1.
Generalità. La ratio dell’istituto e il suo uso distorto. 1.1. Nell’intenzione del
riformatore, resa d’altro canto evidente dal tenore del primo comma dell’art.
167 c.c., il fondo patrimoniale era finalizzato a sopperire ai bisogni della famiglia, rimanendo anzi esso, dopo
l’abolizione della dote e insieme all’usufrutto legale dei genitori sui beni
dei figli minorenni, l’unico istituto finalizzato a tale scopo (Auletta 1990, 7 ss.; Id. 1997, 343; Cenni 2002, 553; Demarchi 2005, 17 ss.), in grado così di
attuare quel «momento contributivo» un tempo soddisfatto dagli apporti dotali (Corsi 1979, 47 ss.). 1.2. Quello che parte della dottrina
qualificava come un «ramo secco» del
nostro ordinamento (l’espressione di Russo
1973, 568, viene ripresa e sottoscritta da Corsi
1984, 83, il quale peraltro mette in guardia proprio dai rischi cui si farà
subito cenno) ha, in realtà, dimostrato di saper produrre alcuni frutti: quasi
tutti, peraltro, «perversi». Un’analisi, anche soltanto sommaria, della
giurisprudenza evidenzia infatti una prevalente utilizzazione dell’istituto in
questione in frode ai creditori (al
riguardo, cfr. Dogliotti, Regime patrimoniale della famiglia, RDC, 1994, II, 1361; cfr. inoltre sub art. 170 c.c.). Significativo è il fatto che, a parte le vicende in tema di azione
revocatoria (per una disamina delle quali – e dell’ormai abbondante
giurisprudenza al riguardo – cfr. infra,
Parte III, §§ 5 ss.), persino il primo «trittico» di
decisioni conformi in materia di pubblicità del fondo patrimoniale abbia
mostrato in maniera più che evidente il ruolo che, a livello di rationes decidendi, ha giocato la
preoccupazione dei decidenti di stroncare in
apicibus il tentativo dei coniugi di
sottrarre il proprio patrimonio alla garanzia patrimoniale generica prevista
dall’art. 2740 c.c. (cfr. T Roma 6 nov. 1980, confermata da A Roma 28 nov. 1983
e da CC 27 nov. 1987/8824, RN, 1988, 722: per i richiami e per la trattazione
dell’argomento cfr. Oberto, Commento all’art. 162 c.c., in Aa. Vv.,
Codice della famiglia commentato, a
cura di Sesta, Milano, 2007, §§ 9 ss.).
2. La
funzione del fondo, la nozione di famiglia e l’individuazione dei bisogni. 1.1. La funzione del
fondo, nell’intenzione del riformatore del 1975, avrebbe dunque dovuto
essere quella di destinare determinati beni – immobili, mobili registrati,
titoli di credito – al perseguimento di uno scopo esclusivo, individuato nel
soddisfacimento dei bisogni della famiglia (cfr. per tutti De Paola 1996, 23 ss.; Gabrielli 1997, 387; Gabrielli-Cubeddu 1997, 263). 1.2. Per quanto attiene alla nozione di famiglia di cui all’art. 167
c.c. si fa notare in dottrina che essa ricomprende, oltre ai coniugi, i figli
legittimi, legittimati e adottivi (Carresi
1992, 44; secondo Pino, Il diritto di famiglia, Padova, 1977,
129, tra questi ultimi sarebbero inclusi solo i minorenni; per A.-M. Finocchiaro 1984, 801, vanno inseriti
anche i nascituri; sottolinea il legame con la sola famiglia nucleare Auletta 1997, 345 ss.); ne sono invece
esclusi i figli di primo letto e quelli naturali (Gabrielli 1982, 299), ad eccezione di quelli conviventi con
la famiglia legittima del genitore (così almeno secondo Auletta 1997, 346; sul punto si v. anche Cenni 2002, 562 ss.). 1.3. Per
quanto attiene alla famiglia di fatto, ferma restando l’inestensibilità
in via analogica dell’istituto ex art. 167 ss. c.c. (cfr. Oberto, I regimi patrimoniali della
famiglia di fatto, Milano, 1991, 262), si può ritenere che l’introduzione
dell’art. 2645-ter c.c. consenta di dar vita ad un qualche cosa di molto
simile ad un vero e proprio fondo
patrimoniale tra conviventi (cfr. Oberto,
Famiglia di
fatto e convivenze: tutela dei soggetti interessati e regolamentazione dei
rapporti patrimoniali in vista della successione, FD, 2006, 661 ss., §
7; Cfr. inoltre Id., Atti
di destinazione (art. 2645-ter c.c.) e trust: analogie e differenze, in
Contratto e impresa/E, 2007, § 5
e § 15). 1.4. Secondo la dottrina sono bisogni della famiglia non solo le
esigenze comuni a tutti i membri (ad es., l’abitazione) ma anche quelle
relative a ciascun componente che, per legge o per propria scelta, il gruppo è
impegnato a soddisfare (ad es., l’istruzione ed il mantenimento dei figli),
purché sorte dopo la celebrazione del matrimonio e ritenute socialmente
apprezzabili. Restano dunque esclusi dal novero dei bisogni che il fondo è
destinato a soddisfare le esigenze socialmente ritenute immeritevoli di tutela,
quelle sorte prima della celebrazione del matrimonio nonché la gestione e
l’incremento del patrimonio personale di ciascun membro del gruppo (Auletta 1997, 347). 1.5. Ampliando la nozione prospettata, si ritiene generalmente che
il fondo risponda anche delle spese e
delle obbligazioni sorte per rendere produttivi o per migliorare i beni ad esso
appartenenti e per incrementare il fondo. Anche tali spese sono, infatti
funzionalizzate – sia pur in maniera indiretta – al soddisfacimento dei bisogni
familiari in quanto volte ad accrescere il reddito, che viene interamente
destinato a tale scopo (l’opinione è condivisa anche da Cenni 2002, 566). Non così è a dirsi per le spese volte ad
accrescere il patrimonio personale di ciascun coniuge (anche se trattasi
dell’azienda o di beni funzionalizzati all’attività di lavoro) perché non
sussiste un obbligo del titolare di destinare interamente tali redditi al
perseguimento dei bisogni familiari (Auletta
1997, 348; sull’argomento cfr. inoltre De
Paola 1996, 35 ss.; Cenni 2002, 566).
3. Fondo
patrimoniale e patrimonio familiare. 1.1. La dottrina sottolinea la «discendenza» dell’istituto in esame dal patrimonio familiare,
disciplinato dagli artt. 167 ss. c.c. 1942 (ancora in vigore ex art.
4. Fondo
patrimoniale e atto costitutivo. 1.1. In ordine all’accertamento della natura
del fondo patrimoniale occorre tenere distinti il fondo, in sé considerato,
dall’atto che ad esso dà origine. In merito al primo non vi è dubbio che
l’istituto possa essere qualificato alla stregua di un patrimonio separato o di destinazione, nel quale la destinazione è,
per l’appunto, quella di far fronte ai bisogni della famiglia (Russo 1973, 560; Perlingieri, Sulla
costituzione del fondo patrimoniale su «beni futuri», D FAM, 1977, 281; Grasso 1982, 390; A.-M. Finocchiaro 1984, 801; Bianca, Diritto civile, II, Milano 1985, 104; Auletta 1990, 24; Lenzi,
Struttura e funzione del fondo
patrimoniale, RN, 1991, 53 ss.; Santosuosso
1995, 248 ss.; Auletta 1997, 344
ss.; in giurisprudenza v. CC 27 nov. 1987/8824, cit.; CC 29 set. 2000/15297,
inedita; CC 8 set. 2004/18065, GC, 2005, I, 997, nella quale la S. C. esclude,
nel caso in cui vi siano figli minori e quindi che il fondo prosegua sino alla
loro maggiore età, che detti figli siano «litisconsorti necessari nel giudizio
in cui si controverta della validità dell’atto» costitutivo del fondo; A Milano
8 apr. 1986, GI, 1987, I, 2, 407). 1.2.
Il carattere «separato» del patrimonio
costituito in fondo si estrinseca nei due vincoli di (relativa) inalienabilità
e (relativa) indisponibilità, contenuti negli artt. 169 e 170 c.c., mentre,
secondo taluno (Galletta, I regolamenti patrimoniali tra coniugi,
Napoli, 1990, 120), l’istituto costituirebbe nient’altro che una sorta di
«specializzazione» del regime di comunione, essendo la sua disciplina modellata
su quest’ultimo, che gli fa da supporto. 1.3.
Il fondo patrimoniale non costituisce un
regime coniugale generale, perché
riguarda solo alcuni beni degli sposi e quindi si innesta necessariamente su un
regime di comunione (legale o convenzionale) o di separazione dei beni: cfr. Auletta 1997, 345 cui si fa rinvio (v. in partic. 355 e n. 52) e Cenni 2002, 558 ss., anche per la
discussione del tema concernente la natura di «regime» (negata, per esempio, da
Santosuosso 1995, 250) del fondo
patrimoniale. 1.4. Per quanto
attiene invece alla natura dell’atto
costitutivo del fondo, la dottrina sottolinea il suo carattere
essenzialmente negoziale (v. per
tutti Santosuosso 1995, 249; Gabrielli-Cubeddu 1997, 280; sul tema
cfr. inoltre De Paola 1996, 77 ss.; Demarchi 2005, 42 ss.), sebbene non possa
neppure escludersi l’eventualità di un diverso modus adquirendi, come l’usucapione maturata in virtù del possesso
seguito ad un negozio costitutivo nullo (così Gabrielli-Cubeddu
1997, 280). 1.5. Una prima
distinzione s’impone a seconda che il fondo sorga inter vivos o mortis causa. In questo secondo caso
si tende a ravvisare di norma un legato,
pur avvertendosi immediatamente, da parte della dottrina, la necessità di
sottolineare come, almeno in linea di principio, non sia esclusa l’ipotesi
dell’istituzione d’erede ex re certa,
mediante l’attribuzione al designato della titolarità di uno o più beni
determinati (A.-M. Finocchiaro 1984,
807 ss.; Carresi 1992, 44). 1.6. È chiaro, però, che la
disposizione testamentaria costitutiva può configurarsi come istituzione d’erede solo a condizione
che con essa si attribuisca ai coniugi la stessa proprietà dei beni (Auletta 1990, 55 ss.), mentre si
tratterà sempre di legato laddove il testatore si limiti a conferire ai coniugi
il solo godimento dei beni, riservandosene la proprietà (Auletta 1990, 55; sulla possibilità
della riserva di proprietà in capo al costituente sui beni costituiti in fondo
patrimoniale cfr. sub art. 168 c.c.).
1.7. Per quanto attiene ai rapporti
con la figura della convenzione
matrimoniale, non vi è dubbio che la riconducibilità a questa categoria
vada esclusa in relazione alla costituzione operata per atto mortis causa (Gabrielli 1982, 310), ancorché si affermi da parte di taluno
(Auletta 1990, 66) la necessità
dell’applicazione della disciplina in tema di convenzioni in luogo di quella in
materia di successioni, con la conseguente imprescindibilità, nell’ipotesi di
costituzione per legato, della dichiarazione dei coniugi di volere costituire
il fondo, conseguendo il lascito (contra
Carresi 1992, 44 ss., per il quale
l’accettazione è necessaria solo se il lascito si configura come una
istituzione di erede, mentre non occorre quando il lascito si configura come
legato, salva la facoltà di rinunzia). 1.8.
All’opposto, sembra non esservi dubbio sulla natura di convenzione matrimoniale
dell’atto costitutivo in fondo patrimoniale di beni di cui i coniugi siano titolari in regime di comunione legale.
Invero, se convenzione matrimoniale è quel contratto in forza del quale i
coniugi convengono di sottoporre una parte del loro patrimonio ad un regime
diverso da quello legale (cfr. Oberto,
Contratto e famiglia, in Aa. Vv.,
Trattato del contratto, a cura di
Roppo, Milano, 2006, VI, 147 ss., 161) sembra inevitabile concludere nel senso
che, avuto riguardo alle particolarità proprie del fondo, l’atto costitutivo
non si sottragga a tale inquadramento (così Gabrielli
1982, 311).
5. La
natura di convenzione matrimoniale, propria dell’atto costitutivo inter
vivos del fondo patrimoniale. 1.1. Non è mancato in dottrina
chi ha contestato il richiamo alla
convenzione matrimoniale, sottolineando come in questo caso non si dia vita
ad un vero e proprio regime
patrimoniale, in sostituzione di quello legale, ma ci si limiti a porre in una
condizione giuridica particolare taluni beni determinati. Il concetto di
convenzione matrimoniale potrebbe dunque essere invocato solo per sottolineare
il fatto che tale atto è sottoposto alle norme in tema di convenzioni
matrimoniali, pur non appartenendo, stricto
sensu, a questa categoria (cfr. Corsi
1984, 89 ss., secondo cui l’atto costituto di fondo patrimoniale sarebbe
un atto negoziale solitamente unilaterale, che acquisterebbe la caratteristica
della bilateralità solo nel caso di costituzione da parte di terzi). 1.2.
Altri, invece, hanno contestato la natura di convenzione matrimoniale del
negozio costitutivo del fondo muovendo dalla constatazione secondo cui la convenzione potrebbe dar vita solo ad
una scelta tra un regime comunitario o un regime separatista, con assoluta
esclusione di qualsiasi altro tipo di effetto, vuoi reale, vuoi obbligatorio
(cfr. Russo, Le convenzioni matrimoniali, COM SCHLESINGER, 2004, 172 ss.; per
una critica al riguardo v. Oberto,
Contratto e famiglia, cit., 161 ss.).
1.3. In siffatta ipotesi, dunque,
non potrebbe esservi spazio per una convenzione matrimoniale che si limitasse
invece a porre, nell’interesse della famiglia, vincoli su beni determinati, che
si trovino già nella titolarità dell’uno e/o dell’altro dei coniugi o di terzi.
Questa tesi, però, appare chiaramente
smentita non solo – se ci si passa l’espressione – dalla «topografia» (il fondo patrimoniale si
trova collocato nel codice tra la parte generale delle convenzioni matrimoniali
e la comunione legale, all’interno di una sezione posta sullo stesso piano di
quelle dedicate alla comunione legale, alla comunione convenzionale, alla
separazione dei beni e all’impresa familiare) e dalla «toponomastica» (gli artt. 167 ss. fanno pur sempre parte del capo
sesto (del titolo sesto del libro primo del codice), intitolato «del regime
patrimoniale della famiglia», dopo una parte generale che, come si è appena
detto, è interamente dedicata alle convenzioni matrimoniali) legislative, ma
anche dal fatto che, per i beni sottoposti a tale vincolo, vigono regole (di
«regime») difformi rispetto a quelle valevoli per la comunione legale. Il
negozio che al fondo dà vita è pertanto riconducibile alla definizione che del
concetto di convenzione matrimoniale risulta estrapolabile dall’art. 159 c.c.,
come di quel negozio idoneo a dar luogo
ad un regime patrimoniale della famiglia. 1.4. Il fatto è che occorre intendersi sul concetto di regime: se per tale si dovesse ritenere esclusivamente
la regola che assegna alla proprietà comune o personale dei coniugi i futuri ed
eventuali acquisti, è chiaro che la convenzione ex artt. 167 ss. c.c. non apparirebbe idonea all’uopo, posto che il
vincolo del fondo – e, oggi, quello ex
art. 2645-ter c.c. – non può per
definizione costituirsi se non su beni predeterminati. 1.5. Seguendo dunque il principio secondo cui la convenzione matrimoniale è necessariamente
fonte di un regime patrimoniale della famiglia (arg. ex art. 159 c.c.), se ne dovrebbe concludere che tale non potrebbe
essere l’accordo diretto a costituire un fondo patrimoniale. Ma la disciplina
della comunione legale dimostra che il
concetto di «regime» non si esaurisce nella regola del coacquisto; essa si
risolve anche in una serie di precetti e di vincoli che vengono ad influenzare
la «vita» stessa dei beni nel corso dell’unione matrimoniale: dall’amministrazione all’alienazione, al pignoramento e, più in
generale, alle vicende che coinvolgono terzi creditori e/o aventi causa. 1.6. E puntuale giunge, anche sul
punto, la conferma dall’analisi storica, dalla quale si ricava che
l’espressione régime (dal latino regere:
governare, amministrare), utilizzata per secoli in Francia per contrapporre il régime en communauté (proprio delle
regioni di droit coutumier) a quello dotal (caratteristico delle regioni di droit écrit), e dunque nell’accezione,
generalissima, di «regola», dopo la codificazione napoleonica venne intesa
dalla dottrina come «l’ensemble des règles qui régissent l’association
conjugale quant aux biens» (per tutti cfr. Laurent, Principes de droit civil, XXI, Bruxelles, 1878, 8). Regole che, come icasticamente posto in evidenza
dalla dottrina contemporanea d’Oltralpe, attengono non solo ad una question
de propriété, ma anche ad una question de pouvoirs (cfr. Flour e Champenois,
Les régimes matrimoniaux, Paris, 1995,
5). 1.7. Se così stanno le cose, è evidente che anche la
convenzione costitutiva del fondo patrimoniale, in quanto diretta a dettare regole speciali di amministrazione, vincoli e «vita»
di beni della famiglia, in (parziale) deroga ai principi propri della
comunione (o della separazione dei beni), viene a costituire proprio uno di
quei possibili negozi in deroga al regime legale che l’art. 159 c.c. raggruppa
sotto l’espressione «diversa convenzione». 1.8.
Per non dire poi che una conferma
della natura di convenzione matrimoniale
propria del negozio inter vivos
costitutivo del fondo patrimoniale sembra venire dalla riforma dell’art.
6. Il
problema dell’accettazione. Rapporti con la donazione. 1.1.
Legato al problema cui si è testé accennato è quello dell’accettazione, cui fa
riferimento il capoverso dell’art. 167 c.c., peraltro nella sola ipotesi di
costituzione ad opera di un terzo.
Tale accettazione sarebbe secondo taluno necessaria anche nel caso di
costituzione per legato (cfr. Auletta
1997, 356 ss., contra, nel senso che
l’accettazione sarebbe necessaria, nel caso di costituzione mortis causa, solo nell’ipotesi in cui
l’atto costitutivo configurasse un’ipotesi di institutio ex re certa v. Gabrielli-Cubeddu
1997, 284; cfr. inoltre Santosuosso
1995, 251 ss.; Gabrielli 1997,
389 ss.; sul tema v. anche De Paola 1996, 63 ss.; Demarchi 2005, 89 s.). 1.2. I pareri divergono poi anche con
riguardo alla necessità di accettazione da parte di entrambi, qualora la
costituzione del fondo da parte di un terzo preveda l’attribuzione della proprietà dei beni ad uno solo dei coniugi
(sull’argomento cfr. A.-M. Finocchiaro
1984, 804 ss.; Cian-Casarotto 1982,
831; in senso contrario a questa eventualità si pronunzia Auletta 1997, 360 ss., che la ritiene
incompatibile con la natura del fondo patrimoniale). 1.3. È altresì dubbio se l’accettazione occorra nel caso di costituzione da parte di uno solo dei coniugi;
secondo un’opinione dottrinale l’accettazione sarebbe qui necessaria solo nel
caso di trasferimento della proprietà (o di una quota di essa) sui beni del
fondo (Corsi 1984, 90 ss.).
Secondo altro parere, invece, proprio dal fatto che la legge prevede la sola
ipotesi di costituzione da parte del terzo, dovrebbe dedursi che, nel caso di
costituzione da parte di uno solo dei coniugi, non è necessaria l’accettazione
dell’altro (Carresi 1992, 45; contra Gabrielli-Cubeddu
1997, 283; per la necessaria accettazione, in ogni caso, da parte
dell’altro coniuge v. Auletta 1997,
353 ss., che confuta anche l’argomento fondato sull’art. 1333 c.c., sul tema
cfr. anche De Paola 1996, 60 ss.). 1.4. Sempre in tema di natura dell’atto
costitutivo del fondo patrimoniale rimangono assai dubbi i rapporti con la donazione e in particolare con la
donazione obnuziale (per la disamina di tali aspetti si fa rinvio a Santosuosso 1983, 122 ss.; Auletta 1990, 106 ss.; Carresi 1992, 50 ss.; De Paola
1996, 84 ss.; Auletta 1997,
363 ss.). Per quanto attiene alle questioni concernenti il tempo nel quale la convenzione può essere stipulata e la necessità
o meno della relativa autorizzazione ex
art. 162 c.c., nonché ai sensi della l. 10 apr. 1981/142: v. De Paola
1996, 73 ss.; Auletta 1997,
358 ss. 1.5. Sul tema
dell’apponibilità di termini e
condizioni all’atto costitutivo del fondo, evidentemente legata al problema
della natura di quest’ultimo, si fa rinvio per tutti a Santosuosso 1983, 130 ss.; Auletta
1990, 105 ss.; Carresi 1992, 51
ss.; Auletta 1997, 360. 1.6. Altra questione non risolta dal
legislatore concerne la tutela dei
successori del costituente. Al riguardo si è osservato, innanzitutto, che
mentre il legittimario a cui sono stati attribuiti beni è tenuto alla
collazione, salvo dispensa (arg. ex
art. 741 c.c.), nel caso di lesione della quota di legittima il negozio sarebbe
riducibile in virtù della regola generale di intangibilità della legittima (Auletta 1997, 365 ss.).
7. L’oggetto
del fondo patrimoniale. 1.1. Prendendo spunto dal tenore letterale dell’art. 167
c.c., la dottrina esclude che si possano costituire in fondo delle aziende, in quanto universitates comprendenti anche rapporti di credito e beni mobili
non registrati (Auletta 1990, 76; Gabrielli-Cubeddu 1997, 285; Auletta 1997, 350 ss.; Cenni 2002, 573 ss.), mentre nulla vieta
che beni aziendali, appartenenti
alle categorie indicate dall’art. 167 c.c. siano inseriti nel fondo. 1.2. I diritti di credito possono essere destinati a far parte del fondo
solo se incorporati in un titolo cartolare, che va vincolato rendendolo
nominativo con annotazione del vincolo, o in altro modo idoneo (Auletta 1990, 77); per questo deve
escludersi che delle quote sociali
siano costituibili in fondo patrimoniale, mentre diverso è il discorso per
quanto attiene alle azioni, che
costituiscono titoli di credito (nominativi). 1.3. Parte della dottrina ritiene non necessario che i titoli di credito siano nominativi, essendo
possibile vincolare anche titoli all’ordine: si rileva al riguardo che, se
anche la girata deve essere incondizionata, di tali titoli è sempre ammissibile
una cessione ordinaria (art. 2015 c.c.), che faccia risultare il vincolo di
destinazione (Gabrielli 1982,
313). 1.4. In linea di principio non
dovrebbero esistere ostacoli al conferimento di diritti reali diversi dalla proprietà, posto che la legge parla
genericamente di «beni», salva la necessità di verificare se, per la
peculiarità del regime (avuto in particolare modo riguardo al profilo della
temporaneità), questi diritti risultino inidonei a tale destinazione
(sull’argomento cfr. per tutti Santosuosso
1983, 127 ss.; Id. 1995,
255; Auletta 1990, 82 ss.; Id. 1997, 362; Cenni 2002, 567 ss.; Demarchi
2005, 174 ss.; cfr. però Gabrielli-Cubeddu
1997, 285, che sollevano dubbi, peraltro superandoli, relativamente al
carattere temporale di alcuni iura in re
aliena; sul tema dell’individuazione dei beni costituibili in fondo
patrimoniale cfr., in generale, De
Paola 1996, 97 ss.). 1.5. Un altro interrogativo concerne i beni futuri, non essendo chiaro se per
il negozio in questione valga il divieto previsto dall’art. 771 c.c. con
riguardo alle donazioni (sull’argomento v., da ultimo, Cenni 2002, 577 ss.).
Una parte della dottrina, sottolineando la non riconducibilità dell’atto
costitutivo del fondo patrimoniale alla donazione, nega che il principio
espresso dall’art. cit. possa valere qui ad impedire la conferibilità nel fondo
di beni futuri richiamandosi anche al principio generale consacrato nell’art.
1348 c.c., che ammette la stipulazione di negozi su beni futuri, nonché
l’abrogazione dell’art. 179 c.c., che vietava la costituzione in dote di beni
futuri (Auletta 1990, 95 ss.; in
senso favorevole sono anche Perlingieri,
op. cit., 265 ss.; Grasso 1982,
88; Santosuosso 1983, 126 ss.; Id. 1995, 254; Auletta 1997, 352); occorrerà semmai verificare se, nel caso
concreto, il conferimento di beni al fondo possa configurare donazione, con
conseguente applicazione dell’art. 771 c.c. (cfr. Gabrielli 1982, 313; Corsi
1984, 88, Auletta 1997, 352; contra Carresi
1992, 51, che ritiene valevole per tutti gli atti di liberalità il
limite fissato dall’art. 771 c.c.). 1.6.
È ovvio, peraltro, che i beni, ancorché futuri, debbono essere (come richiesto
dall’art. 167 c.c.) «determinati».
Il problema sarà dunque quello di vedere con quanto rigore si intenderà tale
concetto di fronte ad una eventuale relatio
operata dal costituente. Così, se non sembra possano sussistere dubbi sulla
sottoponibilità a fondo patrimoniale della costruzione da erigersi sul fondo
tuscolano (magari in base ad un progetto già esistente e ad un permesso di
costruire già rilasciato), analoga operazione non appare realizzabile in
relazione, per esempio, genericamente «a tutte le unità immobiliari che saranno
erette sui fondi che verranno acquistati in regime di comunione dalla
costituenda coppia». Qualche autore non ha invece mancato di rimarcare la
«marginalità» del problema, dal momento che modifiche alle convenzioni
sarebbero sempre possibili anche durante il matrimonio (A.-M. Finocchiaro 1984, 812). 1.7. Sembra pacifico che gli stessi
beni non possano formare oggetto di più
fondi patrimoniali, essendo ciò materialmente impedito dalla struttura
stessa dell’istituto (Corsi 1984,
88).
8. La
pubblicità (rinvio). 1.1. La
pubblicità del vincolo derivante dal fondo
patrimoniale è quella che con maggior evidenza sottolinea la potenziale «concorrenzialità» tra il sistema della annotazione a margine dell’atto di matrimonio
(art. 162 c.c.) e quello della trascrizione sui pubblici registri immobliari
(art. 2647 c.c.). Per una panoramica sul tema si fa rinvio per tutti a Oberto, Commento all’art. 162 c.c., in Aa.
Vv., Codice della famiglia commentato, a cura di Sesta, Milano,
2007, §§ 9 ss. Per quanto attiene più
strettamente alla trascrizione, è
evidente che, tranne che nei casi in cui i coniugi costituiscano in fondo
patrimoniale beni già comuni o in cui il conferente si riservi la proprietà dei
beni medesimi, l’atto con il quale si costituisce un fondo patrimoniale
contiene in realtà due diverse disposizioni aventi ad oggetto, rispettivamente,
il trasferimento di proprietà e la sottoposizione a vincolo. La prima delle due
disposizioni dovrà essere sottoposta a pubblicità ex art. 2643 c.c. contro il titolare dei beni ed a favore di
entrambi i coniugi, mentre la seconda dovrà formare oggetto di apposita
trascrizione ex art. 2647 c.c. «a carico», cioè – in questo caso –
contro gli intestatari degli immobili stessi, trattandosi di segnalare il
vincolo gravante sulla proprietà acquistata dai coniugi. 1.2. Si è avuto modo di vedere in altra sede (cfr. Oberto, op. loc. ultt. citt.), come la dottrina prevalente ritenga sufficiente l’annotazione del vincolo, anche
in difetto di trascrizione, al fine dell’opponibilità del medesimo. Senza
ripetere quanto già affermato (con particolare riguardo alla tesi proposta,
circa il carattere suppletivo dell’annotazione rispetto alla trascrizione)
basterà qui ricordare come la giurisprudenza – proprio sul tema specifico della
pubblicità del fondo patrimoniale – abbia per lo più seguito l’impostazione
della dottrina (sul tema cfr. per tutti Oberto
1988, 216 s.; Auletta 1990,
135 ss.; Ieva 2002, 75; Demarchi 2005, 453 ss.).
9. Trust e fondo patrimoniale. Nel generale ambito delle questioni legate alle
relazioni tra trust e famiglia è proprio il tema del fondo patrimoniale ad
aver richiamato maggiormente l’attenzione degli studiosi del settore
(sull’argomento si v., tra gli scritti più recenti, Oberto, Trust e
autonomia negoziale nella famiglia, FD, 2004, 201 e 310; Id., Il trust familiare,
2005, § 20; Palazzo,
Le convenzioni matrimoniali e l’ulteriore
destinazione dei beni per mezzo del trust, Dogliotti-Braun (a cura di), Il trust nel diritto delle persone e della famiglia. Atti del
convegno. Genova, 15 febbraio 2003, Milano, 2003, 97 ss.; Lupoi, Trusts, Milano, 2001, 624 ss.; Bartoli, La “conversione” del fondo patrimoniale in trust, Dogliotti-Braun
(a cura di), Il trust nel diritto delle persone e della famiglia.
Atti del convegno. Genova, 15 febbraio 2003, cit., 207 ss.; Cenni 2002, 645 ss.; Demarchi 2005, 660 ss.). 1.2. La principale ragione per cui
siffatto accostamento del trust al
fondo patrimoniale forma argomento di ampia trattazione in dottrina è
costituita, a parte talune analogie tra i due fenomeni, dal dato di fondo che
accomuna questi ultimi sotto il profilo della separazione patrimoniale dei beni che ad entrambi consegue, al
punto da spingere parte della dottrina a ravvisare nell’istituto del fondo
patrimoniale un vero e proprio trust
«amorfo» (riconducibile cioè all’ampia previsione di cui all’art. 2 della Convenzione
dell’Aja) previsto dal nostro ordinamento (Lupoi,
Trust Laws of the World, Roma, 1999,
citato da Bartoli, op. cit., 210,
n. 5). 1.3. Peraltro la dottrina ha
posto in luce i fondamentali punti di distinzione, evidenziando la maggiore duttilità, oltre che la più vasta sfera
di operatività, del trust (Cenni 2002, 646). Dal punto di vista
oggettivo, va sottolineato che quest’ultimo non conosce limitazione quanto ai beni oggetto dei diritti su cui la
«segregazione» patrimoniale è destinata ad incidere, mentre invece l’art. 167
c.c. circoscrive tassativamente i possibili oggetti del fondo patrimoniale (v. sub § 6). 1.4. Dal punto di vista soggettivo,
poi, la «famiglia» in relazione alla
quale il fondo può costituirsi è solo quella legittima, così escludendosi non
solo la famiglia di fatto, bensì anche altre situazioni lato sensu analoghe (v. i casi riportati da Cenni 2002, 648). Nell’ambito della stessa famiglia
legittima, poi, il trust può essere
«mirato» in relazione alle esigenze di uno o più dei suoi componenti (si pensi
a soggetti posti in particolare situazione di debolezza, quali, ad es. figli
incapaci: v. Di Landro, Trusts per disabili. Prospettive applicative, D FAM, 2003, 123 ss.). 1.5. Il trust, sotto certi aspetti, pare inoltre più idoneo al perseguimento degli obiettivi di tutela
cui è preordinato il fondo patrimoniale. Quest’ultimo, infatti, a differenza
del trust, non prevede beneficiari in senso tecnico: i
soggetti in favore dei quali è stato istituito il fondo, ad esempio i figli,
non hanno poteri di controllo sulla gestione dei beni, né sono legittimati ad
agire nei confronti dei genitori che destinino i frutti a finalità non
coincidenti con i bisogni della famiglia. Nel fondo patrimoniale, peraltro, non
è previsto che al momento della sua cessazione i beni debbano essere devoluti
ad alcuno dei componenti la famiglia, in particolare ai figli, per cui la
tutela della famiglia non appare così perseguita col massimo risultato. Un
rimprovero analogo, centrato cioè sul minor grado di protezione della famiglia
rispetto al trust, va pure mosso al
fondo patrimoniale per l’inesistenza di norme che prevedano un obbligo di
reimpiego e per la mancanza di un meccanismo surrogatorio, oltre che per la più
limitata esecutabilità dei beni e dei frutti. 1.6. Per ciò che riguarda il profilo dell’amministrazione si presentano come punti di debolezza del fondo
patrimoniale rispetto al trust la
discrezionalità consentita ai coniugi nelle decisioni riguardanti
l’amministrazione e la disposizione dei beni del fondo, laddove l’esistenza di
un trust non consentirebbe la facile
alienazione dei beni che lo compongono, producendo altresì l’effetto di
disincentivare la costituzione di fondi patrimoniali simulati o abusivi. Di
contro, non va però dimenticato che, secondo l’opinione prevalente, l’art. 168
c.c., con il rinvio alle norme in tema di comunione legale, viene a porre come
inderogabile – per gli atti di cui all’art. 180 cpv. c.c. – il principio di amministrazione congiuntiva (v. sub art. 168 c.c.), laddove il trust ben potrebbe essere congegnato in
modo da affidare ad un solo coniuge l’amministrazione dei beni. 1.7. Nel caso, invece, in cui la coppia
versi in una situazione di crisi,
vengono in luce altri aspetti negativi del fondo patrimoniale rispetto al trust. In proposito andrà notato che,
sebbene la costituzione di un fondo patrimoniale in sede di separazione
personale dei coniugi appaia senz’altro ammissibile (Oberto,
I contratti della crisi coniugale, II, Milano, 1999, 687 ss.),
ragioni di opportunità potrebbero sconsigliarla, atteso che l’amministrazione
spetterebbe comunque ad entrambi e ciò mal si concilia con la situazione di
conflitto coniugale. Per il resto, poiché a norma dell’art. 171 c.c. «la
destinazione del fondo termina a seguito di annullamento scioglimento o
cessazione degli effetti civili del matrimonio» (v. sub art. 171 c.c.), vi è il rischio che in tali situazioni si
vengano a disattendere le legittime aspettative dei beneficiari, ad esempio la
prole maggiorenne ma non autosufficiente, atteso che per i minori provvede
l’art. 171 cpv. c.c. (per un caso di costituzione in trust di beni oggetto del fondo patrimoniale v. T Firenze 23 ott.
2002, TRUST E ATT FID, 2003,
406). 1.8. Per i rapporti tra il fondo patrimoniale e i vincoli di destinazione
per interessi meritevoli di tutela, ex
art. 2645-ter c.c. si fa rinvio per tutti a Oberto, Famiglia di
fatto e convivenze: tutela dei soggetti interessati e regolamentazione dei
rapporti patrimoniali in vista della successione, FD, 2006, 661 ss., §
7; Cfr. inoltre Id., Atti
di destinazione (art. 2645-ter c.c.) e trust: analogie e differenze, in
Contratto e impresa/E, 2007, § 5
e § 15).
10. Titolarità
dei beni e diritti dei coniugi. Attribuzione dei beni in proprietà o in
godimento. 1.1. Dall’inciso «salvo che sia diversamente stabilito nell’atto di
costituzione», di cui al primo comma dell’art. 168 c.c., possono desumersi tre
diverse conclusioni. In primo luogo, che è possibile per il costituente attribuire la proprietà dei beni ad uno
solo dei coniugi; in secondo luogo, che egli può attribuirla ad un terzo e,
infine, che lo stesso può riservarla a sé medesimo. In realtà, di queste tre
affermazioni solo la prima può darsi per sicura, mentre sulle altre due la
dottrina non appare concorde. 1.2.
In particolare, per quanto attiene alla riserva
della proprietà in capo al costituente, si è messo in luce come l’attuale
formulazione dell’art. 167 c.c., a differenza di quella previgente, non
contempli più espressamente una siffatta evenienza; a ciò s’aggiunge che l’art.
169 c.c., nella parte in cui menziona la possibilità per i coniugi di procedere
all’alienazione dei beni del fondo, non avrebbe senso nel caso la proprietà
fosse stata riservata ad un terzo (Corsi
1994, 86 ss.; sull’argomento cfr. anche De
Paola 1996, 109 ss.). 1.3. La dottrina prevalente, invece,
proprio fondandosi sull’ampio tenore letterale dell’art. 168, 1° co., c.c.,
conclude non solo nel senso della possibilità che il costituente attribuisca ad un terzo (si pensi ai
figli) la proprietà dei beni, ma anche che questi la riservi a se stesso (Gabrielli
1982, 295 ss.; Grasso 1982, 391; Santosuosso 1983, 129 ss.; A.-M. Finocchiaro 1984, 816 ss.; Auletta 1990, 230 ss.; 237; Carresi 1992, 353; Santosuosso 1995, 255 ss.; Gabrielli 1997, 389 ss.; Gabrielli-Cubeddu 1997, 265 ss.; Auletta 1997, 360 ss.), con conseguente
sdoppiamento tra titolarità dei beni e poteri di amministrazione dei medesimi
(A.-M. Finocchiaro 1984, 816 ss.).
1.4. La dottrina rileva al riguardo che, sicuramente, in quest’ultimo caso
(cioè di riserva della proprietà in capo al costituente), la funzione
dell’istituto non può esplicarsi con pienezza; ma sarebbe davvero assurdo
supporre che il legislatore abbia inteso vietare la possibilità di una sua
attuazione parziale, dalla quale proviene pur sempre alla famiglia un obiettivo
vantaggio, mentre nessun inconveniente ne deriva oltre quelli, ben noti e
dall’ordinamento accettati, connessi con la scissione temporanea fra proprietà
e diritto di godimento. L’opinione contraria, legata al fatto che nell’art.
171, co. 3° e 4°, c.c. sarebbero contenute disposizioni incompatibili con
l’appartenenza del diritto di proprietà a persona diversa dai coniugi (si pensi
alla norma che prevede la divisione dei beni del fondo fra i coniugi, in
conformità di quanto disposto per lo scioglimento della comunione legale, e a
quella che attribuisce al giudice il potere di assegnare una quota dei beni
stessi, in proprietà o in godimento, ai figli) è superabile avendo riguardo
alla constatazione che in queste disposizioni l’interprete può ben ravvisare
un limite implicito: intenderle, cioè, come riferite alla sola ipotesi in cui i
coniugi siano anche proprietari; ipotesi che il legislatore, d’altronde, ha
ritenuto normale, onde appare senz’altro verosimile che solo di essa si sia
curato nel dettare il prosieguo della disciplina, dopo aver accennato alla
possibilità di una deviazione in forza di patto derogatorio (Gabrielli-Cubeddu 1997, 266 ss.; sul
problema della titolarità dei beni del fondo cfr. inoltre De Paola
1996, 41 ss.).
11. Diritti
ed obblighi dei coniugi in caso di attribuzione del solo godimento. Risvolti
sul piano tributario. 1.1. Non
esiste unità di vedute sul tipo di
diritto che competerebbe ai coniugi in
caso di riserva della proprietà in capo al costituente. La tesi prevalente
vede in tale fattispecie un diritto assimilabile a (o secondo alcuni
addirittura coincidente con) quello di usufrutto
(cfr. Grasso 1982, 391; Santosuosso 1983, 129 ss.; Carresi 1992, 353; Auletta 1997, 360 ss.); per altri esso
manifesterebbe maggiori affinità con il diritto di uso (Cian-Casarotto 1982, 832 ss.), o con l’usufrutto legale spettante ai genitori sui beni dei figli minori
(Gabrielli 1982, 295 ss.; Gabrielli-Cubeddu 1997, 270 ss.; secondo
Cenni 2002, 585 ss., si
tratterebbe di un diritto di godimento avente caratteristiche sia
dell’usufrutto legale che di quello ordinario); per altri, infine, si
tratterebbe di un fenomeno di «proprietà divisa», del tutto analogo a quella
che si viene a creare a seguito dell’imposizione di vincoli di interesse
storico o artistico per i beni di privati (A.-M. Finocchiaro 1984, 818). 1.2.
Una volta ammessa la possibilità di costituzione del fondo con riserva di
proprietà in capo al costituente si pone il problema di come applicare a questa
particolare situazione il disposto dell’art. 168 c.c., nonché, soprattutto,
quel riferimento al potere di
alienazione contenuto nel successivo art. 169 c.c. La tesi prevalente (cfr.
per tutti Carresi 1992, 56 ss.)
sembra contraria ad attribuire ai coniugi, in questo caso, il potere di
disporre della titolarità dei beni, in violazione del principio generale
secondo cui nessuno può disporre di un diritto che non gli compete: le norme
concernenti l’amministrazione e la disposizione dei beni in fondo patrimoniale
andranno dunque riferite al solo diritto di godimento (o, secondo alcuni,
d’usufrutto) che compete ai coniugi (cfr. per tutti Carresi 1992, 58). 1.3.
Neppure su tale ultima conclusione, peraltro, la dottrina si trova concorde. In
particolare, i sostenitori della tesi dell’identità funzionale tra fondo
patrimoniale (avente ad oggetto l’attribuzione del mero godimento) e usufrutto
legale escludono l’alienabilità ed
espropriabilità del diritto di godimento considerato nel suo complesso, in
conformità a quanto previsto dall’art. 326 c.c. (con la possibilità peraltro
dell’esecuzione sui frutti: così Gabrielli-Cubeddu
1997, 272). 1.4. La
possibilità che l’atto costitutivo del fondo non determini effetti traslativi
di diritti, ma solo la costituzione di un vincolo, ha anche dei risvolti sul piano tributario. Così,
una Commissione tributaria di secondo grado ha stabilito che «la convenzione
con cui i coniugi, a mente dell’art. 167 c.c., costituiscono il fondo
patrimoniale ha come finalità essenziale quella di realizzare un vincolo di
destinazione su determinati beni, affinché i loro frutti assicurino il
soddisfacimento dei bisogni della famiglia, e non si configura, invece, come
necessariamente traslativa della proprietà o di altri diritti reali sui beni che
ne costituiscono l’oggetto, consentendo l’art. 168, comma primo, c.c. agli
interessati di pattuire la conservazione della precedente titolarità esclusiva
dei beni medesimi: consegue da ciò che, nel caso di intervenuto inserimento di
una siffatta clausola di salvaguardia, la convenzione considerata resta non
assoggettabile alle imposte previste per gli atti di trasferimento della
proprietà o di altri diritti reali di godimento» (cfr. CT 2° grado Udine 21
nov. 1991, Fisco 1992, 6642;
sui profili fiscali dell’istituto v. Guidotti-Mezzadri,
Fondo patrimoniale: aspetti civilistici e regime fiscale applicabile, Fisco 1996, 8041; Cenni 2002, 588 ss.; Demarchi 2005, 689 ss.).
Amministrazione e alienazione dei beni del fondo
1. L’amministrazione
dei beni. 1.1. Passando ora
all’esame del rinvio, operato
dall’art. 169 c.c., alle norme in tema di amministrazione della comunione legale, andrà detto
innanzitutto che esso viene ritenuto da una parte della dottrina come inderogabile, essendo stato fatto incondizionatamente
e senza alcuna limitazione o cautela come potrebbe essere quella risultante
dall’inciso «in quanto applicabili» od altro consimile (Carresi 1992, 56); un argomento a conforto di questa tesi
potrebbe essere rinvenuto, secondo parte della dottrina, anche nell’art. 210,
co. 3°, c.c. (cfr. Cenni 2002,
601). 1.2. In applicazione di questo
principio è stato deciso da una sentenza di merito che «il notaio che, nel
ricevere un atto di costituzione di fondo patrimoniale, preveda che
l’amministrazione del fondo sia affidata soltanto ad uno dei due coniugi, in
contrasto con gli artt. 168, comma 3 e 180, comma 1, cod. civ.», viola l’art. 28 della legge notarile (T
Foggia 9 giu. 2000, RN, 2002, II, 692). In proposito potrà però obiettarsi che, avuto riguardo alla
natura contrattuale del negozio bilaterale costitutivo di convenzione di fondo
patrimoniale, il principio di autonomia
negoziale dei coniugi (art. 1322 c.c.) consente loro di apporre tutte le
clausole che non appaiono in contrasto con norme imperative, ovvero con
principi d’ordine pubblico e di buon costume. E in proposito non vi è dubbio
che l’art. 169 c.c., pur con una
formulazione contorta, consenta ai coniugi di derogare alla regola del
necessario consenso dei coniugi per gli atti di straordinaria
amministrazione. 1.3. Per quanto attiene alle norme richiamate dall’art.
168 c.c., il rinvio alle disposizioni in tema di amministrazione della
comunione legale deve ritenersi come effettuato, quanto meno in linea generale,
agli artt. 180 c.c. (regola
dell’amministrazione congiunta, con le eccezioni ivi indicate), nonché 181,
182, 183 c.c. (interventi di volontaria giurisdizione in materia di fondo
patrimoniale). Peraltro la trasposizione di tali norme nel campo della
amministrazione del fondo non è scevra da problemi. 1.3. Cominciando dall’analisi di quelli posti dal rinvio operato
all’art. 180 c.c. andrà tenuto conto
del fatto che, allorché si verta in tema di atti di straordinaria amministrazione rientranti nell’elenco di cui
all’art. 169 c.c., sarà quest’ultima disposizione, in omaggio al criterio della
specialità, a prevalere (così Cian-Casarotto
1982, 827; Corsi 1994, 96
ss.; Auletta 1990, 201; Id. 1997, 385 ss.). Il rinvio all’art.
180 c.c. comporta dunque, in via residuale, l’applicazione al fondo
patrimoniale delle seguenti regole: a) agire disgiunto per gli atti di
ordinaria amministrazione; b) agire congiunto per gli atti con cui si
acquistano o concedono diritti personali di godimento; c) agire congiunto per
quegli atti di straordinaria amministrazione che non siano però nel contempo
atti di disposizione (cui è riferibile l’art. 169 c.c.): si pensi all’ipotesi
del mutamento di destinazione economica di un bene (sull’inderogabilità del
rinvio all’art. 180 c.c. v. l’opinabile conclusione cui è pervenuta T Foggia 9
giu. 2000, cit.). 1.4. Il rinvio
all’art. 181 c.c. pone il problema
dell’interesse alla stregua del
quale il giudice dovrà concedere l’autorizzazione
ivi prevista, interesse che va qui riferito alla famiglia, piuttosto che
all’azienda facente parte della comunione (la quale, tra l’altro, potrebbe
anche non esistere e comunque non potrebbe costituire oggetto del fondo
patrimoniale): cfr. Corsi 1994, 97
e Auletta 1990, 203 ss.; Id. 1997, 388 ss. 1.5. Nel caso siano presenti figli
minori l’autorizzazione ex art.
181 c.c. viene a concorrere con quella prevista dall’art. 169 c.c.: i due
provvedimenti (entrambi di competenza del tribunale ordinario, ai sensi
dell’art. 38 disp. att. c.c.) potranno essere invocati e concessi
contestualmente, senza peraltro perdere la propria peculiare identità, attesa
la non esatta coincidenza dei criteri previsti dalle due norme (sull’argomento
cfr. in particolare Corsi 1994,
97). 1.6. Nel caso di rifiuto di entrambi i genitori l’art. 321
c.c. non sembra applicabile, poiché i beni non sono qui (almeno di regola) di
proprietà dei figli, bensì dei genitori o di terzi. L’unica soluzione sembra
rinvenibile (peraltro solo una volta intervenuta una causa di scioglimento del
fondo) nel disposto dell’art. 171, co. 2° e 3°, c.c., che prevede un intervento
giurisdizionale attivabile anche su istanza dei figli (a mezzo, eventualmente,
di curatore speciale nominato ex art.
320 c.c., nel caso di conflitto di interessi). 1.7. Anche l’art. 182 c.c.
sembra applicabile al fondo, peraltro previa eliminazione del capoverso,
concernente l’azienda gestita dai coniugi, che come tale non può costituire
oggetto dell’istituto in esame (cfr. supra, Parte I, §
7; v. anche Corsi 1994, 97; Auletta 1990, 272 ss.; Id. 1997, 390 ss.). Nel caso di presenza
di figli minori si porrà un problema di coordinamento con il disposto dell’art.
169 c.c. analogo a quello esaminato con riguardo all’art. 181 c.c. 1.8. Per quanto riguarda l’art. 183 c.c., anch’esso viene ritenuto
applicabile (Santosuosso 1983,
136; Corsi 1994, 97; Auletta 1990, 285 ss.; Santosuosso 1995, 258), con la
conseguenza che, verificatasi una delle situazioni presupposte dall’art. cit.,
uno dei genitori potrà chiedere l’estromissione
dell’altro dall’amministrazione dei beni del fondo. In questo caso i problemi
di coordinamento con l’art. 169 c.c. sono di più agevole soluzione: una volta
emessa la decisione di estromissione da parte del tribunale, il coniuge rimasto
unico amministratore inoltrerà al medesimo tribunale il ricorso per
l’autorizzazione richiesta in caso di figli minori. 1.9. Nel caso di interdizione
di uno dei coniugi l’esclusione dall’amministrazione opera di diritto (cfr.
art. 183, co. 3°, c.c.), con la conseguenza che l’altro coniuge sarà senz’altro
legittimato a proporre istanza di autorizzazione ex art. 169 c.c., nel caso intenda compiere uno degli atti ivi
menzionati in presenza di figli minori (sull’argomento si fa rinvio anche a
A.-M. Finocchiaro 1984, 822 ss.). 1.10. Dubbia è, infine, l’applicabilità
dell’art. 184 c.c., anche perché il
tema degli atti di disposizione in violazione di tale articolo si sovrappone
alla materia di cui all’art. 169 c.c. (su cui v. infra, § 2; in generale
sull’amministrazione dei beni del fondo cfr. Demarchi
2005, 217 ss.).
2. Gli atti
contemplati dall’art. 169 c.c.; l’estensione dell’autonomia privata. 1.1. L’art. 169 c.c. contempla espressamente una serie di
atti per il compimento dei quali viene prevista, di regola, la necessità, oltre
che del consenso di entrambi i coniugi
(già implicito nel fatto che si tratta di atti di amministrazione
straordinaria, in conseguenza del combinato disposto degli artt. 168 e 180
c.c.), anche dell’autorizzazione
giudiziale, qualora vi siano figli
minori (in generale sul tema v. De
Paola 1996, 115 ss.; Auletta
1997, 376 ss.). 1.2. Si è precisato
in dottrina che il termine «alienare»
comprende non solo l’atto dispositivo del diritto di proprietà, bensì anche la
costituzione di diritti reali di godimento quali l’usufrutto, l’uso,
l’abitazione, la servitù, l’enfiteusi o la superficie (cfr. Cian-Casarotto
1982, 834; Auletta 1990, 210); non
rientrano invece in tale concetto le alienazioni forzate, cioè quelle conseguenti
all’espropriazione per p.u., ovvero all’espropriazione nell’ambito di una
procedura esecutiva, individuale così come concorsuale (Corsi 1984, 103). 1.3.
Di più difficile decifrazione appare l’inciso «comunque vincolare», inteso come riferito a istituti quali la
cessione dei beni ai creditori, o a vincoli di carattere pubblicistico quali,
per esempio, la c.d. «cessione di cubatura» (Cian-Casarotto
1982, 834). A questi potrebbero forse aggiungersi quei vincoli che
usualmente si ritengono contemplati dall’art. 1997 c.c.: in particolare, il
vincolo da sequestro convenzionale ex
artt. 1798 ss. c.c. e da sequestro c.d. «liberatorio» ai sensi dell’art. 687
c.p.c. (nel caso gli stessi coniugi debitori intendessero proporre la relativa
istanza). Inoltre si potranno ricordare i vincoli ex art. 2645-ter c.c.,
nonché il conferimento dei beni in trust.
1.4. La lettera dell’art. 169 c.c. è
affetta da una singolare forma di contorsionismo verbale in cui, come è stato
esattamente notato (Corsi 1984,
98), tre «se» e tre «non» si accoppiano e si susseguono. In ogni caso è certo che l’autorizzazione giudiziale non
è richiesta quando non vi sono figli minori. Ciò significa, concretamente,
che tanto i terzi quanto il notaio rogante dovranno richiedere ai coniugi
l’esibizione del certificato di stato di famiglia, al fine di potere avere la
certezza di procedere alla stipula del negozio in assenza di previa
autorizzazione. 1.5. Sembra d’altro canto assodato che il soggetto che
può «espressamente consentire»
nell’atto costitutivo ad una previsione in deroga al disposto dell’art. 169
c.c. sia rappresentato dalla persona del costituente (A.-M. Finocchiaro 1984, 825 ss. e Corsi 1984, 103); le parole
«espressamente consentito» significano dunque: «espressamente disposto nell’atto
costitutivo» (Corsi 1984, 103). 1.6. Per quanto concerne invece
l’oggetto della previsione in deroga al disposto dell’art. 169 c.c. non
sussiste concordia d’opinioni in dottrina. Mentre infatti, secondo alcuni
(A.-M. Finocchiaro 1984, 825 ss.),
al costituente sarebbe consentito, nel caso di riserva a sé medesimo della
proprietà dei beni, di prevedere la
libera alienabilità degli stessi senza il consenso dei coniugi, secondo
altri una siffatta previsione sarebbe inammissibile, consentendo al costituente
la possibilità di determinare ad libitum
la cessazione della destinazione dei beni (Corsi
1984, 99). 1.7. Si è
osservato, argomentando dall’abrogato art. 187 c.c. (Corsi 1984, 100 ss.), che l’art. 169 c.c. tende invece ad
attribuire maggior fiducia ai coniugi, consentendo loro di procedere senz’altro
al compimento di atti di straordinaria amministrazione senza autorizzazione
giudiziale in assenza di figli minori: per questo non sarebbe illogico
ammettere, sempre in base alla norma predetta, che l’atto costitutivo del fondo
contenga un patto espresso che, pur in
presenza di figli minori, escluda anche in tale caso la necessità di
autorizzazione giudiziale. 1.8.
Maggiori difficoltà sussisterebbero invece nell’ammettere la possibilità un
patto che consentisse ad uno solo dei coniugi (in violazione del principio di
parità, nonché della regola espressa dall’art. 210 c.c. e, probabilmente, pure
di quella ricavabile dall’art. 166-bis
c.c.) la possibilità di alienare i beni anche senza o contro l’avviso
dell’altro (sul punto v. supra, § 1, in questa Parte II; in dottrina cfr. per tutti Corsi 1984, 101 ss.; Auletta 1990, 239, 242 ss.; Id. 1997, 380 ss.). 1.9. Sul tema specifico della derogabilità
della previsione normativa che impone l’autorizzazione
giudiziale in presenza di figli minori la dottrina prevalente si è espressa in senso favorevole (Gabrielli 1982, 304; Santosuosso 1983, 139 ss.; A.-M. Finocchiaro 1984, 825 ss.; Corsi 1984, 103; Auletta 1990, 237 ss., 246 ss.; Carresi 1992, 356; Auletta
1997, 384 ss.) e con essa diverse pronunce (T Roma 27 giu. 1979, RN, 1979, 952;
TM Roma 9 giu. 1998, RN, 1999, 166; T Verona 30 mag.
3. L’autorizzazione
giudiziale e i suoi effetti. 1.1. Per quanto attiene alla procedura
relativa all’autorizzazione non vi è dubbio che essa abbia natura di volontaria giurisdizione e debba
seguire le regole del rito camerale ex
artt. 737
ss. c.p.c. (cfr. art. 38, co. 3°, disp. att. c.c.). Il ricorso potrà essere presentato dai coniugi personalmente se si accede alla tesi
secondo cui le procedure camerali di volontaria giurisdizione non costituiscono
«giudizio» ai sensi dell’art. 82 c.p.c. (sull’argomento si fa rinvio per tutti
a Oberto, Rifiuto di trascrizione e trascrizione con riserva nel sistema della l.
27 febbraio 1985, n. 52, RDC, 1990, I, 261 ss.). In ogni caso i coniugi
dovranno presentare congiuntamente
il ricorso, vertendosi in materia di atti di straordinaria amministrazione
(A.-M. Finocchiaro 1984, 831). Lo ius
postulandi del notaio incaricato di rogare la convenzione andrà
riconosciuto in base all’art.
Ancora sul reimpiego
4. Le
conseguenze della violazione della disposizione in esame: la sorte dell’atto
compiuto in assenza di autorizzazione. 1.1. Una
notevole incertezza regna anche in merito alla sorte dell’atto compiuto in assenza della prescritta autorizzazione
(Cenni 2002, 608 ss.). Al
riguardo, vi è innanzi tutto chi propone di ricorrere all’art. 184 c.c. (in forza del richiamo operato dall’art. 168
c.c.), che dovrebbe applicarsi, dunque, non solo al caso di violazione della
regola dell’agire congiunto (così Auletta
1990, 268 ss.; Id. 1997, 392 ss.).
La soluzione appare però – così come presentata – impraticabile, non foss’altro
che per la difficoltà di reperire un legittimato attivo all’impugnazione, in
relazione ad una norma dettata per la ben diversa ipotesi della pretermissione
di un coniuge: non per nulla, infatti, chi propugna l’applicazione dell’art.
cit. si vede poi costretto ad estendere la legittimazione anche ai figli minori
(cfr. Auletta 1990, 247 ss.; per
l’inapplicabilità dell’art. 184 c.c. alla fattispecie in discorso cfr. Cian-Casarotto 1982, 827). 1.2. Per questo, altra dottrina ha
ritenuto più corretta l’applicazione della regola della nullità per violazione di norma imperativa (Grasso 1982, 395; Santosuosso
1983, 143). Ma anche questa soluzione appare insoddisfacente: la
legittimazione attiva concessa a chiunque vi abbia interesse, propria
dell’azione di nullità, finisce infatti con il «premiare» il soggetto che, pur
se autore (o coautore) della violazione del principio in forza del quale la
causa di invalidità è prevista, intenda esercitare una sorta di ius poenitendi, «rinunciando»
all’affare, eventualmente rivelatosi per lui non conveniente (contrari alla
tesi della nullità sono anche Gabrielli-Cubeddu
1997, 276). 1.3. Ora, se la ratio dalla disposizione è quella della
tutela dell’interesse della prole minorenne (ciò sembra confermato dal fatto
che solo in tal caso l’autorizzazione è prescritta), può forse concludersene
nel senso dell’argomentabiltà, dai princìpi generali in materia di protezione
degli interessi patrimoniali degli incapaci, e dunque per effetto di un
procedimento di analogia iuris, che
il difetto delle prescritte autorizzino giudiziali determini l’annullabilità dell’atto, su istanza
dell’incapace stesso, dei suoi legali rappresentanti o di un curatore speciale,
così come disposto dall’art. 322 c.c. per il minore sottoposto a potestà dei
genitori e dall’art. 377 c.c. per il minore sottoposto a tutela (con
disposizione ripresa dall’art 427 c.c. per l’interdetto e l’inabilitato e
dall’art. 396 per l’emancipato).
5. Le
conseguenze della violazione della disposizione in esame: la responsabilità dei
coniugi. 1.1. Si rileva in dottrina che l’obbligo di astenersi da
qualsiasi atto, giuridico o materiale, concernente i beni del fondo, che non
sia oggettivamente destinato al soddisfacimento dei beni della famiglia, grava
in entrambi i casi sui coniugi. L’eventuale inadempienza comporta responsabilità, di uno o di entrambi i
coniugi: infatti, quand’anche la distrazione delle utilità del fondo dalla
destinazione dovuta fosse concordemente operata da ambedue i coniugi,
l’inadempimento non andrebbe esente da una possibilità di sanzione, poiché tale
destinazione non è imposta nell’esclusivo interesse dei titolari del diritto,
ma anche in quello dei figli, che già esistono o che possono sopravvenire. 1.2. Di conseguenza, la responsabilità
può essere fatta valere – oltre
che, se del caso, dallo stesso coniuge che ne sia immune – dai figli (in
persona, una volta raggiunta la maggiore età, ovvero, anche prima, a mezzo di
procuratore speciale nominato ai sensi dell’ultimo capoverso dell’art. 320
c.c.), nonché dal terzo che abbia costituito il fondo e sia per ciò portatore
di un interesse legittimo al rispetto del vincolo di destinazione. 1.3. In virtù del rinvio, contenuto
nell’art. 168, comma terzo, c.c. alla disciplina in materia dettata per la
comunione legale potrà pretendersi una rimessione
in pristino, in natura o per equivalente, secondo la norma dell’art. 184,
comma terzo, c.c. e, nei casi più gravi, potrà anche essere chiesta
l’esclusione di uno o di entrambi i coniugi dall’amministrazione, visto il
disposto dell’art. 183, comma primo, c.c. (così Gabrielli-Cubeddu
1997, 275; sul tema della responsabilità ex
art. 184 c.c. cfr. inoltre Oberto,
La responsabilità contrattuale nei
rapporti familiari, Milano, 2006, 32 ss.; Demarchi
2005, 612 ss.).
Esecuzione sui beni e sui frutti.
Rapporti con i creditori
1. Il
vincolo di inespropriabilità dei beni e l’estraneità dell’obbligazione ai
bisogni della famiglia. 1.1.
L’art. 170 c.c. prevede, nell’interesse
della famiglia, un limitato vincolo di
inespropriabilità dei beni costituiti in fondo patrimoniale e dei relativi
frutti, vincolo che viene concretamente determinato in relazione a due dati, di
cui uno oggettivo e l’altro soggettivo. Il primo è costituito dall’estraneità dell’obbligazione, per il soddisfacimento coattivo della quale il
creditore agisce, ai «bisogni della
famiglia»; il secondo è rappresentato dalla conoscenza del creditore di
tale situazione di estraneità. 1.2.
Sul primo punto, una volta assodato come dato pressoché pacifico che la norma prescinde dalla circostanza che il vincolo
sia stato contratto da entrambi i coniugi o da uno solo di essi (cfr. per
tutti A.-M. Finocchiaro 1984,
835), va subito registrata una certa discordanza d’opinioni
sull’interpretazione della nozione di «bisogni
della famiglia», specie con riguardo alla possibilità di inserire in tale
concetto anche i bisogni creati dallo svolgimento dell’attività professionale o
imprenditoriale di ciascuno dei coniugi, singolarmente presi, o addirittura nel
quadro di un’impresa familiare. In proposito, la dottrina sembra orientata a fornire di questo concetto una lettura
piuttosto restrittiva, confinata alle sole esigenze connesse con il ménage domestico-familiare (Cian-Casarotto 1982, 828; Corsi 1984, 104; sostanzialmente nello
stesso senso appare orientato anche Auletta
1990, 41 ss., 44 ss., cui si fa rinvio per un’attenta analisi del concetto di
«bisogni della famiglia»; v. inoltre Id.
1997, 397 ss.; in generale sul tema v. anche De
Paola 1996, 122 ss.; Demarchi 2005, 267 ss.). 1.3. In una decisione di legittimità si è affermato, invece, che rientrerebbe
nella nozione in esame ogni debito diretto a soddisfare «esigenze volte al
pieno mantenimento ed all’armonico sviluppo della famiglia, nonché al
potenziamento della sua capacità lavorativa, restando escluse solo le esigenze
di natura voluttuaria o caratterizzate da intenti meramente speculativi». Si
noti che, nel caso di specie, si è ritenuto non estraneo ai bisogni della famiglia il debito contratto con
l’Ente di Sviluppo Agricolo in Sicilia «per consentire alla mutuataria ed alla
sua famiglia colonica un più sereno e proficuo svolgimento dell’attività
lavorativa comune a tutti i componenti il nucleo familiare» (CC 7 gen.
1984/134, FI, 1985, I, 558). Sarà appena il caso di constatare come
l’affermarsi di un’interpretazione di questo genere favorisca obiettivamente i creditori, rendendo praticamente
inutile, in un buon numero di casi, l’utilizzazione dell’istituto del fondo
patrimoniale in chiave di frode a questi soggetti (cfr. supra, Parte I, § 1, nonché infra). 1.4. La
limitazione prevista dall’art. 170 c.c. circa l’esecutabilità dei beni facenti
parte del fondo patrimoniale sembra poi doversi intendere riferita esclusivamente alle obbligazioni nascenti
da contratto, restando escluse quelle derivanti da fatto illecito.
In tal senso, infatti, sembra deporre l’interpretazione letterale della norma,
nella parte in cui fa riferimento alle attività poste in essere dai componenti
del gruppo familiare nell’ambito dell’autonomia
contrattuale e non riconducibili, quindi, al paradigma dell’art. 2043 c.c.
D’altra parte, il riferimento espresso alla conoscenza, da parte del creditore,
dell’estraneità del credito ai bisogni familiari si riferisce certamente alle
obbligazioni contrattuali (T Sanremo 29 ott. 2003, D FAM, 2004, 101). Anche
questa lettura dell’art. 170 c.c. va a vantaggio dei creditori: nella specie,
dei creditori ex delicto, i quali non
potranno vedersi opporre eccezioni di sorta relative al fatto che i beni
pignorati siano oggetto di fondo patrimoniale (sul tema cfr. Di Sapio, Patrimoni
segregati ed evoluzione normativa: dal fondo patrimoniale all’atto di destinazione,
Relazione tenuta al convegno di studi su Attualità e problematiche in
materia di donazioni, patrimoni separati e fallimento organizzato dal
Comitato Regionale fra i Consigli Notarili Distrettuali della Puglia, tenutosi
a Pozzo Faceto, Fasano (Brindisi) il 23-24 giugno
2. L’esecuzione
sui beni. 1.1. L’esecuzione sui beni
(o su di una quota di essi) per obbligazioni dei coniugi presuppone, secondo
taluno, che il fondo sia stato costituito con attribuzione della proprietà (o di una quota in comproprietà, o di
uno ius in re aliena tipico) degli
stessi ai coniugi; nel caso di riserva della proprietà al costituente, invece
(e sempre a condizione che tale operazione sia ritenuta come possibile: cfr. supra, Parte I, § 10), lo speciale diritto di
godimento spettante ai coniugi sarebbe inalienabile ed inespropriabile (Cian-Casarotto 1982, 828; secondo Carresi 1992, 63, invece, i creditori
dei coniugi potrebbero espropriare il diritto d’usufrutto a questi ultimi
spettante, senza quei vincoli che affettavano i beni quando facevano parte del
fondo patrimoniale). 1.2. Il limite
all’espropriabilità dei beni deve essere fatto valere dai coniugi in sede di opposizione all’esecuzione; ma legittimati a
promuovere quest’ultima devono considerarsi pure i figli (così Gabrielli-Cubeddu
1997, 277). Il limite in oggetto vale sia in relazione alle obbligazioni di
fonte contrattuale che a quelle di
fonte non contrattuale (Gabrielli-Cubeddu 1997, 277). L’onere della prova della conoscenza della estraneità del debito ai bisogni
della famiglia grava su chi voglia avvantaggiarsi degli effetti ricollegati
alla conoscenza da parte del creditore che l’obbligazione era contratta per
scopi estranei ai bisogni della famiglia e pertanto sui coniugi che l’invocano
(così T Parma 7 gen. 1997, NGCC, 1998, I, 33 ss., con nota di Mora; in dottrina v. in questo senso Santosuosso 1983, 146 ss.; A.-M. Finocchiaro 1984, 834 ss.).
3. La nozione di bisogni della famiglia.
1.1. Con riguardo al profilo
soggettivo, è evidente che il fondo patrimoniale è destinato a soddisfare i
bisogni non solo dei coniugi, ma anche
della eventuale prole, come risulta dal fatto che la costituzione può
esserne disposta soltanto in contemplazione di un determinato matrimonio e che
il vincolo cessa con lo scioglimento od annullamento di questo, salva
l’eventuale dilazione fino al raggiungimento della maggiore età da parte del
più giovane dei figli, previsto dal capoverso dell’art. 171 c.c. (così Gabrielli-Cubeddu 1997, 278). 1.2. Quanto al profilo oggettivo, poi, gli interessi della prole e dell’eventuale
terzo costituente fanno sì che l’individuazione dei bisogni familiari non
possa venire rimessa all’arbitrio dei coniugi, ma debba invece operarsi secondo
parametri oggettivi. Di conseguenza,
se alla famiglia – come ad ogni altra formazione sociale – è assegnata dall’ordinamento
una funzione di potenziamento della personalità individuale in alcune soltanto
delle sue manifestazioni, devono qualificarsi familiari solo quei bisogni
individuali destinati a soddisfarsi entro l’alveo unitario della vita comune:
comprensivi, peraltro, non solo degli elementari bisogni biologici, ma altresì
di quelli propri della vita di relazione, secondo il costume affermato nella
più ampia cerchia sociale entro cui la famiglia si colloca, nonché, infine, le
esigenze obiettive di conservazione e miglioramento dei beni del fondo stesso (Gabrielli-Cubeddu 1997, 279; cfr.
inoltre Gabrielli 1997, 388). 1.3. La giurisprudenza, tuttavia, sembra incline a procedere, per la tutela
dei creditori, anche al di là di questi già ampi confini, ammettendo la
rilevanza pure di spese erogate a vantaggio dell’attività economica individuale
di singoli membri della famiglia. CC 7 gen. 1984/134, cit., infatti, ha
stabilito che «In tema di esecuzione sui beni del fondo patrimoniale e sui
frutti di essi, il disposto dell’art. 170 cod. civ. nel testo di cui alla legge
19 maggio 1975 n. 151 per il quale detta esecuzione non può aver luogo per
debiti che il creditore conosceva essere stati contratti per scopi estranei ai
bisogni della famiglia, va inteso non in senso restrittivo, come riferentesi
cioè alla necessità di soddisfare l’indispensabile per l’esistenza della
famiglia, bensì analogamente a quanto, prima della riforma di cui alla
richiamata legge n. 151 del 1975, avveniva per i frutti dei beni dotali, nel senso
di ricomprendere in detti bisogni anche quelle esigenze volte al pieno
mantenimento ed all’armonico sviluppo della famiglia, nonché al potenziamento
della sua capacità lavorativa, restando escluse solo le esigenze voluttuarie o
caratterizzate da intenti meramente speculativi». Al riguardo, la dottrina
(Gabrielli 1997, 388; Gabrielli-Cubeddu 1997, 279) ha in
proposito sollevato il dubbio che per tal via venga pregiudicata la stessa
ragion d’essere del fondo patrimoniale. 1.4.
Successivamente, alcune pronunce di legittimità
hanno avuto modo di sottolineare che «il criterio identificativo dei crediti il
cui soddisfacimento può essere realizzato in via esecutiva sui beni conferiti
nel fondo va ricercato non già nella natura delle obbligazioni, ma […] nella relazione
esistente tra il fatto generatore di esse ed i bisogni della famiglia, con la
conseguenza che ove la fonte e la
ragione del rapporto obbligatorio abbiano inerenza diretta ed immediata con le
esigenze familiari deve ritenersi operante la regola della piena responsabilità
del fondo» (così, letteralmente, CC 18 lug. 2003/11230, FD, 2004, 351, con
nota di Longo, Responsabilità aquiliana ed esecutività sui
beni del fondo patrimoniale; GI,
2004, 1615, con nota di Guida; RN,
2004, II, 155, con nota di Vocaturo;
CC 5 giu. 2003/8991, FD, 2003, 615; GC, 2004, I, 3097, con nota di Piscitelli, L’inopponibilità del fondo patrimoniale a fronte di obbligazioni
risarcitorie da fatto illecito vantaggiose per la famiglia). 1.5. Secondo la S.C., inoltre, siffatto
accertamento della riconducibilità delle obbligazioni alle esigenze della
famiglia, costituisce accertamento di
fatto ed è pertanto rimesso al giudice di merito, restando invece
censurabile, in sede di legittimità, solo per vizio di motivazione (CC 18 set.
2001/11683, GC, 2002, I, 1950).
4. L’irrilevanza
del momento in cui il credito è sorto. 1.1. Una pronuncia della Cassazione (CC 9 apr. 1996/3251,
GC, 1996, I, 2959; D FAM, 1996, 1382) ha affermato l’irrilevanza, ai fini dell’applicazione dell’art. 170 c.c., dell’accertamento
del momento in cui il credito è sorto, in relazione al momento di
costituzione del fondo: «Con riguardo a beni conferiti in fondo patrimoniale,
l’art. 170 cod. civ. secondo cui l’esecuzione sui beni del fondo e sui frutti
di essi non può aver luogo per debiti che il creditore conosceva essere stati
contratti per scopi estranei ai bisogni della famiglia non limita il divieto di
esecuzione forzata ai soli crediti (estranei ai bisogni della famiglia) sorti
successivamente alla costituzione del fondo. Ne consegue che detto divieto estende la sua efficacia anche ai
crediti sorti prima di tale data, ferma restando in questo caso la
possibilità per il creditore di agire in revocatoria ordinaria, qualora ne
ricorrano i presupposti, al fine di far dichiarare l’inefficacia nei propri
confronti dell’atto costitutivo del fondo patrimoniale» (sul tema cfr. anche Demarchi 2005, 310).
5. Fondo
patrimoniale e azione revocatoria (ordinaria): i presupposti oggettivi. 1.1. Come si è avuto modo di dire (cfr. supra, Parte I, § 1) il fondo patrimoniale è stato sovente (se non
quasi esclusivamente) utilizzato in chiave di frode ai creditori. La giurisprudenza, dal canto suo, appare
costante nell’ammettere la revocabilità dell’atto costitutivo, trattato come negozio a titolo gratuito, ai sensi e
per gli effetti dell’art. 2901 c.c. 1.2.
Seguendo l’ordine delle condizioni previste dalla norma citata andrà detto che,
in punto eventus damni questo va ravvisato, nel caso di costituzione di
fondo patrimoniale con trasferimento
della proprietà (o di una quota di essa: per un’ipotesi cfr. T Milano 2
giu. 1983, GC, 1983, I, 2729), nella perdita
della garanzia patrimoniale (generica) offerta dalla titolarità del bene in
capo al soggetto che ha costituito il fondo. 1.3. Nell’ipotesi, invece, di costituzione del fondo su beni già di proprietà dei coniugi il
pregiudizio alle ragioni dei creditori ben può essere ravvisato in quel vincolo di (limitata e condizionata)
inespropriabilità che l’art. 170 c.c. contempla: v. CC 18 mar. 1994/2604,
NGCC, 1995, I, 265, con nota di Giugliano,
Natura giuridica dell’atto costitutivo
del fondo patrimoniale e azione revocatoria; cfr. inoltre CC 2 sett.
1996/8013, FALL 1997, 595, con nota di Figone,
secondo cui «La costituzione del fondo patrimoniale può essere dichiarata
inefficace nei confronti dei creditori a mezzo azione revocatoria ordinaria, in
quanto rende i beni conferiti aggredibili solo a determinate condizioni (art.
170 cod. civ.), così riducendo la garanzia generale spettante ai creditori sul
patrimonio dei costituenti»; nello stesso senso si è espressa, più
recentemente, CC 7 mar. 2005/4933, inedita; per la giurisprudenza di merito
cfr. A Brescia 13 feb. 1981, GC, 1981, I, 1123; in dottrina v. Auletta 1997, 367. Il tutto,
naturalmente, sempre a condizione che la costituzione in fondo di determinati
beni renda obiettivamente più difficile il soddisfacimento delle ragioni
creditorie sul patrimonio del debitore complessivamente considerato (T Catania
27 mag. 1993, D FAM, 1994, 1263).
6. Fondo
patrimoniale e azione revocatoria (ordinaria): i presupposti soggettivi. 1.1. Venendo ai presupposti oggettivi, potrà dirsi che, per
quanto attiene, in primo luogo, al consilium fraudis (art. 2901, n. 1,
c.c.), essendo sufficiente la mera consapevolezza di intaccare, nella maniera
sopra precisata, la garanzia patrimoniale generica offerta ai creditori ex art. 2740 c.c., tale requisito, nelle
ipotesi in esame, risulta in re ipsa.
Sul tema, invece, della «dolosa
preordinazione», richiesta in caso di atto anteriore al sorgere del
credito, cfr. CC 22 gen. 1999/591, nonché T Napoli 16 gen.
7. Fondo
patrimoniale e azione revocatoria (ordinaria): la pubblicità della domanda.
L’azione proposta dal curatore fallimentare. La legittimazione passiva. 1.1. Una pronunzia di merito (P Pordenone 1° ott. 1997, FD,
1999, 67, con commento di Gaglio)
si è occupata del tema della pubblicità
della domanda ex art. 2901 c.c. proposta avverso un atto costitutivo
di un fondo patrimoniale, stabilendo che siffatto negozio «può essere oggetto
di revocatoria quando pregiudichi le ragioni dei creditori e ricorrano le
condizioni di cui all’art. 2901 c.c. La domanda revocatoria è trascrivibile ai
sensi dell’art. 2652, n. 5, c.c. e la relativa sentenza dev’essere annotata a
norma dell’art. 2655, 1° comma, c.c. e non invece a’ sensi e agli effetti degli
artt. 162 e 163 c.c., poiché la sentenza revocatoria non modifica l’assetto
delle convenzioni patrimoniali fra i coniugi ma ne determina unicamente
l’inefficacia relativa. Si tratta comunque di adempimenti attuabili soltanto ad
iniziativa della parte interessata e che non possono essere ordinati dal
giudice». 1.2. Per un caso, invece,
di esercizio dell’azione revocatoria ordinaria proposta dal curatore fallimentare a norma dell’art.
2901 c.c., espressamente richiamato dall’art.
8. Fondo
patrimoniale e fallimento. 1.1. Il
vincolo di cui all’art. 170 c.c. opera anche nei confronti del fallimento, come risulta confermato dal
rinvio a tale disposizione operato dall’art. 46, n.
9. Sul
carattere gratuito o oneroso dell’atto costitutivo del fondo patrimoniale.
1.1. La giurisprudenza ritiene la
costituzione del fondo patrimoniale inefficace
ai sensi dell’art.
Cessazione del fondo
1. Modificazioni
del fondo. 1.1. Durante
la sua esistenza, il fondo può subire modificazioni di vario genere, sia in
relazione al suo oggetto, che al suo
regime giuridico. In primo luogo esso potrà essere modificato con apposita convenzione, cui andranno applicate le
disposizioni ex art. 163 c.c. 1.2. Non costituiscono peraltro
modificazioni del fondo patrimoniale già esistente eventuali nuove destinazioni di beni allo stesso fine: si tratta,
invero, di costituzione di un ulteriore patrimonio separato, distinto dal
precedente perché da ricondursi a titolo diverso: il successivo incremento del fondo non sembra dunque
mai configurarsi come modificazione del negozio originario (Gabrielli-Cubeddu 1997, 287; sul tema
cfr. inoltre Santosuosso 1995, 269
ss.; Gabrielli 1997, 391; Auletta 1997, 369; sull’argomento cfr.
anche De Paola 1996, 101 ss.; in generale sulla cessazione del fondo
cfr. Demarchi 2005, 395 ss.). 1.3. Per quanto riguarda invece i decrementi occorre distinguere. Può
darsi che l’uscita di singoli beni dal fondo – e, al limite, addirittura di
tutti – rappresenti la mera conseguenza riflessa di atti, giuridici o
materiali, diretti ad altro fine: in particolare, d’un impiego traducentesi in
consumazione o alienazione, per fare fronte ai bisogni della famiglia; nel qual
caso certamente non occorre rispettare il procedimento richiesto per le
modificazioni del fondo patrimoniale. Ma può anche darsi, per contro, che i
coniugi vogliano sottrarre uno o più beni al vincolo di destinazione, senza
direttamente proporsi altro scopo che questo: sarà certamente necessario,
allora, operare in conformità del modello previsto, secondo la norma dell’art.
163 c.c., per la modificazione delle convenzioni matrimoniali (Gabrielli-Cubeddu 1997, 287). 1.4. Quanto alle modifiche dell’originario regime
giuridico del fondo, queste sono adottabili con convenzione modificativa,
in quanto abbiano ad oggetto aspetti derogabili della disciplina legale (si
pensi, per esempio al vincolo reale d’inalienabilità di cui all’art. 169 c.c.);
anche le deroghe in tale negozio eventualmente contenute potranno
eventualmente eliminarsi, in un momento successivo; in entrambi i casi la
modificazione non potrà avvenire se non nei modi previsti dall’art. 163 c.c. (Gabrielli-Cubeddu 1997, 287). Dette
modifiche, inoltre, richiedono il consenso di tutti i soggetti che sono stati
parte dell’originaria convenzione ovvero dei relativi eredi (Cenni 2002, 623).
2. Cessazione
ed esaurimento del fondo. Le cause di cessazione del fondo patrimoniale. 1.1. La cessazione del fondo, disciplinata
dall’art. 171 c.c., va distinta dall’esaurimento
del medesimo, che si determina per effetto dell’alienazione (cfr. sub art. 169 c.c.) dei beni che lo
costituiscono (Corsi 1984, 105).
Dal raffronto dell’art. 171 c.c. con il suo omologo in tema di comunione legale
(art. 191 c.c.) emerge che talune fattispecie estintive di quest’ultimo regime
non sono prese qui, almeno espressamente, in considerazione. 1.2. In particolare, non si prevede
l’ipotesi del mutamento convenzionale di
regime, con la conseguenza che, secondo alcuni, il fondo non potrebbe
essere eliminato mediante la stipula di una nuova convenzione (Corsi 1984, 105, che ammette solo, come
si è detto, la possibilità dell’esaurimento del fondo). Si è però obiettato al
riguardo che l’art. 171 c.c. non sembra
derogare alla generale previsione di cui all’art. 163 c.c., con conseguente
possibilità, nel caso di costituzione del fondo a mezzo di convenzione
matrimoniale, di una modifica della medesima, o addirittura di una sua
risoluzione consensuale, nel rispetto delle prescrizioni formali dell’art. ult.
cit. (Gabrielli 1982, 316 ss.; Carresi 1992, 66; Gabrielli 1997, 391; Gabrielli-Cubeddu 1997, 288; in
giurisprudenza cfr. T Vicenza 19 lug. 1985, V NOT, 1985, 731; TM Venezia 17
nov. 1997, RN, 1998, II, 223, con nota di A. Vianello;
TM Lecce 25 nov. 1999, RN, 2002, II, 394, con nota di Verola; che ammettono la possibilità di una risoluzione
consensuale del negozio costitutivo del fondo; contra cfr. T Savona 24 apr. 2003, cit.; TM Perugia 20 mar. 2001,
RN, 2001, II, 1189, con nota di Viani;
sul problema del carattere tassativo o esemplificativo dell’elenco di cui
all’art. 171 c.c. v. Auletta 1997,
400 ss.; in generale sul tema v. anche De
Paola 1996, 127 ss.). 1.3. Si è ritenuto poi che, in presenza di figli minori, una
convenzione risolutiva del fondo patrimoniale abbisognerà di un’autorizzazione
giudiziale del tribunale dei minorenni, in analogia a quanto dispongono il co.
2° e il co. 3° dell’art. 171 c.c. (così Cenni
2002, 635); in giurisprudenza la soluzione è condivisa da TM Lecce 25
nov. 1999, cit., ma respinta da TM Venezia 7 feb. 2001, RN, 2001, II, 1189, con
nota di Viani; in particolare,
secondo tale ultima pronunzia, «il Tribunale dei Minorenni non è competente ad
autorizzare la convenzione di scioglimento del fondo patrimoniale, per la quale
è di conseguenza sufficiente l’atto pubblico notarile». 1.4. Neppure la separazione
personale dei coniugi è menzionata tra le cause di scioglimento del fondo e
la dottrina tende a non estendere analogicamente a questo caso il disposto
dell’art. 171, né quello dell’art. 191 c.c., rilevandosi in proposito che il
fondo può conservare una sua utilità pur in presenza di una crisi coniugale (Santosuosso 1983, 148; Corsi 1994, 22; A.-M. Finocchiaro 1984, 845; Auletta 1990, 337; Carresi 1992, 66); anche la
giurisprudenza ha escluso che la separazione personale dei coniugi produca lo
scioglimento del fondo patrimoniale (T Savona 24 apr. 2003, cit.). 1.5. D’altro canto, non determinano la
cessazione del fondo la separazione
giudiziale dei beni (art. 193 c.c.), il fallimento (cfr. supra, Parte III, § 8)
e la dichiarazione di assenza di uno
o di entrambi i coniugi (Carresi 1992,
66; più in generale sui rapporti tra le norme in tema di cessazione del fondo e
scioglimento della comunione legale v. Auletta
1990, 329 ss.).
3. La
cessazione del fondo patrimoniale in presenza di figli. 1.1. Il capoverso dell’art. 171 c.c. dispone che il fondo
duri fino al compimento della maggiore età dell’ultimo figlio. In tale caso il
giudice può dettare, su istanza di chi vi abbia interesse, norme per
l’amministrazione del fondo. Giudice
competente è qui il tribunale per i minorenni, ex art. 38 disp. att. c.c., che dovrà pronunciare sentito il p.m.,
secondo quanto disposto dall’art. 32 disp. att. c.c. 1.2. Le norme in tema di amministrazione cui fa riferimento l’art.
171 c.c. possono consistere, per esempio, nel conferimento dei poteri di amministrazione ad uno solo dei coniugi
(per esempio: l’affidatario dei figli) o ad un estraneo (come potrebbe avvenire, sempre per esempio, nel caso di
morte di entrambi). Dalla disposizione in commento è altresì desumibile
l’inammissibilità di una costituzione del fondo successiva al verificarsi di
una causa di scioglimento o di annullamento del matrimonio, quantunque esistano
figli minori (Auletta 1990, 351;
sul tema cfr. inoltre De Paola 1996, 132 ss.; Auletta 1997, 405 ss.; Vianello, Lo scioglimento convenzionale del fondo patrimoniale in presenza di
figli minori, nota a TM Venezia 17 nov. 1997, cit.; Demarchi 2005, 427 ss.). 1.3. A notevoli perplessità ha dato luogo la disposizione di cui al
terzo comma dell’art. 171 c.c., secondo cui, considerate le condizioni
economiche dei genitori e dei figli ed ogni altra circostanza, il giudice può
altresì attribuire ai figli, in
godimento o in proprietà, una quota dei beni del fondo. In particolare, una
parte della dottrina ha affermato che la norma costituirebbe un gravissimo
attentato all’autonomia privata, contemplando un’ipotesi di vera e propria espropriazione per motivi di interesse
particolare, e dunque in contrasto con l’art. 42 Cost. (A.-M. Finocchiaro 1984, 841 ss.; secondo Corsi 1994, 107 ss., che pure condivide
le predette perplessità, la norma va vista come una possibilità di eliminazione
del vincolo prima del raggiungimento della maggiore età, così consentendo
l’immediata cessazione del fondo, ma assicurando altresì ai figli i vantaggi
che deriverebbero dal suo permanere; cfr., per questa lettura dell’art. 171
c.c., anche Auletta 1990, 368 ss.;
ritengono superabili le perplessità in ordine alla legittimità costituzionale
della disposizione Gabrielli-Cubeddu 1997,
290). 1.4. Secondo una parte della
dottrina la norma non troverebbe applicazione nei riguardi dei figli minori, i cui interessi sarebbero
già tutelati dal fatto che il fondo permane sino al raggiungimento della
maggiore età e dal fatto che, ai sensi del capoverso dell’art. 171 c.c., il
giudice può dare provvedimenti sull’amministrazione (Attardi, Aspetti
processuali del nuovo diritto di famiglia, COM. RDF, I, 2, Padova 1977, 957
ss.; Santosuosso 1983, 151 ss.). 1.5. Secondo altri, invece, la
disposizione troverebbe applicazione solo
a beneficio dei figli maggiorenni ma economicamente non autosufficienti (Cian-Casarotto 1982, 835 ss.). 1.6. Rimane comunque il fatto che competente in ordine a tale intervento è il
tribunale per i minorenni (ex
art. 38 disp. att. c.c.), il che sembra fornire elementi in senso contrario
alla tesi dell’applicabilità ai figli maggiorenni. D’altro canto la norma va
letta «in parallelo» con quanto disposto dall’art. 194 cpv. c.c. in relazione,
pacificamente (cfr. il riferimento all’«affidamento della prole»), alla tutela
degli interessi dei figli minorenni (per l’inapplicabilità dell’art. 171, co.
3°, c.c. ai figli maggiorenni è anche Auletta
1990, 366).