglio
Nazionale Del Notariato, La
famiglia di fatto ed i rapporti patrimoniali tra conviventi, Atti del
XXXIII Congresso Nazionale del Notariato, Napoli, 29 settembre - 2 ottobre
1993, Roma, 1994, p. 102, 107,
302).
[41] Anche se, come si è cercato di dimostrare in altra
sede (cfr. Oberto, I regimi
patrimoniali della famiglia di fatto, cit., p. 152), non è da escludere che
alcuni contratti di convivenza siano, in realtà, effettivamente giunti
all’esame dei giudici, celati, però, sotto le apparenze di contratti di
mantenimento vitalizio, come risulta confermato dalla presenza in talune
ipotesi di un impegno, assunto dal vitaliziante, di assistere non soltanto
materialmente, ma anche moralmente il vitaliziato per tutta la vita. Sul tema
cfr. anche infra, § 7.
[42] Cfr. Cass., 8 giugno 1993, n. 6381, in Nuova giur. civ. comm., 1994, I, p. 339,
con nota di Bernardini; per la
giurisprudenza di merito cfr. Trib. Min. Reggio Calabria, 17 ottobre 1994, in Dir. fam. pers., 1995, p. 611, con nota
di Gigliotti; App. Milano, 4
dicembre 1995, in Fam. e dir. 1996,
p. 247, con nota di Moretti;
Trib. Savona, 7 marzo 2001, in Fam. e dir., 2001, p. 529, con nota di Dogliotti; Trib. Savona, 29 giugno 2002
in Fam. dir., 2003, p. 596, con nota di Ferrando (ma, in quest’ultimo caso, il giudice ha, di fatto,
disatteso la specifica disposizione negoziale su cui la lite era stata
impostata: sul punto cfr. infra, nota 88).
[43] Cfr. Oberto,
I regimi patrimoniali della famiglia di fatto, cit., p. 86 ss.
[44] Sul punto si fa rinvio a Oberto, I regimi patrimoniali della famiglia di fatto,
cit., p. 87 ss.
[45] Cfr. Cass., 3 febbraio 1975, n. 389, in Foro it.,
1975, I, c. 2301, con nota di Florino.
Sottolinea la posizione di assoluta parità tra i conviventi in relazione alle
obbligazioni naturali di reciproca assistenza su di essi gravanti anche Cass.,
26 gennaio 1980, n. 651, in Rep. Foro it., 1980, voce Indebito,
n. 6. In dottrina evidenziano il passaggio dall’aspetto risarcitorio a quello
assistenziale-contributivo anche Gazzoni,
Dal concubinato alla famiglia di fatto, cit., p. 134 s. e Mazzocca, op. cit., p. 101.
Questa soluzione era stata da tempo auspicata in
dottrina: v. De Cupis, Il
concubinato nel diritto privato, in Foro pad., 1961, III, c. 78,
secondo cui «se il concubinato ha carattere di stabilità, e ancor più se è
integrato da un costume di vita coniugale (more uxorio), il dovere
morale non si esaurisce in quello della riparazione a favore della donna: vi è
anche un più esteso dovere di reciproca assistenza, corrispondente, sul piano
morale, all’obbligo giuridico dell’assistenza, esistente tra i coniugi (art.
143)». Sull’esistenza di un dovere morale di «prestare i mezzi di sussistenza
alla convivente» cfr. inoltre Oppo,
Adempimento e liberalità, Padova, 1947, p. 264; Id., Sulla definizione di donazione rimuneratoria, in Giur.
it., 1955, I, 1, c. 872 ss.; Balbi,
Liberalità e donazione, in Riv. dir. comm., 1948, I, p. 181; Gangi, Le obbligazioni, Milano,
1951, p. 98; Brusco, nota a
Cass., 15 gennaio 1969, n. 60, in Foro it., 1969, I, c. 1512; Provera, Degli alimenti, nel Commentario
del codice civile Scialoja-Branca, Bologna-Roma, 1972, p. 35 s. (che
accomuna – sulla scia di App. Torino, 20 marzo 1944, in Giur. tor.,
1945, p. 87 – tale obbligazione naturale a quella del patrigno di corrispondere
gli alimenti alla figliastra da quello ricevuta in casa e sempre considerata
alla stregua di una figlia); Piret,
Le ménage de fait en droit civil belge, in Aa. Vv., Les situations de fait, Travaux de l’Association
Henri Capitant pour la culture juridique française, vol. XI, Paris, 1960,
p. 76 ss., 80. Contra, nel senso dell’inesistenza, a carico dei
conviventi, di doveri morali di assistenza e mantenimento v. Carresi, L’obbligazione naturale
nella più recente letteratura giuridica italiana, in Riv. trim. dir.
proc. civ., 1948, p. 555 s.; Rodiere,
Le ménage de fait devant la loi française, in Les situations de fait,
cit., p. 72; Torrente, La
donazione, Milano, 1956, p. 199; G. Stella
Richter, Aspetti civilistici del concubinato, in Riv. trim. dir.
proc. civ., 1965, p. 1123 s. Barassi,
La famiglia legittima, Milano, 1947, p. 25, ammette l’esistenza di
un’obbligazione naturale soltanto tra conviventi legati da matrimonio canonico
non trascritto.
Sulla dottrina più recente circa l’applicazione dell’art.
2034 c.c. alla famiglia di fatto v. Oberto,
I regimi patrimoniali della famiglia di fatto, cit., p. 83 ss.; Spadafora, L’obbligazione naturale
tra conviventi ed il problema della sua trasformazione in obbligazione civile
attraverso lo strumento negoziale, in Aa.
Vv., I contratti di convivenza, a cura di Moscati e Zoppini,
cit., p. 157 ss.; Sesta, Diritto
di famiglia, cit., p. 337 s. Per quanto attiene, poi, all’evoluzione
giurisprudenziale successiva alle decisioni appena citate va detto che, almeno
in un caso, la Corte di cassazione sembra essere andata addirittura al di là
della posizione di cui s’è dato conto sopra, affermando la presenza di
un’obbligazione naturale anche tra due persone legate da una semplice
«relazione sentimentale» (cfr. Cass., 20 gennaio 1989, n. 285, in Arch. civ.,
1989, p. 498: «Nella dazione di una somma di danaro da parte dell’uomo alla
donna in occasione della cessazione della loro relazione sentimentale può
ravvisarsi l’adempimento di una obbligazione naturale, con la conseguenza che
la suddetta somma non può essere chiesta in restituzione, né dedotta in
compensazione da parte del solvens»). Peraltro, neppure la lettura della
motivazione consente di comprendere se a tale relazione affettiva si fosse
accompagnata o meno una convivenza more uxorio (il richiamo della
motivazione alla precedente pronunzia n. 60 del 1969 – concernente un caso di
sicura convivenza more uxorio – farebbe propendere per l’affermativa;
resta però il fatto che il principio è enunciato in termini assolutamente
generali). Nel periodo successivo, invece, la Corte Suprema sembra essersi
puramente e semplicemente… scordata dell’esistenza stessa dell’obbligazione
naturale tra conviventi, risolvendo un caso di attribuzioni patrimoniali di
gioielli alla stregua dei soli principi in tema di donazione (cfr. Cass., 24
novembre 1998, n. 11894, in Corr. giur., 1999, p. 54, con nota di V. Carbone). Analoghe conclusioni possono
trarsi in relazione ad alcune decisioni della giurisprudenza di merito (cfr.
Trib. Palermo, 3 settembre 1999, in Fam. e dir., 2000, p. 284, con nota
di Ferrando; Trib. Bolzano, 20
gennaio 2000, in Giur. merito, 2000, I, p. 818). E’ da notare che, in
tutti i cennati casi, proprio il richiamo al concetto di obbligazione naturale,
così come elaborato dalla pronunzia del 1975, avrebbe consentito di escludere
da tale nozione quelle attribuzioni patrimoniali «sproporzionate» rispetto alle
«capacità di lavoro, sia professionale che casalingo» del convivente. Ancora
più di recente, la Corte Suprema sembra essere tornata al concetto di
obbligazione naturale, stabilendo che «Un’attribuzione patrimoniale a favore
del convivente more uxorio configura l’adempimento di un’obbligazione
naturale a condizione che la prestazione risulti adeguata alle circostanze e proporzionata
all’entità del patrimonio e alle condizioni sociali del solvens
(Fattispecie nella quale i giudici di merito, con accertamento di fatto
ritenuto dalla cassazione incensurabile in sede di legittimità, hanno escluso
il rapporto di proporzionalità tra l’opera edificatoria realizzata, a propria
cura e spese, con l’arricchimento esclusivo di uno solo dei componenti la
famiglia di fatto, e l’adempimento dei doveri morali e sociali da parte del
convivente more uxorio)» (cfr. Cass., 13 marzo 2003, n. 3713). Sui rapporti tra i concetti di obbligazione
naturale, donazione e donazione remuneratoria cfr. da ultimo Balestra, Obbligazioni naturali e
donazione, in Familia, 2002, p. 591 ss.; sulle relazioni tra gli
istituti in esame nella particolare ipotesi delle prestazioni tra conviventi more
uxorio si fa rinvio a Oberto,
I regimi patrimoniali della famiglia di fatto, cit., p. 90 ss., anche
per ulteriori richiami.
[46] Sulla prospettiva, che pure non può essere sviluppata
in questa sede, del ricorso a rimedi quali l’impresa familiare, il rapporto di
lavoro subordinato o parasubordinato, la società di fatto, l’arricchimento
ingiustificato, si fa rinvio per tutti a Oberto,
I regimi patrimoniali della famiglia di fatto, cit., p. 105 ss.; Id., Le prestazioni lavorative del
convivente more uxorio, cit., p. 14 ss.
[47] Sul richiamo all’art. 1322 c.c. v., anche per i
necessari rinvii, Oberto, I
regimi patrimoniali della famiglia di fatto, cit., p. 151 ss.; per la
dottrina successiva, in senso conforme, cfr. Angeloni,
Autonomia privata e potere di
disposizione nei rapporti familiari, cit., p. 509 ss.; del Prato, op. cit., p. 978 s.; per
un cenno in giurisprudenza cfr. Cass., 8 giugno 1993, n. 6381, cit.; Trib. Min.
Reggio Calabria, 17 ottobre 1994, cit.
[48] V. infra, § 15.
[49] Sul tema delle obbligazioni naturali tra conviventi more
uxorio e sulla relativa evoluzione giurisprudenziale cfr. per tutti Oberto, I regimi patrimoniali della
famiglia di fatto, cit., p. 83 ss.
[50] Sulla natura delle obbligazioni naturali in diritto
romano v. per tutti Pothier, Traité des obligations, in Traités de droit civil et de jurisprudence françoise, I, Paris, 1781, p. 82 ss.; Windscheid, Lehrbuch
des Pandektenrechts, II, Frankfurt a. M., 1882, p. 113; Arangio-Ruiz, Istituzioni di diritto romano, Napoli, 1974, pp. 409 ss. La giuridicità delle obbligazioni
naturali in diritto romano era confermata dal fatto che quest’ultimo ne
ammetteva la possibilità di garanzia tramite fideiussione, di compensazione, di
novazione (v., rispettivamente, D. 46. 1. 16. 3.; D. 16. 2. 6.; D. 46. 2. 1.
1.).
[51] Cfr. Pothier,
op. loc. citt.; Carnelutti, Rapporto giuridico naturale, in Scritti in memoria di E. Massari, Napoli, 1938, p. 323 ss.; Salv.
Romano, Note sulle obbligazioni naturali, Firenze, 1953, p. 110 ss.; Giorgianni, L’obbligazione (la parte generale delle obbligazioni), I,
Catania, 1945, p. 111 ss.
[52] D. 46. 2. 1. 1.: «Novatio est prioris debiti in aliam
obligationem vel civilem vel naturalem transfusio atque translatio».
[53] Cass., 4 luglio 1938, in Foro it., 1938, I, c.
1547.
[54] Cass., 15 marzo 1943, n. 606, in Rep. Foro it., 1943-45, voce Successione, n. 28; Cass., 7 giugno 1943, n. 1391, ivi, voce Obbligazioni e contratti, n. 397; Cass., 4 febbraio
1959, n. 329, in Foro it., 1959, I, c. 354; Cass., 22 maggio
1963, n. 1351, in Foro it., 1963, I, c. 2356; Cass., 25 ottobre
1974, n. 3120, in Giur. it., 1975,I, 1, c. 2004; Cass., 29
novembre 1986, n. 7064, in Foro it., 1987, I, c. 805.
[55] Nicolo’,
Esecuzione indiretta di obbligazioni naturali, in Foro it., 1939, I, c. 39; Betti, Teoria generale del negozio
giuridico, Torino, 1950, p. 186 s.,
nota 2; Montel, Obbligazione naturale come causa di obbligazione civile, in Riv. dir. comm.,1941, II, p. 332 s.; Bianca, Obbligazione naturale e forma,
in La forma degli atti nel
diritto privato. Studi in onore di Michele Giorgianni, Napoli, 1988, p. 20.
[56] Invero, in un sistema come il nostro in cui la
promessa unilaterale non è, di regola, fonte di obbligazioni, l’autore della
dichiarazione non potrebbe certo ritenersi vincolato per il solo fatto di aver
espresso una simile dichiarazione. Del resto, nemmeno gli effetti che – sul
solo piano processuale – gli artt. 2735 e 1988 c.c. ricollegano,
rispettivamente, alla confessione stragiudiziale e alla promessa di pagamento
(o ricognizione di debito), appaiono qui applicabili, in quanto previsti in
relazione a un rapporto giuridico che nella specie manca.
[57] Oppo, Adempimento indiretto di obbligazione naturale, in Riv. dir. comm.,
1945, I, p. 186; Id., Adempimento e liberalità, cit., p.
360 ss.
[58] A ciò si aggiunga ancora che nel nostro sistema nulla
autorizza a escludere la validità di un contratto avente a oggetto l’assunzione
a livello di obbligazione civile di un rapporto di mera cortesia (si pensi, per
esempio, al contratto con cui, dietro corrispettivo, la mia vicina si impegna a
curare le piante di casa mia quando io sono assente): a maggior ragione,
dunque, dovrà ritenersi consentita un’analoga operazione con riguardo alle
obbligazioni naturali. Inoltre, la cennata interpretazione restrittiva
dell’espressione «altri effetti» si giustifica anche sulla base del principio
generale della libertà contrattuale, che verrebbe altrimenti compresso ove tra
i predetti effetti venissero anche ricompresi quelli di origine negoziale.
[59] Ciò, almeno, stando alla teoria che attribuisce al
rispetto di simili formalità l’effetto di giustificare uno spostamento
patrimoniale non controbilanciato da un reciproco sacrificio (v. Sacco, Il contratto, Torino,
1975, p. 574 ss. Secondo Bianca, Obbligazione naturale e forma, cit., p. 24, il rispetto delle
forme della donazione consentirebbe sempre di «novare» un’obbligazione naturale
in civile, in quanto esso produrrebbe l’effetto di rendere consapevole il
dichiarante che ciò che egli promette non è giuridicamente dovuto). A identiche
conclusioni dovrà pervenirsi nell’ipotesi in cui il contratto prevedesse un
assetto, per così dire, «sbilanciato» dei rapporti reciproci, tale da indurre a
ritenere presente una causa donandi: si pensi alla corresponsione
della contribuzione in misura «aggravata» a carico di uno solo dei conviventi,
o alla creazione di un determinato regime degli acquisti da operarsi durante la
convivenza a tutto vantaggio di uno solo dei partners.
[60] Cfr. Oberto,
I regimi patrimoniali della famiglia di fatto, cit., p. 156 ss., cui si
fa richiamo per ulteriori approfondimenti e rinvii.
[61] Cfr. per esempio Spadafora,
L’obbligazione naturale tra conviventi ed il problema della sua
trasformazione in obbligazione civile attraverso lo strumento negoziale,
cit., p. 157 ss.; Id., Rapporto
di convivenza more uxorio e autonomia privata, cit., p. 111 ss.; del Prato, op. cit., p. 979 s.; de Scrilli, I patti di convivenza.
Considerazioni generali, in Aa. Vv.,
Convivenza e situazioni di fatto, in Trattato di diritto di famiglia
diretto da Paolo Zatti, I, Famiglia
e matrimonio, cit., p. 854 ss.; contra Angeloni, Autonomia
privata e potere di disposizione nei rapporti familiari, cit., p. 528.
[62] Cass., 8 giugno 1993, n. 6381, cit.
[63] Per un’illustrazione dello sviluppo storico del tema
si fa rinvio a Oberto, I regimi
patrimoniali della famiglia di fatto,
cit., p. 169 ss.; cfr. inoltre Id.,
Le prestazioni lavorative del convivente more uxorio, cit., p. 1 ss.
[64] Cfr. Duranton,
Corso di diritto civile secondo il codice francese, ed. italiana, VI, Torino, 1843, p. 176; Demolombe, Cours de droit civil, XII, Bruxelles, 1868, p. 129; Laurent, Principes de droit
civil, XVI, Bruxelles - Paris, 1878,
p. 208.
[65] Come invece affermato da A. Trabucchi, Pas par cette
voie s’il vous plaît!, cit., p. 349.
[66] Cass., 8 giugno 1993, n. 6381, cit.
[67] Questo, dunque, e non l’incoercibilità dei doveri in
discorso (secondo quanto invece sostenuto da D’Angeli,
La famiglia di fatto, Milano, 1989, p. 426),
costituisce il vero motivo dell’impossibilità di rendere giuridicamente
rilevante l’impegno morale di fedeltà reciproca tra conviventi. Ché,
altrimenti, dovrebbe ritenersi meramente «platonico» pure il dovere di fedeltà
tra coniugi, coercibile, come noto, solo in via indiretta, per mezzo
dell’addebito della separazione.
[68] La conclusione riceve indiretta conferma dall’art. 79
c.c., che dichiara nulla qualsiasi penale posta a garanzia di una promessa di
matrimonio, nonché dal fatto che uguale sorte si ritiene comunemente
ricollegata a un’analoga clausola che i coniugi dovessero prevedere a suggello
di uno o più dei doveri ex art. 143
c.c. Sul tema cfr. Oberto, I regimi patrimoniali della famiglia di
fatto, cit., p. 193 ss.; in senso conforme v. anche Franzoni, I contratti tra conviventi «more uxorio»,
cit., p. 747; Sesta, Diritto
di famiglia, cit., p. 348.
[69] La tesi, proposta da chi scrive anche all’attenzione
della dottrina tedesca (cfr. Oberto,
I regimi patrimoniali della famiglia di
fatto, cit., p. 197 s.; Id., Partnerverträge in rechtsvergleichender Sicht unter besonderer Berücksichtigung des
italienischen Rechts, cit., p. 7), sembra avere riscosso consenso presso
quest’ultima (cfr. Grziwotz, Partnerschaftsvertrag, für die nichteheliche Lebensgemeinschaft,
cit., p. 31; SCHREIBER, Die nichteheliche Lebensgemeinschaft.
Bestandaufnahme, Rechtsvergleich, Gestaltungsvorschläge, München, 1995, p.
110; per una valutazione di tale impostazione in (non meglio precisati)
«termini problematici» in Italia v. Franzoni,
I contratti tra conviventi «more uxorio»,
cit., p. 749 s.; alcuni richiami anche in Basini,
Le promesse premiali, Milano, 2000,
p. 40, 58 ss.; del Prato, op. cit.,
p. 976 s.).
Si noti che, dal punto di vista storico, una precisa
indicazione nel senso indicato sembra provenire anche dal diritto romano:
«Titio centum relicta sunt ita, ut Maeviam uxorem, quae viduam est, ducat:
conditio non remittetur; et ideo nec cautio remittenda est. Huic sententiae non
refgragatur, quod si quis pecuniam promittat, si Maeviam uxorem non ducat,
Praetor actionem denegat: aliud est enim eligendi matrimonii poenae metu
libertatem auferri, aliud ad matrimonium certa lege invitari» (D., 35, 1, 71,
1). Per secoli il passo in questione venne interpretato come ammissivo della
validità di istituzioni testamentarie sotto la condizione si nupserit.
Così, secondo BARTOLO DA SASSOFERRATO,
In secundam infortiati partem,
Venetiis, 1580, f. 118 (commento a D., 35, 1, 71) «Matrimonia debent esse
libera a poena damni, non a poena amissionis lucri», mentre per BALDO DEGLI UBALDI, Commentaria in vi. vii. viii. ix. x. et xi. Codicis lib. adnotationibus
Alexandri Imolensis, Andreae Barbatiae, Celsi, Philippique Decij Illustrata,
Venetiis, 1572, f. 81 (commento a C., 6, 25, 1) «Conditio nubendi, apposita
institutioni, debet impleri: (…) aliud est apponere poenam: ut in contrariis:
aliud conditionaliter providere: ut hic. (…). Et est ar.(gumentum) ad
quaestionem, an valeat legatum, si relinquitur alicui si monasterium
intraverit. et videtur quod sic: ut hic». Anche ALCIATI,
In Pandectarum seu Digestorum iuris civilis septimae partis titulos aliquot
commentaria continens, in D. Andreae Alciati Mediolanensis iureconsulti
celeberrimi, operum Tomus II, Basileae, 1582, c. 949 afferma che «licet
metu poenae ad matrimonium adstringi quis nequeat, spe tamen praemij solicitare
posse. Et ideo vaalet paternum testamentum, quo filias in triente legitimo
instituat: et praeterea in tota haereditate, si nupserint mercatoribus (…).
Idem in conditione, si nupserit civi, non autem alienigenae (…); sicut et valet
beneficij concessio a principe clienti facta, et eius filiis masculis et
foeminis, dum tamen foeminae nubant subiecto. Idem, si additum sit, dum nubant
ex voluntate principis (…). Et haec quidem in matrimonio procedunt, ad quod spe
lucri potest quis invitari, atque allici»; così pure MANTICA, De coniecturis ultimarum voluntatum,
Venetiis, 1607, p. 304, è dell’avviso che «si alicui legatum fuerit relictum
sub conditione, si cum Lucilla nuptias contraxerit; debet parere conditioni,
alioquin excluditur a legato, si honeste poterit tales nuptias contrahere»,
mentre BOSSIUS, De matrimonii
contractu tractatus, Venetiis, 1643, p. 371 afferma che «communis et certa
conclusio est, quod, licet metu poenae vir, vel foemina non possit impelli ad
nubendum (…), tamen spe lucri potest quis allici ad matrimonium; ac proinde, si
testator legans dixerit, Lego Titiae, vel Titio centum, si nupserit,
valed conditio, nec legatum debetur, petive poterit, nisi contractis nuptiis»;
ancora, SANCHEZ, De sancto
matrimonii sacramento, Venetiis, 1685, p. 62, ribadisce che «valida est
poena consistens in lucro non comparando; ut si aliquid legetur Mariae ea lege,
ut Titio nubat, quare si illi non nupserit, non comparabit lucrum illud legati,
et ratio est, quia haec non est vera poena, sed potius est spe lucri
comparand[i] ad matrimonium invitari». Lo stesso SAVIGNY,
System des heutigen römischen Rechts, III, Berlin, 1840, p. 179 ss, p.
182 ss., dopo aver constatato – a seguito di un minuzioso esame delle fonti sul
punto – che, secondo il diritto romano, è addirittura consentito che «ein Mann
einer Frau (oder umgekehrt) Geld verspricht, unter der Bedingung, daß sie ihn
heurathe», ne conclude che «Conventionalstrafen sind ungültig, wenn sie auf
irgend eine Weise die Entschlüsse in Ehesachen zu leiten bestimmt sind.
Vermögensvortheile können in der Regel auch an solche Entschlüsse, als gültige
Bedingungen, geknüpft werden». Per
ulteriori approfondimenti sull’argomento cfr. OBERTO, I contratti della crisi coniugale, I,
cit., p. 605 ss.
[70] In questo senso v. Aa. Vv., Couple et modernité, 84ème congrès des notaires
de France, La Baule, 29 mai - 1er juin 1988, Malesherbes, 1988, p.
409. Si noti però che la conseguenza di
tale premessa è la nullità dell’intero contratto (art. 1354 c.c.): ne deriva
che il mutuante è legittimato in ogni tempo a richiedere la restituzione
dell’importo a titolo di indebito.
[71] Cfr. Noir-Masnata, Les effets patrimoniaux du concubinage et leur
influence sur le devoir d’entretien entre époux séparés, Genève,
1982, p. 58; Jeanmart, Les effets
civils de la vie commune
en dehors du mariage, Bruxelles, 1975, p. 215; Malaurie e Aynes, Cours de droit
civil, La famille, Paris, 1987,
p. 124.
[72] Significativo è il caso risolto da OLG Hamm,
24 marzo 1987, in FamRZ, 1988, p.
618. Herr K. e Frau R., conviventi more uxorio, concludono una Vereinbarung diretta a regolare la propria
vita in comune, nonchè le conseguenze di un’eventuale rottura del ménage. Una delle clausole di tale
accordo, redatto per iscritto, prevede testualmente che «per il caso di
scioglimento del rapporto more uxorio per iniziativa di K. quest’ultimo
si impegna a corrispondere a R., a titolo di indennizzo, la somma di DM 40.000.
Nel caso la convivenza di protragga per dieci anni la somma verrà aumentata a
DM 80.000. R. e K. concordano nel ritenere esclusa l’operatività del predetto
diritto di indennizzo nel caso gli stessi contraggano matrimonio oppure se sarà
R. a decidere di sciogliere il legame».
La Corte afferma la nullità di tale clausola per due
distinti motivi. In primo luogo, perché il contratto è stato concluso quando Herr K. era ancora sposato: la
previsione di una penale per lo scioglimento della relazione extramatrimoniale
va ritenuta come sittenwidrig ai
sensi del § 138 BGB, in quanto diretta a scoraggiare la riconciliazione con la
moglie favorendo invece la violazione del dovere di fedeltà coniugale. La
seconda ragione (di carattere assorbente, tanto da far ritenere irrilevante la
circostanza del successivo divorzio di K.) è che una clausola del genere, anche
in considerazione dell’entità della somma, tende allo scopo di «rendere più
difficoltoso, se non addirittura impossibile, per il convenuto (K.) lo
scioglimento del rapporto di fatto». Secondo i giudici, la conseguente
limitazione della libertà di autodeterminazione dell’obbligato nella sfera dei
suoi diritti personalissimi deve dunque essere considerata intollerabile, oltre
che in contrasto con i principi fondamentali dell’ordinamento (al punto che,
secondo la Corte, le conclusioni non potrebbero essere diverse neppure in
relazione a una coppia coniugata).
[73] V. i casi risolti da Cass., 27 aprile 1982, n. 2629,
in Arch. civ., 1982, p. 715 (relativo a un contratto di mantenimento il cui
sinallagma era costituito dalla alienazione di un immobile contro «servitù,
pulizia, cucinare, accudire gli animali, riscaldamento d’inverno, convivere con
la vitaliziata, e provvedere, sia di giorno che di notte, a tutto quanto la
stessa potesse chiedere o comandare, compagnia o cure»), da Cass., 5 gennaio
1980, n. 50, in Foro it., 1980, I, c. 1813 (concernente un
vitalizio avente a oggetto la prestazione di vitto, vestiario, assistenza
materiale e spirituale) e da Trib. Napoli, 14 febbraio 1974, in Dir. giur.,
1975, p. 110 (in cui il vitaliziante si era impegnato a fornire «prestazioni di
lavoro domestico ed assistenza diurna e notturna, con le cure e premure necessarie
alla (...) tranquillità e salute» del vitaliziato). Nel senso della nullità di
un impegno a convivere dedotto in un contratto di mantenimento, sotto il
profilo della violazione della libertà personale, v. Calo’, Contratto di mantenimento
e proprietà
temporanea, nota a Cass., 11 novembre
1988, n. 6083, in Foro it., 1989, I, c. 1168.
[74] Cass., 21 gennaio 1942, n. 197, in Foro it.
Rep. 1942, voce Successione legittima o testamentaria, n. 171.
[75] Cfr. De Cupis,
I diritti
della personalità, in Trattato di diritto
civile e commerciale, già
diretto da Cicu e Messineo, continuato da Mengoni, Milano, 1982, p. 223. In
giurisprudenza cfr. Trib. Trani, 17 marzo 1961, in Rep. Giur. it., 1962, voce Alimenti, n. 5.
[76] Cass., 26 marzo 1983, n. 2143, in Foro it.,
1983, voce Notificazione civile, n. 12.
[77] Nello stesso senso v. Kunigk, op. cit., p. 119 s.
[78] Si immagini l’impegno di uno o di entrambi i
conviventi a esperire il ricorso al Capo dello Stato ex artt. 153 ss. r.d. 9 luglio 1939, n. 1238, sull’ordinamento dello
stato civile, al fine assumere un cognome identico. Contraria alla validità di
un impegno del genere è anche la dottrina tedesca (v. Strätz, Rechtsfragen
des Konkubinats im Überblick, in FamRZ, 1980, p. 306).
[79] V. BGH, 17 aprile 1986, in FamRZ, 1986, p. 773. I conviventi
avevano di comune accordo deciso di non avere figli e all’uopo la donna si era
impegnata a fare uso della «pillola»; l’accordo non era però stato da
quest’ultima rispettato, tanto che dalla relazione era nato un figlio, al
mantenimento del quale il convivente, quale padre naturale, era stato
condannato con sentenza passata in giudicato. L’uomo convenne quindi in
giudizio la donna chiedendole il risarcimento danni per la violazione
dell’accordo sull’uso dei mezzi contraccettivi. La Corte Suprema Federale
respinse la domanda affermando la nullità di tale contratto per Sittenwidrigkeit, in quanto «lesivo
della più intima sfera di libertà personale».
[80] Cfr. Oberto,
I regimi patrimoniali della famiglia di fatto, cit., p. 205 ss.; in
senso conforme cfr. ora anche de Scrilli,
op. cit., p. 860.
[81] Cfr. Gigliotti,
Rottura della convivenza more
uxorio e affidamento del figlio naturale: rilevanza dell’accordo parentale
sulle condizioni della «separazione», nota a Trib. Min. Reggio
Calabria, 17 ottobre 1994, cit., p. 613 ss., 630.
[82] Cfr. Trib. Palermo, 18
febbraio 1987, in Dir. fam. pers., 1987, p. 760; Trib. Monza, 22 giugno
1990, in Foro pad., 1991, c. 531 (si noti che il richiamo ai «coniugi», di
cui alla massima riportata sulla rivista citata, è frutto di errore: dalla
motivazione si desume, infatti, che trattavasi di convivenza more uxorio); Trib. Min. Reggio
Calabria, 17 ottobre 1994, cit.; App. Milano, 4 dicembre 1995, cit. Un accenno
in proposito sembra essere contenuto anche nella motivazione di una pronunzia
di legittimità, secondo cui «l’art. 317-bis pone alcuni criteri
attributivi dell’esercizio della potestà e prevede come meramente eventuale e
successivo l’intervento del giudice, costruendolo come preordinato a correggere
il cattivo funzionamento dei criteri predetti ed eventualmente a stabilire
regole alternative, secondo un ampio spettro di ipotesi che arriva fino alla
possibilità di escludere entrambi i genitori dall’esercizio della potestà»
(cfr. Cass., Sez. Un., 25 maggio 1993, n. 5847).
[83] Per concludere sull’argomento dei rapporti non
patrimoniali si potrà ancora dire che preoccupazioni analoghe a quelle sopra
illustrate non paiono invece assolutamente sussistere nell’ambito della
dottrina di common law, ove le considerazioni di public policy non sembrano porre alcun ostacolo alla pattuizione di
clausole regolanti aspetti di carattere strettamente personale, quali:
a) obbligo di fissazione della residenza in comune (o
di mutare l’attuale residenza comune); eventuale previsione di una «residenza
alternata» per determinati periodi di tempo;
b) termini di durata del rapporto, identificati con
una data ben precisa, ovvero con un certo avvenimento che funge, per così dire,
da condizione risolutiva (per esempio: conviveremo almeno sin tanto che mi sarò
laureato in giurisprudenza, o finché i figli avranno terminato le scuole);
c) relazioni personali o interpersonali, dal cognome
che ciascuno dei partners assumerà,
alla fedeltà, all’«apertura» della coppia a terzi, all’uso di sistemi per il
controllo delle nascite, all’impegno ad adottare uno o più figli;
d) fissazione degli scopi della relazione, aspirazioni
dei conviventi, priorità di carriera, impegni di carattere sociale e a
beneficio di determinate comunità, scelta della confessione religiosa da
seguire e dell’insegnamento da impartire ai figli (v. Weitzman, Legal Regulation of Marriage, cit., p.
1250 ss.; l’unico impegno che l’autore individua come contrario all’ordine
pubblico, sulla base di alcuni precedenti giurisprudenziali, è quello dei
conviventi di non sposarsi, tra di loro così come con terze persone).
[84] Sul punto, per i necessari approfondimenti, cfr. Oberto, I regimi patrimoniali della
famiglia di fatto, cit., p. 241 ss.; per la dottrina successiva cfr. Franzoni, I contratti tra conviventi «more uxorio», cit., p. 752 ss.; del Prato, op. cit., p. 982 ss.; Oberto, Le prestazioni lavorative
del convivente more uxorio, cit., p. 114 ss.
[85] Sul punto v. Verheyden-Jeanmart, Le developpement
de la famille de fait
- AAspectes socio-juridiques - La situation
en droit belge, in AA. VV., Una legislazione
per la famiglia di fatto?,
Napoli, 1988, p. 65, secondo cui ben può formare oggetto dei contratti in esame
l’«obligation de secours et de contribution aux charges du ménage de fait
pendant l’union et après sa rupture». Cfr.
inoltre il cosiddetto «modello di Leida», redatto sotto la direzione del prof.
Van Mourik da un gruppo di studenti dell’Università di quella città (in Aa. Vv., Couple et modernité, cit., p. 520 ss.), che
all’art. 3, co. 1, prevede una contribuzione dei conviventi in parti uguali o
in misura proporzionale ai rispettivi redditi, con specificazione, al comma
secondo, di quelle spese cui entrambi sono tenuti a contribuire come effettuate
nel cadre du ménage commun, quali l’acquisto di generi
alimentari, vestiti, elettrodomestici, mobilio, telefono, ecc. Si veda infine
anche la formula elaborata dalla Direction
de la recherche et de
l’information
de la Chambre des notaires
du Québec., in Aa. Vv., Couple et modernité, cit., p.
514 ss., che prevede la fissazione delle modalità della contribution aux charges du ménage, in proporzione
alle proprie rispettive facoltà, ovvero con specificazione delle rispettive
misure.
[86] Cfr. Steinert, Vermögensrechtliche Fragen
während des Zusammenlebens und nach
Trennung Nichtverheirateter, in NJW,
1986, p. 685.
[87] Sul tema cfr., anche per i necessari rinvii, Oberto, I regimi patrimoniali della
famiglia di fatto, cit., p. 47 ss.; per la giurisprudenza più recente in
senso negativo cfr. Pret. Milano, 8 febbraio 1990, in Foro it., 1991, I,
c. 329; Trib. Napoli, 8 luglio 1999, in Fam. dir., 2000, p. 501, con
nota di Morello Di Giovanni.
[88] Contra Trib. Savona, 29 giugno 2002 in Fam.
dir., 2003, p. 596, con nota di Ferrando.
Nella specie, una donna (una volta tanto – come si vedrà tra breve – sembra
essere stato il partner di sesso femminile ad assumere la veste di
«contraente forte…», peraltro come nel già citato caso risolto di recente da
Cass., 13 marzo 2003, n. 3713, a riprova del fatto che anche la nostra società
sta cambiando…) aveva convenuto in giudizio il suo ex compagno, chiedendone la
condanna al pagamento della somma di € 5.164,57 (10.000.000 di lire) sulla base
di una causa petendi ricostruita nei termini seguenti dal giudicante:
«poiché, contrariamente agli impegni e alle obbligazioni assunte in sede di
stipula del contratto di convivenza more uxorio, il convenuto, al
contrario dell’attrice, non avrebbe partecipato al soddisfacimento delle
esigenze della famiglia di fatto in misura eguale e paritaria». Esperita
istruttoria orale (è da supporsi, in forza del disposto del capoverso dell’art.
2721 c.c.), il tribunale dà atto in sentenza che, secondo quanto dichiarato da
un teste, le parti «in presenza dello stesso teste, avevano verbalmente e
concordemente stabilito che avrebbero partecipato in misura eguale alle spese
inerenti la famiglia di fatto». Posto, dunque, di fronte ad un’azione di
adempimento di un contratto di contribuzione tra conviventi more uxorio,
il tribunale applica analogicamente l’art. 143 c.c. per «correggere» il
contenuto del contratto che, anche alla luce del criterio ex art. 1366 c.c.,
viene dal giudicante «inteso in modo generico e di massima», facendo «salve le
differenti possibilità economiche e lavorative dei componenti in un dato
momento». Di conseguenza – accertato in fatto lo squilibrio reddituale e
patrimoniale in favore della parte attrice e, in particolare la circostanza che
l’uomo «non sembra (…) disponesse di redditi particolari», mentre la donna
«aveva un reddito costante e sicuro» – il giudice respinge la domanda.
La motivazione viene così a trovarsi «in bilico» tra
due rationes decidendi inconciliabili: la prima, che fa leva
sull’inderogabilità del canone espresso dall’art. 143 c.c., ciò che dovrebbe
comportare il riconoscimento (quanto meno in via incidentale) della nullità
dell’intesa, ex art. 1418 c.c.; la seconda, che si basa
sull’interpretazione secondo buona fede di un negozio che, per poter essere
interpretato, dovrebbe essere ritenuto valido… Peraltro nessuna delle due
strade appare percorribile: non la prima, perché – come si è detto – l’art. 143
c.c. (la cui inderogabilità è sancita, tra l’altro, per i soli coniugi,
dall’art. 160 c.c.) non appare in alcun modo riferibile (sub specie
obligationis civilis) alla famiglia di fatto (in senso critico, sul punto,
rispetto alla decisione, cfr. anche la nota di commento di Ferrando, Le contribuzioni tra
conviventi fra obbligazione naturale e contratto, cit., p. 600); non la
seconda, perché in claris non fit interpretatio, né si comprende per
qual motivo (non giustificato da emergenze processuali, quanto meno citate in sentenza)
sarebbe stato presente, al momento della conclusione del contratto, un
«ragionevole affidamento» sul fatto che l’impegno avrebbe dovuto essere
riferito alle «differenti possibilità economiche e lavorative dei componenti in
un dato momento», anziché ai verba chiaramente usati dalle parti e che
ben avrebbero, tra l’altro, potuto ingenerare un altrettanto ragionevole
affidamento in capo alla donna, circa la futura divisione a metà di tutte le
spese afferenti al ménage.
[89] Cfr. Mazzocca,
op. cit., p. 92; cfr. inoltre Gazzoni,
Dal concubinato alla famiglia di fatto, cit., p. 165.
[90] E’ il suggerimento di Calo’, Contratto di mantenimento
e proprietà
temporanea, cit., c. 1171.
[91] V. per tutti Calo’,
Contratto di mantenimento e proprietà
temporanea, cit., c. 1165; Andreoli, La rendita vitalizia, in Trattato di diritto civile diretto da Vassalli, Torino, 1958, VIII, p. 47 ss. Per un
caso di contratto di mantenimento tra conviventi in Germania v. BGH, 29
giugno 1973, in NJW, 1973, p. 1645,
che ha affermato la validità di un accordo con cui un uomo aveva trasferito
alla propria convivente la proprietà di un immobile, riservandosi il diritto
vitalizio d’abitazione sullo stesso, in cambio dell’impegno della convivente
di assisterlo e curarlo per il resto dei suoi giorni (nella specie la Sittenwidrigkeit è stata esclusa perché
il negozio non appariva direttamente rivolto a remunerare le prestazioni
sessuali della convivente, tenuto conto, da un lato, della durata del rapporto
e, dall’altro, che l’onere della prova dell’immoralità gravava sull’attore).
[92] Tali prestazioni accessorie possono avere natura
patrimoniale (v. per esempio il caso risolto da Cass., 11 novembre 1988, n.
6083, cit., in cui il vitaliziante si era impegnato verso il vitaliziato ad
effettuarne «il trasporto in macchina in città italiane, della Francia o della
Svizzera» e a «ospitare parenti ed amici del vitaliziato in caso di malattia»),
ma anche non patrimoniale (si pensi all’impegno di prestare assistenza morale,
o compagnia ovvero, ancora, di convivere con il vitaliziato), sulle quali
ultime si addensano però i dubbi di validità già prospettati, tanto con
riferimento alla possibilità per tali prestazioni di formare oggetto di
rapporto obbligatorio e di contratto, ex
artt. 1174, 1321 c.c., quanto, soprattutto, con riguardo agli aspetti d’ordine
pubblico per l’eventuale lesione della libertà personale del vitaliziante.
[93] Per i richiami cfr. Oberto,
I regimi
patrimoniali della famiglia di fatto,
cit., p. 242 ss.
[94] Si tratterebbe in particolare di donazione di
prestazioni periodiche, ai sensi dell’art. 772 c.c. Nel senso che tra le
prestazioni di cui alla norma citata possono rientrare «quelle che hanno
funzione alimentare, di beneficenza o di soccorso» v. Carnevali, Gli atti di
liberalità e la donazione contrattuale,
in Trattato di diritto privato diretto da P. Rescigno, VI,
Torino, 1982, p. 468.
[95] Si pensi alla casa d’abitazione e al relativo arredo,
all’automobile, ecc. In relazione alla casa di abitazione è stato proposto di
prevedere, nell’ipotesi l’immobile sia di proprietà di uno solo, l’obbligo per
l’altro di corrispondere una somma per l’uso del bene (v. il «modello di
Leida», cit., art. 4, co. 1). L’operazione finirebbe però con l’assoggettare il
rapporto alla disciplina della locazione, a nulla potendo giovare l’esplicita
esclusione di tale effetto (pure suggerita dal «modello» cit. : v. art. 4, co.
3).
[96] Con l’ovvia precisazione che «riproduzione» non
significa meccanica trasposizione degli istituti del diritto matrimoniale,
bensì creazione, per mezzo di un contratto e per quanto possibile, di effetti
analoghi. In quest’ottica v. già Funaioli,
Sui rapporti patrimoniali della convivenza «more uxorio», in Riv. dir. comm., 1941, II, p. 213 s.; contra Tedeschi,
Il regime patrimoniale della famiglia, Torino, 1963, p. 4, secondo cui le particolarità proprie
dei regimi matrimoniali non potrebbero essere in alcun modo riprodotte
nell’ambito di una convivenza more uxorio.
[97] Su cui v. per tutti Corsi,
Il regime patrimoniale della famiglia, in Trattato di diritto
civile e commerciale, già
diretto da Cicu e Messineo e continuato da Mengoni, I, 1, Milano, 1979, p. 72.
[98] Cfr. Oberto,
I regimi patrimoniali della famiglia di fatto, cit., p. 262 ss., 268 ss.
[99] Cfr. de Scrilli,
op. cit., p. 863.
[100] Le gravi incertezze interpretative cui ha dato luogo
la norma citata circa l’individuazione dell’oggetto della comunione legale
sconsigliano in ogni caso il riferimento ad un concetto generico come quello di
«acquisto». Sarà invece opportuno indicare quali siano i diritti destinati a
cadere in comunione, specificandone la natura (se cioè reale o obbligatoria) e
distinguendo a seconda del modo d’acquisto (se cioè a titolo originario,
derivativo, mortis causa, ecc.). E’ comunque consigliabile
elencare con esattezza anche quelle categorie di rapporti che, in
considerazione della loro natura personale, è opportuno restino esclusi dalla
comunione.
[101] «Meccanismo analogo a quello di cui all’art. 1706
c.c. » (cfr. Oberto, I regimi
patrimoniali della famiglia di fatto, cit., p. 265 ss.; cfr. poi anche Franzoni, I contratti tra conviventi
«more uxorio», cit., p. 755; Sesta,
Diritto di famiglia, cit., p. 348 s.) non significa, ovviamente, che il
negozio di cui si discute abbia natura di mandato senza rappresentanza,
secondo l’equivoco (voluto?) su cui si basano i rilievi di del Prato, op. cit., p. 985, ad
avviso del quale lo schema di riferimento sarebbe quello del contratto
preliminare. Sul punto sarà appena il caso di rilevare come un contratto
preliminare, per effetto della disposizione di cui all’art. 1351 c.c., non
possa concepirsi se non in relazione ad un definitivo che sia predeterminato
per ciò che attiene non solo ai soggetti, ma anche all’oggetto; si tratta,
dunque, di una situazione non riscontrabile nel caso di specie.
[102] Elaborata, come noto, dalla giurisprudenza di
legittimità in tema di fideiussione omnibus
(su cui v. ex multis Cass., 20 luglio 1989, n. 3386, in Foro it.,
1989, I, c. 3100).
[103] Per non dire poi del fatto che, in assenza della
specificazione dei beni oggetto dei negozi da trascrivere, non sarebbe neppure
individuabile la conservatoria territorialmente competente.
[104] Sul fatto che la quota di pertinenza di ciascun
coniuge in regime di comunione legale possa essere liberamente alienata v. Schlesinger, Della comunione legale, nel Commentario alla riforma del diritto di famiglia
a cura di Carraro - Oppo - Trabucchi, I, 1, Padova, 1977, p. 365 s.; Busnelli, La «comunione legale» nel diritto di famiglia
riformato, in Riv. notar., 1976, I, p.
42.
[105] Alla trascrivibilità del patto previsto dall’art.
1379 c.c. si oppongono non soltanto il carattere speciale di questa
disposizione, ma anche la tassatività delle ipotesi in cui la pubblicità ex artt. 2643 ss. c.c. è consentita (su
quest’ultimo argomento cfr. Cass., 18 febbraio 1963, n. 392, in Giust. civ., 1963, I, p. 249 e in Riv.
notar., 1963, II, p. 340, nonchè
Cass., 13 maggio 1982, n. 3001, in Giust.
civ., 1982, I, p. 2697 e in Giur. it., 1982, I, 1, c. 1132, sulla non trascrivibilità del patto di
prelazione).
[106] Per alcuni esempi v. la
formula della Direction de la
recherche et de l’information
de la Chambre des notaires
du Québec (in Aa. Vv., Couple et modernité, cit., p.
516 ss.); cfr. inoltre Weitzman, Legal Regulation of Marriage, cit., p. 1251.
[107] Cfr. la formula della Direction de la recherche
et de l’information de la Chambre
des notaires du Québec (in Aa. Vv., Couple et modernité,
cit., p. 514), nonchè il cosiddetto «modello di Leida», redatto sotto la
direzione del prof. Van Mourik da un gruppo di studenti dell’Università di
quella città (ivi, p. 524).
[108] Per la negativa v. Cass., 18 gennaio 1968, n. 128, in
Rep. Foro it., 1968, voce Servitù, n. 64; Cass., 31 marzo 1971, n.
936, in Giust. civ. 1971, I, 1063; Cass., 6 aprile 1971, n. 1017, in Giur. it., 1972, I, 1, c. 381. Per la dottrina cfr. Scognamiglio, Riconoscimento di proprietà contenuto in un testamento,
in Giur. compl. cass. civ., 1951, p. 31 ss.
[109] Secondo quanto suggerito
dalla formula della Direction de la
recherche et de l’information
de la Chambre des notaires
du Québec (in Aa. Vv., Couple et modernité, cit., p.
519) e dal «modello di Leida» (cfr. art. 6, co. 1, ivi, p. 523).
[110] Cfr. Oberto,
I contratti della crisi coniugale, I, cit., p. 558 ss. (ove si parla di
ricorso al regime di separazione dei beni in contemplation of divorce);
per analoghe considerazioni v. Sesta,
Titolarità e prova della proprietà nel regime di separazione dei beni,
in Familia, 2001, p. 871 ss.
[111] La formula predisposta dalla Direction de la
recherche et de l’information de la Chambre des notaires du Québec (in Aa. Vv., Couple et modernité,
cit., p. 514) prevede invece, in alternativa rispetto ad una convenzione
«comunitaria», anche una di tipo «autonomista», nella quale si stabilisce
espressamente che ciascuno dei conviventi conservi la proprietà e la libera
disponibilità dei propri beni.
[112] Come suggerito dal «modello di Leida» (in Aa. Vv., Couple et modernité,
cit., p. 520), nonchè da Langenfeld,
Die nichteheliche Lebensgemeinschaft, cit., p. 927 s. (non solo, si
badi, per il Partnerschaftsvertrag der Ehe auf Probe, bensì anche per il
modello proposto a coloro che intendono la convivenza come un’alternativa
definitiva rispetto al matrimonio).
[113] Magari limitata alle spese di carattere straordinario
(mantenimento agli studi, acquisto di un veicolo, di un computer...) o comunque a quelle di una determinata entità (usando,
per esempio, come parametro, lo stipendio del disponente). Sull’argomento cfr.
anche Langenfeld, Die
nichteheliche Lebensgemeinschaft, cit., p. 927, 929, nonché il Modello
svizzero redatto dall’Association des
Centres Sociaux Protestants e allegato a Union
Internationale Du Notariat Latin, Problèmes
juridiques du couple non marié, cit., p. 22 (art. 4.3).
[114] Langenfeld,
Die nichteheliche Lebensgemeinschaft,
cit., p. 936 (il quale riporta l’esempio di una segretaria che mantenga agli
studi il convivente). E’ evidente però che un accordo del genere non varrebbe
ad esonerare le parti dal rispetto, per ogni singola attribuzione, della forma
solenne, in tutti i casi in cui la stessa è richiesta dalla normativa in tema
di donazione.
[115] Langenfeld,
Die nichteheliche Lebensgemeinschaft,
cit., p. 927 (che suggerisce di escludere ogni forma di Nutzungsentschädigung per i beni apportati in godimento).
[116] Oberto,
I regimi patrimoniali della famiglia di fatto, cit., p. 280 s.
[117] Angeloni,
Autonomia privata e potere di disposizione nei rapporti familiari, cit.,
p. 537 s.
[118] Cfr. M.
Giorgianni, voce Causa, in Enc. dir., VI, Milano, 1960, p. 564 ss.;
Natoli, L’attuazione del rapporto obbligatorio. Appunti dalle lezioni, II,
Milano, 1967, p. 42 ss.; Mengoni,
Gli acquisti a non domino, Milano,
1975, p. 200 ss.; per ulteriori richiami cfr. Camardi,
Principio consensualistico, produzione e
differimento dell’effetto reale, in Contratto
e impresa, 1998, p. 572 ss., 590 ss. L’ammissibilità di negozi traslativi a
causa esterna trova, come noto, il suo punto d’appoggio principale nella
constatazione per cui nel nostro ordinamento positivo non fanno certo difetto
bene individuate ipotesi di atti del genere di quelli testé descritti: si
pensi, ad esempio, alle fattispecie disciplinate dagli artt. 651, 1197 cpv.,
1706 cpv. c.c. Neanche il fatto che il nostro sistema abbia accolto il
principio consensualistico può rappresentare un ostacolo al riguardo, posto che
qui il trasferimento non è qualificabile come astratto, ma è pur sempre operato
in virtù del consenso, appoggiato ad una valida causa ed espresso nel negozio
obbligatorio; come si è esattamente rilevato, l’art. 1376 c.c. agevola le
parti, ma non può vincolarle contro la loro stessa volontà: così Chianale, Obbligazioni di dare e atti traslativi solvendi
causa, in Riv. dir. civ., II, 1989,
p. 246 ss.; Id., Obbligazioni di dare e trasferimento della
proprietà, Milano, 1990, p. 48 ss., cui si fa rinvio anche per ulteriori
richiami dottrinali; analoghe considerazioni anche in Sacco e De Nova,
Il contratto, nel Trattato di diritto civile diretto da R.
Sacco, II, Torino, 1993, p. 56; Di Majo,
Causa e imputazione negli atti solutori,
in Riv. dir. civ., I, 1994, p. 782,
il quale rileva che la causa solvendi
non intende porsi in concorrenza con la «regola consensualistica», che trova il
suo baricentro nell’art. 1376 c.c., ma, anzi, per così dire, affiancarla su
terreni sui quali quella regola non è destinata a trovare applicazione; cfr.
inoltre Scalisi, Negozio astratto, in Enc. dir., XXVIII, Milano, 1978, p. 52
ss.; Sciarrone Alibrandi, Pagamento traslativo e art. 1333 c.c., in Riv.
dir. civ., II, 1989, p. 525 ss.; Camardi,
op. cit., p. 572 ss., 599 ss.; Maccarone, Considerazioni d’ordine generale sulle obbligazioni di dare in senso
tecnico, in Contratto e impresa,
1998, p. 626 ss., 679 ss.; sulla distinzione storica tra titulus e modus adquirendi
v. Chianale, Obbligazioni di dare e trasferimento della proprietà, cit., p. 103
ss.; sull’applicazione specifica del tema della causa praeterita al caso in esame cfr. anche De Paola, Il diritto
patrimoniale della famiglia coniugale, I, Milano, 1991, p. 238, nota 242; Maccarone, Obbligazione di dare e adempimento traslativo, in Riv. notar., 1994, I, p. 1330 ss.; Oberto, I contratti della crisi coniugale, cit., II, p. 1353 ss.; Id., Prestazioni «una tantum» e trasferimenti tra
coniugi in occasione di separazione e divorzio, Milano, 2001, p. 265 s. Del
resto, che il principio consensualistico possa essere derogato si desume anche
dal secondo comma dell’art. 1465 c.c. (in materia di risoluzione del contratto
per impossibilità sopravvenuta della prestazione), che consente che l’effetto
traslativo o costitutivo sia differito fino allo scadere di un termine, nonché
dalla ammissibilità nel nostro ordinamento, della clausola che eleva il
pagamento del prezzo a condizione sospensiva di efficacia del contratto (Così Maccarone, Obbligazione di dare e adempimento traslativo, cit., p. 1334; Id., Considerazioni d’ordine generale sulle obbligazioni di dare in senso
tecnico, cit., p. 679).
[119] Sul tema cfr. anche Oberto,
Le prestazioni lavorative del convivente more uxorio, cit., p. 117 ss.
[120] Sui rapporti tra impresa familiare e convivenza more
uxorio si fa rinvio, anche per i necessari richiami alla dottrina e alla
giurisprudenza a Oberto, I
regimi patrimoniali della famiglia di fatto, cit., p. 79 ss.; Id., Le prestazioni lavorative del
convivente more uxorio, cit., p. 14 ss., 120 ss.
[121] Sul tema cfr. per tutti Corsi, op. cit., II, p. 83 ss.; Oberto, Famiglia e rapporti
patrimoniali. Questioni d’attualità, Milano, 2002, p. 271 ss.
[122] Per una dettagliata illustrazione dei precedenti cfr.
Oberto, I regimi patrimoniali
della famiglia di fatto, cit., p. 130 ss.; Id., Le prestazioni lavorative del convivente more
uxorio, cit., p. 73 ss.
[123] Su cui cfr., ex multis, Piccoli, L’avanprogetto di
convenzione sul «trust» nei lavori della Conferenza di diritto internazionale
privato de L’Aja ed i riflessi di interesse notarile, in Riv. not.,
1984, p. 844 ss.; Lupoi, Introduzione
ai trusts. Diritto inglese, Convenzione dell’Aja, Diritto italiano,
Milano, 1994; Id., La sfida
dei trusts in Italia, in Corr. giur., 1995, p. 1205 ss.; Id., voce Trusts ‑I)
Profili generali e diritto straniero, in Enc. giur. Treccani, XXV,
Roma, 1995, p. 7; Id., Trusts,
Milano, 2001, p. 491 ss.; Fumagalli,
La Convenzione dell’Aja sul trust ed il diritto internazionale
privato italiano, in Dir. comm. int., 1992, p. 533 ss.; Aa.Vv., Convenzione relativa alla
legge sui trusts ed al loro riconoscimento, in Commentario, a
cura di Gambaro, Giardina e Ponzanelli, in Nuove leggi civ. comm., 1993,
p. 1211 ss.; Broggini, Il trust
nel diritto internazionale privato italiano, in Beneventi (a cura di), I
trusts in Italia oggi, Milano, 1996, p. 11 ss.; Pocar, La libertà di scelta della
legge regolatrice del trust, in Beneventi (a cura di), I trusts in
Italia oggi, cit., p. 3 ss.; Luzzatto,
«Legge applicabile» e
«riconoscimento» di trusts secondo la Convenzione dell’Aja, in
Trusts att. fid., 2000, p. 7 ss.; S.M. Carbone,
Autonomia privata, scelta della legge regolatrice del trust e
riconoscimento dei suoi effetti nella Convenzione dell’Aja del 1985, in
Trusts att. fid., 2000, p. 145 ss.; Contaldi,
Il trust nel diritto internazionale privato italiano, Milano,
2001.
[124] Sul rapporto tra trusts e patti successori,
cfr. Rescigno, Trasmissione
della ricchezza e divieto dei patti successori, in Vita not., 1993,
p. 1281; Calò’, Dal probate
al family trust, riflessi ed ipotesi applicative in diritto italiano,
Milano, 1996, p. 101 ss.; Miranda,
Trust e patti successori: variazioni sul tema, in Vita not., 1997,
p. 1578 ss.; Gambaro, voce
Trusts, in Noviss. dig. it.,
Torino, 1999, p. 459 ss.;
F. Pene Vidari, Trust e
divieto dei patti successori, in Riv. dir. civ., 2000, p. 851 ss.; Lupoi, Trusts, cit., p. 663; Bartoli, Il trust, Milano, 2001,
p. 667 ss.
[125] Sul rapporto tra trusts e sostituzione
fedecommissaria, cfr., fra gli altri, Palazzo,
I trusts in materia successoria, in Vita not., 1996, p.
671 ss.; Lupoi, Trusts, cit., p.
553 ss.; Amenta, Trusts a
protezione di disabile, in Trusts att. fid., 2000, p. 618 ss.
[126] Sul tema cfr., anche per i richiami dottrinali e
giurisprudenziali, Di Landro,
Trusts per disabili. Prospettive applicative, in Dir. fam. pers.,
2003, p. 166 ss.
[127] Il dubbio è posto e superato da Calvo, La tutela dei beneficiari nel
«trust» interno, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1998, p. 51 ss., cui
si fa rinvio anche per ulteriori richiami.
[128] Sul tema cfr. ex multis Lupoi, Il trust
nell’ordinamento giuridico italiano dopo la convenzione dell’ Aja del 10 luglio
1985, in Vita notarile, 1992, p. 966 ss.; Id., Effects of the Hague Convention in a Civil Law Country -
Effetti della Convenzione dell’Aja in un Paese civilista, in Vita
notarile, 1998, p. 19 ss.; Broggini,
op. loc. ultt. citt.; Mazzamuto,
Il trust nell’ordinamento italiano dopo la convenzione dell’Aja,
in Vita not., 1998, I, p. 754 ss.; Moja, Trusts «interni» e società di capitali: un primo
caso, Nota a Trib. Genova, 24 marzo 1997, in Giur. comm., 1998, p.
764 ss.; Castronovo, Il trust e «sostiene Lupoi», in Europa e dir. priv.,
1998, p. 449 s.; Id., Trust e diritto civile italiano,
in Vita not., 1998, p. 1326 ss.; Ragazzini, Trust «interno» e
ordinamento giuridico italiano, in Riv. notar., 1999, p. 279 ss.; Palermo, Sulla riconducibilità del «trust
interno» alle categorie civilistiche, in Riv. dir. comm., 2000, p.
133 ss.; Pascucci, Rifiuto di
iscrizione nel registro delle imprese di atto istitutivo di trust
interno, Nota a Trib. Santa Maria Capua Vetere, 1 marzo 1999 - Trib. Santa
Maria Capua Vetere, 14 luglio 1999, in Riv. dir. impresa, 2000, p. 121
ss.; Gazzoni, Tentativo
dell’impossibile (osservazioni di un giurista «non vivente» su trust e
trascrizione), in Riv. notar., 2001, p. 11 ss.; Lupoi, Lettera a un notaio
conoscitore dei trust, in Riv. notar., 2001, p. 1159 ss.; Gambaro, Noterella in tema di
trascrizione degli acquisti immobiliari del trustee ai sensi della XV
Convenzione dell’Aja, in Riv. dir. civ., 2002, II, p. 257 ss.; Gazzoni, In Italia tutto è permesso, anche quel che è vietato (lettera aperta a
Maurizio Lupoi su trust e altre bagattelle),
in Riv. not., 2001, p. 1247
ss.; Id., Il cammello, il
leone, il fanciullo e la trascrizione del trust, in Riv. notar.,
2002, p. 1107 ss.; Nuzzo, E
luce fu sul regime fiscale del trust, in Banca, borsa, tit. cred.,
2002, p. 245 ss.
[129] Cfr. da ultimo Trib. Bologna, 1 ottobre 2003, al
seguente indirizzo web:
http://www.il-trust-in-italia.it/Giurisprudenza%20italiana/TribBologna1ott03.pdf
e, in dottrina,
S.M. Carbone,
Trust interno e legge straniera, in Dogliotti e Braun (a cura di), Il
trust nel diritto delle persone e della famiglia : atti del
convegno: Genova, 15 febbraio 2003, Milano, 2003, p. 28.
[130] Cfr. il rapport explicatif (n. 123, a commento
dell’art. 13); il passo cui sembrano fare riferimento i sostenitori della
validità del trust «interno» è invece quello che, a commento dell’art. 6
(nn. 65 e 66), dà atto del rigetto di una proposta tendente a legare la scelta
della legge straniera all’esistenza di un «lien [réel] avec la loi choisie»; il
rigetto di tale proposta s’accompagna però al rilievo secondo cui «l’opinion a
prévalu qu’il était préférable de réprimer les choix abusifs dans ce qui allait
devenir l’article 13»: appare dunque chiara l’intenzione di considerare
«abusiva» la scelta del ricorso ad una legislazione straniera per dare vita ad
un trust «interno» in un Paese che non conosca tale istituto; il testo
del rapport explicatif è disponibile al sito web seguente: http://www.hcch.net/f/conventions/expl30f.html.
[131] Su cui v. Calvo,
op. loc. ultt. citt.; cfr. inoltre Lipari,
Fiducia statica e trusts, in Beneventi (a cura di), I trusts in
Italia oggi, cit., p. 75; Lupoi,
Legittimità dei trusts interni, ivi, p. 41; Calò’, Dal probate al family
trust, riflessi ed ipotesi applicative in diritto italiano, cit., p. 99,
nota 86.
[132] Su cui cfr. per tutti Oberto, Famiglia e rapporti patrimoniali. Questioni
d’attualità, cit., p. 172 ss.
[133] Per un accenno alla questione v. anche Marchesiello, La dote per mezzo di
trust secolare, in Dogliotti e Braun (a cura di), Il trust nel
diritto delle persone e della famiglia : atti del convegno: Genova, 15
febbraio 2003, cit., p. 195 ss.
[134] Diverso rispetto alla fattispecie ipotizzata nel
testo appare il caso di cui all’atto istitutivo di trust pubblicato su
Trusts att. fid., 2003, p. 126 ss., con nota di Lupoi, Trust e "dote": un commento, ivi, p.
141 s. Qui, in forza di un testamento
cinquecentesco, un certo fondo era stato lasciato a tre discendenti del
testatore allo scopo di impiegarne le rendite per costituire una dote alle
«fanciulle» della famiglia che si fossero maritate o avessero scelto di entrare
in un monastero. La proprietà sarebbe passata via via ai tre componenti più
anziani della famiglia, vincolati (essi e la proprietà) alle medesime finalità.
Nel corso dei secoli, trasferitosi il vincolo su di una somma, il fondo passò,
non senza controversie legali, da un discendente all’altro, sino a quando,
divenuto impossibile perseguire la finalità originaria nella forma ormai
vietata della dote, i tre amministratori furono costretti a dare un assetto
diverso alla fedecommisseria.
Nella specie i tre
costituenti scelgono la forma del trust «autodichiarato», limitato
soggettivamente – quanto ai beneficiari – alle «fanciulle» che recano il
cognome di famiglia discendenti da un particolare soggetto. I beni in trust
vengono trasferiti su un conto e sotto una posizione titoli intestati al trust
medesimo, che si vuole regolato dalla legge delle isole caraibiche di Turks e
Caicos: scelta obbligata, in quanto solo quella legge prevede trust
senza termine finale di durata, senza imporre al tempo stesso un trustee
residente nel territorio. La giurisdizione è attribuita al giudice italiano.
Vengono poi dettate norme per l’attribuzione della presidenza del trust e le
sue deliberazioni. Il reddito viene accumulato e reinvestito, sino a quando non
si presentino le condizioni per l’attribuzione a una beneficiaria che si sposi
o prenda il velo. E’ regolata la determinazione dell’entità del beneficio e
prevista l’eventualità di una pluralità di beneficiarie. L’effettiva
elargizione alla beneficiaria avverrà con le forme giuridiche scelte dai trustees, i quali possono sottoporre
l’elargizione a vincoli particolari all’impiego o prevederne la corresponsione
in più rate. Nell’ipotesi di esaurimento del trust per il venir meno dei
mezzi o loro insufficienza la somma residua dovrà essere distribuita in parti
eguali tra tutte le «fanciulle» della famiglia non sposate né fattesi monache.
Al riguardo si è paventata una possibile nullità ex art. 166-bis
c.c., avuto riguardo al fatto che solo le «fanciulle» sono beneficiarie del
fondo, mentre i soli «maschi» della famiglia sono suoi amministratori e gestori
(così Marchesiello, op. loc.
citt.). Peraltro andrà tenuto presente che l’atto non costituisce, di per
sé, beni in dote, e che le finalità del trust vengono individuate in quelle
di «sovvenire le fanciulle della famiglia che si maritino o prendano il velo
monacale», così facendo intendere che destinatarie delle relative utilità
saranno le «fanciulle» e non già i rispettivi mariti (cfr. del resto l’art.
20.2 ove, viene stabilito testualmente che «qualora una fanciulla, figlia
legittima o naturale, nata dalla famiglia … di … vada sposa o prenda il velo
monacale, i "Trustee" sono tenuti a versarle una somma, non eccedente
il reddito del Trust del precedente triennio, che essi determinano in piena e
assoluta discrezionalità…»), non menzionati nell’atto e ai quali non compete
pertanto alcun tipo di diritto, mentre ai trustees viene rimesso il
potere di scegliere «la forma giuridica della elargizione, (che può avvenire
una sola volta nei confronti del medesimo soggetto) l’eventuale vincolo al suo
impiego, la corresponsione in una o più rate». Quanto sopra, ad avviso dello
scrivente, ben potrebbe attuarsi, dunque, mercè una donazione obnuziale
(eventualmente nella forma modale), secondo la previsione dell’art. 785 c.c.
[135] La conclusione di cui al testo è peraltro
strettamente legata alla ratio del divieto di cui all’art. 166-bis
c.c. e al relativo ambito di operatività, la cui individuazione appare
tutt’altro che agevole: sul punto si fa rinvio per tutti a Oberto, Famiglia e rapporti
patrimoniali. Questioni d’attualità, cit., p. 180 ss.
[136] Cfr. Lupoi,
Lettera a un notaio conoscitore dei trust, cit., p. 1168. Non sembra però
condivisibile l’affermazione secondo la quale «nessun negozio conosciuto nel
nostro ordinamento assicura tali finalità»: non quella di evitare di «far danno
alla propria famiglia legittima», perché ogni attribuzione effettuata
(direttamente come indirettamente) alla convivente andrà a diminuire il
patrimonio del disponente, così riducendo le «aspettative» (di fatto) dei
futuri eredi legittimi; non quella di «commisurare le elargizioni alle
effettive necessità della compagna», finalità che ben può essere soddisfatta
mercè la stipula di un contratto di mantenimento (su cui v. supra, § 7).
[137] Cfr. Tarissi
de Jacobis, Esecuzione di un’obbligazione morale, al seguente
indirizzo web:
http://www.il-trust-in-italia.it/TrustInterni2002/Liberali/Tarissi%20t.htm.
Il ricorso al trust viene erroneamente presentato nello scritto come l’unico
modo di superamento dell’incoercibilità di un’obbligazione naturale, laddove è
chiaro che, da un lato, la creazione di un trust non è certo coercibile,
se il soggetto che dovrebbe assumere la veste di settlor non intende dar
luogo a tale attribuzione, e, dall’altro, una volta che il convivente «forte»
intende adempiere, questi ben può obbligarsi mercè la stipula di un contratto
di convivenza nei modi e nelle forme qui descritti. Favorevole alla
applicazione del trust alla famiglia di fatto è anche Cenni, Trusts e fondo patrimoniale,
al seguente indirizzo web:
http://www.il-trust-in-italia.it/Relazioni%20a%20convegni/Contributi%20dei%20soci/Cenni.htm;
Ead., Il fondo patrimoniale,
in Trattato di diritto di famiglia, diretto da Paolo Zatti, III, Regime
patrimoniale della famiglia, a cura di Franco Anelli e Michele Sesta,
Milano, 2002, p. 648. Per una panoramica delle questioni relative all’impiego
del trust nell’ambito delle relazioni giuridiche familiari cfr. F. Patti, I trusts:
problematiche connesse all’attività notarile, in Vita notarile,
2001, p. 547 ss.; Dogliotti e Piccaluga, I trust nella
crisi della famiglia, in Fam. e dir., 2003, p. 301 ss.; Dogliotti e
Braun (a cura di), Il trust nel diritto delle persone e della
famiglia : atti del convegno: Genova, 15 febbraio 2003, cit.
[138] Così Coppola,
La successione del convivente more uxorio, in Familia, 2003, p.
739. Ad avviso di chi scrive appare però difficile comprendere per quale
ragione, supponendo che il beneficiario sia persona maggiorenne e capace di
amministrarsi, non sia più idoneo, per il conseguimento degli scopi perseguiti
dal disponente, oltre che meno oneroso, prevedere l’attribuzione della
prestazione direttamente in capo al convivente superstite…
[139] Così, se si è ben compreso, Coppola, op. loc. ultt. citt. Peraltro allo scrivente
sembra quanto mai inopportuno affidare ad un soggetto estraneo
l’amministrazione di un conto corrente che, verosimilmente, dovrebbe servire a
fornire la necessaria base economica e finanziaria del ménage, con tutto
quello che siffatta soluzione comporta, anche dal punto di vista di una
gestione quotidiana che appare assai difficile predeterminare nell’atto istitutivo
del trust in tutti i sui molteplici (e sovente inaspettati) risvolti.
[140] Sul punto v., anche per i richiami, Coppola, op. cit., p. 742 s.
[141] Cfr. Moscati,
Trust e tutela dei legittimari, in Riv. dir. comm., 2000, I, p.
13 ss.; Lupoi, Trusts, cit., p.
667 s.
[142] Cfr. infra, § 14.
[143] Cfr. il Bills Digest No. 88 1999-2000, Family
Law Amendment Bill 1999, preparato nel 1999 dal Department of the
Parliamentary Library del Parliament of Australia, consultabile
all’indirizzo web seguente:
http://www.aph.gov.au/library/pubs/bd/1999-2000/2000bd088.htm#Passage. Sul tema degli accordi tra coniugi in
contemplation of divorce cfr. per tutti Oberto,
I contratti della crisi coniugale, I, cit., p. 483 ss.; Id., «Prenuptial agreements in
contemplation of divorce» e disponibilità in via preventiva dei diritti
connessi alla crisi coniugale, in Riv. dir. civ., 1999, II, p.171
ss. e ora anche Bargelli, L’autonomia
privata nella famiglia legittima: il caso degli accordi in occasione o in vista
del divorzio, in Riv. crit. dir. priv., 2001, p. 303 ss. Tale
Autrice, nella sua frettolosa lettura (sempre ammesso che lettura vi sia
stata…) dei lavori dello scrivente, accusa quest’ultimo di voler «considerare
risolto il problema dei patti sulle conseguenze del divorzio in base alla
semplice constatazione del carattere patrimoniale della prestazione»,
rimproverandolo altresì di non aver svolto un’analisi sufficientemente attenta
dei limiti di liceità e degli aspetti più specificamente familiari delle intese
in oggetto e lodando invece chi ha individuato quale limite specifico del
potere di disposizione degli interessati l’obbligazione alimentare (cfr. EAD., op. cit., p. 313, nota 37). Così facendo (e a tacer d’altro), la
predetta, oltre a dimostrare di non aver letto (il che, ovviamente, non è
grave; grave, invece, oltre che scorretto, è distribuire censure, senza aver
letto il contributo che si critica) le parti del lavoro dello scrivente nelle
quali – a ogni piè sospinto – si richiama la necessità del rispetto, nei
contratti della crisi coniugale, delle regole d’ordine pubblico e dei principi
inderogabili (cfr., a tacer d’altro, OBERTO,
I contratti della crisi coniugale, I,
cit., p. 32, 249 ss.; II, cit., p. 1085 ss.), così come di quelle
(inderogabili) proprie del diritto di famiglia e, tra di esse, prima tra tutte,
quella relativa all’obbligo alimentare (cfr. OBERTO,
I contratti della crisi coniugale,
II, cit., p. 798 ss., 844 ss.; in tale contesto, si noti che proprio allo
specifico tema degli accordi sull’obbligazione alimentare il sottoscritto
dedica un’intera sezione: cfr. OBERTO, I contratti della crisi coniugale, II, cit., da p. 844 a p. 861),
sembra dimenticare (il che è ancora più grave) che, tra divorziati, l’obbligo
alimentare non esiste…
[144] Cfr. Gazzoni,
Dal concubinato alla famiglia di fatto, cit., p. 165; Schwab, Zivilrecht und nichteheliche Lebensgemeinschaft, in Die
nichtheliche Lebensgemeinschaft, Herausgegeben
im Auftrag der Joachim Jungius-Gesellschaft der Wissenschaften
von Götz Landwehr, Göttingen,
1978, p. 67; Alt-Maes, La situation
de la concubine et de
la femme mariée dans le
droit français, in Rev. trim. dr. civ., 1983, p. 641
ss.; cfr. inoltre la formula della Direction
de la recherche et de
l’information
de la Chambre des notaires
du Québec (in Aa. Vv., Couple et modernité, cit., p.
519, che prevede non solo la fissazione di un vero e proprio «assegno», ma
anche la specificazione delle concrete modalità di somministrazione dello
stesso, le relative scadenze, nonchè la rivalutabilità secondo indici
prefissati). Consiglia la previsione di «termination fees, lump sums or periodic
payments provisions for support of partner, children or parents» anche Weitzman, Legal Regulation of Marriage,
cit., p. 1253. Contra Trabucchi, Pas par cette
voie s’il vous plaît!, cit., p. 350.
[145] Questo pare essere anche il criterio seguito in Francia
dalla dottrina e dalla giurisprudenza, che ritengono valida una pattuizione del
genere allorquando è diretta al fine di «prémunir la concubine contre la misère
après une vie commune de longue durée et présentant un caractère de stabilité»
(v. Malaurie e Aynes, op. cit., p. 128 s.;
Cass. Civ., 6 ottobre 1959, in D.,
1960, p. 515, con nota di Malaurie).
[146] Schwab,
op. cit., p. 67.
[147] Sul carattere eccezionale di tali rimedi v. per tutti
Vincenzi Amato, Gli alimenti,
in Trattato di diritto privato diretto da P. Rescigno, IV,
Torino, 1982, p. 883.
[148] Assolutamente da evitare appaiono invece tutte quelle
clausole dirette a rimettere misura e modalità di versamento di un’eventuale
«indennità di rottura» al comune accordo delle parti, come pure suggerito dalla
formula della Direction de la
recherche et de l’information
de la Chambre des notaires
du Québec (in Aa. Vv., Couple et modernité, cit., p.
519), atteso che, almeno il più delle volte, al momento della cessazione del ménage deve senz’altro presumersi che i
rapporti tra le parti si siano a tal punto deteriorati da non consentire di
raggiungere un consenso neppure su tali aspetti.
[149] Inutile dire che, delle due possibilità, è la prima a
fornire il maggior numero di garanzie per il convivente nei confronti del quale
un simile diritto viene pattuito. Invero, il carattere reale dell’istituto
disciplinato dagli artt. 1022 ss. ne determina l’opponibilità nei confronti dei
terzi, anche se l’effetto è legato alla trascrizione del relativo titolo (v.
art. 2643, n. 4, c.c.). D’altro canto, un comodato del genere di quello
descritto, in difetto di fissazione di un termine per la restituzione, darebbe
luogo a notevoli incertezze in ordine all’individuazione del momento di
cessazione, ex art. 1809, co. 1,
c.c., ed esporrebbe comunque il comodatario al rischio di una richiesta di
restituzione per effetto di un urgente ed impreveduto bisogno del comodante, ai
sensi dell’art. 1809 cpv., c.c.
[150] «Nel silenzio dell’art. 6 della legge n. 392 del 1978,
in caso di separazione coniugale ovvero di cessazione della convivenza more
uxorio con presenza di prole naturale, nell’ipotesi di accordo tra i
coniugi o tra gli ex-conviventi, il subingresso nel contratto di locazione si
verifica in modo del tutto automatico, indipendentemente dalla comunicazione o
comunque dalla conoscenza che di tale situazione abbia il locatore» (cfr. Pret.
Pordenone, 23 dicembre 1998, in Arch. locaz. cond., 1999, 846). Sulla
questione dell’applicabilità alla fattispecie in esame della sentenza Corte
cost., 7 aprile 1988, n. 404, v. Oberto,
I contratti della crisi coniugale, cit., II, p. 928 ss.
[151] Come suggerito dal «modello di Leida» (v. art. 7, co.
2, in AA. VV., Couple et modernité,
cit., p. 523).
[152] Falzea,
Problemi attuali della famiglia di fatto, in Aa. Vv., Una legislazione per la
famiglia di fatto?, cit., p. 52; contra D’Angeli,
La famiglia di fatto, cit., p. 423. Anche in Francia è
rimasta isolata l’opinione secondo cui il giudice, valutando il comportamento
delle parti, potrebbe ritenere l’esistenza di un «contrat tacite d’aide et
d’assistance mutuelle», che obbligherebbe i conviventi «tant pendant l’union
que après la rupture à subvenir aux besoins éventuels du partenaire» (v. Ganancia, Droits et obligations résultant du concubinage, in Gaz. Pal., 1981, Doctrine, p. 19). Nell’ottica esposta (e
criticata) nel testo sembra volersi collocare anche Palmeri, Il contenuto atipico dei negozi familiari,
Milano, 2001, p. 63 ss., secondo cui l’effettuazione di apporti tra conviventi
deriverebbe dall’accordo dal quale scaturisce la decisione di vivere insieme e,
dunque, implicitamente, anche dall’accordo di provvedere alle comuni esigenze
di vita. L’irripetibilità degli apporti effettuati tra conviventi non si
spiegherebbe dunque alla luce del disposto dell’art. 2034 c.c., ma deriverebbe
dalla vincolatività dell’obbligo che nasce dal contratto.
[153] Più precisamente, le trattazioni sogliono distinguere
tra express, implied-in-fact e implied-in-law contracts,
specificando che solo i primi due possono veramente definirsi contratti, mentre
il terzo, appartenente alla categoria dei quasi-contracts, viene ritenuto come una vera
e propria finzione, creata dai giudici «to enforce legal duties by actions of
contract where no proper contract exists, either express, or implied»: si
tratta dunque di un espediente per impedire l’ingiustificato arricchimento di
una delle parti a danno dell’altra. La linea di demarcazione tra le due ultime
categorie è però assai labile: essa dovrebbe infatti basarsi sulla presenza o
sull’assenza di un impegno negoziale manifestato per fatti concludenti, non
differenziandosi il contratto implied-in-fact
dall’express contract se non per il fatto che la prova della sua esistenza viene
raggiunta in via presuntiva (v. Kessler,
Gilmore e Kronmann, Contracts,
Cases and Materials,
Boston-Toronto, 1986, p. 141, secondo cui «It requires an agreement, a meeting
of the minds, an intent to promise and to be bound; it does not differ from an
express contract, except that it is circumstantially proved»). In realtà,
un’analisi della giurisprudenza mostra come entrambi i rimedi siano
indifferentemente usati per attribuire in via equitativa al convivente che
abbia prestato per anni la propria attività gratuitamente a beneficio
dell’altro una sorta di controprestazione costituita dal diritto di partecipare
agli incrementi patrimoniali conseguiti da quest’ultimo.
[154] Marvin v. Marvin,
18
[155] Cfr. Woodward, The Law of Quasi
Contracts,
[156] V. per tutti Steinert, op. cit., p. 687; Schlüter e Belling, Die nichteheliche Lebensgemeinschaft und ihre vermögensrechtliche
Abwicklung, in FamRZ 1986, p. 409; Diederichsen,
Rechtsprobleme der nichtehelichen Lebensgemeinschaft, in FamRZ,
1988, , p. 894. Dal canto suo anche il BGH
esclude che nella convivenza more uxorio l’intento di dar vita a rapporti
di natura giuridica costituisca la regola: ne consegue che (mangels besonderer Vereinbarung)
non appare possibile ricavare dal comportamento dei conviventi la prova della
conclusione di un contratto (nel caso di specie parte attrice sosteneva la
conclusione di un mandato avente ad oggetto la conclusione di una serie di
contratti d’appalto con imprese edili al fine di ristrutturare la casa della
convivente e trasformarla in Gastwirtschaft:
v. BGH, 3 ottobre 1983, in FamRZ,
1983, p. 1213; allo stesso ordine d’idee può ascriversi BGH, 23 febbraio
1981, in FamRZ, 1981, p. 530). Cfr.
inoltre LG Aachen, 30 settembre 1987, ivi, 1987, p. 717, che ha escluso la configurabilità di un tacito Kooperationsvertrag sulla base della
semplice situazione di convivenza tra le parti. Identiche sono le conclusioni
cui pervengono la dottrina e la giurisprudenza francesi che si sono occupate
del problema non tanto sotto il profilo del contratto di convivenza, bensì
sotto quello del mutuo e del mandato tra concubins
(analogamente, come si è appena visto, ad alcune delle situazioni sottoposte
all’esame dei giudici tedeschi), pretendendo sempre la presenza di un chiaro
accordo negoziale: v. Prothais, Dettes ménagères des concubins: solidaires, in solidum, indivisibles ou conjointes? (après l’arrêt Civ. 1re, 11 janv. 1984), in D., 1987, Chr. XLII, p.
242; Cass. Civ., 20 maggio 1981, in D.,
1983, p. 289; Cass. Civ., 10 ottobre 1984, in Gaz. Pal., 1985, 1, p.
186; Cass. Civ., 4 dicembre 1984, in Rev.
trim. dr. civ., 1985, p. 733.
[157] Oberto,
I regimi
patrimoniali della famiglia di fatto,
cit., p. 222 ss.
[158] Cfr. Grziwotz, Nichteheliche
Lebensgemeinschaft, München, 1999, p. 62.
[159] Dello stesso avviso sono Gazzoni, Dal concubinato alla famiglia di fatto,
cit., p. 162 s.; Schwab, op. cit.,
p. 66 ss.
[160] Affermano che il negotium
mixtum cum donatione configura
una donazione indiretta Torrente,
La donazione, Milano, 1956, p. 43 ss.; Cass., 23 gennaio 1967, n. 203,
in Giust. civ., 1967, I, p. 490. Contra
Carnevali, Gli atti di liberalità
e la
donazione contrattuale, cit., p. 449.
[161] Così come di un pagamento o di una remissione di
debito (cfr. artt. 2726 c.c.).
[162] In questo senso v. Santilli,
Note critiche in tema di
famiglia di fatto, in Riv. trim.
dir. proc. civ., 1980, p. 803;
in giurisprudenza cfr. Cass., 12 luglio 1929, in Foro it., 1930, I, c. 96.
Per la Francia v. Malaurie e Aynes, op. cit., p. 135; Cass.
Civ., 25 marzo 1969, in Bull. civ., 1969, I, n. 124, p. 97; Cass.
Civ., 28 maggio 1975, in Bull. civ., 1975, I, n. 181, p. 153; Cass.
Civ., 10 ottobre 1984, in Gaz. Pal., 1985, p. 186; App. Paris, 28
febbraio 1966, in Gaz. Pal., in D., 1966, Som., p. 106.
[163] Per l’esercizio del quale potrebbe prevedersi, a
mezzo di apposita clausola, il necessario rispetto della forma scritta (per
evidenti fini di carattere probatorio).
[164] V. per esempio il
«modello di Leida», art. 8, co. 1 (in Aa.Vv.,
Couple et modernité, cit., p.
524) e la formula della Direction de la
recherche et de l’information
de la Chambre des notaires
du Québec (ivi, p. 519).
[165] Cfr. Weitzman, Legal Regulation of Marriage,
cit., p. 1249 s.; Gray, Cohabitation Contract, in New Law Journal,
1973, p. 591 (che propone la seguente clausola: «Either party may terminate
this agreement by notice of three months, such notice to be in writing in the form
set out in the schedule hereto and served on the other party in person»).
[166] Al riguardo si tenga presente che, trattandosi di
rapporto di durata, dovrebbe trovare applicazione l’art. 1458 c.c.
[167] In alternativa, è ipotizzabile l’apposizione di una
condizione risolutiva, legata alla cessazione (per qualunque causa) della
convivenza. Una simile clausola è stata già ritenuta dalla giurisprudenza
compatibile con la struttura del contratto vitalizio (v. Cass., 10 gennaio
1966, n. 186, in Giur. it. 1966, I, 1, c. 1635; cfr. Calo’, Profili di interesse notarile della famiglia di fatto, cit., p. 89).
[168] Secondo le proposte del «modello di Leida» (v. art.
9, in Aa. Vv., Couple et modernité, cit., p.
524, che individua la persona dell’arbitro nello stesso notaio rogante, o nel
suo successore) e di Weitzman, Legal Regulation of Marriage, cit., p. 1253.
[169] Per una più approfondita disamina della questione
cfr. già Oberto, I regimi
patrimoniali della famiglia di fatto, cit., p. 139 ss. In senso conforme v. Derleder, op. cit., p. 548, il quale nota come «mit der Auflösung der
ehelosen Verbindung sehr viel eher gerechnet werden muß, als Ehegatten mit der
Eheauflösung rechnen müssen». Anche del Prato, op. cit., p. 978, sembra voler
contestare l’applicabilità del rimedio in esame alla convivenza more uxorio.
Contra Trib. Savona, 7 marzo 2001, in Fam. e dir., 2001, p. 529,
con nota di Dogliotti, che, in
relazione ad un contratto di usufrutto vitalizio su di un immobile, esclusa la
natura donativa dell’attribuzione, ha ammesso (peraltro solo in obiter)
la possibilità per il nudo proprietario di far valere la presupposizione, con
conseguente risoluzione del contratto, una volta venuta meno la convivenza. Per
una critica della decisione v. Oberto,
Le prestazioni lavorative del convivente more uxorio, cit., p. 83 ss.
[170] Per una disamina della questione e per i necessari
rinvii cfr. Oberto, I regimi
patrimoniali della famiglia di fatto, cit., p. 290 ss.
[171] Suggerisce, tra gli altri, l’inclusione di un Erbvertrag nel contratto tra i
conviventi Kunigk, op. cit.,
p. 128. Per
i sistemi di common law v. Weitzman,
Legal regulation of marriage, cit., p. 1253. Per una più approfondita disamina della questione e
per i necessari rinvii cfr. Oberto,
I regimi patrimoniali della famiglia di fatto, cit., p. 295 ss.; per la
dottrina successiva cfr. del Prato,
op. cit., p. 986 s.
[172] Gazzoni,
Dal concubinato alla famiglia di fatto, cit., p. 165. E’ chiaro che ci
si intende qui riferire ai soli patti successori istitutivi (detti anche
confermativi), ex art. 458, prima
parte, c.c.
[173] Cfr. per tutti Ferri,
Successioni in generale, nel Commentario del codice civile Scialoja-Branca, Bologna-Roma,
1964, p. 83 ss.; Grosso e Burdese, Le successioni. Parte generale, Torino, 1977, p. 94; De
Giorgi, voce Patto successorio, in Enc. dir., XXXII,
Milano, 1982, p. 535. Nello stesso senso è orientata la giurisprudenza: v.
Cass., 10 aprile 1964, n. 835, in Giust.
civ., 1964, I, p. 1604; Cass., 24
luglio 1971 n. 2477, in Rep. Foro it.,
1971, voce Successione ereditaria, n. 31; Cass., 21 aprile
1979, n. 2228, in Rep. Foro it.,
1979, voce Successione ereditaria, n. 55.
[174] Cass., 10 aprile 1964, n. 835, cit.; cfr. anche
Cass., 8 marzo 1985, n. 1896, in Rep.
Foro it., 1985, voce Lavoro (rapporto), 1985, n. 496. Nello stesso
senso v. in dottrina De Giorgi,
voce Patto successorio, cit., p. 542 s.; Palazzo,
I negozi
trans-morte nell’ambito familiare, in AA. VV., I trasferimenti patrimoniali nell’ambito
della famiglia. Aspetti civili e tributari. Convegno
organizzato dal comitato Regionale Notarile della Sicilia Taormina 20 e 21
novembre 1987, Palermo, 1987, p. 95 s.
[175] Cass., 6 gennaio 1981, n. 63, in Rep. Foro it., 1981, voce Successione ereditaria,
n. 20.
[176] De Giorgi,
voce Patto successorio, cit., p. 547. In giurisprudenza v. Cass., 22 febbraio
1974, n. 527, in Rep. Foro it.,
1974, voce Successione ereditaria, n. 20.
[177] Diversa è la posizione di Palazzo, Autonomia contrattuale e successioni anomale, Napoli, 1983, p. 3 e passim, secondo cui l’interesse che
giustificherebbe la conclusione dei patti successori sarebbe rivolto a
realizzare trasferimenti soggetti ad una qualche forma di revoca da parte del
disponente. Sembra invece che, almeno nella maggior parte dei casi, il
desiderio di colui che intende disciplinare la propria successione con un atto inter vivos – specie se in favore di una persona cui il disponente è
legato da speciali vincoli di carattere affettivo – sia quello non già di
lasciarsi aperto uno spiraglio per un eventuale pentimento, bensì di operare un
trasferimento dotato della definitività, anche se non immediatamente efficace.
[178] Cfr. Giannattasio,
op. cit., p. 21; De Giorgi,
voce Patto successorio, cit., p. 535; cfr. anche Cass., 22 luglio 1971, n.
2404, in Foro it., 1972, I, c. 700.
[179] Cfr. De Giorgi,
voce Patto successorio, cit., p. 536; Palazzo,
Autonomia contrattuale e successioni anomale, cit., p. 50 ss.; Id.,
I negozi
trans-morte nell’ambito familiare, cit., p. 79 ss.
[180] De Giorgi,
voce Patto successorio, cit., p. 536 s.; Cass., 9 aprile 1947, n. 526, in Mon. trib.,
1947, p. 143; Cass., 27 settembre 1954, n. 3136, in Giust. civ., 1955, I, p.
244. Suggerisce un’applicazione della donazione con riserva di usufrutto al
campo dei rapporti tra conviventi more
uxorio Mazzocca, op. cit., p. 114 ss.
[181] Torrente,
Variazioni sul tema della donazione «mortis causa», in Foro it., 1959, I, c.
580; De Giorgi, voce Patto successorio, cit., p. 536 ss.
[182] Invero, la semplice costituzione di un’aspettativa di
diritto a beneficio del donatario non sembra discostarsi di molto da quello che
è l’effetto tipico del fenomeno successorio, vale a dire il trasferimento di un
diritto per effetto del decesso di un soggetto: risulterebbe così evidente
quell’identità di «risultati giuridici» che (a differenza della semplice
identità di «risultati economici») determina l’illiceità della causa ex art. 1344 c.c. (v. Scognamiglio, Dei contratti in generale,
nel Commentario del codice civile Scialoja-Branca, Bologna - Roma,
1970, p. 345; nel senso della nullità per fraus
legi sembrano orientati anche De Giorgi, voce Patto successorio, cit.,
p. 536 ss. e Ieva, I fenomeni
c.d.
parasuccessori, in Riv. notar.,
1988, I, p. 1190 s.).
[183] De Giorgi,
voce Patto successorio, cit., p. 538 ss.; Palazzo,
Autonomia contrattuale e successioni anomale, cit., p. 76 ss; Id.,
I negozi
trans-morte nell’ambito familiare, cit., p. 92 ss.; Ieva,
I fenomeni
c.d.
parasuccessori, cit., p. 1149 ss.;
cfr. inoltre Majello, L’interesse
dello stipulante nel contratto
a favore
di terzi, Napoli, 1962, p. 201 s.; Moscarini,
I negozi
a favore
di terzo, Milano, 1970, p. 219 s.
[184] In questo senso v. Kunigk,
op.cit., p. 128.
[185] Sull’argomento cfr. Palazzo,
I negozi
trans-morte nell’ambito familiare, cit., p. 93; Ieva,
I fenomeni
c.d.
parasuccessori, cit., p. 1155.
[186] Nel caso di assicurazione sulla vita a favore del
convivente superstite, poi, la rinunzia del contraente e la dichiarazione del
beneficiario vanno comunicate all’assicuratore (cfr. art. 1921, co. 2, c.c.).
[187] Palazzo,
Autonomia contrattuale e successioni anomale, cit., p. 95; Id.,
I negozi
trans-morte nell’ambito familiare, cit., p. 96 ss.
[188] Sempre nell’ambito delle disposizioni a favore di terzo
potrebbe ancora suggerirsi la costituzione di un deposito bancario con
intestazione del libretto di risparmio nominativo al terzo, ma con riserva in
capo al solo costituente della facoltà di effettuare prelevamenti, e con
conferimento del diritto di prelievo all’intestatario sospensivamente
subordinato alla morte del primo: il marchingegno è già uscito indenne da
almeno un vaglio giurisprudenziale (v. Trib. Catania, 5 marzo 1958, in Banca, borsa, 1961, II, p. 311, con nota di Majello, Il deposito nell’interesse del terzo,
che ha negato che l’espediente possa ritenersi in violazione del divieto dei
patti successori; sull’argomento cfr. anche Nicolo’,
Disposizioni di beni «mortis causa» in forma «indiretta», in Riv. notar., 1967, I, p. 641 ss., secondo cui
invece la pattuizione in esame sarebbe nulla per frode alla legge).
[189] Cfr. Cass. ch. mixte, 27
novembre 1970, in D., 1971, p. 81;
Cass. Civ., 11 gennaio 1983, ivi,
1983, p. 501; Aa. Vv., Couple et modernité, cit., p. 403 ss.; Morin, La clause d’accroissement,
in D., 1971, Chron., p. 55 ss. In Italia
l’unico precedente in termini sembra costituito da Cass., 18 agosto 1986, n.
5079, in Rep. Foro it., 1986, voce Successione ereditaria, n. 33, che ha ricondotto alla figura del patto
successorio vietato «l’atto con il quale due soggetti comprino in comune la
proprietà di un immobile, contestualmente pattuendo che la quota ideale di
comproprietà da ciascuno acquistata debba successivamente pervenire a chi di
essi sopravviva, in quanto quest’ultimo acquista l’altra quota non
dall’originario venditore che l’aveva già alienata al soggetto premorto, ma
direttamente dal medesimo, al di fuori delle prescritte forme di successione mortis causa». Dalla lettura della massima non è dato evincere se il
trasferimento post mortem della quota fosse o meno dotato
di carattere retroattivo. La motivazione, del resto, contiene un unico fugace
accenno (si tratta, in particolare, dell’uso del verbo «ritrasferire») dal
quale si può comprendere che le parti avevano previsto un trasferimento
successivo della quota del premoriente al superstite.
[190] Aa. Vv., Couple
et modernité, cit., p. 408. Con
notevole cautela deve poi essere accolto il suggerimento, avanzato di recente
nell’ambito della dottrina italiana, ma conosciuto da tempo dalla prassi
francese, relativo al rilascio di dichiarazioni di debito da parte di un
convivente a vantaggio dell’altro (la giurisprudenza suole riconoscere in tali
atti delle donazioni dissimulate: v. Cass. Civ., 2 febbraio 1966, in Bull. civ., 1966, I, n. 84, p. 63; Cass. Civ., 8 luglio 1975, ivi, 1975, I, n. 225, p. 190; Cass.
Civ., 22 ottobre 1975, ivi, 1975, I,
n. 291, p. 243; cfr. inoltre AA. VV., Couple
et modernité, cit., p. 433), così che, al momento dell’apertura della
successione, quest’ultimo «possa assumere la posizione di creditore nei
confronti di quel compendio dal quale è escluso come erede» (v. Mazzocca, op. cit., p. 113). Di
tutta evidenza appare infatti la necessità di evitare che le predette
dichiarazioni si trasformino in facile strumento di ricatto ai danni del partner che le ha rilasciate. Così, se
ne potrebbe ipotizzare un’emissione vicendevole e su identiche somme, di modo
che gli atti ricognitivi finirebbero con l’«annullarsi» reciprocamente qualora
uno dei due intendesse farne uso in vita dell’altro. In tal caso occorrerebbe
però anche adottare accorgimenti idonei a evitare che le «controdichiarazioni»
confessorie in possesso del convivente deceduto per primo cadessero in mani
estranee (si pensi a eventuali altri eredi). La soluzione migliore sembra
quella di affidare le stesse a un depositario (per esempio a un notaio) scelto
di comune accordo, con l’impegno da parte di quest’ultimo di farne consegna al
convivente superstite oppure, durante la vita di entrambi, soltanto sulla base di
una richiesta congiunta.
[191] Per un approfondimento delle questioni legate
all’adozione del convivente e per gli ulteriori rinvii cfr. Oberto, I regimi patrimoniali della
famiglia di fatto, cit., p. 316 ss.
[192] Cfr. Oberto, Proposta di legge sul tema:
disposizioni in materia di accordi di convivenza, dal 10 giugno 2000 al
seguente sito web:
https://www.giacomooberto.com/convivenza/proposta.htm,
ora anche in Oberto, Famiglia
e rapporti patrimoniali. Questioni d’attualità, cit., p. 1057 ss.
[193] Sulla scorta della proposta avanzata dallo scrivente
(art. 1, co. 2), citata supra, alla nota precedente.
[194] Per un cenno al tema e per i necessari rinvii cfr. supra, § 3.
[195] Cfr. supra, nota 45.
[196] Sul punto v. i richiami supra,
nota 143.
[197] Per un’analisi dei progetti di legge di questa, così come
delle precedenti legislature, sul tema, dai risvolti assai più ampi, della
remunerazione delle prestazioni lavorative del convivente more uxorio in
assenza di accordi tra le parti, si fa rinvio a Oberto, Le prestazioni lavorative del convivente more
uxorio, cit., p. 120 ss. Più in generale sui temi di cui al presente paragrafo
cfr. Benedetti, Le proposte di
legge italiane in materia di convivenza, in Ann. Fac. Giur. Un. Genova,
2000, 1, p. 39 ss.; Calo’, Sul
progetto di disciplina degli accordi di convivenza, in Corr. giur.,
2000, p. 1673 ss.; Grillini, Omosessuali e
diritti. Il Pacs in
Francia e il confronto con la situazione italiana, in Riv. crit. dir.
priv., 2000, p. 183 ss.; Longo,
Le convivenze «registrate» nei Paesi dell’U.E., in Notariato, 2000,
p. 186 ss.; Vitucci, Dal dì che
nozze… Contratto e diritto della famiglia nel pacte civil de solidarité,
cit., p. 713 ss.; Paze’, Le
ragioni contro un’anagrafe delle famiglie di fatto, in Dir. fam. pers.,
2003, p. 192 ss.; Sesta, Verso
nuove trasformazioni del diritto di famiglia italiano?, in Familia,
2003, p. 123 ss.