I

LA COMUNIONE IMMEDIATA

 

1. La comunione legale tra coniugi come regime. Le varie tesi sulla natura della comunione. 1.1. Ai sensi dell’art. 159 c.c. la comunione legale tra coniugi, quale regime patrimoniale legale della famiglia italiana, sorge automaticamente con il perfezionarsi del vincolo coniugale, salvo diversa convenzione matrimoniale. Essa, nonostante sia definita dalla lettera dell’art. 159 c.c., nonché dalla rubrica e dal testo dell’art. 210 c.c. (cfr. inoltre art. 211 c.c.), quale «comunione dei beni» o «comunione legale dei beni», segue il modello della comunione degli acquisti, rimanendo esclusi i beni acquistati dal singolo coniuge anteriormente al matrimonio, nonché altri rientranti nelle categorie previste dall’art. 179 c.c., così come quelli oggetto di comunione non immediata ma solo de residuo, sottoposti alla regola della caduta in comunione solo se ed in quanto sussistano al momento dello scioglimento del regime legale (v. per tutti Schlesinger 1977, 361 ss.; Corsi 1979, 53 ss.; Grasso 1982, 378 ss.; Nuzzo 1984, passim; Bianca 1985, 59 ss.; Schlesinger 1992, 69 ss.; Auletta 1999, 3 ss.; Spitali 2002, 87 ss., ai quali si rimanda anche per una più ampia bibliografia). 1.2. Alla nozione di comunione legale possono essere attribuiti diversi significati. Essa, infatti, può essere intesa come «regime patrimoniale», cioè come disciplina tipica dei rapporti patrimoniali fra coniugi, così come complesso dei beni appartenenti ai coniugi il cui acquisto sia avvenuto, per l’appunto, in base alla regola dettata dall’art. 177 c.c. Per ciò che attiene in particolare al profilo del regime si è autorevolmente messo in luce (Schlesinger 1992, 79) che la comunione legale non attiene (soltanto) al profilo statico, relativo alla disciplina di quanto forma già parte della comunione, ma opera (anche e soprattutto) sul profilo dinamico, in quanto riguarda tutti i futuri acquisti che i coniugi compiranno, insieme o separatamente, fin quando non intervenga una causa di scioglimento della comunione (art. 191 c.c.). 1.3. Uno degli argomenti che hanno suscitato più discussioni in materia di comunione legale tra coniugi è senz’altro quello dell’individuazione della sua natura. Si riuniscono sotto questo concetto tutte le tesi che tendono a risolvere il problema della collocazione sistematica dell’istituto in esame, con particolare riferimento ai rapporti dello stesso con la categoria della comunione disciplinata nel libro III del codice civile. 1.4. Le varie tesi elaborate al riguardo possono essere così schematizzate: (a) la comunione legale è una fattispecie a formazione progressiva, che si perfeziona solo al momento del suo scioglimento, producendo solo in tale sede i suoi effetti tipici (la tesi è conosciuta anche come tesi della comunione quale «mero vincolo»); (b) la comunione legale è una forma di comproprietà solidale (o «a mani riunite»); (c) la comunione legale è un soggetto di diritto, distinto dai due coniugi, con un proprio patrimonio, una propria autonomia negoziale ed una pro­pria capacità processuale; (d) la comunione legale è un patrimonio destinato ad uno scopo; (e) la comunione legale è una forma di contitolarità di diritti (per più ampi richiami sul punto v. A.-M. Finocchiaro 1984, 849 ss.; Auletta 1999, 19 ss.).

 

2. La comunione legale come fattispecie a formazione progressiva (o come vincolo). 1.1. La tesi che configura la comunione legale alla stregua di una fattispecie a formazione progressiva, consistente nella presenza di un mero vincolo sui beni acquistati dall’uno o dall’altro dei coniugi in costanza di regime, salvo il completamento della fattispecie medesima all’atto del verificarsi di una causa di scioglimento del regime stesso, sembra trovare una sua remota giustificazione nell’originaria concezione dell’istituto in esame. 1.2. Già i dottori del droit coutumier francese, preso atto dei penetranti poteri che competevano allora al marito sui beni della comunione coniugale (quali, per esempio, quello di disporre a suo piacimento dei beni, anche a titolo gratuito, laddove alla moglie non era concesso compiere alcun atto di tipo dispositivo), negavano alla moglie lo status di comproprietaria. «Non est proprie socia, sed speratur fore», affermava Molineo commentando l’art. 225 della Coutume di Parigi, mentre Pothier, nel suo Traité de la communauté, sosteneva che durante il rapporto coniugale il marito era «le seul seigneur et maître absolu des biens dont elle [i.e.: la communauté] est composée», laddove il diritto della moglie era semplicemente «un droit informe, qui se reduit au droit de partager un jour les biens qui se trouveront la composer [i.e.: composer la communauté] lors de sa dissolution» (su questi temi v. per tutti Baudry-Lacantinerie, Le Courtois e Surville, Del contratto di matrimonio, Trat. Baudry-Lacantinerie, Milano, s.d. ma 1909, 257). 1.3. Le poche righe che precedono dimostrano come la costruzione di comunione legale alla stregua di una situazione di mero vincolo, destinato a sfociare in un vero e proprio diritto solo al momento dello scioglimento del regime, si giustifichi solo in un sistema fondato su di una profonda disparità tra marito e moglie nell’esercizio dei poteri di amministrazione, disparità che oggi non si giustifica più in alcun modo. Peraltro, anche dopo la riforma del 1975, non è mancato chi ha proposto in Italia una ricostruzione del regime di comunione tale da ridurlo ad una mera situazione di vincolo (manente communione). 1.4. Ci si intende qui riferire alla proposta di intendere la comunione alla stregua, per l’appunto, di una fattispecie a formazione progressiva, i cui elementi sarebbero, in successione, i seguenti: matrimonio, acquisto dei beni, scioglimento del regime di comunione. Conseguenza sarebbe che solo il compimento di tutti i suddetti elementi potrebbe indurre a ritenere realizzata la fattispecie «comunione legale», essendo nel frattempo i coniugi titolari di una semplice aspettativa. 1.5. Ciò varrebbe in maniera particolare per gli acquisti compiuti dagli stessi coniugi separatamente, che non cadrebbero immediatamente sotto la contitolarità del coniuge non agente. In pendenza di regime non esisterebbe se non un vincolo di inalienabilità a carico dell’unico acquirente, mentre e solo con il completamento della fattispecie in sede di scioglimento il coniuge non agente acquisterebbe un diritto avente ad oggetto l’equivalente del 50% del patrimonio «comune» ex art. 177 c.c. Un argomento a favore di questa opinione sarebbe costituito dalla considerazione secondo cui lo scioglimento del regime legale, ex art. 191 c.c., determina esclusivamente la cessazione del regime e del fenomeno del «coacquisto automatico», senza comportare automaticamente la divisione dei cespiti comuni (cfr. Mazzola-Re, Proposta di un diverso modo di intendere la comunione di beni tra coniugi, RN, 1978, 757 ss.; Barbiera 1996, 470 ss.; per ulteriori richiami si fa rinvio ad Auletta 1999, 19 ss.). 1.6. La tesi ha avuto un limitatissimo seguito nella giurisprudenza di merito. In particolare il tribunale di Ivrea (T Ivrea 27 giu.  1978, RD IP, 1979, 66; la motivazione si legge anche in Caravaglios 1995, 30 ss.), ha affermato che «Contro la tesi, per cui la comunione legale fra i coniugi è una comunione ordinaria qualificata e determinante ope legis fra i coniugi la contitolarità per quote eguali di ogni bene che vi ricada, è sostenibile la tesi per cui la comunione fra i coniugi rende possibile la formazione di un patrimonio distinto dai patrimoni personali, costituito ope legis dagli acquisti compiuti da un solo coniuge o da entrambi, vincolato all’interesse della famiglia, sul quale i coniugi vantano poteri uguali e complementari. Prima dello scioglimento della comunione ciascun coniuge, quand’anche sia l’acquirente esclusivo di un bene entrato a formare il patrimonio distinto, non è titolare di un diritto reale, bensì di un’aspettativa a conseguire un valore pari al cinquanta per cento del patrimonio in comunione; per effetto dello scioglimento della comunione, questa aspettativa diviene diritto ad una ripartizione contabile che non implica necessariamente lo spostamento della precedente titolarità dei beni». 1.7. Numerose sono le obiezioni che possono muoversi a questa teoria. Già il fatto che la legge parli di «scioglimento» del regime legale e di «comunione» induce a ritenere che qui si versi in una situazione di contitolarità di diritti e non già di proprietà individuale. In secondo luogo, non v’è chi non veda come la negazione di una situazione di contitolarità non contribuirebbe certo alla realizzazione della ratio ispiratrice della riforma, volta ad assicurare ad un coniuge l’effettiva compartecipazione agli incrementi di ricchezza operati dall’altro. Una partecipazione, si badi, tutelabile anche manente communione mediante un’apposita azione di rivendica, la cui domanda ben potrebbe essere trascritta sui registri immobiliari al fine di rendere noto a chiunque il rischio di perdere il diritto conseguito in base ad eventuali atti di alienazione posti in essere dal coniuge apparente unico titolare. 1.8. A ciò s’aggiunga che l’accoglimento di questo punto di vista rischierebbe di far venir meno ogni distinzione tra comunione immediata (art. 177, lett. a) e d) c.c.) e comunione de residuo (artt. 177, lett. b) e c), 177 cpv., 178 c.c.), situazione, quest’ultima, in cui effettivamente il coniuge non titolare di alcun diritto sino al momento dello scioglimento vede a questo punto realizzata (peraltro solo su ciò che resta, e sempre a condizione che resti) la sua «aspettativa». 1.9. Infine, proprio parlando di aspettative, il richiamo a tale figura in subiecta materia appare comunque fuori luogo. E’ noto infatti che l’art. 1356 c.c. concede al titolare di siffatta posizione giuridica soggettiva solo il potere di compiere atti conservativi, laddove tali non possono certo considerarsi quegli atti in cui si estrinsecano i poteri di amministrazione che paritariamente competono ad entrambi i coniugi sulla massa dei beni in comunione ex artt. 180 ss. c.c., per non dire poi del mezzo di tutela ex art. 184 c.c., del tutto impensabile quale usbergo di una mera situazione d’aspettativa (per ulteriori critiche al riguardo v.  Schlesinger 1992, 81 s. e Auletta 1999, 19 ss.).

 

3. La comunione legale quale ipotesi di comproprietà solidale: a) La tesi della Corte costituzionale e della Cassazione. 1.1. La tesi che configura la comunione legale alla stregua di una situazione di comproprietà solidale di tipo germanico «a mani riunite» (zur gesammten Hand: letteralmente «a mano comune») annovera qualche sporadico – ancorché autorevole – precedente dottrinale. Invero, già sotto il vigore del c.c. 1865, allorquando l’istituto in esame formava oggetto di un regime meramente convenzionale, Fr. Ferrara Sen. (Teoria delle persone giuridiche, Napoli-Torino, 1915, 486) affermava testualmente che la comunione coniugale era una «forma di comunione di diritto germanico», in considerazione del fatto che essa «nasce per influenza d’un vincolo personale che avvolge i soggetti, e muore con lo sciogliersi di questo vincolo». «Durante questa comunione – continuava l’eminente civilista – non esistono delle quote parti di diritto spettanti a ciascuno degli sposi, ma la delimitazione si effettua solo allo scioglimento. Conseguentemente niuno degli sposi, finché dura la comunione, può alienare la sua parte al patrimonio a favore di terzi, né i creditori particolari di quelli possono provocarne lo scioglimento per farla realizzare. E’ esclusa l’azione di divisione. Il patrimonio è goduto in comune senza alcuna ripartizione, e la gestione è condotta dal marito a comune profitto e perdita. Il patrimonio forma una massa unica con propria responsabilità». 1.2. Già sulla base di queste battute preliminari appare evidente la difficoltà di utilizzare simili osservazioni per una ricostruzione in termini di comproprietà a mani riunite della comunione legale, così come la conosciamo oggi. Per esempio, non è certo più vero che questo tipo di comunione sia caratterizzata da una gestione rimessa ad un solo soggetto (il marito), né che il patrimonio formi una massa unica con una propria responsabilità distinta da quella dei coniugi (cfr. quanto disposto dagli artt. 186-190 c.c.), né che i creditori personali non possano provocare lo scioglimento del regime, dal momento che tale risultato è ottenibile mercé la pronunzia di fallimento di uno dei coniugi. 1.3. La concezione in esame ha peraltro ricevuto un autorevole avallo dalla giurisprudenza della Corte costituzionale, prima e della Corte di cassazione, poi. In una nota decisione risalente al 1988 (Ccost. 17 mar. 1988/311, GC 1988, I, 1388; D FAM 1988, 715; RN 1988, II, 1306; FI 1990, I, 2146), invero, la Consulta afferma che «Diversamente da quanto avviene nella comunione ordinaria, la mancanza del consenso di uno dei coniugi all’alienazione di un bene immobile (o mobile registrato) in comunione legale non dà luogo ad un acquisto a non domino ma ad un acquisto a domino in base a titolo viziato. Ne consegue che la prevista annullabilità dell’atto non costituisce deroga al generale principio di inefficacia degli atti di disposizione posti in essere da alienante non legittimato e, dunque, non contrasta con l’art. 3 Cost.». 1.4. Nella specie, bisogna considerare che la questione di legittimità presentata alla Corte investiva l’art. 184, co. 1°, c.c., nella parte in cui prevede l’annullabilità anziché l’inefficacia dell’atto. Trattandosi – nell’ottica del giudice a quo – di atto dispositivo compiuto da soggetto (almeno pro parte) non legittimato in quanto non proprietario, la sanzione dell’annullabilità sanabile nel breve termine prescrizionale previsto sarebbe venuta a porre una ingiustificata disparità di trattamento rispetto alla fattispecie «canonica» dell’alienazione a non domino, costituita dalla radicale ed insanabile (se non a seguito di fattispecie acquisitive autonome, quali l’usucapione o l’applicazione del principio «possesso vale titolo») inefficacia dell’atto. 1.5. La Consulta rigetta però tale visione, ritenendo giustificato il diverso trattamento prefigurato dall’art. 184 cit. all’atto dispositivo compiuto non già a non domino, ma da soggetto pienamente titolare del diritto oggetto dell’atto». Il perno di tale costruzione giuridica poggia proprio sulla concezione della comunione legale come una comunione «a mani riunite». 1.6. Al riguardo rimarca invero la Corte costituzionale che «Dalla disciplina della comunione legale risulta una struttura normativa difficilmente riconducibile alla comunione ordinaria. Questa è una comunione per quote, quella è una comunione senza quote; nell’una le quote sono oggetto di un diritto individuale dei singoli partecipanti (arg. ex art. 2825 cod. civ.) e delimitano il potere di disposizione di ciascuno sulla cosa comune (art. 1103); nell’altra i coniugi non sono individualmente titolari di un diritto di quota, bensì solidalmente titolari, in quanto tali, di un diritto avente per oggetto i beni della comunione (arg. ex art. 189, secondo comma)». 1.7. Una volta poste queste premesse, appare agevole alla Corte concludere nel senso che, «assodato che l’art. 184, primo comma, non è tecnicamente un caso di acquisto da un alienante non legittimato, bensì un caso di acquisto a domino in base a un titolo viziato, il principio di inefficacia delle alienazioni a non domino non può fornire il tertium comparationis rispetto al quale possa prospettarsi una violazione dell’art. 3 Cost. in danno del coniuge pretermesso». 1.8. La decisione di cui sopra è stata seguita, a nove anni di distanza, da una pronunzia della Corte di cassazione (Cass.,14 gen. 1997/284, D FAM 1998, 26), che fa derivare dal principio della comproprietà solidale la conseguenza della necessaria estensione al coniuge comproprietario pretermesso degli effetti del preliminare di vendita concluso dall’altro senza il suo consenso, con conseguente presenza di una situazione di litisconsorzio necessario nei confronti del coniuge del promittente venditore, «la cui posizione era inevitabilmente coinvolta in una controversia che doveva avere ad oggetto l’immobile nel suo intero, stante l’inconcepibilità dell’ingresso di estranei nella comunione e la conseguente impossibilità di trasferimento della sola quota del coniuge promittente». La massima ufficiale della pronunzia citata recita testualmente quanto segue: «Come affermato dalla Corte cost. con la sentenza n. 311 del 1988, la comunione legale dei beni tra i coniugi, a differenza da quella ordinaria, è una comunione senza quote, nella quale i coniugi sono solidalmente titolari di un diritto avente per oggetto i beni di essa e rispetto alla quale non è ammessa la partecipazione di estranei. Ne consegue che, nei rapporti con i terzi, ciascun coniuge, mentre non ha diritto di disporre della propria quota, può tuttavia disporre dell’intero bene comune, ponendosi il consenso dell’altro coniuge (richiesto dal secondo comma dell’art. 180 cod. civ. per gli atti di straordinaria amministrazione) come un negozio unilaterale autorizzativo che rimuove un limite all’esercizio del potere dispositivo sul bene e che rappresenta un requisito di regolarità del procedimento di formazione dell’atto di disposizione, la cui mancanza (ove si tratti di bene immobile o di bene mobile registrato) si traduce in un vizio da far valere nei termini fissati dall’art. 184 cod. civ.». 1.9. Sarà il caso di rimarcare che il richiamo alla teoria della comproprietà solidale, ove la Corte Suprema avesse voluto essere coerente con le premesse metodologiche, avrebbe dovuto condurre i Supremi Giudici alla decisione radicalmente opposta rispetto a quella assunta: invero, è proprio del concetto di comproprietà solidale il principio secondo cui l’atto dispositivo posto in essere da uno dei contitolari è senz’altro valido ed efficace per tutti, con conseguente non necessaria partecipazione al giudizio di tutti i soggetti legati da rapporto di solidarietà. 1.10. Negli anni successivi la Corte Suprema ha intensificato le proprie esternazioni in favore della concezione qui esposta (e criticata). Si vedano, a mero titolo d’esempio, le decisioni seguenti: Cass.,SU 1 lug. 1997/5895; Cass.,27 feb. 2003/2954; Cass.,19 mar. 2003/4033; Cass.,6 lug. 2004/12313; sentenze, queste, si badi, relative tutte a questioni che si sarebbero potute risolvere anche a prescindere da qualsiasi richiamo alla teoria della comproprietà solidale.

 

4. Segue. b) Critiche alla tesi della comunione legale quale ipotesi di comproprietà solidale. 1.1. Ma può veramente dirsi che la comunione legale tra coniugi sia caratterizzata dalla assenza di quote? Come esattamente rilevato in dottrina (Natucci, Alienazioni immobiliari e annullabilità nella disciplina della comunione legale, nota a Ccost. 10 mar. 1988/311, GC 1988, I, 2484), in costanza di regime la quota ha innanzi tutto valore nei confronti dei terzi creditori, indicando la misura della responsabilità «comune» per debiti personali (cfr. art. 189 cpv. c.c.). E già queste non sono funzioni così marginali da negare alla quota un valore caratterizzante. 1.2. Al cessa­re della comunione, inoltre, la quota serve a stabilire la misura in cui i beni verranno ripartiti tra i coniugi, non diversamente da quanto accade nella comunione ordinaria (cfr. artt. 194 c.c.). 1.3. A ciò s’aggiunga che anche l’art. 210, co. 3°, c.c. espressamente menziona il concetto di quota, stabilendo che «Non sono derogabili le norme della comunione legale relative all’amministrazione dei beni della comunione e all’uguaglianza delle quote limitatamente ai beni che formerebbero oggetto della comunione legale». 1.4. Si badi poi che l’affermazione della Consulta secondo cui dall’art. 189 cpv. c.c. sarebbe ricavabile il principio per il quale «i coniugi non sono individualmente titolari di un diritto di quota, bensì solidalmente titolari, in quanto tali, di un diritto avente per oggetto i beni della comunione» appare quanto mai apodittica. L’art. cit., invero, fissa per i creditori personali il limite nell’esecuzione contro i beni comuni, limite che viene fatto corrispondere proprio alla «quota del coniuge obbligato», il che rende quanto mai evidente che la comunione si compone di quote rientranti nella titolarità di ciascuno dei due coniugi; non altrimenti si potrebbe infatti spiegare l’impiego del complemento di specificazione «del coniuge obbligato». 1.5. D’altro canto, proprio restando in tema di responsabilità, va tenuto conto del fatto che se la proprietà dei coniugi fosse veramente solidale, dovrebbe valere la regola per cui i debiti per qualunque ragione contratti singolarmente da ciascuno dei coniugi dovrebbero impegnare senza limiti il patrimonio comune. Ma il già ricordato principio consacrato nel capoverso dell’art. 189 c.c. smentisce nella maniera più clamorosa tale asserzione (sui vari profili del tema cfr. per tutti Schlesinger 1992, 84 s.; Morelli, Autonomia negoziale e limiti legali nel regime patrimoniale della famiglia, FD, 1994, 109 s.; Caravaglios 1995, 41 s.; Di Martino 1997, 52 ss.; Auletta 1999, 23 ss.). 1.6. Infine, appare implicito nel concetto stesso di solidarietà che ogni atto d’esercizio del diritto stesso – ivi compreso ogni atto di disposizione – da parte di uno solo dei più soggetti attivi è per definizione atto lecito (arg. ex art. 1292 c.c.), laddove l’art. 180 c.c. manifesta nella maniera più evidente l’esistenza di un’obbligazione ex lege al compimento congiunto (o comunque con il necessario consenso di entrambi) degli atti di amministrazione e dunque anche di disposizione dei diritti in comunione; consegue che tali atti, ove compiuti da un coniuge senza il necessario consenso dell’altro, dovranno ritenersi illeciti (come del resto confermato dalle sanzioni predisposte dall’art. 184 c.c.) e pertanto non potranno in alcun modo essere considerati altrettante manifestazioni di un (in realtà inesistente) diritto d’esercizio solitario di un potere che spetterebbe solidalmente a ciascuno dei coniugi.

 

5. La comunione legale quale soggetto di diritto. 1.1. Un’ulteriore opinione ha cercato di configurare la comunione legale come un «soggetto di diritto distinto dai due coniugi», in quanto do­tato di «un proprio patrimonio, una propria autonomia nego­ziale ed una propria capacità processuale» (cfr. De Paola 1995, 236 ss.; così già De Paola-Macrì, Il nuovo regime patrimoniale della famiglia, Milano, 1978, 93 ss.; Cian-Villani 1981, 190; at­tribuiscono capacità processuale alla comunione, Attardi, Profili processuali della comunione legale dei beni, RDC 1978, 25 ss.; Gionfrida Daino, La posizione dei creditori nella comunione legale tra coniugi, Padova, 1986, 27). Si è così affermato che la comunione, essendo formata ed esistendo in funzione del suo scopo istituzionale, sarebbe assoggettata ad un regime giuridico particolare, che pur non assurgendo ai caratteri dell’autonomia patrimoniale perfetta, è pur sempre caratterizzato dalla parziale insensibilità tra il patrimonio comune ed i patrimoni dei co­niugi, per cui i beni della comunione costituiscono la garanzia primaria e diretta per le obbligazioni assunte in nome e per conto della stessa, e solo sussidiaria per le obbligazioni assunte in nome proprio dai coniugi. 1.2. Gli argomenti a favore di questa tesi possono essere sintetizzati come segue. (a) La legge distingue il patrimonio personale da quello della comunione, attribuendo a ciascuno delle regole sue speciali; (b) l’art. 180 c.c. parla di «rappresentanza in giudizio per gli atti ad essa (cioè alla comunione) relativi»; (c) l’art. 186 c.c. parla di «responsabilità» dei «beni della comunione». 1.3. A queste considerazioni può però replicarsi, innanzi tutto, che, ogni qualvolta esiste un soggetto di diritto, i suoi organi, per impegnarne la responsabilità e per far ricadere su di esso gli effetti dei negozi stipulati, debbono dichiarare di agire in nome e per conto del soggetto, ponendo in essere la c.d. contemplatio domini, vale a dire quel riconoscibile riferimento alla sfera patrimoniale altrui che, se non richiede necessariamente la menzione espressa del nome del dominus, presuppone però comunque la manifestazione dell’intento del dichiarante di concludere il negozio non per sé, ma in nome e per conto di un altro soggetto. 1.4. Ebbene, non può certo dirsi che ciò si verifichi nel caso qui in esame, in cui, ex art. 177, lett. a), c.c., i diritti acquistati anche separatamente, senza alcuna menzione del regime legale (e persino nel caso in cui un coniuge abbia falsamente dichiarato di non essere coniugato), «fruttano» alla comunione. 1.5. Per ciò che attiene infine al regime di responsabilità sarà opportuno riportare il parere d’un autorevole commentatore, il quale ha messo in luce come l’insieme delle norme in tema di responsabilità della comunione (rectius: dei coniugi in comunione) evidenzi l’assenza di una responsabilità separata che possa in qualche modo giustificare l’idea di un soggetto autonomo o anche di un patrimonio separato o di destinazione (Bianca , Il regime della comunione legale, in Bianca (a cura di) 1989, 11).

 

6. La comunione legale come patrimonio di destinazione. 1.1. Parte della dottrina, attenuando i toni della tesi preceden­te, ha preferito parlare in relazione alla comunione legale, più che di una vera e propria autonomia della comunione rispetto ai patrimoni personali dei co­niugi, soltanto di una sua autonomia tendenziale, affermando che questa darebbe origine non ad un sog­getto di diritto, ma ad un complesso di beni trattenuti insieme dal vincolo finalistico (Attardi, Profili processuali della comunione legale dei beni, RDC, 1978, 39 ss.; cfr. inoltre Soccorsi Aliforni, Il regime legale della comunione tra coniugi, in Aa. Vv., Il nuovo diritto di famiglia. Contributi notarili, Milano, 1975, 43; Busnelli 1976, 40 s.; in senso critico cfr. Corsi 1979, 58 ss.; Prosperi, Sulla natura della comunione legale, Napoli, 1983, 22 ss.; Bianca, Il regime della comunione legale, cit., 10 s.; Caravaglios 1995, 28 ss.). 1.2. In questa prospettiva, molte delle qualificazioni della dot­trina divergono più da un punto di vista terminologico che so­stanziale, riferendosi ora ad un «patrimonio separato» (Jan­nuzzi, Manuale della volontaria giurisdizione, Milano, 1990, 534), ora ad un «patrimonio separato piuttosto ar­ticolato» (Andrioli, Nota alla legge 19 mag. 1975, n. 151: riforma del diritto di famiglia, FI, 1975, V, 168), ora ad un patrimonio dotato di una, sia pur limitata, autonomia (cfr. Trimarchi, Istituzioni di diritto privato, Milano, 1986, 815). 1.3. Alcuni, poi, sembrano voler avvicinare l’istituto in esame alla situazione della coeredità (Schlesinger 1992, 83), mentre altri preferiscono riferirsi alle società personali, ponendo l’accento sulla destinazione ad uno scopo del patrimonio comune, dotato di tendenziale autonomia e corredato dal principio di tassatività delle cause di scioglimento (Busnelli 1976, 31 ss.). 1.4. La critica rispetto a siffatta impostazione può rinvenirsi già in alcune trattazioni anteriori alla riforma del 1975. Così, ad esempio, il Tedeschi rimarcava esattamente che «Lo scioglimento [della comunione, allora convenzionale] non può aversi, a differenza che nella società (cfr. art. 2272 C. Civ.) che per le cause tassativamente ammesse dalla legge (…) e deve necessariamente avvenire con la morte di uno dei coniugi, non essendo concepibile che, come avviene in tema di società (cfr. art. 2284 C. Civ.), possa continuare la comunione con l’erede del defunto e cioè con persona diversa dal coniuge. Come convenzione matrimoniale, la stipulazione della comunione è poi soggetta alle varie norme ad esse relative (…). Lo scopo di lucro, essenziale nel contratto di società (cfr. art. 2247 C. Civ.) è, se non proprio necessaria­mente estraneo, certo non essenziale nella comunione coniugale (…). Come la comunione in generale, la comunione dei coniugi non è una persona giuridica» (Tedeschi, voce Comunione dei beni tra coniugi (diritto civile), NNDI, III, Torino, 1967, 891). 1.5. Del resto criticabile appare l’avvicinamento della comunione al concetto di patrimonio destinato ad uno scopo. Ora, come rilevato in dottrina, «Una tale configurazione era abbastanza giustificata nei confronti della vecchia comunione dei beni tra coniugi, nella quale i loro creditori particolari non potevano soddisfarsi sui beni comuni, ed è giustificata oggi nei confronti del fondo patrimoniale, rispetto al quale la ‘destinazione’ dei beni è esplicitamente codificata negli artt. 167, 168 e 171 e così pure l’insensibilità del fondo a debiti diversi da quelli contratti per i bisogni della famiglia (art. 170). Non altrettanto sembra in realtà che si possa prospettare con riguardo alla comunione legale, nella quale i sintomi di una autonomia patrimoniale sfumano nella ‘preferenza’ accordata ai creditori della comunione dall’art. 189, comma 2°, rispetto a quelli personali chirografari, i quali però possono anch’essi agire sui beni comuni, sia pure nei limiti della ‘misura della metà del credito’, ai sensi dell’art. 190» (Corsi 1979, 59). 1.6. A ciò s’aggiunga che i beni comuni rispondono non solo dei pesi ed oneri gravanti su di essi al momento dell’acquisto, dei carichi dell’amministrazione e, in genere, di tutte le obbligazioni contratte per la famiglia, ma anche «di ogni obbligazione contratta congiuntamente dai coniugi» (quale essa sia, anche se non rispondente all’interesse della famiglia): cfr. art. 186, lett. d), c.c. Proprio da quest’ultima considerazione deriva l’impossibilità di individuare la natura dello scopo o della destinazione che caratterizzerebbe il patrimonio dei coniugi in comunione. Conclusione ulteriormente rafforzata dal fatto che i beni comuni rispondono sempre e comunque «in seconda battuta» e fino al valore corrispondente alla quota del coniuge obbligato, anche per i debiti personali (cfr. art. 189 cpv. c.c.).

 

7. La comunione legale come fenomeno di contito­larità di diritti. 1.1. L’ultima tesi da prendere in considerazione sulla natura della comunione legale tra coniugi fa capo a chi ritiene che il fenomeno di cui agli artt. 177 ss. c.c. vada inquadrato nell’ambito della contitolarità dei diritti (solo reali per alcuni, anche di credito per altri), somigliante ma non assimilabile alla comunione ordinaria di cui agli artt. 1100 ss. c.c., e che, proprio in virtù della peculiarità e complessità della specifica normativa, viene definita «speciale» o «irregolare». A favore di tale posizione si è espressa una notevole parte della dottrina (cfr. ad es. Tamburrino, Lineamenti del nuovo diritto di famiglia, Torino, 1978, 234 ss.; Corsi 1979, 60 s.; A.-M. Finocchiaro 1984, 861 ss.; Bianca 1985, 69 s.; Prosperi, op. cit., passim, spec. 145 ss.; Auletta 1999, 29 ss.), oltre a svariate decisioni di legittimità, senza che, a dire il vero, la Corte Suprema si sia mai resa conto del contrasto implicito con quel suo altro filone che si è invece lasciato sedurre dalla tesi fantasiosa della «comunione senza quote». 1.2. Invero la Cassazione in diversi casi ha preso le mosse proprio dalla ricostruzione della comunione alla stregua di una situazione di contitolarità di diritti, o comunque ha chiaramente mostrato di dare per scontata tale premessa, per risolvere le questioni che, di volta in volta, le erano state poste. 1.3. Per esempio, in un procedimento sfociato in una decisione del 1982 (Cass.,2 feb. 1982/605, GC, 1982, I, 1258) la Corte Suprema si è trovata ad affrontare la seguente questione. E’ possibile che il coniuge in regime di comunione del debitore esecutato effettui offerte all’incanto in ordine ai beni di quest’ultimo, pur determinando l’eventuale acquisto da parte sua una ricaduta in comunione del bene, con possibile contrasto, se non con la lettera, quanto meno con la ratio dell’art. 579 c.c. che esclude per l’appunto la possibilità che il debitore presenti tali tipi di offerte? La risposta al quesito è stata positiva, sulla base del rilievo che il coacquisto in capo al coniuge esecutato è effetto legale. 1.4. Ora, la lettura della motivazione della pronunzia in oggetto evidenzia in maniera assai chiara che il pensiero della Cassazione era proprio quello di ritenere la comunione legale alla stregua di una situazione di contitolarità di diritti, posto che «trasferito al coniuge del debitore esecutato il diritto reale sul bene immobile assoggettato all’espropriazione forzata, automaticamente il debitore esecutato diviene comproprietario del bene per la quota indivisa di metà». 1.5. Un’altra decisione che si può citare a tal proposito concerne le agevolazioni fiscali per l’acquisto della prima casa: «L’acquisto della prima casa, al quale è finalizzata l’anticipazione sul trattamento di fine rapporto ai sensi dell’art. 2120, co. 8°, lett. b), cod. civ. (nel testo sostituito dall’art. 1 della legge n. 297 del 1982), è documentato anche dall’atto notarile che menzioni come acquirente solo la moglie del lavoratore richiedente l’anticipazione, ove trattisi di coniugi in regime di comunione dei beni, dato che in tal caso l’acquisto compiuto da uno dei coniugi implica ex lege l’acquisto dell’altro, in comunione per la metà; né rileva in contrario la circostanza che dallo stesso atto il prezzo risulti (ovviamente) a carico della sola acquirente indicata, presumendosi, in relazione al predetto regime di comunione, la destinazione dell’anticipazione richiesta dal lavoratore al pagamento del prezzo per la quota di prima casa da lui acquistata» (Cass.,21 apr. 1993/4666, GC, 1993, I, 2679). La Cassazione prende qui lo spunto per riconoscere al coniuge lavoratore dipendente il diritto ad ottenere l’anticipazione del trattamento di fine rapporto per l’acquisto di prima casa ex art. 2120 c.c., anche quando l’acquisto stesso sia stato effettuato dall’altro coniuge in regime di comunione legale. 1.6. Un’ulteriore costellazione di ipotesi in relazione alle quali la Cassazione ha affermato (o comunque dato per scontato) la natura della comunione come contitolarità di diritti è costituita da fattispecie nelle quali si poneva il problema di sapere se il coniuge fosse o meno litisconsorte necessario. Risposta positiva al quesito è stata data con riferimento, per esempio, al retratto esercitato dal conduttore di immobile non abitativo, nei confronti di colui che dall’atto di vendita risulti acquirente dell’immobile, soggetto, in realtà, al momento della stipula del negozio, coniugato in regime di comunione (Cass.,5 mag. 1990/3741, FI, 1990, I, 3165). In un altro caso si trattava invece di stabilire se il coniuge (pretermesso) fosse litisconsorte necessario in un giudizio divisorio concernente un bene acquistato dall’altro coniuge in comproprietà con altro soggetto. Al riguardo la Corte Suprema ha stabilito che «La divisione di un bene comune va annoverata tra gli atti eccedenti l’ordinaria amministrazione. Pertanto, ai sensi dell’art. 180, secondo comma, cod. civ., come sostituito dalla legge n. 151 del 1975 sulla riforma del diritto di famiglia, qualora del bene da dividere siano comproprietari, assieme ad altri, due coniugi in regime di comunione legale, la rappresentanza spetta congiuntamente ad entrambi, con la conseguenza che entrambi sono litisconsorti necessari, ex art. 784 cod. proc. civ., nel giudizio divisionale da chiunque promosso» (Cass.,21 gen. 2000/648, D FAM, 2000, 1022). Dalla lettura della motivazione è dato comprendere come la ragione dell’affermata situazione di litisconsorzio necessario derivi dal riconoscimento dell’ingresso del bene acquistato separatamente da uno dei coniugi nel patrimonio dell’altro. 1.7. Un terzo gruppo di ipotesi è costituito, poi, da quei casi in cui il richiamo al concetto di comunione ex art. 1100 ss. c.c. viene effettuato al fine di escludere la ricaduta in comunione dei diritti di credito, essendo la comunione di cui al libro III del codice prevista solo in relazione a figure di carattere reale. Sul tema si tornerà peraltro in seguito (v. infra sub §§ 17 ss.): qui sarà il caso di rilevare come il richiamo a tale disposizione appaia logicamente incompatibile con l’asserita natura di comunione senza quote, che sarebbe propria del regime legale della famiglia.

 

8. Differenze tra comunione legale e comunione ordinaria. 1.1. Pur apparendo preferibile la tesi che qualifica la comunione legale quale una contitolarità di diritti, alla stregua della comunione ordinaria disciplinata dal libro III del c.c., occorre notare che una cospicua serie di differenze caratterizzano la prima rispetto alla seconda. Esse attengono in particolare, (a) ai soggetti, (b) all’oggetto, (c) al modo di costituzione, (d) all’amministrazione e (e) al modo di estinzione dei due istituti. 1.2. Cominciando dai soggetti andrà rimarcato che, a differenza della comunione ordinaria, la comunione legale può sussistere solo tra persone coniugate (sull’inestensibilità in via analogica del regime legale ai conviventi more uxorio e sulla possibilità per questi ultimi di dare vita ad un regime convenzionale di tipo comunitario cfr. per tutti Oberto, I regimi patrimoniali della famiglia di fatto, Milano, 1991, rispettivamente 59 ss. e 260 ss.). 1.3. Per ciò che attiene all’oggetto, invece, mentre l’art. 1100 c.c. menziona, in generale e senza limitazioni, la proprietà o altro diritto reale, la comunione legale tra coniugi abbraccia esclusivamente gli «acquisti» ex art. 177, lett. a), lett. d) e cpv. c.c., con esclusione dei beni personali ex art. 179 c.c. e con inclusione (ma con le evidenti particolarità proprie della comunione de residuo, che saranno oltre illustrate) di quelli di cui alle lettere b) e c), del medesimo art. 177 c.c., cui vanno aggiunte le ipotesi prese in esame dall’art. 178 c.c. Tale oggetto può poi essere convenzionalmente esteso ex art. 210 c.c., sempre peraltro con il rispetto dei limiti previsti dalla stessa disposizione, con l’impossibilità pertanto di abbracciare i beni di cui all’art. 179, lett. c), d) ed e) c.c. 1.4. Ulteriore distinzione attinente al profilo oggettivo investe la dicotomia: diritti reali/diritti di credito, laddove si voglia ammettere (con una parte della dottrina) che non solo i primi, ma anche i secondi ricadano in comunione legale (sul tema v. infra sub §§ 17 ss.). 1.5. Altre differenze tra gli istituti in esame concernono poi il modo stesso in cui essi vengono in essere: ex lege la comunione (per l’appunto) legale (sebbene non debba dimenticarsi l’ipotesi in cui il regime ex art. 177 ss. c.c. si instauri in seguito ad apposita convenzione tra coniugi precedentemente legati da un regime di separazione), per contratto, per testamento o ex lege (si pensi alla comunione tra coeredi, o a quella del muro divisorio) la comunione ordinaria. 1.6. Proprio a questo profilo si riallaccia il già evidenziato carattere «dinamico» della comunione legale, la cui norma principale (l’art. 177 c.c.) si preoccupa di descrivere in primo luogo la regola che predetermina, per un numero indefinito di casi, l’instaurazione della situazione di comunione su di un certo patrimonio, laddove nella comunione ordinaria gli artt. 1100 ss. c.c. si preoccupano non già di stabilire in quali casi siffatta situazione di contitolarità venga in essere, bensì solo di dettare le norme applicabili laddove un tale stato di cose (cioè la titolarità in capo a più soggetti della proprietà o di altro diritto reale) esista già. 1.7. Per ciò che attiene poi alla struttura dei due istituti, va detto che in ogni caso per la comunione legale vige il principio inderogabile (estraneo, ovviamente, alla comunione ordinaria)  dell’assoluta parità delle quote dei partecipanti (cfr. art. 210 u.c. c.c.). 1.8. Le quote in comunione legale, poi, sono – per pacifica dottrina e giurisprudenza – singolarmente inalienabili, di contro alla regola stabilita dall’art. 1103 c.c. per la comunione ordinaria. L’alienazione della singola quota in comunione legale determinerebbe il subingresso in comunione legale di un terzo estraneo, con conseguente parziale scioglimento del regime relativamente al bene in questione, in violazione del principio di tassatività delle cause di scioglimento previsto dall’art. 191 c.c. 1.9. Per ciò che attiene poi all’alienazione dell’intero bene vale per la comunione legale la speciale regola ex art. 184 c.c., laddove per la comunione ordinaria l’alienazione potrà eventualmente essere efficace per la quota di competenza dell’alienante. 1.10. Venendo al profilo dell’amministrazione va chiarito che le regole dettate dagli artt. 1105 ss. c.c. per la comunione ordinaria appaiono inapplicabili alla comunione legale, cui si riferiscono invece gli artt. 180 ss. c.c. 1.11. L’art. 1111 c.c. conferisce poi ad ogni comunista un diritto potestativo di scioglimento che non compete di certo al coniuge in comunione legale. Quest’ultimo, se lo desidera, può «provocare» lo scioglimento del regime legale solo nei casi tassativamente previsti dall’art. 191 c.c. Tra questi, in particolare, l’unico che in qualche modo può prestarsi a consentire alla parte di far venire meno la comunione per effetto di un atto unilaterale è (al di fuori delle ipotesi di crisi coniugale) quello della proposizione della domanda di separazione giudiziale dei beni, ex art. 193 c.c., atto cui, come noto, retroagiranno gli effetti dell’eventuale pronunzia di accoglimento. Peraltro la domanda va appoggiata a situazioni di fatto ben precise, la cui sussistenza (che non può certo ritenersi «normale») va rigorosamente dimostrata dall’attore, cui non rimarrà, in alternativa, altra soluzione (in caso di disaccordo con il coniuge) che intraprendere il lungo calvario di una separazione personale contenziosa. 1.12. Al di là di tali profili va evidenziato come il concetto stesso di scioglimento assuma significati ben diversi nelle due ipotesi. Esso coincide infatti con il concetto di divisione nella comunione ordinaria, mentre designa unicamente la cessazione del regime (cioè, in primo luogo, del fenomeno del coacquisto automatico) nella comunione legale. E’ chiaro comunque che non potrà aversi divisione del patrimonio in comunione legale (nel suo complesso, ma anche atomisticamente considerato in relazione ai singoli beni che lo compongono) se non sarà intervenuta dapprima una causa di scioglimento ex art. 191 c.c. 1.13. In conclusione, le differenze testé evidenziate, sebbene in cospicuo numero e di notevole rilievo (talora anche pratico) non paiono però tali da alterare la natura della comunione legale quale, essenzialmente, situazione di contitolarità di diritti. Ciò appare tanto più vero quando si pensi che la stessa disciplina della comunione ordinaria dimostra che, quando il legislatore lo reputa necessario, si possono introdurre limiti ai principi generali dell’istituto. Così, ad esempio, il principio generale e fondamentale della libera disponibilità della quota di ogni comunista subisce il limite del possibile retratto tra coeredi, cioè tra soggetti legati (come lo sono, in fondo, i coniugi) da un rapporto particolare; d’altronde, lo stesso principio che assegna ad ogni partecipante il diritto potestativo di ottenere lo scioglimento della comunione può subire le restrizioni contemplate dall’art. 1111 c.c.

 

9. La ratio del regime di  comunione legale. 1.1. Diverse tesi sono state avanzate circa la ratio cui si ispirerebbe il regime di comunione legale tra coniugi. La prima è quella che punta sulla remunerazione del lavoro femminile (in questo senso cfr. ad es. Russo, Considerazioni sull’oggetto della comunione, in Studi sulla riforma del diritto di famiglia, Milano, 1973, ripubblicato in Le convenzioni matrimoniali e altri saggi sul nuovo diritto di famiglia, Milano, 1983, 76 ss.; Costi, Lavoro e impresa nel nuovo diritto di famiglia, Milano, 1976, 11 ss.; Id., Nuovo regime patrimoniale tra coniugi e società di persone, in Diritto di famiglia. Società - contrattazione immobiliare, Milano, 1978, 18). 1.2. La critica a tale impostazione si basa sulla mancanza di elementi testuali nonché sulla considerazione per cui, se tale affermazione fosse vera, occorrerebbe, al momento dello scioglimento, tenere conto del lavoro prestato o meno in concreto, laddove, tutto al contrario, il regime legale opera e produce tutti i suoi effetti senza restrizione alcuna a prescindere dal concreto contributo prestato al ménage familiare (cfr. Schlesinger 1992, 70 ss.; v. inoltre Carraro, Il regime patrimoniale della famiglia, Milano, 1979, 54 s.; Cataudella, Ratio dell’istituto e ratio della norma nella comunione legale tra coniugi, in Aa. Vv., Scritti in onore di Nicolò. Diritto di famiglia, Milano, 1982, 302; A.-M. Finocchiaro 1984, 710 s.; Santosuosso, Il regime patrimoniale della famiglia, Torino, 1983, 24 ss.; Corsi 1979, 54). 1.3. Secondo un altro avviso il regime della comunione mirerebbe all’attuazione del principio di parità tra coniugi stabilito dall’art. 29 cpv. Cost. Di contro si può però osservare che, se tale asserzione fosse vera, si dovrebbe ritenere inconstituzionale il sistema di separazione dei beni (sul punto v. Oberto 2005, 20 ss.; cfr. inoltre Schlesinger 1992, 72; Russo 1999, 12 s.). Come rilevato in dottrina, la comunione legale muove sullo stesso sfondo del regime (convenzionale) di separazione dei beni, ossia nell’ambito della distribuzione, ed anzi, giacché colpisce tanto determinati beni dei coniugi, presuppone il regime di separazione, si sovrappone e si aggiunge a questo senza mai eliderlo. Se in rapporto al momento contributivo (art. 143 c.c.) il principio di parità può trovare (ed ha in effetti trovato nella nuova normativa) una puntuale e generalmente valida formulazione, altrettanto non è obiettivamente possibile, tenuto conto della nostra attuale realtà economico‑sociale, con riferimento al momento distributivo. Ché, anzi, una volta assicurata la parità nel momento contributivo, attraverso la ripartizione tra i coniugi dell’onere rappresentato dai bisogni della famiglia, l’unico criterio che, in astratto, potrebbe apparire universalmente valido, sarebbe proprio quello del regime di separazione. Esso infatti, combinato con il principio di contribuzione, si traduce nell’ineccepibile (in linea teorica) statuizione che ciascuno dei coniugi può far proprio tutto ciò che riesce a produrre in più rispetto a quanto deve destinare al consorzio familiare. In tal modo, il momento della spontaneità, la libertà di determinazione non sono sacrificati, pur nel rispetto delle esigenze contributive (Corsi 1979, 55 s.). 1.4. Di fronte a tali convincenti considerazioni la tesi maggioritaria si è concentrata sulla constatazione per cui la ratio della scelta legislativa va individuata nella volontà di parificare la partecipazione dei coniugi alle «ricchezze» conseguite post nuptias, agli incrementi patrimoniali realizzati durante la vita matrimoniale, la cui attribuzione «al solo coniuge che ne abbia procurato l’acquisto significherebbe (...) ignorare il contributo, diretto o indiretto, materiale o morale, che l’altro coniuge di solito (...) ha prestato alle fortune familiari, con propri sacrifici o rinunce, incentivando il risparmio comune, sostenendo, anche psicologicamente, l’attività del partner» (Schlesinger 1992, 73). 1.5. Essendo chiaro che valutare tutto ciò in termini economici, caso per caso, sarebbe impensabile, il Legislatore avrebbe stabilito in linea di principio la regola di una eguaglianza degli apporti di ciascuno, per lo meno fin quando i coniugi accettino di vivere in regime di comunione (in senso analogo v. Carraro, Il nuovo diritto di famiglia, RDC, 1975, 101; Cian, Introduzione sui presupposti storici e sui caratteri generali del diritto di famiglia riformato, COM. RDF, I, 1, Padova, 1977,  52; Prosperi, op. cit., 16; Gionfrida Daino, op. cit., 5, nota 3; Caravaglios 1995, 20 s.). 1.6. Siffatta impostazione sembra essere talora condivisa pure dalla Suprema Corte: così, ad esempio, in una delle decisioni che segnano la definitiva sepoltura della «presunzione muciana» in relazione alle coppie in regime legale (Cass.,23 gen. 1990/351, FI, 1990, I, 2904; GI, 1990, I, 1, 1269) si legge che il regime legale è «finalizzato al raggiungimento di un’eguaglianza economica dei coniugi con riferimento agli acquisti durante il matrimonio (sul presupposto legale di un eguale contributo, anche economico, di entrambi i coniugi alla realizzazione di essi)» e proprio per questa ragione «non si concilia con la disposizione dell’art. 70 della legge fallimentare, se si riflette che la presunzione dell’appartenenza del denaro al coniuge imprenditore (in relazione agli acquisti) è combattuta e vinta dal principio giuridico dell’attribuzione degli acquisti stessi ad entrambi i coniugi, a prescindere dall’accertamento della provenienza del denaro, anzi sulla opposta presunzione che il prezzo sia la risultante di un eguale apporto dei coniugi». 

 

10. Il sostanziale fallimento dell’istituto. 1.1. Nella dottrina più recente si è rimarcato da più parti (v. per tutti Oberto 2005, 6 ss.) che la cattiva prova di sé che, nei fatti, il regime ex artt. 177 ss. c.c. ha fornito nei suoi primi trent’anni d’applicazione, sta risospingendo un numero vieppiù crescente di coniugi verso il «vecchio» sistema di separazione, trasformando la relativa opzione in sede di celebrazione delle nozze – per lo meno in vaste zone del nostro Paese – quasi in una vera e propria «clausola di stile». 1.2. Il regime legale, invero, ha ampiamente dimostrato di potersi tramutare, nel momento cruciale del suo scioglimento (specie se visto nella dinamica della crisi coniugale), in un groviglio inestricabile di lacci serrati attorno alla libertà d’azione di coniugi che si vorrebbero ormai reciprocamente svincolati, così offrendo più di un’occasione all’uno di esercitare verso l’altro pressioni indebite e, talora, veri e propri ricatti (Oberto 2005, 7). Di conseguenza, il vertiginoso aumento del numero delle crisi coniugali ha finito con il favorire il massiccio ricorso, da parte delle nuove coppie, al regime di separazione dei beni (Di una «fuga verso la separazione» parlano anche Sesta e Valignani, Il regime di separazione dei beni, Tr. ZAT., III, Milano, 2002, 460). 1.3. Il fenomeno – che è stato descritto in altra occasione come un vero e proprio uso dello strumento della convenzione matrimoniale in contemplation of divorce (Oberto, I contratti della crisi coniugale, I, Milano, 1999, 558 ss.; per analoghe considerazioni v. anche Sesta, Titolarità e prova della proprietà nel regime di separazione dei beni, FA, 2001, 871 ss.) – appare strettamente legato anche ad alcune pervicaci rigidità giurisprudenziali (e non solo) sul versante, da un lato, degli accordi in vista della crisi coniugale e, dall’altro, sul tema della libertà negoziale dei coniugi in comunione: libertà che taluno vorrebbe ingabbiare in un sistema di vincoli tanto ingiustificati quanto inspiegabili quando si sia in presenza del consenso di entrambi (sul tema si fa rinvio per tutti a Oberto, L’autonomia negoziale nei rapporti patrimoniali tra coniugi (non in crisi), FA, 2003, 617 ss., 655 ss.). 1.4. Si comprende dunque perché, dopo un iniziale accoglimento favorevole della comunione legale da parte delle coppie italiane, che, tanto per fare un esempio, avevano optato nel 1976 per il regime di separazione in misura inferiore all’1%, anno dopo anno, è continuamente aumentata la quota di coloro che, al momento della celebrazione delle nozze, hanno scelto il regime separatista. 1.5. Risalgono già ai primissimi anni di applicazione della riforma i numerosi abbandoni del regime legale effettuati, per così dire, «in corso d’opera» dai coniugi che – consapevolmente o meno – avevano scelto la comunione all’atto della celebrazione delle nozze, o si erano comunque trovati sottoposti a tale regime per effetto delle disposizioni transitorie. Pur non esistendo statistiche al riguardo, non potrà non menzionarsi l’impressionante numero di decisioni relative alla questione della necessità o meno di autorizzazione giudiziale per siffatto mutamento di regime: problema, questo, poi risolto – come noto – dalla l. 10 aprile 1981, n. 142 (sul punto v. per tutti Oberto 2005, 9 ss.; per analoghe considerazioni v. anche Russo, Le convenzioni matrimoniali. Artt. 159-166-bis, COM. SCH., Milano, 2004, 504 s., che parla al riguardo di «fuga» dal regime di comunione legale). 1.6. Ma è sul versante delle nuove coppie che si deve registrare una vera e propria rivoluzione. Una rivoluzione che ha avuto luogo in tutto il Paese, sebbene con velocità assai diverse nelle sue parti. Essa è stata molto più rapida nelle regioni settentrionali che in quelle meridionali, tanto da suscitare negli esperti di sociologia stupore e di incre­dulità: basti pensare che, dal 1976 al 1991, la quota degli sposi che scelgono la separazione dei beni è passata dall’1% al 40, al 50 o addirittura al 69%. Già nel 1995 risultava che nelle regioni dell’Italia settentrionale, la maggioranza delle nuove coppie (ma in alcune di esse più del 60%) preferivano la separazione dei beni, mentre in quelle meridionali gli sposi che si comportavano in tal modo non raggiungevano neppure il 30%. E la tendenza non fa che accentuarsi (v. per tutti Oberto, 9 ss.).

 

11. L’oggetto della comunione legale (immediata) tra coniugi. Generalità. 1.1. Quando si parla di oggetto della comunione legale tra coniugi si suole comunemente partire dalla constatazione per cui i coniugi in regime di comunione legale sono titolari di tre distinte masse: (a) quella costituita dai beni in comunione immediata; (b) quella rappresentata dai beni in comunione c.d. de residuo e (c) quella formata dai beni personali. Più esattamente, i termini normativi di riferimento sono: (a) per la comunione immediata gli artt. 177, lett. a), d) e cpv. c.c.; (b) per la comunione de residuo gli artt. 177, lett. b) e c), nonché l’art. 178 c.c.; (c) per i beni personali l’art. 179 c.c. Distinte questioni, variamente intersecantesi con tali disposizioni, si pongono poi per situazioni quali quelle dell’azienda coniugale e delle imprese gestite dai coniugi (su cui v. infra sub § 48), delle partecipazioni sociali (su cui v. infra sub § 20) e dell’impresa familiare (per cui v. il commento all’art. 230-bis c.c.). 1.2. Un primo punto sul quale si è soffermata la dottrina concerne la considerazione per cui più che dagli «acquisti» (che rappresentano vicende), l’oggetto della comunione è rappresentato dai «diritti acquistati» (cfr. Schlesinger 1977, 373; Id. 1992, 94). Proprio partendo da tale constatazione ci si deve chiedere, da un lato, quali effetti dispieghino sull’art. 177 c.c. i differenti modi con i quali si possono acquistare i diritti nel nostro ordinamento (si pensi all’antinomia classica tra modi di acquisto a titolo originario e a titolo derivativo), nonché, dall’altro, quali siano, tra i vari tipi di diritti, quelli suscettibili di cadere in comunione (si pensi alla contrapposizione tra diritti reali e di credito e, nell’ambito della prima categoria, alla distinzione tra diritto di proprietà e iura in re aliena). Sarà dunque opportuno procedere partitamente all’analisi di tali situazioni.

 

12. Gli acquisti a titolo originario in generale. 1.1. La dottrina e la giurisprudenza italiane si sono variamente espresse sul problema della compatibilità con il disposto dell’art. 177, lett. a), c.c. della categoria degli acquisti a titolo originario in sé considerata. Al riguardo, a dispetto della circostanza che il termine «acquisti», non ulteriormente aggettivato, possa indiscutibilmente essere riferito tanto a quelli a titolo originario che a quelli a titolo derivativo (cfr. in questo senso Pugliatti, voce Acquisto del diritto, ED, I, Milano, 1958, 510; A. Corsi, Accessione e comunione legale, RN, 1992, I, 1392), tre importanti obiezioni sono state sollevate. 1.2. La prima, fondata sulle vicende più recenti della storia della comunione coniugale in Italia, fa leva sul raffronto tra il tenore letterale della predetta norma e quello dell’art. 217 c.c. 1942 (nel testo anteriore alla riforma del 1975), secondo cui formavano oggetto  della comunione (allora convenzionale) degli utili e degli acquisti «gli acquisti fatti durante la comunione dall’uno o dall’altro coniuge a qualunque titolo», per concluderne che  l’abrogazione di tale ultimo inciso dovrebbe manifestare la volontà del legislatore di limitare l’operatività del regime legale ai soli diritti pervenuti a titolo derivativo. Peraltro, l’argomentazione appare di per sé troppo debole, se si pone mente al fatto che nessun altro elemento sembra evidenziare una siffatta intenzione da parte del legislatore, mentre l’eliminazione dell’inciso «a qualunque titolo» non ha certo comportato una restrizione del campo semantico di riferimento di un termine tanto generale quale quello «acquisti», non ulteriormente aggettivato. 1.3. Un secondo ostacolo viene frapposto da coloro che hanno ritenuto di far leva sull’art. 179, lett. b), c.c. per ricavarne un principio d’ordine generale che sancirebbe il carattere personale dei beni non acquistati a titolo oneroso. Ma l’antitesi: titolo oneroso - titolo gratuito si pone esclusivamente nell’ambito negoziale, laddove la contrapposizione tra il titolo originario e quello derivativo investe il momento stesso della costituzione  (o della modificazione) del rapporto giuridico: tra di essi non sembra dunque potersi instaurare un rapporto di genere a specie. Si aggiunga che, se si volesse insistere nell’ipotesi ricostruttiva qui criticata, in molti casi di acquisto a titolo originario l’effetto acquisitivo si produrrebbe comunque in presenza (e per il concorrente effetto) di un titolo oneroso, ancorché inefficace (cfr. artt. 1153, 1159 c.c.). 1.4. L’ultima obiezione (che ha ricevuto anche l’avallo della Corte di Cassazione) circa la caduta in comunione dei diritti acquistati a titolo originario induce l’interprete a focalizzare la propria  attenzione sul verbo «compiere» impiegato dall’art. 177, lett. a), c.c. per descrivere l’azione che dà luogo all’acquisto per essa rilevante. L’acquisto a titolo originario «non può ritenersi ‘compiuto’ dal coniuge proprietario del suolo, come richiesto dall’art. 177: la locuzione verbale impiegata nella norma implica, infatti, il pregresso espletamento di un’attività negoziale da parte del coniuge, ossia un acquisto a titolo derivativo, e non anche, quindi, il mero giovarsi di effetti acquisitivi collegati dalla legge al verificarsi di alcuni fatti, ancorché questi siano stati favoriti o promossi dal coniuge che se n’è avvantaggiato» (cfr. Cass.,14 mar. 1992/3141, GC, 1992, I, 1732; RN 1992, II, 848; più di recente v. anche, in questi stessi termini, Cass.,14 apr. 2004, n. 7060; per la giurisprudenza di merito v. T Firenze 9 feb. 1985, GC, 1985, I, 2628; RN 1986, II, 727; in dottrina per una posizione sostanzialmente analoga v. anche Spitali 2002, 97 s.). 1.5. Ma, come già rilevato (cfr. Oberto 1994, 10 ss.), l’interpretazione sistematica s’incarica di fornire la migliore delle smentite a una siffatta impostazione: gli artt. 1159 ss. c.c. ci vengono «in coro» a dire che l’usucapione si compie a determinate condizioni, così lasciando chiaramente intendere che quando il legislatore impiega tale verbo non lo fa necessariamente per porre l’accento sullo svolgimento di un’attività (caratterizzata o meno dalla negozialità), quanto per indicare la realizzazione in concreto, e per qualunque causa, di tutti gli elementi costitutivi di una determinata fattispecie acquisitiva, anche a titolo originario. 1.6. Per concludere, l’interpretazione qui proposta, circa  l’inesistenza di ostacoli di carattere pregiudiziale in merito alla caduta in comunione dei diritti acquistati a titolo originario, oltre ad essere maggioritaria in dottrina, appare, indiscutibilmente, più aderente a quella visione solidaristica e partecipativa degli interessi economici della famiglia che si pone alla base del regime legale. Se è vero infatti che la ratio della comunione coniugale è principalmente quella di impedire (al di fuori dei casi tassativamente indicati dalla legge o comunque di un accordo tra i coniugi) un unilaterale accrescimento del patrimonio personale in caso di acquisti operati in costanza di regime, occorre allora concluderne che l’esclusione degli acquisti a titolo originario si porrebbe in insanabile contrasto con tale linea direttrice (cfr. T Rieti, 27 mar. 1986, GM, 1988 89: «Se infatti il regime di comunione legale è diretto a garantire  e promuovere una situazione di parità patrimoniale fra i coniugi non si vede perché tale linea di tendenza non dovrebbe operare rispetto agli acquisti a titolo originario»; su tali argomenti cfr., anche per ulteriori dettagli nonché i necessari riferimenti dottrinali, Oberto 1994, 10 ss.; Auletta 1999, 65 ss.). 1.7. Si procederà ora all’esame di talune peculiari situazioni di acquisto a titolo originario, costituite dall’usucapione e dall’accessione. Per la disamina di ulteriori fattispecie (piantagioni, miglioramenti, addizioni, incrementi fluviali, occupazione, invenzione, ritrovamento del tesoro, acquisti per eventi di fortuna e creazioni intellettuali) si fa rinvio ad Auletta 1999, 53 ss.; Russo 1999, 301 ss.; Spitali 2002, 105 ss.

 

13. Gli acquisti per usucapione. 1.1. Una volta accertato che non esistono ragioni d’ordine pregiudiziale tali da imporre un trattamento differenziato degli acquisti a titolo originario rispetto a quelli a titolo derivativo in relazione all’art. 177 c.c., occorrerà soffermarsi brevemente sulle peculiarità dell’acquisto per usucapione. 1.2. Al riguardo carattere impediente potrebbe assumere la considerazione secondo cui l’effetto acquisitivo, conformemente alla logica dell’usucapione, dovrebbe per forza «adeguarsi alla realtà propria della situazione possessoria, quale situazione meramente fattuale», a prescindere, quindi, «dai particolari regimi in cui di volta in volta s’inquadri (...) la posizione dello stesso possessore in quanto coniuge» (così Tondo, Sugli acquisti originari nel regime di comunione legale, FI, 1981, V, c. 166). 1.3. All’obiezione non sembra peraltro possa attribuirsi un peso eccessivo, se si pone mente al fatto che la regola fissata dall’art. 177, lett. a), c.c. non influisce in alcun modo sulle vicende acquisitive dei diritti, in sé considerate, ma si limita ad aggiungervi un effetto ulteriore e distinto, che entra in gioco in un «istante» immediatamente successivo. Anche in materia contrattuale il legislatore impone quale regola una rigida coincidenza tra i protagonisti della vicenda acquisitiva (i contraenti, appunto) e i soggetti nei cui confronti questa dispiega i suoi effetti (cfr. art. 1372 c.c.): eppure nessuno si sognerebbe di derivarne un argomento in grado di annullare la portata dell’avverbio «separatamente» (art. 177, lett. a), c.c.) che consacra il principio dell’acquisto automatico tra coniugi (su tali argomenti cfr., anche per ulteriori approfondimenti, nonché per i necessari riferimenti dottrinali, Oberto 1994, 13 ss.). 1.4. La tesi della caduta in comunione degli acquisti per usucapione ha ricevuto l’avallo della stessa Corte di cassazione. Così, Cass.,20 mar. 1991/2983 ha stabilito che «Con riguardo a giudizio di rivendicazione di immobile, nel quale il convenuto in regime di comunione legale con il coniuge, deduca la proprietà del bene in forza di contratto di acquisto da lui solo stipulato, ovvero in forza di usucapione per possesso da lui solo esercitato, non insorge necessità di integrazione del contraddittorio nei confronti di detto coniuge, considerato che l’eventuale inclusione del bene medesimo nella comunione, ai sensi dell’art. 177 primo comma lett. a) cod. civ., integra effetto ope legis di quell’acquisto o di quell’usucapione se ed in quanto perfezionatisi». 1.5. La successiva Cass.,3 nov. 2000/14347 ha poi deciso che «In regime di comunione legale, se uno dei coniugi, deducendo una situazione di compossesso con l’altro, propone in via autonoma domanda di usucapione di un bene immobile, il giudicato favorevole produce, in virtù del disposto dell’art. 177 cod. civ., direttamente effetti nella sfera giuridico patrimoniale dell’altro coniuge rimasto estraneo al giudizio, facendo sì che egli acquisti la comproprietà di detto immobile. Per converso, in caso di esito negativo di quella azione, il giudicato sfavorevole sarebbe opponibile al coniuge che non sia stato parte del relativo giudizio, se successivamente pretendesse di sentirsi dichiarare proprietario dello stesso bene, in base ad una situazione fattuale identica a quella fatta valere nel precedente giudizio dall’altro coniuge». 1.6. Per quanto attiene alla giurisprudenza di merito si può richiamare T Roma 7 apr. 2003, D FAM, 2004, 120 ss., secondo cui: «Se il tempo necessario per l’acquisto per usucapione di un bene immobile si è perfezionato in costanza del regime di comunione legale fra coniugi, la sentenza dichiarativa di tale acquisto opera in favore di entrambi, anche se la domanda è stata proposta da uno soltanto dei coniugi ed indipendentemente dal fatto che sia stata dedotta nel giudizio una situazione di compossesso». 1.7. Una volta accertato che nessun ostacolo pare opporsi, in linea di principio, alla caduta in comunione immediata dei diritti acquistati per usucapione (e il discorso vale, ovviamente, anche per la regola ex art. 1153 c.c.) occorre constatare che il momento rilevante diviene quello in cui si sono verificati tutti gli elementi costitutivi della fattispecie acquisitiva descritta dal legislatore, a nulla rilevando l’eventuale anteriorità del possesso rispetto alla data d’inizio del regime legale. Poste queste premesse sarà possibile derivarne alcuni corollari. 1.8. Così, sarà personale il bene in relazione al quale il ventennio si sia concluso prima del matrimonio, indipendentemente dal fatto che solo in seguito si sia promosso giudizio per l’accertamento del diritto. 1.9. Specularmente, se l’usucapione si dovesse compiere soltanto dopo lo scioglimento del regime, il bene non potrebbe essere ritenuto comune, tranne che nel caso di compossesso, protrattosi anche successivamente allo scioglimento del regime (ma in quest’ultima ipotesi si costituirebbe, in base alle regole generali, una comunione ordinaria). 1.10. Inoltre, essendo – esattamente come per gli acquisti a titolo derivativo – assolutamente indifferente la partecipazione o meno di entrambi i coniugi alla vicenda acquisitiva, non rileverà in alcun modo la circostanza che uno dei due non abbia mai esercitato alcun potere di fatto sulla cosa, o comunque lo abbia fatto per un periodo inferiore rispetto a quello richiesto ad usucapionem. 1.11. In base alla stessa regola sarà indifferente lo stato di buona o mala fede del coniuge non (o per un periodo non sufficiente) possessore, così come la sua partecipazione o meno al titolo (astrattamente) idoneo al trasferimento della proprietà, per i casi di usucapione abbreviata o di acquisti in base all’art. 1153 c.c. 1.12. Per quanto attiene agli effetti, non bisogna dimenticare che l’operatività dell’art. 177, lett. a), c.c. può essere, per così dire, inibita, in considerazione di particolari tipi di destinazione del bene: così, il bene (mobile o immobile) posseduto da parte del coniuge imprenditore e inserito nell’ambito di un’azienda da quest’ultimo gestita sarà comune solo de residuo (art. 178 c.c.); se si tratterà di un bene (mobile) di uso strettamente personale o destinato all’attività professionale del coniuge l’acquisto sarà invece personale, ex art. 179 lett. c) e d) (su tali argomenti cfr., anche per ulteriori approfondimenti, nonché per i necessari riferimenti dottrinali, Oberto 1994, 13 ss.).

 

14. Gli acquisti per accessione. La tesi della Cassazione e le relative critiche. 1.1. La fattispecie acquisitiva a titolo originario in relazione alla quale si registrano le maggiori dispute è senz’altro quella disciplinata dagli artt. 934 ss. c.c., anche per effetto del vivace dibattito suscitato da una giurisprudenza che se, nelle sue prime manifestazioni (a livello di merito), appariva oscillante, risulta oggi, sulla scorta di numerosissime pronunzie di legittimità, definitivamente orientata verso la tesi negativa circa la caduta in comunione dell’acquisto (cfr. Cass.,11 giu. 1991/6622, GI, 1992, I, 1, 108; Cass.,14 mar. 1992/3141, cit.; Cass.,16 feb. 1993/1921, GI, 1993, I, 1, 1902; Cass.,SU 27 gen. 1996/651; Cass.,8 mag. 1996/4273; Cass.,22 apr. 1998/4076; Cass.,11 ago. 1999/8585; Cass.,12 mag. 1999/4716; Cass.,19 gen. 2004/716; Cass.,14 apr. 2004/7060; Cass.,4 feb. 2005/2354). 1.2. La tesi consolidata della Cassazione determina peraltro conseguenze inaccettabili, lasciando senza risposta alcuni interrogativi molto seri ed anzi sollevandone altri circa la sua rispondenza al principio d’uguaglianza. In particolare va stigmatizzata l’irrazionale disparità di trattamento, probabilmente rilevante ex art. 3 Cost., tra l’investimento consistente nell’acquisto di un edificio già realizzato (abbia l’atto ad oggetto la sola proprietà superficiaria, ovvero l’immobile nella sua interezza) e quello che si attua mediante l’erezione di una costruzione su terreno personale. 1.3. E a questa ipotesi si può aggiungere quella, forse ancora più sconcertante, del caso in cui il dominus soli, anziché stipulare un «normale» contratto d’appalto, preveda con l’appaltatore lo scambio tra la proprietà attuale del terreno e quella di uno o più degli erigendi appartamenti. Qui lo schema solitamente riconosciuto dalla giurisprudenza, corrispondente alla permuta di cosa presente con cosa futura, fa sì che le nuove unità immobiliari, acquistate dal coniuge in base al combinato disposto degli artt. 1555 e 1472 c.c., non possano sottrarsi all’effetto automatico ex art. 177, lett. a), c.c. (sul tema v. variamente e anche per gli ulteriori richiami, Giorgianni, Costruzione e miglioramenti effettuati su beni personale in regime di comunione legale, RTDPC, 1989, 886 ss.; Di Martino 1997, 86; Oberto, 1994, 17 ss.; Auletta 1999, 65 ss.; Russo 1999 351 ss.; Rimini 2001, 207 ss.; Spitali 2002, 92 ss.). 1.4. La giurisprudenza sopra citata fonda la propria soluzione talora su di un’apodittica (e già criticata: v. supra sub § 12) supposta estraneità degli acquisti a titolo originario – tra i quali ricadono, per l’appunto, quelli per accessione – al fenomeno descritto dall’art. 177 lett. a) c.c. (cfr. ad es. Cass.,11 ago. 1999/8585). 1.5. Nella maggior parte dei casi, invece, il fondamento della soluzione descritta viene reperito in un’asserita inconciliabilità del principio secondo cui superficies solo caedit (art. 934 c.c.) con la regola del coacquisto automatico. 1.6. Volendo tentare la via di una diversa (e ben diversamente equa) soluzione, va detto che la questione al riguardo è quella di accertare se la comunione si possa costituire su di un diritto in re aliena (di superficie) idoneo ad «inglobare» in sé la costruzione realizzata sul fondo personale. Ora, è lo stesso art. 934 c.c. a prevedere che l’effetto espansivo del diritto di proprietà sul fondo sia paralizzato dall’esistenza di un titolo o di una disposizione di legge con esso incompatibile. 1.7. Nel caso di specie esiste una ben precisa regola ostativa all’espansione del diritto «personale» e si identifica proprio nell’art. 177, lett. a), c.c. o, più esattamente, nel diritto di superficie che, sulla base di questa norma, una consistente parte della dottrina ha ritenuto di poter ricavare. La comunione non può sussistere se non in relazione a diritti, i quali a loro volta – vertendosi in materia di acquisti originari di rapporti reali – non sono concepibili se non in relazione a beni: per questo sarà necessaria (quale vero e proprio presupposto fattuale per la configurabilità del diritto di superficie) la venuta ad esistenza di un nuovo bene, autonomo e distinto rispetto a quello personale, in grado di fornire idoneo substrato materiale a quella nuova situazione giuridica che, proprio sulla base di tale presupposto, si costituirà ex lege (così Oberto 1994, 17 ss., cui si fa rinvio anche per ulteriori approfondimenti e per i necessari richiami dottrinali). 1.8. La costituzione del diritto di superficie avviene, come si è detto, per legge, anche se non in forza di un supposto rapporto di genere a specie tra gli artt. 934 e 177, lett. a), c.c., posto che qui la specialità è, per così dire, reciproca: la categoria dei coniugi costituisce invero un sottoinsieme di quella degli altri acquirenti, e, per converso, quella degli acquisti per accessione è un sottoinsieme della categoria degli acquisti in genere. La disposizione che dà vita al diritto di superficie va invece rinvenuta proprio nella combinazione degli effetti prodotti da entrambe le norme citate: di conseguenza la costruzione diverrà di proprietà del coniuge titolare del suolo in virtù delle norme in tema d’accessione, ma tale acquisto costituirà proprio il presupposto per il (ri)trasferimento automatico in comunione (così Oberto 1994, 17 ss.). 1.9. Sulla base delle sopra articolate premesse è facile argomentare l’inconsistenza dell’obiezione – fatta propria dalla Cassazione sulla scorta di una parte della dottrina – secondo cui «nella disciplina degli artt. 952 ss. c.c. la costituzione del diritto di fare o mantenere una costruzione al di sopra del suolo trova origine sempre e soltanto in un atto dispositivo», cioè in un atto negoziale, redatto con il rispetto della forma scritta (cfr. Cass.,11 giu. 1991/6622, cit.; l’argomento viene ripreso anche dalle successive Cass.,14 mar. 1992/3141, cit., Cass.,16 feb. 1993/1921, cit.). 1.10. D’altro canto, il fenomeno della costituzione ex lege di diritti reali su cosa altrui è ben conosciuto dal nostro ordinamento: si potranno citare al riguardo gli artt. 540 cpv. e 324 c.c. A ulteriore smentita dell’impostazione qui criticata giunge il rilievo secondo cui anche i diritti reali su cosa altrui possono costituirsi per usucapione, e dunque in assenza tanto di un negozio che di una specifica disposizione di legge e la constatazione vale anche in relazione alla superficie (così Oberto 1994, 17 ss., cui si fa rinvio anche per ulteriori approfondimenti e per i necessari richiami dottrinali; al medesimo lavoro si fa richiamo anche per la trattazione delle questioni connesse in tema di possibilità di conservazione del carattere personale dell’acquisto per accessione, sulla base di un eventuale accordo delle parti e dei rapporti con i terzi).

 

15. Acquisti per accessione e risvolti di carattere obbligatorio. 1.1. Tra gli argomenti utilizzati dai sostenitori della natura personale della costruzione fa spicco la considerazione secondo cui, in un modo o nell’altro, al coniuge non proprietario del fondo competerebbe un indennizzo in denaro pari «alla metà del valore dei materiali e della manodopera impiegati nella costruzione» (cfr. ad es. Cass.,SU 27 gen. 1996/651, cit.; Cass.,22 apr. 1998/4076, cit.). Tale indennizzo è stato definito un «premio di consolazione» (così Oberto 1994, 28), che sembra trovare la sua fonte non tanto in precise disposizioni dell’ordinamento, quanto nella «cattiva coscienza» di chi, negato il carattere comune della costruzione edificata manente communione su fondo personale, si sente in dovere, di fronte ad una soluzione così palesemente iniqua, di escogitare un rimedio che non lasci il «perdente» del tutto insoddisfatto. 1.2. Si è dimostrato in altra sede (così Oberto 1994, 28 ss.) come, con ogni probabilità, all’origine di tale conclusione si ponga anche un equivoco, consistente nell’aver trasformato, per effetto di una serie di massime tralatizie, in un vero e proprio dogma («al coniuge sconfitto sul piano reale compete soddisfazione su quello obbligatorio») quella che all’origine era la banalissima constatazione d’un risultato ricollegato però a ben precisi presupposti; vale a dire: se per la costruzione sono stati impiegati beni o utilità comuni il proprietario del terreno è tenuto a rifondere al coniuge la metà del relativo valore. 1.3. Peraltro, al di fuori di questa rara ipotesi, una siffatta ratio decidendi non sembra in alcun modo in grado di attribuire al coniuge perdente sul piano reale un credito in tutti quei casi (di gran lunga più frequenti) in cui il titolare del fondo consegua direttamente la proprietà del manufatto in forza di un contratto d’appalto, ovvero impieghi per la costruzione mezzi personali. 1.4. L’insostenibilità della tesi secondo cui, in caso di acquisto «personale» per accessione a seguito di edificazione su fondo personale in costanza di regime legale, spetterebbe sempre e comunque al coniuge «perdente» una somma di denaro pari «alla metà del valore dei materiali e della manodopera impiegati nella costruzione» è stata talora avvertita dalla stessa Cassazione. In una decisione si legge, ad esempio, che «il rifiuto della tesi dell’acquisizione della costruzione al patrimonio comune dei coniugi comporta non già il totale disconoscimento di una tutela dell’altro coniuge in ordine al recupero delle somme sborsate per la costruzione, ma implica solo l’individuazione di una tutela diversa, ossia, a seconda dei casi, quella di cui all’art. 192, comma 1, oppure all’art. 2033 c.c. Ed invero, quando la costruzione sia stata eseguita sul suolo di proprietà esclusiva di un coniuge con impiego di danaro comune, non potrà che applicarsi il suddetto comma 1 dell’art. 192, nel senso che il coniuge che si è giovato dell’accessione sarà tenuto a restituire alla comunione le somme prelevate dal patrimonio comune per eseguire l’edificazione (...); mentre, qualora nella costruzione sia stato impiegato danaro appartenente in via esclusiva all’altro coniuge, a quest’ultimo spetterà il diritto di ripetere la relativa somma, ai sensi dell’art. 2033 c.c.» (cfr. Cass.,14 mar. 1992/3141). 1.5. Peraltro, entrambi i rimedi invocati da questa pronunzia della Cassazione tendono alla reintegrazione di un coniuge nei diritti di cui quest’ultimo era titolare (rispettivamente pro quota o per l’intero) al momento dell’appropriazione compiuta dall’altro. Essi non hanno dunque nulla a che vedere con la regola «solidaristica» che impone la caduta in comunione dei diritti acquistati, ma si limitano ad impedire che un soggetto s’arricchisca ingiustificatamente in danno dell’altro. Sotto questo profilo può quindi dirsi che il coniuge viene trattato esattamente come un qualsiasi terzo. La conclusione non può dunque essere gabellata quale surrogato, sul piano obbligatorio, di quella che afferma la caduta in comunione della costruzione, né tanto meno essere fatta passare come  ugualmente rispettosa della ratio della normativa in tema di regime legale della famiglia: basti pensare che, proprio in conformità ad essa, nessun «premio di consolazione» potrà mai essere attribuito al coniuge perdente sul piano reale, qualora i mezzi per la realizzazione della costruzione siano di esclusiva provenienza del proprietario del fondo (sul punto v., anche per ulteriori approfondimenti e richiami, Oberto, 1994, 28 ss., le cui considerazioni sono riprese da Spitali 2002, 101 ss.).

 

16. Gli acquisti di iura in re aliena. 1.1. Nei paragrafi precedenti si sono esaminati i rapporti tra la regola espressa dall’art. 177 c.c. e i modi di acquisto della proprietà. Peraltro il generico richiamo al concetto di «acquisto» di cui alla norma citata non consente certo di concentrare l’attenzione sul solo diritto dominicale per eccellenza. La prima questione viene dunque ad investire i diritti reali c.d. «minori». Al riguardo, potrà darsi in linea di massima per scontato che anche ad essi si può riferire il disposto della norma in commento, tenuto conto, in primo luogo, del fatto che, la legge parla di «comunione» e non già di «comproprietà», nonché della circostanza che l’art. 179, lett. a), c.c., contiene un espresso richiamo ai «diritti di godimento». Ciò posto, occorrerà però sempre tenere conto delle peculiarità di ogni singola situazione. 1.2. Così non potrà riconoscersi carattere comune ad una servitù prediale acquistata in costanza di regime legale a vantaggio di un fondo personale di uno solo dei coniugi (nello stesso senso cfr. A.-M. Finocchiaro 1984, 892; Spitali 2002, 90) e lo stesso è a dirsi per un’ipoteca od un pegno acquistati a garanzia di crediti personali (cfr. Spitali 2002, 91). Qui sarà il carattere accessorio (rispettivamente: al diritto dominicale sul fondo dominante e al diritto sul credito garantito) di tali iura in re aliena ad impedire che i medesimi cadano in comunione. 1.3. Per ciò che attiene poi ai diritti d’uso e di abitazione potrà argomentarsi a contrariis dall’art. 179 lett. a) che le medesime situazioni, se acquistate dopo la celebrazione delle nozze, possano formare oggetto di comunione legale (così A.-M. Finocchiaro 1984, 893), a nulla rilevando il disposto dell’art. 1024 c.c. (che per Comporti, Gli acquisti dei coniugi in regime di comunione legale, RN, 1979, 73 ss., determinerebbe invece la caduta in comunione di tali diritti solo nei rapporti interni); il divieto di cessione di tali situazioni, stabilito da tale norma, impedisce infatti solo un accordo in deroga delle parti e non certo un effetto disposto da una precisa norma di legge (oltre tutto, successiva). 1.4. Venendo all’usufrutto vi è concordia d’opinione nel ritenere che, pur verificandosi una situazione di contitolarità di tale diritto nel caso venga acquistato manente communione, non si avrà comunque un normale cousufrutto. Il diritto che qui si comunica è solo quello acquisito e delimitato dal titolo. Ne consegue che tale situazione si estingue ai sensi dell’art. 979 c.c. con la morte del primo acquirente (v. per tutti A.-M. Finocchiaro 1984, 893; Spitali 2002, 91). Viceversa, nel caso di premorienza del coniuge beneficiario dell’acquisto automatico, l’usufrutto non si consolida con la proprietà, determinandosi invece l’accrescimento della quota del coniuge superstite, anche se tale diritto d’accrescimento non fosse stato pattuito, perché la posizione del coniuge premorto derivava da quella dell’originario usufruttuario (sul tema cfr. Capaldi, Acquisto di usufrutto in comunione legale, RADC, 1991, 1 ss., 13). 1.5. In ogni caso, resta peraltro escluso dalla caduta in comunione l’usufrutto legale sui beni del figlio di un solo coniuge (Auletta 1999, 42).

 

17. Gli acquisti di diritti di credito. Impostazione del problema. 1.1. Fonte di notevoli discussioni dottrinali ed incertezze (nonché contraddizioni) giurisprudenziali è la vexata quaestio della caduta o meno in comunione legale dei diritti di credito. Per ciò che attiene alla dottrina possono individuarsi tre indirizzi distinti. (a) Secondo il primo cadrebbero in comunione indistintamente tutti i diritti di credito (Busnelli 1976, 41 ss.; Gabrielli, Comunione coniugale ed investimento in titoli, Milano, 1979, 11 ss.; Cian-Villani 1981, 182; Prosperi, op. cit., 76 ss.; Nuzzo 1984, 54 ss.; Vittucci, I diritti di credito, in Bianca (a cura di), La comunione legale, I, Milano, 1989, 33 ss., in part. 38; Quadri, L’oggetto della comunione legale tra coniugi: i beni in comunione immediata, FD, 1996, 188 ss.; Di Martino 1997, 60 ss.; Auletta 1999, 84 ss.; cfr. inoltre Schlesinger, 1992, 106 s., sebbene con svariate limitazioni, così rivedendo la posizione precedentemente espressa in Schlesinger 1977, 374 s.). (b) Secondo un altro avviso l’art. 177 c.c. sarebbe applicabile ai soli crediti aventi carattere «finale» e non «strumentale»: in altre parole si dovrebbe trattare di quei soli crediti che realizzino veri investimenti (Pavone La Rosa, Comunione coniugale e partecipazione sociale, R SOC, 1979, 1 ss., in partic. 6) e non costituiscano meri mezzi per l’acquisto di diritti reali (si pensi ad es. all’impegno in cui si sostanzia il contratto preliminare). (c) Secondo altri, infine, i rapporti obbligatori non cadrebbero mai in comunione (Schlesinger 1977, 55; Tamburrino, op. cit., 236; De Paola-Macrì, op. cit., 140; Furgiuele, Libertà e famiglia, Milano, 204; Comporti, op. cit., 87 s.; Corsi 1979, 84; Santosuosso, op. cit., 163 ss.; A.-M. Finocchiaro 1984, 870 ss.; Pino, Il diritto di famiglia, Padova, 1984, 117; M. Finocchiaro, La comunione legale dei beni tra coniugi. Cenni introduttivi, Relazione presentata all’incontro di studio sul tema: «Settimana di formazione professionale dedicata al diritto civile - Diritto di famiglia», organizzato dal Consiglio Superiore della Magistratura, e tenutasi a Frascati, 15-19 nov. 1993, pag. 22 e ss. del testo dattiloscritto; Russo 1999, 251 ss.; Rimini 2001, 159 ss.; Spitali 2002, 111 ss., 115 ss.). 1.2. Il primo argomento contro la caduta dei diritti di credito in comunione è che gli stessi avrebbero carattere «relativo e personale» (cfr. Schlesinger 1977; Corsi, p. 87; A.-M. Finocchiaro 1984, 870 ss.). Ora, è chiaro che la «relatività» e la «personalità» dei diritti di credito, così come contrapposta alla «realità» dei diritti reali, indica solo l’assenza di quella caratteristica dell’inerenza alla res che caratterizza, per l’appunto, i diritti reali distinguendoli da quelli di credito, con conseguente esclusione di ogni diritto di seguito o di sequela. Tali elementi, dunque, nulla hanno a che vedere con la possibilità o meno che un diritto personale e relativo, quale quello di credito si comunichi ope legis ad altri, come reso del resto evidente dal fatto che, di regola, ogni credito è liberamente cedibile (cfr. artt. 1260 ss. c.c.). 1.3. Secondo la tesi seguita a più riprese dalla Corte di cassazione, l’art. 177 lett. a) non potrebbe riferirsi ai diritti di credito perché il vigente ordinamento conoscerebbe solo la comunione dei diritti reali, non dei diritti relativi. Ora, se è vero che l’art. 1100 c.c. si riferisce testualmente ai soli diritti reali è altrettanto vero che tale disposizione si limita ad enunciare le regole applicabili a situazioni di contitolarità di diritti reali, non escludendo in alcun modo che anche diritti diversi da quelli reali possano ricadere sotto la titolarità di più soggetti, come confermato dal fatto che lo stesso codice dà per scontato che possano esistere obbligazioni con pluralità di soggetti, sia ex latere debitoris che ex latere creditoris (cfr. artt. 1292 ss. c.c.; nel senso che parte della dottrina da tempo ammette la comunione di diritti di credito e per i necessari richiami v. Nuzzo 1984, 57 ss.). 1.4. Come osservato da attenta dottrina, infatti, «la caduta in contitolarità di crediti è un fenomeno che di fatto si verifica, incontestabilmente: basta pensare al caso di pluralità di chiamati ad una successione in cui sia compreso un credito indivisibile. L’affermazione appena riferita [quella, cioè, della giurisprudenza prevalente, secondo cui l’art. 1100 c.c. non sembrerebbe riconoscere cittadinanza alla contitolarità di diritti di credito] ha senso, quindi, solo se con essa s’intende dire che la contitolarità dei crediti non è regolata dal complesso di norme degli artt. 1100 e segg. c.c., dettato in contemplazione esclusiva della contitolarità di diritti reali. Ma, così precisata, l’affermazione stessa non offre alcun argo­mento contro la caduta dei crediti in comunione legale dei coniugi; giacché quest’ultima è espressione che designa un complesso normativo non coincidente con quello degli artt. 1100 e segg. c.c. La comunione legale è comunione di patrimonio: che nella comunione di patrimoni possano rientrare anche crediti sembra risultare, testualmente, dalla norma dell’art. 727 c.c., in materia ereditaria; e sembra confermato, almeno con riguardo ai diritti personali di godimento, da altro e più specifico dato testuale, ove si consideri che la norma dell’art. 180 c.c. contempla, fra gli atti di ‘amministrazione dei beni della comunione’, i contratti con cui questi diritti vengono acquistati dai coniugi» (Gabrielli-Cubeddu 1997, 59 s.; per due sentenze di legittimità che esplicitamente affermano che i crediti del de cuius entrano a far parte della comunione ereditaria v. Cass.,13 ott. 1992/11128, nonché Cass.,21 gen. 2000/640; per una sentenza che ammette espressamente la comunione de residuo di taluni crediti v. poi Cass.,5 mar. 2004/4532).

 

18. Segue: b) Ricadute pratiche delle varie tesi in tema di acquisti di crediti. 1.1. Venendo alle conseguenze pratiche di tali disquisizioni dottrinali non vi è dubbio che la teoria prevalente in giurisprudenza, che esclude radicalmente l’applicabilità della norma in commento ai diritti di credito, evita all’interprete il rischio di vanificare, in pratica, la comunione de residuo per tutti quei casi in cui i «beni» – ad es., ex art. 177 lett. b) e c) – sono costituiti da somme di denaro depositate in banca. In tale fattispecie, invero, si potrebbe affermare che il credito di restituzione del tantundem, maturato verso l’istituto di credito, darebbe luogo ad una situazione di comunione immediata. 1.2. L’inconveniente può però essere agevolmente evitato ricorrendo ad una interpretazione della norma che, andando alla sostanza, continui a riconoscere natura di «proventi» o di «frutti» ai depositi in questione. In questa direzione sembra essersi del resto mossa la giurisprudenza, la quale continua a riconoscere la natura di beni in comunione de residuo ex art. 177 lett. c) c.c. ai redditi da attività personale, anche se depositati su conto corrente bancario: cfr. ad es. Cass.,17 nov. 2000/14897. 1.3. D’altra parte, i timori delle banche di trovarsi inopinatamente esposti alla pretese di una sorta di «contitolare occulto» del rapporto concluso con uno solo dei coniugi in comunione, ben potrebbero essere fugati mercé il ricorso alla teoria del creditore apparente. Come osservato in dottrina, poi, per poter esigere la prestazione, il coniuge concreditore dovrebbe sempre dimostrare la propria legittimazione, e quindi anche l’appartenenza del credito alla comunione. Né è tutelato, in via generale, l’interesse del debitore a che il credito non venga ceduto (e la stessa considerazione vale per la parziale cessione ex lege, cui è da assimilare il fatto che il credito acquistato dal coniuge venga a cadere in comunione: cfr. Vittucci, op. cit., 38 s.). 1.4. Per converso, l’accoglimento della teoria che ammette la caduta in comunione dei diritti di credito consente di pervenire a risultati di equità, superando l’obiezione in forza della quale appare difficile comprendere per quale motivo l’investimento di una certa somma di denaro dovrebbe ricadere o meno in comunione, a seconda che sia indirizzato all’acquisto di uno o più determinati beni, ovvero di crediti, magari risultanti da partecipazioni sociali, o crediti obbligazionari o comunque racchiusi in titoli (nel senso invece che gli investimenti quali l’acquisto di titoli del debito pubblico, di quote di fondi di investimento, di obbligazioni e simili non potrebbero ritenersi idonei a cadere in comunione, neppure ponendo in evidenza il profilo della proprietà del titolo cartaceo v. Spitali 2002, 126 s.). 1.5. Estremamente significativo, poi, appare l’autorevole revirement operato in dottrina da chi ha osservato che «Sebbene gli argomenti invocati non possano considerarsi decisivi, tuttavia deve ammettersi – re melius perpensa – che una esclusione radicale dei crediti dal novero dei diritti cui può applicarsi l’acquisto automatico in favore della comunione legale non troverebbe una sufficiente giustificazione nella pur doverosa opportunità di proteggere la controparte del coniuge che abbia negoziato ‘separatamente’; e che, soprattutto, non si vede come e perché potrebbe con­ciliarsi con i principi ispiratori della riforma qualificare ‘personale’ (escluden­done l’altro coniuge) l’acquisto a titolo oneroso di un credito idoneo ad assicu­rare un ‘incremento’ patrimoniale» (Schlesinger 1992, 107 s.).

 

19. Il preliminare d’acquisto. 1.1. Uno dei casi in cui la giurisprudenza di legittimità appare più adamantina nel negare la caduta in comunione dei diritti di credito è costituito dal preliminare d’acquisto stipulato da uno dei coniugi in costanza di regime legale. In siffatta ipotesi la Corte nega sistematicamente al coniuge del promissario acquirente il diritto di agire ex art. 2932 c.c. per l’adempimento in forma specifica del preliminare: «La comunione legale fra coniugi, di cui all’art. 177 cod. civ., riguarda gli acquisti, cioè gli atti implicanti l’effettivo trasferimento della proprietà della res o la costituzione di diritti reali sulla medesima, non quindi i diritti di credito sorti dal contratto concluso da uno dei coniugi, i quali per la loro stessa natura relativa e personale, pur se strumentali rispetto all’acquisizione di una res, non sono suscettibili di cadere in comunione. Ne consegue che, nel caso di un contratto preliminare di vendita [rectius: di acquisto, n.d.a.], stipulato da uno solo dei coniugi, l’altro coniuge non è legittimato, sostituendosi al primo, a proporre la domanda di esecuzione specifica ex art. 2932 cod. civ.» (cfr. Cass.,11 set. 1991/9513). 1.2. Un’applicazione di questo principio vuole che siffatta conclusione dispieghi effetti anche in relazione al tema dell’individuazione dei soggetti del processo eventualmente instaurato ex art. 2932 c.c., nel senso che «il coniuge il quale concluda un contratto preliminare di acquisto di un immobile in nome della comunione legale, ma senza il consenso dell’altro coniuge (risultante da forma scritta), deve considerarsi falsus procurator con riguardo al coniuge non stipulante, il quale, ove non intervenga ratifica, rimane estraneo al rapporto e non riveste, pertanto, la qualità di litisconsorte necessario nei giudizi aventi ad oggetto quel contratto» (Cass.,9 lug. 1994/6493). 1.3. Un’estensione di tale regola è rinvenibile in materia di assegnazione in godimento di immobili di edilizia residenziale pubblica (su questo tema e sui rapporti con l’assegnazione in proprietà v. anche infra sub §  24). Al riguardo è stato deciso che «L’assegnazione in locazione di un alloggio dell’edilizia residenziale pubblica, ancorchè con patto di riscatto, e pure quando venga disposta in relazione alla consistenza del nucleo familiare dell’assegnatario (nella specie, a norma degli artt. 29 della legge 14 feb. 1963 n. 60 e 70 del d.p.r. 11 ott. 1963 n. 1471), attribuisce un diritto personale, non reale, del quale è esclusivo titolare l’assegnatario medesimo. Pertanto, nel caso di sopravvenienza della separazione dei coniugi, prima del trasferimento in proprietà dell’immobile, deve escludersi che il coniuge non assegnatario possa pretendere una quota del bene, invocando il pregresso regime di comunione legale di cui all’art. 177 cod. civ., poichè questo riguarda solo gli acquisti della proprietà od altro diritto reale» (Cass.,23 lug. 1987/6424; negli stessi termini cfr. Cass.,27 gen. 1995/987; Cass.,18 feb. 1999/1363; Cass.,22 set. 2000/12554). 1.4. Sempre con riferimento al tema del preliminare d’acquisto potrà citarsi un altro caso, nel quale però il coniuge pretermesso, a differenza dei precedenti, non intendeva giovarsi del preliminare concluso dall’altro, ma impugnarlo ex art. 184 c.c. Al riguardo la Corte di cassazione, partendo la presupposto secondo cui «la disciplina dell’amministrazione dei beni oggetto della comunione legale, di cui agli artt. 180 e ss. cod. civ., presuppone, per la sua operatività, che il bene sia già oggetto della comunione, e pertanto non è applicabile alla fase dinamica pregressa dell’acquisto del bene alla comunione legale» ne ha derivato la conseguenza che «la regola dell’operare congiunto dei coniugi, la cui osservanza è necessaria ai fini della validità degli atti eccedenti l’ordinaria amministrazione (artt. 180, secondo comma, e 184 cod. civ.), non vale per la stipulazione di un contratto preliminare di acquisto di un bene immobile (ancorchè questo sia poi destinato a cadere in comunione, una volta completatosi l’effetto reale con la conclusione del definitivo o con la sentenza ex art. 2932 cod. civ.), stipulazione alla quale può bene quindi partecipare, in veste di promissario acquirente, un solo coniuge, senza il (ed a prescindere dal) consenso dell’altro coniuge» (Cass.,14 nov. 2003/17216). 1.5. In senso contrario alla giurisprudenza di legittimità sopra riportata, e dunque per la caduta in comunione del diritto di credito alla stipula del definitivo si è invece espressa, almeno in parte, la giurisprudenza di merito. Così per T Catania 28 apr. 1986, D FAM, 1987, 188 «Rientrano nella comunione legale tra coniugi i diritti acquistati in virtù di un contratto preliminare di compravendita con il quale uno dei coniugi abbia promesso d’acquistare per sé, o per persona da nominare, porzioni di un bene immobile (nella specie, fabbricato in corso di costruzione), impiegando capitali all’evidente scopo speculativo di rivendere a terzi i beni acquistati sottraendosi agli oneri fiscali del doppio trasferimento; in tal caso, la domanda dell’altro coniuge non può estendersi all’esecuzione in forma specifica del preliminare, per il cui accoglimento occorre anche il consenso del coniuge che ha proceduto alla stipula del contratto» (nello stesso senso v. anche T Trani 28 feb. 1983, RADC, 1984, 807; T Foggia 5 gen. 1988, GM, 1989, 918).

 

20. Gli acquisti di diritti di partecipazioni sociali. 1.1. In piena contraddizione rispetto alla regola, enunciata nelle ipotesi sopra illustrate, secondo cui suscettibili di cadere in comunione legale sarebbero solo i diritti reali, la stessa Corte di cassazione ha invece affermato a più riprese l’applicabilità dell’art. 177 lett. a) c.c. agli acquisti di partecipazioni sociali. Così, per quanto attiene alle azioni di società, secondo Cass.,18 ago. 1997/7437 «Le azioni di società costituiscono incrementi patrimoniali rientranti tra gli acquisti di cui all’art. 177, lett. a, cod. civ., e quindi nell’oggetto della comunione legale tra coniugi, in quanto, anche se esse non sono meri titoli di credito, ma titoli di partecipazione, l’aspetto patrimoniale è assolutamente prevalente rispetto ai diritti e agli obblighi connessi con lo status di socio in essi incorporato. Il passaggio delle azioni (quanto meno per la componente patrimoniale data dal loro valore) in comproprietà dell’altro coniuge non è escluso dalla previsione dell’intrasferibilità delle azioni, eventualmente contenuta nello statuto sociale, atteso che (a prescindere dall’art. 22 della legge 4 giu. 1985 n. 221, nella specie entrato in vigore successivamente all’acquisto delle azioni) la comproprietà è un effetto voluto dalla legge per attuare il principio d’ordine costituzionale della parità tra i coniugi, come tale preminente alla volontà dei privati» (nello stesso senso v. anche Cass.,27 mag. 1999/5172). 1.2. Facendo applicazione della medesima regola Cass.,23 set. 1997/9355 ha stabilito che «Nel regime di comunione legale fra i coniugi, i beni acquistati con i proventi dell’attività separata di uno dei coniugi entrano immediatamente e di pieno diritto a far parte della comunione, senza che vi sia possibilità di esclusione mediante la dichiarazione prevista dall’art. 179, lett. f) cod. civ., applicabile soltanto all’acquisto effettuato con il prezzo del trasferimento dei beni personali, tassativamente elencati nel predetto art. 179. A tal riguardo, anche le azioni di società, sottoscritte da un coniuge in sede di aumento di capitale ed in virtù di diritto di opzione, costituiscono incrementi patrimoniali rientranti fra gli acquisti di cui all’art. 177, lett. a), cod. civ., e quindi nell’oggetto della comunione legale tra coniugi». 1.3. Infine, in materia di quote di accomandante in una s.a.s., la Cassazione ha stabilito che i redditi di partecipazione societaria (in veste, per l’appunto, di accomandante) di un coniuge, rientrando tra i frutti civili di beni oggetto di comunione legale, vanno imputati, in applicazione dell’art. 4 del d.P.R. 29 set. 1973, n. 597, a ciascuno dei coniugi per metà del loro netto ammontare, così dando per scontata l’appartenenza alla comunione legale di siffatte partecipazioni sociali  (Cass.,24 feb. 2001/2736). 1.4. Per quanto attiene invece alla dottrina, sarà il caso di sottolinearne ancora una volta la variegata frammentarietà. 1.5. Da un lato, le posizioni più rigide escludono in modo assoluto una caduta in comunione delle partecipazioni sociali, anche se espresse in azioni (v. per tutti Russo 1999, 294 ss.), in quanto oggetto di attività separata: affermazione, questa, che potrà valere semmai per le partecipazioni sociali che implicano l’assunzione della veste di imprenditore a responsabilità illimitata in capo al coniuge, ma che riferire alle azioni appare eccessivo. Con riguardo a quest’ultimo profilo si sono correttamente individuati i limiti della caduta in comunione nel disposto dell’art. 178 c.c., che per l’appunto sembra consegnare alla comunione de residuo ogni forma di partecipazione che implichi l’espletamento di attività imprenditoriale da parte del socio (v. per tutti Tanzi, Comunione legale e partecipazioni a società lucrative, Bianca (a cura di), La comunione legale, Milano, 1989, 317 ss.). 1.6. D’altro canto è noto che, dopo l’entrata in vigore della riforma, parte della dottrina aveva proposto il criterio degli investimenti per stabilire se una partecipazione sociale, o, in generale, un valore mobiliare dovesse o meno cadere in comunione (v. in particolare Busnelli 1976, 42 ss.; Schlesinger 1977, 374 ss.; Buonocore, Comunione legale tra i coniugi e partecipazione a società per azioni e a società cooperative, RN, 1977, I, 1141 s.). Peraltro è chiaro che affermare che un credito cade in comunione se rappresenta un investimento, mentre resta personale negli altri casi appare arbitrario di fronte al silenzio della legge, oltre che di ambigua applicazione (Gabrielli, Comunione coniugale ed investimento in titoli, cit., 5 ss.). 1.7. Un’ulteriore posizione è poi rappresentata da chi, pur ammettendo la caduta in comunione delle partecipazioni sociali, opera una scissione tra l’aspetto della titolarità delle partecipazioni, attribuita ad entrambi i coniugi, e la qualità di socio, o la legittimazione alle relative azioni, spettante al solo coniuge acquirente (cfr. Gabrielli, Comunione coniugale ed investimento in titoli, cit., 50 s.; Nuzzo, 1984, 79 ss.; Coltro Campi, Comunione legale e operazioni sui titoli: considerazioni, BBTC, 1977, 368; Tanzi, op. cit., 340; Di Martino 1997, 82 s.). 1.8. Conclusivamente, le obiezioni alla caduta in comunione delle partecipazioni sociali non appaiono convincenti. In particolare non sembra essere di grande aiuto rilevare (come fa invece Spitali 2002, 131) l’innegabile incongruità della posizione di chi (come la giurisprudenza di legittimità) risponde positivamente a tale quesito, negando però al contempo la caduta in comunione di depositi bancari, quote di fondi comuni o contratti sui derivati, senza accorgersi della ben più evidente irrazionalità della soluzione che nega in generale la caduta in comunione di tutte queste forme di investimento (estrinsecantisi, appunto, nell’acquisto di posizioni, in buona sostanza, creditorie), laddove i medesimi capitali, impiegati invece per acquistare diritti reali (proprietà di immobili, di oggetti d’antiquariato, di auto, ecc.), sarebbero soggetti al disposto dell’art. 177 lett. a) c.c.

 

21. Conti correnti e rapporti bancari; le sorti del denaro. 1.1. Strettamente legata al tema della caduta in comunione dei rapporti di credito è la questione della titolarità dei conti correnti e più in generale dei rapporti bancari (su cui in generale v., anche per i richiami, Alagna, Regime patrimoniale della famiglia ed operazioni bancarie, Padova, 1988; Spitali 2002, 126 ss.). La Cassazione ha avuto modo, in tempi piuttosto recenti, di pronunziarsi sul tema della caduta o meno in comunione di diritti di credito derivanti da conti correnti bancari, facendo applicazione, questa volta, della regola enunciata ad altri fini circa la ritenuta riferibilità dell’art. 177 c.c. alle sole situazioni caratterizzate da realità. Così la Corte ha deciso che «In tema di imposta sulle successioni, il saldo attivo di un conto corrente bancario intestato al de cuius, va tassato per intero, anche se il defunto era in regime di comunione legale con il coniuge, atteso che la comunione legale fra i coniugi, di cui all’art. 177 cod. civ., riguarda gli acquisti, cioè gli atti implicanti l’effettivo trasferimento della proprietà della res o la costituzione di diritti reali sulla medesima, non quindi i diritti di credito sorti dal contratto concluso da uno dei coniugi, i quali, per la loro stessa natura relativa e personale, pur se strumentali all’acquisizione di una res, non sono suscettibili di cadere in comunione» (Cass.,1 apr. 2003/4959). 1.2. Analogamente la successiva Cass.,27 apr. 2004/8002 ha stabilito che «Il regime di comunione coniugale di cui all’art. 177 cod. civ. coinvolge i soli acquisti di beni e non inerisce invece alla instaurazione di rapporti meramente creditizi, quali quelli connessi, ad esempio, all’apertura di un conto corrente bancario nel corso della convivenza coniugale». Da tale premessa la Corte ha derivato l’interessante conseguenza secondo cui, in relazione a tali rapporti, le parti non potranno sollevare in alcun modo preclusioni di sorta legate alla necessità del «preventivo scioglimento della comunione legale coniugale e quindi al preventivo passaggio in giudicato della sentenza di separazione». 1.3. E’ evidente dunque che, nel caso di specie, la premessa, pur non condivisibile (per lo meno ad avviso di chi scrive), circa l’esclusione dalla caduta in comunione dei crediti risultanti dai rapporti di conto corrente bancario, ha quanto meno portato alla conseguenza positiva dell’attenuazione di una delle più devastanti conseguenze della mancata previsione normativa dell’inizio della procedura di separazione personale quale causa di scioglimento del regime legale; conseguenza consistente, per l’appunto, nella necessità dell’attesa del passaggio in giudicato della sentenza di separazione contenziosa per poter ritenere integrata una delle fattispecie rilevanti ex art. 191 c.c. e dunque ammissibile una domanda diretta alla divisione del patrimonio già comune. Ne deriva che (secondo la citata decisione) le domande divisorie dirette all’attribuzione di quote di saldi attivi di conti correnti intrattenuti dai coniugi presso istituti bancari saranno immediatamente proponibili, senza preclusioni di sorta. 1.4. A questo punto sarà necessario però precisare che diversi anni prima, la stessa Corte aveva affermato che «l’accertamento che il danaro rinvenuto sul conto corrente intestato al marito costituiva provento dell’attività separata di ciascuno (o anche di uno solo) dei coniugi» era idoneo a rendere il danaro stesso oggetto della comunione «in via assoluta, ai sensi dell’art. 177 lett. c) dello stesso codice, senza che possa ammettersi una prova contraria a norma dell’ultima parte dell’art. 195 cod. civ., e di conseguenza deve essere ripartito in parti uguali al momento della divisione dei beni (art. 194, primo comma, cod. civ.) sia che provenga dall’attività di uno solo dei coniugi, sia che provenga dalle singole attività dei due coniugi, ancorchè in misura diversa per ciascuno di essi» (Cass.,22 feb. 1992/2182, GC, 1992, I, 892). 1.5. Sullo stesso tema potrà segnalarsi un’ulteriore decisione, secondo la quale «La mera titolarità formale di un conto corrente bancario non può, da sola, costituire circostanza decisiva in ordine alla proprietà e spettanza dei relativi fondi, occorrendo valutare in concreto, caso per caso, se sussista disgiunzione fra intestazione nominale del conto e reale appartenenza delle somme depositate (principio affermato dalla S.C. nel confermare la decisione di merito che, a seguito di separazione personale, facendo corretta applicazione dell’art. 2729 cod. civ. aveva ritenuto che le somme accreditate sul conto corrente di cui era titolare un coniuge spettassero all’altro, i proventi della cui attività avevano costituito l’unica fonte di guadagno della famiglia)». Peraltro, neppure dalla lettura della motivazione emerge che la parte interessata (nella specie, quella unica intestataria del conto) si sia mai curata di avanzare pretese ex art. 177 lett. c) c.c. (Cass.,23 gen. 2004/1149). 1.6. A prescindere poi dalla questione circa la caduta o meno in comunione dei diritti di credito, la dottrina sembra orientata ad affermare che oggetto di comunione legale possa essere anche il denaro, in quanto bene mobile, suscettibile d’acquisto da parte dei coniugi (così v. per tutti Spitali 2002, 124 ss.; contra Russo 1999, 227). Posto che peraltro, come ammette la stessa dottrina contraria alla caduta in comunione dei rapporti di credito, il denaro «raramente viene conservato sotto forma di numerario» (così Spitali 2002, 125), la conclusione testé enunciata rischia di perdere concreto significato laddove si affermi che il credito verso la banca in un rapporto di conto corrente o di deposito non sarebbe idoneo a sottostare alla regola ex art. 177 lett. a) c.c.

 

22. L’acquisto con patto di riservato dominio. 1.1. Fattispecie particolari di possibili acquisti ex art. 177 lett. a) c.c. possono essere determinate da contratti ad effetti reali differiti (si pensi alla vendita con patto di riservato dominio o con patto di riscatto) o in cui gli effetti reali possono porsi comunque quale conseguenza (ancorchè non immediata) del negozio (si pensi al leasing, ai contratti stipulati relativamente agli immobili di edilizia residenziale pubblica o a determinati casi di prelazione agraria). La prima di siffatte ipotesi è costituita dall’acquisto con patto di riservato dominio da parte di soggetto, per l’appunto, coniugato in regime di comunione legale dei beni. 1.2. La soluzione appare legata a quella dei rapporti con l’art. 179, lett. a), c.c., relativamente agli acquisti concernenti vicende a formazione progressiva (su cui v. infra, sub art. 179, § 2). La dottrina che aderisce alla tesi della rilevanza del momento perfezionativo della fattispecie negoziale (a prescindere da quello in cui si verificano gli effetti traslativi) conclude nel senso che il momento determinante sia quello della stipula del contratto (in questo senso Ubaldi 1989, 444 s.; De Paola 1995, 409; Auletta 1999, 180 s). 1.3. Se invece si pone l’accento (come appre più conforme alla lettera della norma) sul momento del trapasso della proprietà, atteso che questo si realizza, ex art. 1523 c.c., con il pagamento dell’ultima rata del prezzo, si deve ritenere che l’effetto del coacquisto automatico in capo al coniuge si produca se in quel momento l’acquirente si trovi sottoposto al regime legale. E ciò indipendentemente dal fatto che l’altro coniuge abbia o meno preso parte al negozio acquisitivo, magari stipulato prima an­cora della celebrazione delle nozze (sul punto v. per tutti Oberto, La vendita con riserva di proprietà, Bin (a cura di), La vendita, III, 2, Padova, 1995, 953 ss.). 1.4. Proprio in una fattispecie del genere la Corte d’appello di Genova ha riconosciuto la ca­duta in comunione di un immobile acquistato dal marito in epoca anteriore alla riforma del diritto di famiglia, ma con patto di riservato dominio sino all’integrale pagamento del prezzo avve­nuto il 26 nov. 1979, senza che nessuno dei coniugi si fos­se a suo tempo avvalso della facoltà di esclusione del regime legale ai sensi dell’art. 228, l. 19 mag. 1975/151 (A Genova 4 gen. 1984, GM, 1985, 585). 1.5. L’impostazione qui proposta pare suffragata dalla giurisprudenza di legittimità in materia di acquisti di immobili costruiti in regime di edilizia residenziale pubblica. Al riguardo può constatarsi come, operata una distinzione tra la fase attributiva del diritto personale di godimento e quella in cui avviene il trasferimento del diritto dominicale, la Suprema Corte abbia focalizzato l’attenzione su tale secondo momento, quale quello rilevante ex art. 177 c.c. (cfr. infra, sub § 24). 1.6. La giurisprudenza di merito ha anche avuto occasione di occuparsi del distinto problema concernente l’individuazione della posizione del compratore prima dell’integrale pagamento del prezzo. Con riferimento alla vendita a rate di un fondo rustico il Tribunale di Ferrara (T Ferrara 21 mag. 1985, NGCC, 1986, I, 504) ha infatti riconosciuto in capo all’acquirente un mero diritto di credito sui generis, strettamente legato alla sussistenza di particolari requisiti soggettivi in capo a quest’ultimo; nella specie si trattava di quelli imposti dalla normativa in tema di formazione della piccola proprietà contadina (d. lgs. 24 feb. 1948/114), negando la caduta in comunione legale di tale situazione soggettiva. Nella specie, il marito aveva ceduto  la propria posizione al padre e al fratello e di tale atto la moglie aveva chiesto l’annullamento ex art. 184 c.c.; il tribunale ha però respinto la relativa domanda, non essendo a suo avviso quel rapporto giuridico entrato a far parte del patrimonio in comunione. Secondo il giudice, infatti, «La vendita a rate con patto di riservato dominio attribuisce al compratore, prima del pagamento dell’ultima rata di prezzo, un mero diritto di credito. Non rientra nell’ambito di operatività dell’art. 177, lett. a) l’acquisto da parte di uno dei coniugi di un diritto di credito, quando la situazione creditoria sia strettamente connessa con la sussistenza di particolari requisiti soggettivi propri dell’acquirente» (T Ferrara 21.5.1985, cit.). 1.7. Ora, a prescindere dal caso particolare, in cui la circolazione del fondo acquistato era per legge vincolata al possesso di determinati requisiti soggettivi, non vi è dubbio che, se si ammette (come appare preferibile) il presupposto della operatività del meccanismo dell’acquisto automatico in regime di comunione legale anche in relazione ai diritti di credito i quali (non va dimenticato) sono di regola liberamente cedibili  (cfr. artt. 1260, 1298, 2559 c.c.), sembra difficile negare la caduta in comunione anche di tale posizione. 1.8. In realtà è contestabile addirittura la premessa, e cioè che la posizione del compratore sia costituita da un diritto di credito. Dal momento che, infatti, la vendita in oggetto determina un effetto reale differito e non un’obbligazione di trasferire, ciò che il compratore acquista non è un credito, ma una  situazione complessa, composta da un’aspettativa sul futuro acquisto e dalla detenzione del bene. Andrà quindi rilevato come l’aspettativa reale competente al compratore, in quanto liberamente cedibile a terzi, ben possa costituire «acquisto» ai sensi dell’art. 177 lett. a) c.c. Ove dunque l’acquirente con patto di riservato dominio si trovi ad essere, all’atto dell’acquisto, coniugato in regime di comunione, dovrà comunque munirsi del necessario consenso del coniuge ex art. 180 c.c. se vorrà disporre della conseguente aspettativa prima dell’integrale pagamento del prezzo (sul tema, anche per i necessari rinvii v. Oberto, La vendita con riserva di proprietà, cit.).

 

23. L’acquisto con patto di riscatto. 1.1. La giurisprudenza non si è ancora espressa sul tema dei rapporti tra comunione legale tra coniugi e vendita con patto di riscatto. Al riguardo, il problema di maggiore interesse sembra costituito dal caso della alienazione con patto di riscatto operata da un soggetto prima di entrare con il proprio coniuge nel regime ex artt. 177 ss. c.c.  e del successivo riscatto, esercitato invece manente communione. 1.2. Una parte della dottrina che si è occupata della questione (Santarcangelo, La volontaria giurisdizione nell’attività negoziale, I, Milano, 1985, p. 408; Ubaldi 1989, 445; De Paola 1995, 410 s.; Auletta 1999, 181), prendendo le mosse dalla tesi che configura il riscatto convenzionale alla stregua di un recesso negoziale con effetto retroattivo, ha affermato che l’esercizio di tale potere, rimuovendo gli effetti del contratto di compravendita, farebbe «rientrare» il bene nel patrimonio personale del soggetto. La soluzione sarebbe invece diversa nell’ipotesi di patto di rivendita, nella quale occorrerebbe, per il ritrasferimento, una  nuova manifestazione di volontà delle parti (cui l’acquirente è obbligatoriamente tenuto in virtù della clausola contrattuale di rivendita). 1.3. Secondo altro orientamento, peraltro minoritario, elemento determinante risulterebbe invece la provenienza del denaro usato per esercitare il riscatto (così Russo 1999, 167). 1.4. Ora, trattando in altra sede del problema della «retroattività» del riscatto (v. per tutti Oberto, La vendita con patto di riscatto, Bin (a cura di), La vendita, III, 2, Padova, 1995, 1034 ss.) si è avuto modo di illustrare come gli effetti dell’esercizio del riscatto non siano coincidenti con quelli che determinano la retroattività della condizione ex art. 1360 c.c. e come, anzi, la legge si preoccupi soltanto di salvaguardare la posizione del venditore-riscattante nei riguardi dei diritti costituiti medio tempore dal compratore. Come si ricava dagli artt. 1504 s. c.c., tutto ciò che il legislatore vuole evitare è che l’esercizio del riscatto sia di fatto impedito dalla presenza di diritti concessi a terzi dal compratore. Ma ciò non significa, naturalmente, che la fattispecie sia insensibile alle vicende che abbiano coinvolto nel frattempo la persona del venditore. A conferma di quanto sopra si ponga mente, per esempio, all’ipotesi in cui l’alienante abbia, prima del riscatto, venduto a terzi il bene: sembra evidente che in questo caso l’esercizio del riscatto determinerebbe senz’altro ed automaticamente l’effetto previsto dall’art. 1478 cpv. c.c. 1.5. Se è dunque vero che il riacquisto da parte del venditore non ha efficacia retroattiva (per lo meno nel senso di cui all’art. 1360 c.c.), bensì soltanto ex nunc, occorre allora concluderne che esso non si sottrae alla regola sancita dall’art. 177 c.c. e che pertanto (anche se il riscatto viene posto in essere disgiuntamente dal solo alienante) il diritto così riacquistato è sottoposto al regime comunitario (Oberto, La vendita con patto di riscatto, cit., 1090 ss., cui si rinvia anche per ulteriori approfondimenti, in merito, tra l’altro, alla possibilità che il coniuge si avvalga della facoltà concessa dall’art. 179 lett. f) c.c., quando intenda conservare il carattere personale del bene venduto prima del matrimonio e riscattato successivamente, nonché alla situazione che si determina in caso di vendita con patto di riscatto di un bene comune effettuata durante la vigenza del regime legale; sul tema v. inoltre Tordo, Brevi note sul riscatto convenzionale e sulle implicazioni correlate al regime patrimoniale della famiglia, VN, 1993, 594 s.). 1.6. La soluzione del problema di cui sopra, concernente la caduta in comunione del diritto di riscatto acquistato dal coniuge all’atto dell’effettuazione della vendita manente communione, condiziona anche la risposta all’interrogativo circa le conseguenze dell’alienazione con patto di riscatto di un bene personale. Non sembra qui accoglibile la tesi (Tordo, op. cit., 597 s.) secondo cui si tratterebbe qui di una «deductio della facoltà dispositiva del bene», con conseguente riacquisto alla massa personale del bene alienato, nel caso di esercizio del diritto di riscatto. Per le stesse ragioni sopra illustrate, infatti, l’innegabile verificarsi di una vicenda traslativa dal terzo acquirente al coniuge alienante non può non determinare quell’acquisto che è presupposto dall’art. 177 lett. a) c.c., salva, naturalmente, la facoltà in capo al coniuge interessato di porre in essere gli accorgimenti previsti dall’art. 179 c.c. al fine di conservare il carattere personale di siffatto (ri)acquisto. 1.7. Infine, l’eventuale intervento dello scioglimento del regime legale nel periodo intercorrente tra la vendita e l’esercizio del diritto di riscatto farà «degradare» al rango di contitolarità ordinaria la comunione del diritto di riscatto stesso, con la conseguenza dell’applicabilità del disposto dell’art. 1507 c.c. e la relativa facoltà per ciascuno dei coniugi (o ex tali, o dei loro eredi) di esercitare disgiuntamente il riscatto.

 

24. L’acquisto di immobile di edilizia residenziale pubblica. 1.1. La Cassazione ha avuto modo di pronunziarsi più volte sul tema della caduta o meno in comunione legale di diritti relativi ad immobili di edilizia residenziale pubblica. Al riguardo può constatarsi come, operata una distinzione tra la fase attributiva del diritto personale di godimento e quella in cui avviene il trasferimento del diritto dominicale, la giurisprudenza abbia focalizzato l’attenzione su tale secondo momento, quale quello rilevante ex art. 177 c.c. 1.2. Così, si è affermato che «L’assegnazione in locazione di un alloggio dell’edilizia residenziale pubblica, ancorchè con patto di riscatto, e pure quando venga disposta in relazione alla consistenza del nucleo familiare dell’assegnatario (nella specie, a norma degli artt. 29 della l. 14 feb. 1963/60 e 70 del d.p.r. 11 ott. 1963/1471), attribuisce un diritto personale, non reale, del quale è esclusivo titolare l’assegnatario medesimo. Pertanto, nel caso di sopravvenienza della separazione dei coniugi, prima del trasferimento in proprietà dell’immobile, deve escludersi che il coniuge non assegnatario possa pretendere una quota del bene, invocando il pregresso regime di comunione legale di cui all’art. 177 cod. civ., poichè questo riguarda solo gli acquisti della proprietà od altro diritto reale» (Cass.,23 lug. 1987/6424, NGCC, 1988, I, 456). E’ da notare che in questo caso si discuteva solo del diritto di godimento del bene, ottenuto mediante assegnazione in godimento con patto di futura vendita, e non già della proprietà. 1.3. La situazione appare così analoga a quella decisa da Cass.,1 feb. 1996/875: «Non costituisce oggetto della comunione legale l’alloggio di cooperativa edilizia assegnato in godimento, ma non ancora trasferito, ad uno dei coniugi che sia socio della cooperativa, o il credito vantato verso la cooperativa da parte del socio coniugato che validamente abbia rinunciato all’assegnazione, in mancanza del trasferimento del diritto dominicale in base al contratto privatistico che richiede l’integrale pagamento del prezzo. Ne consegue che, non facendo parte della comunione legale l’assegnazione provvisoria prima del trasferimento, non sussiste altresì alcun diritto del coniuge non socio ad ottenere la metà del credito spettante all’altro coniuge nei confronti della cooperativa a seguito dell’effettuata rinuncia». 1.4. Cass.,29 gen. 1990/560 si è pronunciata invece su una situazione in cui era già intervenuta l’assegnazione in proprietà, a seguito del pagamento di tutte le rate previste al momento dell’assegnazione in godimento: «Qualora un coniuge si renda assegnatario e cessionario, con pagamento rateizzato del prezzo e conseguente riserva di proprietà in favore dell’ente cedente, di alloggio dell’edilizia residenziale pubblica, la data dell’acquisto di tale immobile, anche al fine di stabilire se esso ricada nella comunione legale dei beni con l’altro coniuge (art. 177 primo comma lett. a cod. civ.), va individuata in base al contratto privatistico di trasferimento del diritto dominicale, stipulato dopo l’integrale versamento di quel prezzo». 1.5. Sulla stessa linea si colloca Cass.,16 dic. 1993/12439, secondo cui «La comunione legale fra coniugi, ai sensi dell’art. 177 primo comma lett. a) cod. civ., riguarda gli ‘acquisti’ compiuti durante il matrimonio, indipendentemente dalla provenienza delle risorse che li abbiano consentiti (con le sole eccezioni elencate dall’art. 179 cod. civ.), e, pertanto, si estende ad alloggio dell’edilizia residenziale pubblica, che sia stato oggetto di assegnazione con promessa di futura vendita prima della data di celebrazione del matrimonio, quando il contratto di cessione, traslativo del diritto dominicale, sia stato stipulato dopo tale data» (nello stesso senso v. anche Cass.,17 dic. 1993/12523). 1.6. Ancora, secondo Cass.,13 lug. 1998/6813 «Con il pagamento dell’ultima rata di prezzo si verifica la condizione sospensiva a cui è sottoposta la vendita con riserva di proprietà di un alloggio di edilizia popolare e pertanto, per il trasferimento di esso a favore degli eredi dell’ assegnatario, con il quale è stato stipulato il contratto di cessione in proprietà, non occorre nessuna ulteriore manifestazione di volontà da parte di costoro». 1.7. A seconda del tipo di accordi presi all’atto dell’assegnazione in godimento può poi capitare che il trasferimento del diritto dominicale sia legato alla stipula di contratto di mutuo individuale. Ciò che rileva, comunque, è ancora una volta il momento al quale la volontà delle parti ha ancorato il trasferimento del diritto di proprietà: «Nel caso di alloggio di cooperativa edilizia a contributo statale, il momento rilevante, al fine di stabilire l’acquisto della titolarità dell’immobile e, quindi, di verificare se esso ricada nella comunione legale, va individuato in quello della stipulazione, da parte del socio, del contratto di mutuo individuale, poichè soltanto con la stipulazione di detto contratto il socio acquista irrevocabilmente la proprietà dell’alloggio, assumendo la veste di mutuatario dell’ente erogatore del mutuo» (Cass.,23 ago. 1996/7807). «In tema di assegnazione di alloggi di cooperative edilizie a contributo statale, il momento determinativo dell’acquisto della titolarità dell’immobile da parte del singolo socio, onde stabilire se il bene ricada, o meno, nella comunione legale tra coniugi, è quello della stipula del contratto di trasferimento del diritto dominicale (contestuale alla convenzione di mutuo individuale), poichè solo con la conclusione di tale negozio il socio acquista, irrevocabilmente, la proprietà dell’alloggio (assumendo, nel contempo, la veste di mutuatario dell’ente erogatore), mentre la semplice qualità di socio, e la correlata ‘prenotazione’, in tale veste, dell’alloggio, si pongono come vicende riconducibili soltanto a diritti di credito nei confronti della cooperativa (inidonei, come tali, a formare oggetto della communio incidens familiare). Anche nell’ipotesi in cui l’acquisto del diritto alla quota in seno alla cooperativa da parte del socio risulti effetto di trasmissione iure haereditario da parte di altro socio defunto (nella specie, il padre), tale vicenda assume rilievo esclusivamente sotto il profilo della legittimazione soggettiva nei confronti dell’ente, senza spiegare alcuna influenza ai fini della esatta individuazione, quoad tempus, dell’effetto traslativo relativo all’immobile» (Cass.,12 mag. 1998/4757; v. inoltre in senso conforme Cass.,23 ago. 1996/7807, cit.).

 

25. Rapporto locatizio e leasing. 1.1. La giurisprudenza è assolutamente costante nel ritenere che «Legittimato passivo nella controversia diretta ad ottenere la cessazione della proroga legale del contratto di locazione, stipulato sia anteriormente che posteriormente all’entrata in vigore della riforma del diritto di famiglia (legge 19 mag. 1975/151) è unicamente il conduttore che ha stipulato il contratto e non anche il suo coniuge, in quanto nella prima ipotesi il rapporto contrattuale, validamente stipulato secondo la legge del tempo, verrebbe alterato con l’aggiunta di un nuovo soggetto giuridico ad esso estraneo in contrasto con il principio della irretroattività della legge, disconoscendosi gli effetti di un atto nato, secondo la legge del tempo, perfettamente valido ed efficace, mentre nella seconda ipotesi l’art 184 cod. civ. (nella nuova formulazione) prevede solo l’annullabilità per la mancanza del consenso o della convalida del coniuge» (cfr. tra le tante Cass.,23 giu. 1980/3946; Cass.,15 dic. 1981/6634). 1.2. Una leggera variante stilistica di tale ratio decidendi viene espressa da altre decisioni nei termini seguenti: «L’art. 180, secondo comma, cod. civ. attribuisce ad entrambi i coniugi esclusivamente il diritto a stipulare i contratti di locazione e, al pretermesso, le azioni di cui al successivo art. 184. Ne consegue che legittimato passivo nella controversia diretta ad ottenere la cessazione della proroga legale del contratto di locazione e, comunque, il rilascio dell’immobile condotto in locazione è unicamente il coniuge che ha stipulato il contratto, sia anteriormente che posteriormente all’entrata in vigore della riforma del diritto di famiglia (legge n. 151 del 1975)» (cfr. ex multis Cass.,24 feb. 1986/1136, VN, 1986,  283; Cass.,18 ott. 1994/8469). Comunque sia, la soluzione, sovente motivata, come si è visto, con il richiamo alle norme in tema di amministrazione, appare in linea con l’affermazione di principio della Corte circa la caduta in comunione dei soli diritti reali. 1.3. Non constano invece precedenti giurisprudenziali in materia di contratto di leasing. Ancora una volta, la soluzione appare legata a quella da fornirsi relativamente alla caduta in comunione dei diritti di credito. E’ pertanto ragionevole ritenere che, qualora la questione dovesse presentarsi all’esame della S.C., essa escluderebbe (non foss’altro che per ragioni di coerenza – peraltro non sempre, come si è visto, rispettata – verso le proprie numerose esternazioni contrarie alla caduta in comunione dei diritti di credito) l’applicabilità dell’art. 177 lett. a) c.c. ai diritti pertinenti all’utilizzatore. Nel caso di esercizio del riscatto manente communione non dovrebbero invece sussistere difficoltà a riconoscere il carattere immediatamente comune dell’acquisto (ovviamente a condizione che la fattispecie non sia per varie ragioni riconducibile a situazioni di comunione de residuo o al disposto dell’art. 179 c.c.).

 

26. Diritti derivanti dalla prelazione agraria dell’affittuario coltivatore diretto 1.1. Venendo al tema della prelazione agraria, sarà opportuno affrontare partitamente le questioni attinenti alla prelazione agraria che la legge attribuisce a favore dell’affittuario coltivatore diretto del fondo, rispetto a quelle che nascono dall’istituto della prelazione agraria concessa al coltivatore diretto proprietario di fondo finitimo. Iniziando dalle prime, la Cassazione si è trovata ad affrontare, ormai diversi anni fa, il problema della legittimazione del coniuge, in regime di comunione, del coltivatore diretto ad esercitare il riscatto del fondo condotto solo da quest’ultimo. La soluzione positiva è stata nel caso di specie legata alla considerazione per cui il risultato dell’esercizio vittorioso di tale azione sarebbe stato l’acquisto in comunione del diritto dominicale: «In materia di riscatto agrario, contitolare del relativo diritto, insieme al soggetto di uno dei rapporti contemplati dall’art 8 della legge n. 590 del 1965, è il coniuge del medesimo, ove ricorra la ipotesi della comunione tacita familiare ex art 2140 cod. civ. o della comunione dei beni di cui all’art 228, secondo comma, della legge 19 mag. 1975 n. 151, sulla riforma del diritto di famiglia, dato che, una volta operato il retratto, il bene oggetto dello stesso resterebbe comunque acquisito alla comunione» (Cass.,7 mar. 1981/1289). 1.2. E’ evidente peraltro l’inversione logica nel ragionamento su cui si fonda la ratio decidendi: secondo la Cassazione, in buona sostanza, il coniuge non conduttore è legittimato ad esperire l’azione di riscatto perché così facendo l’immobile cadrebbe in comunione. Peraltro, la comunione ha proprio quale presupposto l’intervenuta verificazione d’un acquisto che, nel caso in esame, non si è ancora verificato (e ben potrebbe non verificarsi, se l’azione di riscatto dovesse essere per una qualche ragione respinta o addirittura dichiarata inammissibile). 1.3. Per rispondere positivamente al quesito posto alla Cassazione occorre presupporre che il contratto di affitto di fondo rustico sia stato stipulato già vigente il regime di comunione; inoltre occorre ammettere (contrariamente alla giurisprudenza costante del S.C.: v. supra sub §§ 17 ss.) che anche i diritti di credito (dovendosi considerare il diritto al riscatto alla stregua di un diritto di credito) cadano in comunione, altrimenti il coniuge non conduttore non potrà ritenersi legittimato. 1.4. Soluzione negativa all’interrogativo in questione (legittimazione del coniuge dell’affittuario coltivatore diretto) è stata invece fornita da una successiva decisione di legittimità, secondo cui «Nell’ipotesi di comunione legale o convenzionale dei beni tra i coniugi, il fatto che costoro gestiscano insieme un’azienda agricola, in virtù di un contratto agrario stipulato da uno solo di essi, non significa che il diritto di prelazione agraria e quello sussidiario di riscatto competano ad entrambi, dovendosi, invece, ritenere che spettino solo a quello dei due che ha stipulato il contratto, salva all’altro la possibilità, a norma dell’art. 181 cod. civ., come modificato dall’art. 60 della legge 19 mag. 1975 n. 151, di ricorrere al giudice per ottenere l’autorizzazione al compimento dell’atto (accettazione della proposta contrattuale o esercizio del riscatto) non voluto compiere dal primo e ritenuto necessario nell’interesse della famiglia o dell’azienda comune» (Cass.,13 giu. 1987/5201). 1.5. La decisione appare fondata su di un’intima ed insanabile contraddizione, non potendosi comprendere per quale ragione se si nega – da un lato – al coniuge non conduttore il diritto di esercitare la prelazione, in quanto estraneo al contratto, lo si ammette poi – dall’altro – ad avvalersi del rimedio ex art. 181 c.c. Tale azione concerne infatti l’amministrazione di beni in comunione legale, laddove la decisione parte dal presupposto che si debba escludere che siffatta situazione possa ravvisarsi nel caso di specie sul diritto di prelazione e di riscatto. 1.6. Sul presupposto della non titolarità del diritto di prelazione in capo al coniuge dell’affittuario coltivatore diretto si fonda anche la successiva Cass.,25 giu. 1988/4299, secondo cui «Il diritto di prelazione agraria previsto dall’art. 8 della legge 26 mag. 1965 n. 590 spetta soltanto al titolare di uno dei rapporti agrari indicati da tale norma, e non anche a persone diverse che coltivino il fondo in quanto a lui legati da altri rapporti ed ai quali lo stesso titolare non è legittimato a trasferire il diritto di prelazione. Correlativamente, soltanto tale soggetto è abilitato a chiedere la concessione del mutuo e, quindi, ad ottenere secondo la previsione del settimo comma dello art. 8 citato il beneficio della sospensione del termine di tre mesi per il versamento del prezzo di acquisto e non il coniuge dello affittuario coltivatore diretto, ancorchè in regime di comunione dei beni, trattandosi di situazione rilevante ai soli fini della individuazione degli effetti del diritto di prelazione, senza incidenza sulla titolarità di esso o sulle sue modalità di esercizio». La decisione peraltro, come si è visto, non esclude che l’esercizio della prelazione possa determinare un acquisto rilevante ex art. 177 lett. a) c.c. 1.7. Nello stesso ordine di idee si colloca Cass.,21 mar. 1995/3241, per cui «Nella disciplina anteriore alla legge 3 mag. 1982 n. 203, il cui art. 48 dispone che i rapporti agrari intercorrono tra il concedente e la famiglia coltivatrice, il coniuge dell’affittuario in regime di comunione dei beni, ove non abbia anch’egli stipulato il contratto di affitto, non è autonomo titolare del diritto di prelazione e perciò non è destinatario delle norme che, in funzione dell’esercizio di tale diritto, impongono la comunicazione della proposta di alienazione, ma gode solo di una legittimazione sostitutiva di quella dell’affittuario quanto all’esercizio del diritto e deve perciò osservare per tale esercizio i termini che avrebbero dovuto essere rispettati dall’affittuario».

 

27. Diritti derivanti dalla prelazione agraria dei coltivatori diretti proprietari dei fondi finitimi. 1.1. Venendo alla prelazione concessa ex lege ai coltivatori diretti proprietari dei fondi finitimi, va osservato che la Cassazione ha riconosciuto in capo ad entrambi i comproprietari (coniugi in regime di comunione legale) coltivatori diretti del fondo confinante rispetto a quello posto in vendita un diritto autonomo di prelazione, secondo la previsione degli artt. 8 della l. 26 mag. 1965/590 e 7 della l. 14 ago. 1971/817. In conseguenza, la Corte ha ritenuto che, «qualora il proprietario provveda a notificare la proposta di alienazione ad uno soltanto dei predetti titolari del diritto di prelazione, deve riconoscersi all’altro la facoltà di agire per conseguire il riscatto del bene, senza che si renda necessario integrare il contraddittorio nei confronti del primo» (Cass.,13 lug. 1983/4787). 1.2. Sarebbe interessante chiedersi, a questo punto, cosa sarebbe successo se il fondo del coltivatore diretto fosse stato di proprietà di uno solo dei coniugi, quale bene personale (ex art. 179 c.c., o anche solo «proprio» ex art. 178 c.c., in costanza di regime). Sembra peraltro abbastanza difficile immaginare in tal caso un diritto di prelazione acquisito in forza del principio del coacquisto automatico da parte del coniuge del proprietario (esclusivo) del fondo. Tale diritto di prelazione legale costituisce, in fondo, una sorta di «accessorio» di un bene personale (analogamente a quanto si è visto nel caso di servitù acquisita manente communione per un fondo personale: v. supra sub § 16), e come tale intimamente legato al fondo ed alla proprietà personale di questo. 1.3. Passando all’esame della posizione del terzo acquirente di un fondo rustico in spregio al diritto di prelazione previsto per legge in favore del coltivatore diretto proprietario di fondo finitimo, potrà citarsi una decisione delle Sezioni Unite, secondo cui «L’acquisto, da parte di uno dei coniugi in regime di comunione legale, di un bene (nella specie, un fondo rustico) successivamente oggetto di una azione di riscatto da parte di un terzo (nella specie, il proprietario del fondo finitimo, coltivatore diretto), deve ritenersi ipso iure esteso, con efficacia ex tunc, anche all’altro coniuge, con conseguente determinazione di una situazione di titolarità, rispetto alla res, dal carattere unitario ed inscindibile, sulla quale andrà, per l’effetto, ad incidere l’esercizio del riscatto». Poste tali premesse, la Corte ne ha derivato che in tal caso la domanda giudiziale di riscatto andrà necessariamente proposta nei confronti di entrambi i coniugi (e quindi non del solo acquirente comparso in atti), secondo i principi propri del litisconsorzio necessario. A tale conseguenza non osterebbe poi neppure «la natura (meramente dichiarativa) dell’azione di riscatto, astrattamente non incompatibile con l’istituto di cui all’art. 102 cod. proc. civ., implicando il rapporto dedotto in giudizio una situazione sostanziale di tipo plurisoggettivo tanto sul piano genetico quanto su quello funzionale, il cui accertamento (la cui modificazione, la cui estinzione) non può operare che nei confronti di tutti i soggetti che ne partecipano» (Cass.,SU 1 lug. 1997/5895).

 

28. Il carattere legale del coacquisto automatico. 1.1. L’art. 177 lett. a) c.c. stabilisce, come noto, che costituiscono oggetto della comunione legale gli acquisti compiuti dai due coniugi insieme «o separatamente» durante il matrimonio. Ciò significa che il fenomeno che va sotto il nome di «coacquisto automatico» (su cui v. per tutti Schlesinger 1977, 371 ss.; Corsi 1979, 83 ss.) si verifica ex lege e non già per effetto di atto negoziale. 1.2. I coniugi, come noto, divengono titolari del bene acquistato, paritariamente. Ciò anche nell’ipotesi in cui l’acquisto sia stato effettuato congiuntamente dai coniugi con un unico contratto nel quale siano state eventualmente previste quote disuguali, stante l’inderogabilità del principio di parità sancito dall’art. 210 c.c. (Schlesinger 1992, 91) e in relazione al fatto che la «ricaduta» del bene in comunione è un effetto legale e non negoziale (cfr. inoltre Oppo, Acquisto alla comunione coniugale e pregiudizio dei creditori, RDC, 1981, I, 143, secondo il quale «non è un effetto negoziale l’attrazione dell’acquisto alla comunione»; in giurisprudenza v. Cass.,29 ott. 1992/1173; Cass.,10 ott. 1992/11428; Cass.,20 mar. 1991/2983; Cass.,18 lug. 1983/4969, GI, 1984, I, 1, 286; Cass.,2 feb. 1982/605, FI, 1982, I, 1979 ss.).

 

29. Esclusione della qualifica di «avente causa» in capo al coniuge coacquirente ex lege, che non potrà ritenersi «terzo». 1.1. L’evidenziato carattere legale del coacquisto determina, quale conseguenza, che il coniuge coacquirente non possa essere considerato «avente causa» dall’altro (cfr. per tutti Cian-Villani 1981, 164 s.; Spitali 2002, 84 s.). In questo senso si pronuncia espressamente Cass.,5 mag. 1990/3741, in motivazione, per escludere l’applicabilità alla fattispecie della regola resoluto jure dantis, revolvitur et jus accipientis ed affermare il carattere necessario del litisconsorzio tra moglie e marito nel giudizio di retratto promosso dal conduttore di immobile non abitativo, nei confronti di colui che dall’atto di vendita risulti acquirente dell’immobile, soggetto, in realtà, al momento della stipula del negozio, coniugato in regime di comunione. 1.2. Ne consegue, ad esempio, che il coniuge coacquirente non potrà ritenersi «terzo» ai sensi e per gli effetti di disposizioni quali gli artt. 1415, 1445, 1458 cpv. e 2901 ult. cpv. c.c., vale a dire di quelle norme che prevedono posizioni avvantaggiate e distinte (solitamente: salvezze di diritti in capo ai terzi di buona fede) rispetto a determinati negozi traslativi di diritti. 1.3. D’altro canto non potrà certo dirsi che, nel caso di acquisto viziato da parte del coniuge stipulante, il coniuge coacquirente veda salvo il proprio coacquisto ex lege, dal momento che il fondamento di questo secondo fenomeno traslativo risiede proprio nella correttezza del primo. 1.4. Al riguardo si è notato in dottrina che «Bisogna fare attenzione, nel descrivere questo effetto ex lege a favore della comunione, a parlare di un ‘ritrasferimento’: una simile qualificazione, infatti, potrebbe far pensare ad una fattispecie diversa ed ulteriore rispetto al contratto che ha prodotto l’acquisto, cosicché il coniuge eventualmente estraneo all’atto – ovvero gli stessi coniugi in regime di comunione, ove si tratti di acquisto compiuto ‘insieme’ – potrebbe venir considerato un ‘avente causa’, un ‘subacquirente’, dal coniuge autore dell’atto. Viceversa è pacifico che non possono trovare applicazione nel nostro caso le norme dettate a tutela dei terzi, come, ad es., in tema di simulazione (artt. 1415 e 1417 c.c.) o di rescissione e risoluzione del contratto (artt. 1452 e 1458). Il particolare effetto ex lege di cui all’art. 177, pertanto, va considerato un’automatica e necessaria conversione degli effetti negoziali dell’atto: non un ‘ri-trasferimento’, ma piuttosto un co-acquisto a favore dei coniugi in regime di comunione» (Schlesinger 1992, 90 ss.; cfr. inoltre Gabrielli-Cubeddu 1997, 18 ss.; ipotizza una situazione analoga all’acquisto del diritto nel contratto favore di terzo Auletta 1999, 44).

 

30. Effetti del carattere ex lege dell’acquisto del coniuge, che non potrà ritenersi parte del contratto acquisitivo; risvolti pubblicitari e in tema di domande di adempimento. 1.1. Proprio perché ex lege, il coacquisto a vantaggio del coniuge in regime di comunione legale determina una non coincidenza tra parti del negozio che si pone quale fonte originaria dell’acquisto e destinatari degli effetti. In altri termini, il coniuge destinatario del coacquisto automatico non è per ciò solo anche parte del negozio predetto. Né la conclusione varia considerando le norme in tema di amministrazione dei beni in comunione. Come affermato dalla Corte Suprema in una sua ormai remota decisione, l’art. 180 c.c. «non comporta l’ingresso ipso iure, nel contratto stipulato dall’altro coniuge, del coniuge pretermesso» (Cass.,18 lug. 1983/4969, GI, 1984, I, 1, 286 ss.). 1.2. Una delle più rimarcabili conseguenze di questo principio possiamo verificarla sul piano della pubblicità, nel senso che il fenomeno del coacquisto automatico non richiede l’effettuazione di apposita trascrizione (in questo senso v. T Torino 6 dic. 1978, RD IP, 1979, 64). Il tema è già stato affrontato nel commento alla parte generale delle  convenzioni matrimoniali, cui si fa pertanto rinvio (v. sub art. 162). 1.3. In questa sede basterà dire che l’effetto del coacquisto ex lege, non essendo sottoposto alle regole della pubblicità dichiarativa, non rientra nella logica del meccanismo dell’anteriorità o posteriorità delle trascrizioni. Così, ad esempio, se Tizio, coniugato in regime legale con Sempronia e unico intestatario di immobile in comunione promette in vendita tale bene a Caio, e Caio trascrive la propria domanda ex art. 2932 c.c. (in forza di quanto previsto dall’art. 2652, n. 2, c.c.) contro Tizio, il promissario acquirente Caio non prevale su Sempronia, anche se questa non ha trascritto la sua domanda di accertamento della comunione. Costei potrà dunque impugnare l’atto ex art. 184 c.c. (e dovrà, anzi, farlo nel rispetto dei limiti previsti dalla norma) a prescindere dalla trascrizione di eventuali atti o domande giudiziali da cui risulti il suo diritto, poiché  la comunione legale è opponibile ex lege (per un’affermazione di tale genere e per la soluzione di una controversia nel senso indicato nell’esempio si v. Cass.,18 mag. 1988/3483, in motivazione, ove si afferma anche che il coniuge coacquirente «ha acquistato la propria quota del bene a titolo originario, in virtù di legge»). 1.4. Sul versante, poi, dell’adempimento del contratto acquisitivo, va detto che, poichè il coniuge coacquirente è destinatario del solo «acquisto», cioè dell’effetto reale di acquisto di un diritto (reale o di credito, a seconda della tesi che si intenda seguire) e non è parte del negozio, deve escludersi che nascano a suo carico le obbligazioni ex contractu (es.: pagamento del prezzo) gravanti sul coniuge unico soggetto stipulante. Ciò costituisce del resto effetto del principio fondamentale sancito dall’art. 1372 c.c., che non trova deroga nel caso di specie. E’ pertanto escluso che una parte possa mai proporre nei confronti del coniuge della controparte eventuali domande di adempimento o di risarcimento del danno conseguente ad asseriti inadempimenti. 1.5. Potrà aggiungersi a tal proposito che la giurisprudenza di legittimità si è dovuta occupare di un caso di responsabilità precontrattuale, stabilendo che «La circostanza che il coniuge comproprietario sia parte necessaria del contratto per l’alienazione (o per la promessa di alienazione) di un immobile acquistato in regime di comunione legale non gli attribuisce, per ciò solo, la qualità di parte ai fini dell’art. 1337 cod. civ. ove alle trattative non sia intervenuto in tale qualità. Infatti la responsabilità a norma degli artt. 1337 e 1338 cod. civ. prescinde dalla titolarità o contitolarità del rapporto sostanziale che si vuole contrattualmente modificare e sorge solo ove un soggetto assuma, nelle trattative, la qualità di parte e cioè di persona nei cui confronti il contratto da concludere deve produrre effetto, mentre è irrilevante che lo stesso sia titolare della situazione sostanziale sottostante ove non si presenti alle trattative in detta qualità, dal momento che chi non assume la qualità di parte, non essendo soggetto allo obbligo di comportamento prescritto dalla legge secondo buona fede, non può violarlo» (Cass.,28 ott. 1983/6386).

 

31. Effetti processuali del carattere ex lege dell’acquisto del coniuge: a) Legittimazione passiva e litisconsorzio necessario nelle cause di impugnazione dei contratti acquisitivi. 1.1. Da quanto illustrato alla fine del paragrafo precedente e dunque dalla considerazione per cui deve negarsi che la parte di un contratto possa proporre domande di adempimento o di risarcimento del danno conseguente ad asseriti inadempimenti nei riguardi del coniuge dell’altro contraente che sia mero destinatario ex lege dei relativi effetti, deriva che il coniuge (automaticamente) coacquirente non dovrebbe ritenersi legittimato passivo né litisconsorte necessario nei giudizi che concernano il mero negozio (cioè l’impugnazione o la responsabilità da contratto). 1.2. In realtà, e a ben vedere, il problema della legittimazione processuale e dell’eventuale esistenza di litisconsorzio necessario si pone in relazione a quei processi che, pur investendo il solo negozio di acquisto, sono suscettibili di incidere sull’effetto traslativo che il medesimo aveva eventualmente prodotto (o che lo stesso sarebbe stato astrattamente idoneo a produrre, in caso di sua validità). 1.3. Così, per ciò che attiene, ad esempio, alle domande dirette all’accertamento della simulazione, la Cassazione ha affermato che il coniuge rimasto estraneo «alla stipulazione dell’atto di compravendita, non è litisconsorte necessario nel giudizio promosso dal venditore per l’accertamento della simulazione del contratto, perché l’inclusione del bene nella comunione legale ai sensi dell’art. 177 cod. civ. costituisce un effetto ope legis dell’efficacia e validità del titolo di acquisto» (Cass.,17 ott. 1992/11428). 1.4. Per converso, un giudice di merito (T Potenza 7 dic. 1989, D FAM, 1990, 1289) aveva stabilito che «La domanda giudiziale di simulazione assoluta di un acquisto immobiliare stipulato da un coniuge in regime di comunione legale va proposta sia nei confronti di questi, che dell’altro coniuge, dato che l’acquisto non può, contemporaneamente, non sussistere per il coniuge acquirente e sussistere per l’altro; pertanto, qualora la domanda sia stata avanzata solo nei confronti del primo, il giudice, trattandosi di un’ipotesi di litisconsorzio necessario, deve ordinare l’integrazione del contraddittorio ai sensi dell’art. 102 cod. proc. civ.». 1.5. Passando invece alle domande di annullamento, la Cassazione (Cass.,29 ott. 1992/11773, DGAA, 1993, II, 355) ha negato che il coniuge coacquirente ex lege di un immobile sia litisconsorte necessario «nel giudizio di annullamento del contratto di acquisto al quale è rimasto estraneo perché non è parte di tale contratto, dei cui effetti è solo beneficiario ope legis, né intestatario del bene acquistato (nella specie, trattavasi dell’azione di annullamento dell’atto di alienazione di un fondo già assegnato in base alle norme sulla riforma fondiaria, che si assumeva stipulato dall’assegnatario in violazione delle disposizioni degli articoli 4 e 8 della legge 29 mag. 1967 n. 379)». 1.6. Per contro, un giudice di merito (T Matera 26 nov. 1981, CBLP, 1983, 43) aveva in precedenza affermato la sussistenza della legittimazione passiva del coniuge coacquirente ex lege nell’azione di annullamento del contratto d’acquisto, poichè «i beni acquistati in costanza di matrimonio sono assoggettati alla comunione legale, ove non risulti diversa convenzione». 1.7. Potrà dunque rilevarsi che sul punto l’indirizzo della Corte di legittimità sembra nel senso che, come rilevato da una decisione del 1999, «Nelle controversie che abbiano ad oggetto la validità o efficacia del titolo dell’acquisto di un bene, compiuto ‘separatamente’ dal coniuge in regime di comunione legale, l’altro coniuge, rimasto estraneo alla formazione dell’atto e non intestatario del bene, non è litisconsorte necessario, giacché l’inclusione del bene nella comunione costituisce un effetto ope legis dell’acquisto compiuto» (Cass.,13 dic. 1999/13941).

Le cause di annullamento del contratto d’acquisto

 

 
 


32. Segue: b) Legittimazione passiva e litisconsorzio necessario nelle cause di rivendica e di retratto. 1.1. La casistica giurisprudenziale si è anche dovuta confrontare con azioni di rivendica proposte da terzi su beni in comunione. Qui la Cassazione, analogamente a quanto deciso in relazione alle cause sulla validità del titolo (v. supra sub § 31), ha negato la necessità di integrazione del contraddittorio nei confronti del coniuge destinatario del mero effetto ex lege, atteso che «l’eventuale inclusione del bene medesimo nella comunione, ai sensi dell’art. 177 primo comma lett. a) cod. civ., integra effetto ope legis di quell’acquisto o di quell’usucapione se ed in quanto perfezionatisi» (Cass.,20 mar. 1991/2983). 1.2. Rimane peraltro l’obiezione basata sulla considerazione per cui nelle cause sull’accertamento della proprietà occorre necessariamente che tale accertamento sia compiuto nei confronti di tutti i possibili coinvolti, pena l’inopponibilità del giudicato nei riguardi degli estranei al processo (e sul punto si tenga presente che al coniuge, non qualificabile alla stregua di un avente causa, il giudicato non potrebbe essere opposto neppure ex art. 2909 c.c.). 1.3. La testé evidenziata regola enunciata dalla Cassazione nella pronunzia appena citata si pone in contrasto rispetto alla ratio decidendi di una sentenza di poco precedente. In tale caso la Corte aveva stabilito che «Nel giudizio di riscatto, promosso dal conduttore di immobile destinato ad uso diverso da quello di abitazione, ai sensi dell’art. 39 della legge 27 lug. 1978 n. 392, nei confronti di colui che dall’atto di vendita risulti acquirente dell’immobile stesso, è litisconsorte necessario il coniuge del predetto acquirente, qualora tra i due coniugi sussista il regime di comunione legale, poichè gli acquisti compiuti da uno dei coniugi, anche separatamente, operano a vantaggio dell’altro, il quale diventa automaticamente proprietario del bene acquistato in ragione della metà; con la conseguenza che tutte le azioni di natura reale avente per oggetto il bene stesso e quindi anche quelle di riscatto con le quali si tende ad ottenere una sentenza che riconosca il diritto di proprietà dello immobile in capo al conduttore, con effetti reali, validi erga omnes, ed in particolare nei confronti di tutti gli acquirenti dello stesso immobile debbono essere proposte nei confronti di entrambi i coniugi, giacché, in mancanza, la sentenza, non potendo spiegare effetti nei confronti del coniuge che non abbia partecipato al giudizio, risulterebbe inutilmente pronunciata» (Cass.,5 mag. 1990/3741; per l’affermazione dell’esistenza di una situazione di litisconsorzio necessario tra coniugi in comunione quando la pronuncia è «destinata  ad  incidere su situazioni necessariamente comuni» v. anche Cass., 15 feb. 1999/1270). 1.4. La Cassazione è quindi pervenuta alle medesime conseguenze in una successiva decisione, sempre relativa ad un giudizio di riscatto promosso dal conduttore di un immobile destinato ad uso non abitativo ai sensi dell’art. 39 legge 27 lug. 1978 n. 392, nei soli confronti di colui che dall’atto di vendita risulti acquirente dell’immobile. In proposito la Corte ha affermato che il coniuge del predetto acquirente in regime di comunione è litisconsorte necessario, «poichè gli acquisti compiuti da uno di essi anche separatamente operano a vantaggio dell’altro, il quale diventa automaticamente proprietario del bene acquistato in ragione della metà, con la conseguenza che tutte le azioni di natura reale aventi per oggetto il bene stesso e quindi anche quelle di riscatto con le quali si tende ad ottenere una sentenza che riconosca il diritto di proprietà dell’immobile locato al conduttore con effetti reali erga omnes (ed in particolare nei confronti di tutti gli acquirenti dello stesso immobile) debbono essere proposte nei confronti di entrambi i coniugi, giacché in mancanza la sentenza, non potendo spiegare effetti nei confronti del coniuge che non abbia partecipato al giudizio, risulterebbe inutiliter data» (Cass.,5 giu. 1995/6299). 1.5. L’indirizzo di cui sopra è stato quindi ulteriormente confermato da una successiva decisione, secondo cui «Il conduttore deve esercitare, nel termine di decadenza, il riscatto di un immobile ad uso diverso dall’abitazione anche nei confronti del coniuge dell’acquirente, in regime di comunione legale dei beni, litisconsorte necessario in quanto ne diviene automaticamente comproprietario, pur se nell’atto di trasferimento non è menzionato; a tal fine egli ha l’onere di verificare tempestivamente non solo i registri immobiliari, ma anche quelli dello stato civile per accertare se l’acquirente è coniugato e con quale regime patrimoniale, perché la decadenza del riscatto non è interrotta dall’esercizio dell’azione nei confronti di un solo coniuge, essendo la normativa della prescrizione applicabile soltanto dopo l’impedimento della decadenza, né dalla tempestiva esecuzione dell’ordinanza di integrazione del contraddittorio nei confronti dell’altro coniuge, necessaria per l’ammissibilità dell’azione di riscatto, ma ininfluente sul termine di decadenza spirato» (Cass.,29 mag. 1998/5340). 1.6. Analoga ratio decidendi si pone alla base di una decisione in materia di azione di riscatto di un fondo rustico da parte del proprietario di un fondo finitimo, coltivatore diretto, titolare di diritto di prelazione ex lege. Sul punto le Sezioni Unite della Corte hanno stabilito che l’acquisto, da parte di uno dei coniugi in regime di comunione legale, di un bene (nella specie, un fondo rustico) successivamente oggetto di una azione di riscatto da parte di un terzo (nella specie, il proprietario del fondo finitimo, coltivatore diretto), deve ritenersi ipso iure esteso, con efficacia ex tunc, anche all’altro coniuge, con conseguente determinazione di una situazione di titolarità, rispetto alla res, dal carattere unitario ed inscindibile, sulla quale andrà, per l’effetto, ad incidere l’esercizio del riscatto, così che la relativa domanda giudiziale non potrà dirsi legittimamente proposta se non nei confronti di entrambi i coniugi, secondo i principi propri del litisconsorzio necessario, senza che a tanto osti la natura (meramente dichiarativa) dell’azione di riscatto, astrattamente non incompatibile con l’istituto di cui all’art. 102 cod. proc. civ., implicando il rapporto dedotto in giudizio una situazione sostanziale di tipo plurisoggettivo tanto sul piano genetico quanto su quello funzionale, il cui accertamento (la cui modificazione, la cui estinzione) non può operare che nei confronti di tutti i soggetti che ne partecipano (Cass.,SU 1 lug. 1997/5895: v. supra sub §§ 3, 27). 1.8. Identica soluzione è stata poi fornita in relazione ad una domanda di retratto successorio: «L’acquisto da parte di uno dei coniugi in regime di comunione legale di una quota ereditaria in violazione del diritto di prelazione spettante ai coeredi si estende ipso iure all’altro coniuge e, conseguentemente, l’azione di riscatto esercitata dai coeredi ex art. 732, cod. proc. civ., comportando il trasferimento ex nunc della quota dal ritrattato al retraente, deve essere proposta nei confronti di entrambi i coniugi, sussistendo tra questi litisconsorzio necessario ex art. 102, cod. proc. civ.» (Cass.,14 mag. 2003/7404).

 

33. Segue: c) Legittimazione passiva e litisconsorzio necessario in altre azioni di carattere reale. 1.1. Sempre relativamente ad azioni di carattere reale è stato affermato dalla Cassazione che «Se un condomino agisce per la demolizione di un manufatto realizzato su un terreno in comproprietà con il coniuge del convenuto, ancorchè soltanto questi, secondo l’assunto dell’attore, sia l’autore delle opere, il contraddittorio deve essere integrato nei confronti di entrambi i comproprietari, essendo la pronuncia destinata ad incidere su situazioni necessariamente comuni, con la conseguenza che ove la nullità del giudizio per la mancata partecipazione di uno dei litisconsorti necessari venga fatta valere, la pronuncia deve essere annullata e le parti rimesse davanti al primo giudice» (Cass.,15 feb. 1999/1270). 1.2. Analogamente è stato deciso che «La domanda di demolizione di corpi di fabbrica abusivamente costruiti su un immobile acquistato da coniugi in regime di comunione legale, deve esser proposta nei confronti di entrambi, litisconsorti necessari, ancorchè non risultino dalla nota trascritta nei registri immobiliari né detto regime, né l’esistenza del coniuge, non trattandosi di questione concernente la circolazione dei beni e l’anteriorità dei titoli, bensì di azione reale, che prescinde perciò dall’individuazione dell’autore materiale dei lamentati abusi edilizi. La eventuale violazione del contraddittorio è deducibile anche per la prima volta in sede di legittimità, se risultante dagli atti e non preclusa dal giudicato sulla questione» (Cass.,20 mar. 1999/2610). 1.3. Anche relativamente alla domanda di divisione proposta da un comproprietario relativamente a cespiti in comproprietà con un soggetto coniugato in regime di comunione legale è stato deciso che «La divisione di un bene comune va annoverata tra gli atti eccedenti l’ordinaria amministrazione. Pertanto, ai sensi dell’art. 180, secondo comma, cod. civ., come sostituito dalla legge n. 151 del 1975 sulla riforma del diritto di famiglia, qualora del bene da dividere siano comproprietari, assieme ad altri, due coniugi in regime di comunione legale, la rappresentanza spetta congiuntamente ad entrambi, con la conseguenza che entrambi sono litisconsorti necessari, ex art. 784 cod. proc. civ., nel giudizio divisionale da chiunque promosso» (Cass.,21 gen. 2000/648).

 

34. Segue: d) Conclusioni in tema di legittimazione passiva e litisconsorzio necessario. 1.1. Sulla base della disamina sopra condotta della giurisprudenza di legittimità e delle considerazioni svolte, non sembra azzardato trarre qualche conclusione di carattere generale circa gli interrogativi posti in tema di legittimazione passiva e litisconsorzio necessario. La prima distinzione da tenere presente è certamente quella tra carattere reale o personale dell’azione. Ciò nel senso che, sicuramente, il carattere reale dell’azione proposta da un terzo, investendo il profilo del diritto dominicale sul bene, dovrebbe sempre determinare una situazione di litisconsorzio necessario tra i coniugi. 1.2. Per quanto attiene invece alle azioni personali, ed in particolare a quelle relative al contratto che si pone quale fonte dell’acquisto in relazione al quale si sia determinato il coacquisto automatico in capo al coniuge in comunione, il discorso si presenta sicuramente più articolato. 1.3. Mentre non paiono sussistere dubbi sull’assenza di litisconsorzio necessario nel caso l’azione del terzo investa profili che non travolgono gli effetti traslativi del negozio (si pensi a petita quali la condanna del compratore al pagamento del prezzo o al risarcimento dei danni per inadempimento o per responsabilità precontrattuale), i casi più controversi concernono quelle azioni che, pur investendo il solo negozio, appaiono idonee a travolgerne gli effetti (si pensi a petita quali quelli volti all’accertamento della nullità, alla pronunzia dell’annullamento, della risoluzione, della rescissione o comunque dell’inefficacia del negozio). 1.4. Qui occorre tenere presente che, mentre, da un lato, il venire meno del negozio pone nel nulla l’effetto traslativo, così eliminando uno dei presupposti indefettibili per l’acquisto automatico del coniuge, dall’altro, la relativa pronunzia rischia di apparire come inutiliter data nei riguardi di quest’ultimo, ove non sia stato parte del processo, con l’ulteriore e già evidenziata caratteristica data dall’impossibilità di opporre al coniuge il giudicato ex art. 2909 c.c., non potendosi tale soggetto ritenere alla stregua di un avente causa dal coniuge acquirente. Proprio queste ragioni sembrano consigliare quanto meno un’estensione del contraddittorio ex art. 106 c.p.c., al fine di evitare che la decisione resa alla fine della procedura risulti non opponibile al coniuge in regime di comunione dei beni. 1.5. La conclusione testé enunciata potrebbe poi trovare una deroga nel caso di scindibilità degli effetti della pronuncia. Si può pensare al riguardo all’ipotesi del preliminare di vendita di bene comune stipulato da un solo coniuge e della successiva azione ex art. 2932 c.c. proposta dal terzo nei riguardi del solo promittente venditore. In tale ipotesi la Cassazione ha stabilito che «Nel caso in cui uno solo dei coniugi abbia promesso in vendita l’immobile di cui anche l’altro coniuge sia comproprietario, quest’ultimo non è contraddittore necessario nella causa promossa dal promissario acquirente nei confronti del coniuge promittente venditore per ottenere l’esecuzione specifica dell’ obbligo di concludere il contratto (art. 2932 cod. civ.), atteso che l’azione relativa non ha natura reale ma personale, in quanto diretta a far valere un diritto di obbligazione nascente da un contratto, e, pertanto, è esperibile nei soli confronti di chi ha assunto l’obbligazione, al fine di conseguire una pronuncia che disponga il trasferimento del bene limitatamente alla quota di sua pertinenza. Tale principio non trova deroga per il caso in cui si tratti di immobile oggetto di comunione legale, nella disciplina del diritto di famiglia introdotta dalla legge 19 mag. 1975 n. 151, posto che la quota del coniuge non obbligato resta indenne dall’azione del creditore dell’altro coniuge (art. 189, nuovo testo, cod. civ.)» (Cass.,28 dic. 1988/7081). 1.6. Sul medesimo argomento si noti peraltro che la stessa Corte ha invece in altra occasione negato che possa essere proposta la domanda di esecuzione specifica, ai sensi dell’art. 2932 c.c., limitatamente alla quota di proprietà del promittente venditore, «dovendo la sentenza costitutiva, prevista dal citato art. 2932, riprodurre il medesimo assetto di interessi assunto dalle parti quale contenuto del contratto preliminare, senza possibilità di introdurvi modifiche» (così Cass.,19 mag. 1988/3483, NGCC, 1989, I, 231 ss.; alle medesime conclusioni è giunta pure – anche se argomentando dalla natura asseritamente di «comunione senza quote» dell’istituto in esame – Cass.,14 gen. 1997/284, la quale ha rilevato «che era stata omessa l’integrazione del contraddittorio nei confronti del coniuge del promittente venditore, la cui posizione era inevitabilmente coinvolta in una controversia che doveva avere ad oggetto l’immobile nel suo intero, stante l’inconcepibilità dell’ingresso di estranei nella comunione e la conseguente impossibilità di trasferimento della sola quota del coniuge promittente»).

 

35. Effetti del carattere ex lege dell’acquisto del coniuge, in relazione ad eventuali divieti di comprare. 1.1. Il fenomeno del coacquisto automatico può determinare problemi di coordinamento con una serie di disposizioni che vietano a determinati soggetti di rendersi acquirenti di certi diritti, in considerazione della particolare posizione dei soggetti medesimi. Si pensi, ad esempio, a quanto disposto dagli artt. 1471 c.c. in tema di vendita, 323 c.c. in materia di potestà dei genitori e 378 c.c. con riguardo agli atti vietati al tutore ed al protutore. Si tratta, in altri termini, di stabilire se la caduta in comunione possa ritenersi operante nel caso in cui ad acquistare non sia il soggetto colpito dal divieto, ma il di lui coniuge, in regime di comunione legale. 1.2. Alcuni degli interrogativi posti possono ricevere risposta già sulla base della considerazione delle norme che pongono tali divieti. Così, l’art. 1471 c.c. pone il divieto di rendersi «compratore», laddove è chiaro che tale non è il destinatario dell’effetto ex art. 177 lett. a) c.c. Gli artt. 323 e 378 c.c., dal canto loro, usano un’espressione più ampia: «rendersi acquirenti direttamente o per interposta persona». Ora, se è vero che il coacquisto automatico potrebbe far pensare, a tutta prima, ad una sorta di impropria «interposizione di persona», è altrettanto vero che i fenomeni cui le norme citate – contenenti divieti di carattere eccezionale e dunque inestensibili analogicamente – sembrano fare richiamo sono quelli, ben diversi, dell’interposizione reale o di quella fittizia. 1.3. Sul tema potrà segnalarsi che la giurisprudenza di legittimità si è espressa in relazione alla previsione dell’art. 579 c.p.c. che, se da un lato nega al debitore esecutato la legittimazione ad effettuare offerte all’incanto relativamente ai beni esecutati, dall’altra, come rilevato dalla stessa Cassazione, non integra un divieto d’acquisto da parte del debitore: «In tema di espropriazione forzata immobiliare, la previsione dello art. 579 cod. proc. civ. denegativa per il debitore esecutato dalla legittimazione di fare offerte all’incanto che non integra un divieto dell’acquisto da parte del debitore costituendo norma eccezionale rispetto alla ‘regola’ stabilita dallo stesso art. 579 per la quale la legittimazione all’offerta compete ad ‘ognuno’, non può trovare applicazione analogica per altre ipotesi od a altri soggetti non considerati in detta norma, neppure con riguardo al coniuge del debitore ancorchè sussista tra i coniugi il regime di comunione legale dei beni previsto dagli artt. 177 e segg. cod. civ., sicché questi rientrando nell’ampia e onnicomprensiva categoria delineata dal richiamato art. 579 cod. proc. civ., è ammesso a fare offerte per l’incanto ed offerta di aumento del sesto dopo la aggiudicazione, senza che rilevi il fatto che, per volontà della legge, l’effetto traslativo del bene operato direttamente soltanto in capo a lui quale offerente aggiudicatario si ripercuota per la metà nel patrimonio del debitore esecutato» (Cass.,2 feb. 1982/605). 1.4. Una decisione di merito si è invece occupata dell’incidenza del regime legale sul fenomeno del retratto successorio, stabilendo che «La prevalente e cogente normativa di cui all’art. 177 cod. civ. esula dalle previsioni dell’art. 732 cod. civ.: non può pertanto esercitarsi il retratto successorio nell’ipotesi in cui un erede abbia venduto la propria quota ereditaria ad un coerede e la metà di tale quota sia pertanto passata ex lege al coniuge del compratore per effetto del regime di comunione legale dei beni vigente tra i coniugi» (T Verona 26 set. 1983, D FAM, 1983, 1073). Di fronte ad una fattispecie analoga, vent’anni dopo la Corte Suprema, senza affrontare il merito della questione, ha stabilito che «L’acquisto da parte di uno dei coniugi in regime di comunione legale di una quota ereditaria in violazione del diritto di prelazione spettante ai coeredi si estende ipso iure all’altro coniuge e, conseguentemente, l’azione di riscatto esercitata dai coeredi ex art. 732, cod. proc. civ., comportando il trasferimento ex nunc della quota dal ritrattato al retraente, deve essere proposta nei confronti di entrambi i coniugi, sussistendo tra questi litisconsorzio necessario ex art. 102, cod. proc. civ.» (Cass.,14 mag. 2003/7404).

 

36. Effetti del carattere ex lege dell’acquisto del coniuge, in relazione ad eventuali requisiti personali richiesti dalla normativa fiscale. 1.1. Il coacquisto automatico può dispiegare effetti anche in relazione alla normativa fiscale, laddove, ad esempio, questa preveda particolari agevolazioni a favore di determinati soggetti. Può infatti accadere che il soggetto in possesso di siffatti requisiti proceda all’effettuazione di un acquisto che in tal modo, ex art. 177 lett. a) c.c. venga a cadere in comunione con il coniuge, eventualmente non in possesso di questi requisiti. 1.2. In proposito va dato atto, innanzi tutto, di un primo periodo caratterizzato da incertezze nella giurisprudenza delle commissioni tributarie. Così la commissione tributaria di secondo grado di Matera (29 apr. 1986, BT, 1987, 424) ebbe a decidere che «Nell’acquisto in regime di comunione legale, il coniuge non costituito in atto assume la qualità di acquirente unitamente al coniuge stipulante, verificandosi, ope legis, la comproprietà del bene acquistato. L’indiscutibile effetto civilistico che deriva dalla stipulazione separata da parte di un solo coniuge in regime di comunione legale non può estendersi alla normativa dell’art. 2 della legge 168/1982 la quale richiede dall’acquirente e non dallo stipulante, la dichiarazione di poter godere dei benefici previsti. Non può infatti la dichiarazione del coniuge stipulante automaticamente valere per l’altro coniuge che potrebbe anche trovarsi in situazioni che ostacolano la concessione del beneficio. La mancanza della dichiarazione da parte del coniuge non stipulante rende pertanto legittima l’applicazione dell’ordinaria imposizione sulla quota di metà che al medesimo perviene ope legis». 1.3. In senso opposto la commissione tributaria di primo grado di Salerno (27 ott. 1989, C.E.D.-Corte di cassazione, Arch. MERITO, PD. 900156) stabilì che «Nelle ipotesi di acquisto di immobile effettuato da un coniuge in regime di comunione legale, deve ritenersi condizione necessaria e sufficiente per l’applicazione dei benefici di cui alla legge n. 118 del 1985, che i requisiti previsti dalle disposizioni agevolative sussistano per il coniuge che in contratto rivesta la qualità di acquirente. Pertanto non può essere dichiarata la decadenza dalle suddette agevolazioni, comprese quelle a favore dell’alienante agli effetti dell’INVIM, nel caso che detti requisiti non siano posseduti anche dal coniuge dell’acquirente». 1.4. Tale indirizzo è stato successivamente confermato dalla Corte di legittimità, la quale ha stabilito che «Nel caso di acquisto di appartamento ad uso abitativo da parte di uno dei coniugi in regime di comunione legale, l’altro ne diviene comproprietario ex art. 177 cod. civ. con diritto a fruire delle agevolazioni fiscali contemplate in relazione all’acquisto della ‘prima casa’, anche se sprovvisto dei requisiti di legge, sussistenti solo in capo al coniuge acquirente» (Cass.,28 ott. 2000/14237; nello stesso senso cfr. anche Cass.,26 giu. 2001/8463).

 

37. Effetti del carattere ex lege dell’acquisto del coniuge, in relazione ad eventuali situazioni di incapacità. 1.1. Un altro problema posto dal fenomeno dell’acquisto automatico concerne la possibilità che il coniuge coacquirente ex lege si trovi in situazione di incapacità o di semi-incapacità. Si noti, sul punto, che il sopravvenire di una di tali situazioni non determina ipso facto lo scioglimento del regime legale: cfr. artt. 183 e 193 c.c. D’altro canto è assolutamente pacifico che la celebrazione di matrimonio da parte di minore autorizzato ex art. 84 c.c. senza la stipula di una convenzione in deroga determina ex art. 159 c.c. l’instaurazione del regime legale anche in tale ipotesi e dunque con un soggetto (il minore emancipato, appunto) in situazione di semi-incapacità. 1.2. Ora, partendo dal presupposto che tutte le disposizioni relative alla necessaria rappresentanza o assistenza da parte di soggetto (genitore, tutore, curatore, curatore provvisorio) munito di autorizzazione giudiziale si riferiscono ad attività negoziali da porsi in essere per l’incapace o il semi-incapace, e che l’effetto descritto dall’art. 177 lett. a) c.c. è frutto della semplice applicazione di una norma di legge (e non già di una manifestazione di volontà negoziale), sembra potersi trarre la conseguenza che l’effetto del coacquisto automatico non sia inibito dalla presenza, in capo al coniuge non agente, di una situazione di incapacità o di semi-incapacità. 1.3. A conferma di tale conclusione giunge la considerazione per cui la disciplina a tutela degli incapaci è generalmente riconosciuta come inapplicabile ai casi di acquisto a titolo originario (così Jannuzzi, op. cit., 357) cui, pur con i dovuti distinguo, è pur sempre avvicinabile il fenomeno del coacquisto automatico.

Inapplicabilità al coacquisto ex lege della normativa in tema di incapaci e semi-incapaci

 

 
 


38. Il carattere «gratuito» del coacquisto. 1.1. Il coacquisto automatico a beneficio del coniuge non agente in regime di comunione dei beni si verifica sicuramente a prescindere non solo dal contributo fornito al ménage familiare (v. supra sub § 9), ma anche da quello relativo all’acquisto in sé considerato. In altri termini, è del tutto indifferente che il coniuge coacquirente ex lege abbia o meno versato parte del prezzo corrisposto per l’acquisto. Il dato può dirsi pacifico tanto in dottrina (sul tema v. per tutti Schlesinger 1992, 93 s.) che in giurisprudenza (cfr. ad es. Cass.,16 dic. 1993/12439, secondo cui «La comunione legale fra coniugi, ai sensi dell’art. 177 primo comma lett. a) cod. civ., riguarda gli ‘acquisti’ compiuti durante il matrimonio, indipendentemente dalla provenienza delle risorse che li abbiano consentiti»; v. inoltre Cass.,18 giu. 1992/7524, D FAM, 1993, 75, in motivazione; Cass.,27 feb. 2003/2954, in motivazione; T Catania 21 apr. 1987, D FAM, 320). 1.2. Siffatta irrilevanza del contributo prestato (o non prestato) dal coniuge coacquirente ex lege non è però tale da consentire di ritenere tecnicamente l’acquisto come effettuato a titolo gratuito. Non va infatti dimenticato che trattasi di effetto legale e che, pertanto, l’aggettivo «gratuito» può qui avere una valenza esclusivamente impropria. 1.3. La dottrina nega che l’acquisto di un bene con denaro comune, con l’assunzione di un debito personale o con beni in comunione de residuo possa considerarsi alla stregua di una donazione (e come tale sia soggetto a collazione): «Il meccanismo predisposto dall’art. 177, lett. a, esclude, difatti, che si possa parlare in termini di arricchimento o depauperamento di ciascuno dei coniugi, per effetto degli acquisti che, sebbene ‘compiuti’ da uno solo di essi, giovano ad entrambi. Giustamente si è detto, in proposito, che ciascun acquisto a favore della comunione non può essere valutato isolatamente, ma si inserisce nel sistema di attribuzioni potenzialmente reciproche proprio della comunione legale e trova comunque giustificazione nel valore anche patrimoniale della reciproca collaborazione coniugale» (Schlesinger 1992, 95). 1.4. In effetti, il beneficio ricavato dal coniuge estraneo all’atto di acquisto è conseguenza non già di una qualche «liberalità» da parte del coniuge agente, bensì di una volontà legislativa indirizzata a valutare i redditi individuali conseguiti post nuptias – sebbene lasciati nella esclusiva disponibilità del coniuge percettore – come potenzialmente destinati a favore della coppia, cosicché ogni acquisto realizzato utilizzandoli attualizza quella forma di «destinazione» e non consente una qualifica in termini di «arricchimento» dell’uno o dell’altro coniuge (Schlesinger 1992, 95). 1.5. Diverso sarebbe invece il discorso nel caso di acquisto di bene con denaro o utilità personali senza l’impiego degli accorgimenti previsti dall’art. 179 lett. f) c.c. Qui si è rilevato che l’acquisto a favore della comunione, lungi dal porsi come un risultato necessitato, determinato ex lege, dipende esclusivamente dal comportamento dell’interessato. Anche in tal caso, peraltro, al fine di valutare se si possa parlare di una «liberalità», sotto forma di donazione indiretta, realizzata dal coniuge autore dell’atto, in favore del partner, occorre considerare che l’omissione della dichiarazione necessaria per escludere l’acquisto dalla comunione potrebbe benissimo non dipendere da un intento liberale, e neppure da una consapevole scelta, ma essere soltanto frutto di semplice ignoranza, errore o negligenza. Di conseguenza la disciplina in tema di liberalità andrebbe applicata nel caso di concreto accertamento dell’esistenza di un animus donandi (Schlesinger 1992, 95; sul tema v. anche Bianca, Comunione legale e collazione, VN, 1981, 805 ss.; Santosuosso, op. cit., 172; Oppo, Acquisti alla comunione coniugale e pregiudizio dei creditori personali, in Aa. Vv., Scritti in onore di R. Nicolò, Milano, 1982, 38 s.). 1.6. Problema in qualche modo connesso a questo sarebbe quello relativo alla eventuale natura di liberalità di un atto di rifiuto preventivo di coacquisto nel caso in cui i coniugi, di comune intesa, volessero utilizzare denaro comune per un acquisto a vantaggio di uno solo di essi (sull’ammissibilità di tale operazione v. sub art. 179 c.c.).

 

39. Ipotesi di conflitto tra più acquisti automatici ex lege. 1.1. Un’ultima questione attinente al fenomeno dell’acquisto automatico può porsi relativamente ad ipotizzabili conflitti con altri fenomeni di acquisto automatico descritti dal vigente ordinamento. Si pensi alla fattispecie descritta dall’art. 1478 cpv. c.c., in forza della quale, in caso di vendita di cosa altrui, «Il compratore diventa proprietario nel momento in cui il venditore acquista la proprietà dal titolare di essa». 1.2. Se dunque Tizio, coniugato in regime di comunione dei beni, aliena a Caio un bene di proprietà di Sempronio ed acquista quindi il bene da quest’ultimo nel momento in cui lo stesso Tizio è coniugato in regime di comunione legale con Mevia, in relazione allo stesso diritto dominicale vengono a determinarsi due distinti trasferimenti automatici ex lege: uno in favore di Caio (ex art. 1478 cpv. c.c.) e l’altro (pro quota) in favore di Mevia (ex art. 177 lett. a) c.c.). I due effetti appaiono ictu oculi tra di loro incompatibili. 1.3.  Neppure può ipotizzarsi che, poiché il diritto dominicale transita, anche se per un solo istante, nel patrimonio di Tizio, esso cada in comunione, così determinando l’applicazione dell’art. 1478 c.c. per la sola quota, per l’appunto, di Tizio. Invero, una situazione del genere darebbe luogo ad una comunione legale tra due soggetti (Mevia e Caio) non legati da coniugio, in palese contrasto con il presupposto fondamentale dell’istituto ex artt. 177 ss. c.c. 1.4. La soluzione può forse rinvenirsi nella considerazione per cui il transito del diritto di proprietà sul bene altrui nel patrimonio del venditore, descritto dall’art. 1478 c.c., è puramente «servile» e finalizzato all’acquisto della proprietà in capo al compratore, per cui il coniuge del venditore di cosa altrui non coacquista ex art. 177 lett. a) c.c. 1.5. Un problema in un certo senso analogo può infine porsi in relazione al disposto dell’art. 1706 c.c., in tema di mandato senza rappresentanza (ad acquistare) qualora il mandatario senza rappresentanza abbia acquistato trovandosi in regime di comunione legale. Qui, in caso di acquisto di beni mobili, il doppio trasferimento automatico in favore del mandante, presupposto dal primo comma di tale disposizione, sembra potersi risolvere con la stessa considerazione che ci ha portati ad escludere l’operatività dell’art. 177 lett. a) c.c. (acquisto diretto in capo al mandante ed inapplicabilità dell’art. 177 lett. a) c.c. in favore del coniuge del mandatario). 1.6. Per quanto attiene invece ai beni immobili ed ai mobili iscritti in pubblici registri, non vi è dubbio che un trasferimento automatico verso il mandante non abbia luogo e che pertanto il coniuge del mandatario coacquisti ex lege ex art. 177 lett. a) c.c. (esclude invece dalla comunione gli acquisti effettuati nell’interesse di terzi, come i negozi fiduciari e simulati o le interposizioni fittizie o reali Barbiera 1996, 452 s.). Il mandatario sarà perciò obbligato (sotto pena, evidentemente, del risarcimento dei danni) a far sì che il proprio coniuge presti il consenso al trasferimento, mentre il rimedio ex art. 2932 c.c. non sembra in tale ipotesi esperibile. 1.7. Questa tesi sembra essere stata fatta propria dalla Cassazione (Cass.,18 giu. 1992/7524, D FAM, 1993, 75), che ha affermato l’inopponibilità dell’interposizione reale al coniuge dell’interposto, cui è stato riconosciuto il diritto di esperire proficuamente l’azione di annullamento ex art. 184 c.c. di un preliminare volto al trasferimento del bene dall’interposto all’interponente. 1.8. Si noti che, che nei casi in esame, si verterà sovente in tema di esercizio di attività separata, per cui l’acquisto sarà da escludersi dalla comunione attuale ex art. 177 lett. c) c.c.

 

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