I
1. La comunione legale tra coniugi come regime. Le varie
tesi sulla natura della comunione. 1.1. Ai sensi dell’art. 159 c.c. la comunione legale tra coniugi, quale
regime patrimoniale legale della famiglia italiana, sorge automaticamente con il perfezionarsi del vincolo coniugale,
salvo diversa convenzione matrimoniale. Essa, nonostante sia definita dalla
lettera dell’art. 159 c.c., nonché dalla rubrica e dal testo dell’art. 210 c.c.
(cfr. inoltre art. 211 c.c.), quale «comunione dei beni» o «comunione legale dei
beni», segue il modello della comunione
degli acquisti, rimanendo esclusi i beni acquistati dal singolo coniuge
anteriormente al matrimonio, nonché altri rientranti nelle categorie previste
dall’art. 179 c.c., così come quelli oggetto di comunione non immediata ma solo
de residuo, sottoposti alla regola
della caduta in comunione solo se ed in quanto sussistano al momento dello
scioglimento del regime legale (v. per tutti Schlesinger
1977, 361 ss.; Corsi 1979,
53 ss.; Grasso 1982, 378 ss.; Nuzzo 1984, passim; Bianca 1985,
59 ss.; Schlesinger 1992, 69 ss.; Auletta 1999, 3 ss.; Spitali 2002, 87 ss., ai quali si
rimanda anche per una più ampia bibliografia). 1.2. Alla nozione di comunione legale possono essere attribuiti
diversi significati. Essa, infatti, può essere intesa come «regime
patrimoniale», cioè come disciplina
tipica dei rapporti patrimoniali fra coniugi, così come complesso dei beni
appartenenti ai coniugi il cui acquisto sia avvenuto, per l’appunto, in base
alla regola dettata dall’art. 177 c.c. Per ciò che attiene in particolare al
profilo del regime si è
autorevolmente messo in luce (Schlesinger
1992, 79) che la comunione legale non attiene (soltanto) al profilo statico, relativo alla
disciplina di quanto forma già parte della comunione, ma opera (anche e
soprattutto) sul profilo dinamico,
in quanto riguarda tutti i futuri acquisti che i coniugi compiranno, insieme o
separatamente, fin quando non intervenga una causa di scioglimento della
comunione (art. 191 c.c.). 1.3. Uno
degli argomenti che hanno suscitato più discussioni in materia di comunione
legale tra coniugi è senz’altro quello dell’individuazione della sua natura. Si riuniscono sotto questo
concetto tutte le tesi che tendono a risolvere il problema della collocazione
sistematica dell’istituto in esame, con particolare riferimento ai rapporti
dello stesso con la categoria della comunione disciplinata nel libro III del
codice civile. 1.4. Le varie tesi
elaborate al riguardo possono essere così schematizzate: (a) la comunione
legale è una fattispecie a formazione
progressiva, che si perfeziona solo al momento del suo scioglimento,
producendo solo in tale sede i suoi effetti tipici (la tesi è conosciuta anche
come tesi della comunione quale «mero vincolo»); (b) la comunione legale è una
forma di comproprietà solidale (o «a
mani riunite»); (c) la comunione legale è un soggetto di diritto, distinto dai due coniugi, con un proprio
patrimonio, una propria autonomia negoziale ed una propria capacità
processuale; (d) la comunione legale è un patrimonio
destinato ad uno scopo; (e) la comunione legale è una forma di contitolarità di diritti (per più ampi
richiami sul punto v. A.-M. Finocchiaro
1984, 849 ss.; Auletta 1999, 19
ss.).
2. La comunione legale come fattispecie a formazione
progressiva (o come vincolo). 1.1.
La tesi che configura la
comunione legale alla stregua di una fattispecie a formazione progressiva, consistente nella presenza di un mero vincolo sui beni acquistati
dall’uno o dall’altro dei coniugi in costanza di regime, salvo il completamento
della fattispecie medesima all’atto del verificarsi di una causa di
scioglimento del regime stesso, sembra trovare una sua remota giustificazione
nell’originaria concezione dell’istituto in esame. 1.2. Già i dottori del droit
coutumier francese, preso atto dei penetranti poteri che competevano allora
al marito sui beni della comunione coniugale (quali, per esempio, quello di
disporre a suo piacimento dei beni, anche a titolo gratuito, laddove alla
moglie non era concesso compiere alcun atto di tipo dispositivo), negavano alla
moglie lo status di comproprietaria.
«Non est proprie socia, sed speratur fore», affermava Molineo commentando
l’art. 225 della Coutume di Parigi,
mentre Pothier, nel suo Traité de la
communauté, sosteneva che durante il rapporto coniugale il marito era «le
seul seigneur et maître absolu des biens dont elle [i.e.: la communauté] est composée», laddove il diritto della moglie
era semplicemente «un droit informe, qui se reduit au droit de partager un jour
les biens qui se trouveront la composer [i.e.:
composer la communauté] lors de sa dissolution» (su questi temi v. per tutti Baudry-Lacantinerie, Le Courtois e Surville, Del contratto di matrimonio, Trat. Baudry-Lacantinerie, Milano,
s.d. ma 1909, 257). 1.3. Le poche
righe che precedono dimostrano come la costruzione di comunione legale alla
stregua di una situazione di mero vincolo, destinato a sfociare in un vero e
proprio diritto solo al momento dello scioglimento del regime, si giustifichi
solo in un sistema fondato su di una profonda
disparità tra marito e moglie nell’esercizio dei poteri di amministrazione,
disparità che oggi non si giustifica più in alcun modo. Peraltro, anche dopo la
riforma del 1975, non è mancato chi ha proposto in Italia una ricostruzione del
regime di comunione tale da ridurlo ad una mera situazione di vincolo (manente communione). 1.4. Ci si intende qui riferire alla
proposta di intendere la comunione alla stregua, per l’appunto, di una fattispecie a formazione progressiva, i
cui elementi sarebbero, in successione, i seguenti: matrimonio, acquisto dei
beni, scioglimento del regime di comunione. Conseguenza sarebbe che solo il
compimento di tutti i suddetti elementi potrebbe indurre a ritenere realizzata
la fattispecie «comunione legale», essendo nel frattempo i coniugi titolari di
una semplice aspettativa. 1.5. Ciò varrebbe in maniera
particolare per gli acquisti compiuti dagli stessi coniugi separatamente, che
non cadrebbero immediatamente sotto la contitolarità del coniuge non agente. In
pendenza di regime non esisterebbe se non un vincolo di inalienabilità a carico dell’unico acquirente, mentre e
solo con il completamento della fattispecie in sede di scioglimento il coniuge
non agente acquisterebbe un diritto avente ad oggetto l’equivalente del 50% del
patrimonio «comune» ex art. 177 c.c.
Un argomento a favore di questa opinione sarebbe costituito dalla
considerazione secondo cui lo scioglimento del regime legale, ex art. 191 c.c., determina
esclusivamente la cessazione del regime e del fenomeno del «coacquisto
automatico», senza comportare automaticamente la divisione dei cespiti comuni
(cfr. Mazzola-Re, Proposta di un diverso modo di intendere la
comunione di beni tra coniugi, RN, 1978, 757 ss.; Barbiera 1996, 470 ss.; per ulteriori richiami si fa rinvio
ad Auletta 1999, 19 ss.). 1.6. La
tesi ha avuto un limitatissimo seguito nella giurisprudenza di merito. In particolare il tribunale di Ivrea (T
Ivrea 27 giu. 1978, RD IP, 1979, 66; la
motivazione si legge anche in Caravaglios
1995, 30 ss.), ha affermato che «Contro la tesi, per cui la comunione
legale fra i coniugi è una comunione ordinaria qualificata e determinante ope legis fra i coniugi la contitolarità
per quote eguali di ogni bene che vi ricada, è sostenibile la tesi per cui la
comunione fra i coniugi rende possibile la formazione di un patrimonio distinto
dai patrimoni personali, costituito ope
legis dagli acquisti compiuti da un solo coniuge o da entrambi, vincolato
all’interesse della famiglia, sul quale i coniugi vantano poteri uguali e complementari.
Prima dello scioglimento della comunione ciascun coniuge, quand’anche sia
l’acquirente esclusivo di un bene entrato a formare il patrimonio distinto, non
è titolare di un diritto reale, bensì di un’aspettativa
a conseguire un valore pari al cinquanta per cento del patrimonio in comunione;
per effetto dello scioglimento della comunione, questa aspettativa diviene
diritto ad una ripartizione contabile che non implica necessariamente lo
spostamento della precedente titolarità dei beni». 1.7. Numerose sono le obiezioni
che possono muoversi a questa teoria. Già il fatto che la legge parli di «scioglimento» del regime legale e di
«comunione» induce a ritenere che qui si versi in una situazione di
contitolarità di diritti e non già di proprietà individuale. In secondo luogo,
non v’è chi non veda come la negazione di una situazione di contitolarità non
contribuirebbe certo alla realizzazione della ratio ispiratrice della riforma, volta ad assicurare ad un coniuge
l’effettiva compartecipazione agli incrementi di ricchezza operati dall’altro.
Una partecipazione, si badi, tutelabile anche manente communione mediante un’apposita azione di rivendica, la cui domanda ben potrebbe
essere trascritta sui registri immobiliari al fine di rendere noto a chiunque
il rischio di perdere il diritto conseguito in base ad eventuali atti di
alienazione posti in essere dal coniuge apparente unico titolare. 1.8. A ciò s’aggiunga che
l’accoglimento di questo punto di vista rischierebbe di far venir meno ogni distinzione tra comunione immediata (art. 177,
lett. a) e d) c.c.) e comunione de residuo (artt. 177, lett. b) e
c), 177 cpv., 178 c.c.), situazione, quest’ultima, in cui effettivamente il
coniuge non titolare di alcun diritto sino al momento dello scioglimento vede a
questo punto realizzata (peraltro solo su ciò che resta, e sempre a condizione
che resti) la sua «aspettativa». 1.9.
Infine, proprio parlando di aspettative,
il richiamo a tale figura in subiecta
materia appare comunque fuori luogo. E’ noto infatti che l’art. 1356 c.c.
concede al titolare di siffatta posizione giuridica soggettiva solo il potere
di compiere atti conservativi, laddove tali non possono certo considerarsi
quegli atti in cui si estrinsecano i poteri di amministrazione che
paritariamente competono ad entrambi i coniugi sulla massa dei beni in
comunione ex artt. 180 ss. c.c., per
non dire poi del mezzo di tutela ex
art. 184 c.c., del tutto impensabile quale usbergo di una mera situazione
d’aspettativa (per ulteriori critiche al riguardo v. Schlesinger
1992, 81 s. e Auletta
1999, 19 ss.).
3. La comunione legale quale ipotesi di comproprietà
solidale: a) La tesi della Corte costituzionale e della Cassazione. 1.1. La
tesi che configura la comunione legale alla stregua di una situazione di
comproprietà solidale di tipo germanico «a mani riunite» (zur gesammten Hand: letteralmente «a mano comune») annovera qualche
sporadico – ancorché autorevole – precedente dottrinale. Invero, già sotto il
vigore del c.c. 1865, allorquando l’istituto in esame formava oggetto di un
regime meramente convenzionale, Fr. Ferrara Sen. (Teoria delle persone giuridiche, Napoli-Torino, 1915, 486)
affermava testualmente che la comunione coniugale era una «forma di comunione di diritto germanico», in
considerazione del fatto che essa «nasce per influenza d’un vincolo personale
che avvolge i soggetti, e muore con lo sciogliersi di questo vincolo». «Durante
questa comunione – continuava l’eminente civilista – non esistono delle quote parti di diritto spettanti a ciascuno degli
sposi, ma la delimitazione si effettua solo allo scioglimento.
Conseguentemente niuno degli sposi, finché dura la comunione, può alienare la
sua parte al patrimonio a favore di terzi, né i creditori particolari di quelli
possono provocarne lo scioglimento per farla realizzare. E’ esclusa l’azione di
divisione. Il patrimonio è goduto in comune senza alcuna ripartizione, e la
gestione è condotta dal marito a comune profitto e perdita. Il patrimonio forma
una massa unica con propria responsabilità». 1.2. Già sulla base di queste battute preliminari appare evidente
la difficoltà di utilizzare simili osservazioni per una ricostruzione in
termini di comproprietà a mani riunite della comunione legale, così come la
conosciamo oggi. Per esempio, non è certo più vero che questo tipo di comunione
sia caratterizzata da una gestione
rimessa ad un solo soggetto (il marito), né che il patrimonio formi una massa unica con una propria
responsabilità distinta da quella dei coniugi (cfr. quanto disposto dagli artt.
186-190 c.c.), né che i creditori personali non possano provocare lo
scioglimento del regime, dal momento che tale risultato è ottenibile mercé la
pronunzia di fallimento di uno dei coniugi. 1.3. La concezione in esame ha peraltro ricevuto un autorevole avallo
dalla giurisprudenza della Corte
costituzionale, prima e della Corte
di cassazione, poi. In una nota decisione risalente al 1988 (Ccost. 17 mar.
1988/311, GC 1988, I, 1388; D FAM 1988, 715; RN 1988, II, 1306; FI 1990, I,
2146), invero,
4. Segue. b) Critiche alla tesi della comunione legale
quale ipotesi di comproprietà solidale. 1.1.
Ma può veramente dirsi che la
comunione legale tra coniugi sia caratterizzata dalla assenza di quote? Come
esattamente rilevato in dottrina (Natucci,
Alienazioni immobiliari e annullabilità
nella disciplina della comunione legale, nota a Ccost. 10 mar. 1988/311, GC
1988, I, 2484), in costanza di regime la quota ha innanzi tutto valore nei
confronti dei terzi creditori, indicando la misura della responsabilità «comune» per debiti personali (cfr.
art. 189 cpv. c.c.). E già queste non sono funzioni così marginali da negare
alla quota un valore caratterizzante. 1.2.
Al cessare della comunione, inoltre, la quota serve a stabilire la misura in
cui i beni verranno ripartiti tra i
coniugi, non diversamente da quanto accade nella comunione ordinaria (cfr.
artt. 194 c.c.). 1.3. A ciò
s’aggiunga che anche l’art. 210, co. 3°,
c.c. espressamente menziona il concetto di quota, stabilendo che
«Non sono derogabili le norme della comunione legale relative
all’amministrazione dei beni della comunione e all’uguaglianza delle quote
limitatamente ai beni che formerebbero oggetto della comunione legale». 1.4. Si badi poi che l’affermazione
della Consulta secondo cui dall’art. 189 cpv. c.c. sarebbe ricavabile il
principio per il quale «i coniugi non
sono individualmente titolari di un diritto di quota, bensì solidalmente
titolari, in quanto tali, di un diritto avente per oggetto i beni della
comunione» appare quanto mai apodittica.
L’art. cit., invero, fissa per i creditori personali il limite nell’esecuzione
contro i beni comuni, limite che viene fatto corrispondere proprio alla «quota del coniuge obbligato», il che
rende quanto mai evidente che la comunione si compone di quote rientranti nella
titolarità di ciascuno dei due coniugi; non altrimenti si potrebbe infatti
spiegare l’impiego del complemento di specificazione «del coniuge obbligato». 1.5. D’altro canto, proprio restando in
tema di responsabilità, va tenuto conto del fatto che se la proprietà dei
coniugi fosse veramente solidale, dovrebbe valere la regola per cui i debiti per qualunque ragione contratti
singolarmente da ciascuno dei coniugi dovrebbero impegnare senza limiti il
patrimonio comune. Ma il già ricordato principio consacrato nel capoverso
dell’art. 189 c.c. smentisce nella maniera più clamorosa tale asserzione (sui
vari profili del tema cfr. per tutti Schlesinger
1992, 84 s.; Morelli, Autonomia negoziale e limiti legali nel
regime patrimoniale della famiglia, FD, 1994, 109 s.; Caravaglios 1995, 41 s.; Di Martino 1997, 52 ss.; Auletta 1999, 23 ss.). 1.6. Infine, appare implicito nel
concetto stesso di solidarietà che ogni atto d’esercizio del diritto stesso –
ivi compreso ogni atto di disposizione – da
parte di uno solo dei più soggetti attivi è per definizione atto lecito (arg. ex art. 1292 c.c.), laddove l’art. 180 c.c. manifesta nella maniera
più evidente l’esistenza di un’obbligazione ex
lege al compimento congiunto (o comunque con il necessario consenso di
entrambi) degli atti di amministrazione e dunque anche di disposizione dei
diritti in comunione; consegue che tali atti, ove compiuti da un coniuge senza
il necessario consenso dell’altro, dovranno ritenersi illeciti (come del resto confermato dalle sanzioni predisposte
dall’art. 184 c.c.) e pertanto non potranno in alcun modo essere considerati
altrettante manifestazioni di un (in realtà inesistente) diritto d’esercizio
solitario di un potere che spetterebbe solidalmente a ciascuno dei coniugi.
5. La comunione legale quale soggetto di diritto. 1.1. Un’ulteriore
opinione ha cercato di configurare la comunione legale come un «soggetto di
diritto distinto dai due coniugi», in quanto dotato di «un proprio patrimonio, una propria autonomia negoziale ed una propria
capacità processuale» (cfr. De Paola
1995, 236 ss.; così già De Paola-Macrì,
Il nuovo regime patrimoniale della
famiglia, Milano, 1978, 93 ss.; Cian-Villani
1981, 190; attribuiscono capacità processuale alla comunione, Attardi, Profili processuali della comunione legale dei beni, RDC 1978, 25
ss.; Gionfrida Daino, La posizione dei creditori nella comunione
legale tra coniugi, Padova, 1986, 27). Si è così affermato che la comunione,
essendo formata ed esistendo in funzione del suo scopo istituzionale, sarebbe
assoggettata ad un regime giuridico particolare, che pur non assurgendo ai caratteri dell’autonomia patrimoniale
perfetta, è pur sempre caratterizzato dalla parziale insensibilità tra il patrimonio comune ed i patrimoni dei coniugi,
per cui i beni della comunione costituiscono la garanzia primaria e diretta per
le obbligazioni assunte in nome e per conto della stessa, e solo sussidiaria
per le obbligazioni assunte in nome proprio dai coniugi. 1.2. Gli argomenti a favore
di questa tesi possono essere sintetizzati come segue. (a) La legge distingue
il patrimonio personale da quello della comunione, attribuendo a ciascuno delle
regole sue speciali; (b) l’art. 180 c.c. parla di «rappresentanza in giudizio
per gli atti ad essa (cioè alla comunione) relativi»; (c) l’art. 186 c.c. parla
di «responsabilità» dei «beni della comunione». 1.3. A queste considerazioni può però replicarsi, innanzi tutto, che, ogni qualvolta esiste un soggetto di
diritto, i suoi organi, per impegnarne la responsabilità e per far ricadere su
di esso gli effetti dei negozi stipulati, debbono dichiarare di agire in nome e per conto del soggetto, ponendo in
essere la c.d. contemplatio domini, vale a dire quel riconoscibile riferimento
alla sfera patrimoniale altrui che, se non richiede necessariamente la menzione
espressa del nome del dominus,
presuppone però comunque la manifestazione dell’intento del dichiarante di concludere il negozio non per sé, ma in
nome e per conto di un altro soggetto. 1.4.
Ebbene, non può certo dirsi che ciò si verifichi nel caso qui in esame, in cui,
ex art. 177, lett. a), c.c., i
diritti acquistati anche separatamente, senza
alcuna menzione del regime legale (e persino nel caso in cui un coniuge
abbia falsamente dichiarato di non essere coniugato), «fruttano» alla
comunione. 1.5. Per ciò che attiene
infine al regime di responsabilità
sarà opportuno riportare il parere d’un autorevole commentatore, il quale ha messo
in luce come l’insieme delle norme in tema di responsabilità della comunione (rectius: dei coniugi in comunione)
evidenzi l’assenza di una responsabilità separata che
possa in qualche modo giustificare l’idea di un soggetto autonomo o anche di un
patrimonio separato o di destinazione (Bianca
, Il regime della comunione legale,
in Bianca (a cura di) 1989, 11).
6. La comunione legale come patrimonio di destinazione. 1.1. Parte della dottrina, attenuando i toni della tesi
precedente, ha preferito parlare in relazione alla comunione legale, più che
di una vera e propria autonomia della comunione rispetto ai patrimoni personali
dei coniugi, soltanto di una sua autonomia
tendenziale, affermando che questa darebbe origine non ad un soggetto di
diritto, ma ad un complesso di beni
trattenuti insieme dal vincolo finalistico (Attardi, Profili
processuali della comunione legale dei beni, RDC, 1978, 39 ss.; cfr. inoltre Soccorsi
Aliforni, Il regime legale della
comunione tra coniugi, in Aa. Vv.,
Il nuovo diritto di famiglia. Contributi
notarili, Milano, 1975, 43; Busnelli
1976, 40 s.; in senso critico cfr. Corsi
1979, 58 ss.; Prosperi, Sulla natura della comunione legale,
Napoli, 1983, 22 ss.; Bianca, Il regime della comunione legale, cit.,
10 s.; Caravaglios 1995, 28 ss.).
1.2. In questa prospettiva, molte
delle qualificazioni della dottrina divergono più da un punto di vista
terminologico che sostanziale, riferendosi ora ad un «patrimonio separato» (Jannuzzi,
Manuale della volontaria giurisdizione,
Milano, 1990, 534), ora ad un «patrimonio separato piuttosto articolato» (Andrioli, Nota alla legge 19 mag. 1975, n. 151: riforma del diritto di famiglia,
FI, 1975, V, 168), ora ad un patrimonio dotato di una, sia pur limitata, autonomia (cfr. Trimarchi, Istituzioni di diritto privato, Milano, 1986, 815). 1.3. Alcuni, poi, sembrano voler
avvicinare l’istituto in esame alla situazione della coeredità (Schlesinger 1992,
83), mentre altri preferiscono riferirsi alle società personali, ponendo l’accento sulla destinazione ad uno
scopo del patrimonio comune, dotato di tendenziale autonomia e corredato dal
principio di tassatività delle cause di scioglimento (Busnelli 1976, 31 ss.). 1.4.
La critica rispetto a siffatta
impostazione può rinvenirsi già in alcune trattazioni anteriori alla riforma
del 1975. Così, ad esempio, il Tedeschi rimarcava esattamente che «Lo scioglimento [della comunione, allora
convenzionale] non può aversi, a differenza che nella società (cfr. art.
7. La comunione legale come fenomeno di contitolarità
di diritti. 1.1. L’ultima tesi da prendere in considerazione sulla
natura della comunione legale tra coniugi fa capo a chi ritiene che il fenomeno
di cui agli artt. 177 ss. c.c. vada inquadrato nell’ambito della contitolarità dei diritti (solo reali
per alcuni, anche di credito per altri), somigliante ma non assimilabile alla
comunione ordinaria di cui agli artt. 1100 ss. c.c., e che, proprio in virtù
della peculiarità e complessità della specifica normativa, viene definita
«speciale» o «irregolare». A favore di tale posizione si è espressa una
notevole parte della dottrina (cfr. ad es. Tamburrino,
Lineamenti del nuovo diritto di famiglia,
Torino, 1978, 234 ss.; Corsi 1979,
60 s.; A.-M. Finocchiaro 1984,
861 ss.; Bianca 1985, 69 s.; Prosperi, op. cit., passim, spec. 145 ss.; Auletta 1999, 29 ss.), oltre a svariate
decisioni di legittimità, senza che, a dire il vero,
8. Differenze tra comunione legale e comunione
ordinaria. 1.1. Pur apparendo preferibile la tesi che qualifica la
comunione legale quale una contitolarità di diritti, alla stregua della
comunione ordinaria disciplinata dal libro III del c.c., occorre notare che una
cospicua serie di differenze caratterizzano
la prima rispetto alla seconda. Esse attengono in particolare, (a) ai soggetti,
(b) all’oggetto, (c) al modo di costituzione, (d) all’amministrazione e (e) al
modo di estinzione dei due istituti. 1.2.
Cominciando dai soggetti andrà
rimarcato che, a differenza della comunione ordinaria, la comunione legale può
sussistere solo tra persone coniugate
(sull’inestensibilità in via analogica del regime legale ai conviventi more uxorio e sulla possibilità per
questi ultimi di dare vita ad un regime convenzionale di tipo comunitario cfr.
per tutti Oberto, I regimi patrimoniali della famiglia di
fatto, Milano, 1991, rispettivamente 59 ss. e 260 ss.). 1.3. Per ciò che attiene all’oggetto, invece, mentre l’art. 1100
c.c. menziona, in generale e senza limitazioni, la proprietà o altro diritto
reale, la comunione legale tra coniugi abbraccia esclusivamente gli «acquisti» ex
art. 177, lett. a), lett. d) e cpv. c.c., con esclusione dei beni personali ex art. 179 c.c. e con inclusione (ma
con le evidenti particolarità proprie della comunione de residuo, che saranno oltre illustrate) di quelli di cui alle
lettere b) e c), del medesimo art. 177 c.c., cui vanno aggiunte le ipotesi
prese in esame dall’art. 178 c.c. Tale oggetto può poi essere convenzionalmente esteso ex art. 210 c.c., sempre peraltro con il
rispetto dei limiti previsti dalla stessa disposizione, con l’impossibilità
pertanto di abbracciare i beni di cui all’art. 179, lett. c), d) ed e) c.c. 1.4. Ulteriore distinzione attinente al
profilo oggettivo investe la dicotomia: diritti
reali/diritti di credito, laddove si voglia ammettere (con una parte della
dottrina) che non solo i primi, ma anche i secondi ricadano in comunione legale
(sul tema v. infra sub §§ 17 ss.). 1.5. Altre differenze tra gli istituti in esame concernono poi il modo stesso in cui essi vengono in essere:
ex lege la comunione (per l’appunto)
legale (sebbene non debba dimenticarsi l’ipotesi in cui il regime ex art. 177 ss. c.c. si instauri in
seguito ad apposita convenzione tra coniugi precedentemente legati da un regime
di separazione), per contratto, per testamento o ex lege (si pensi alla comunione tra coeredi, o a quella del muro
divisorio) la comunione ordinaria. 1.6.
Proprio a questo profilo si riallaccia il già evidenziato carattere «dinamico» della comunione legale, la cui norma
principale (l’art. 177 c.c.) si preoccupa di descrivere in primo luogo la
regola che predetermina, per un numero indefinito di casi, l’instaurazione
della situazione di comunione su di un certo patrimonio, laddove nella
comunione ordinaria gli artt. 1100 ss. c.c. si preoccupano non già di stabilire
in quali casi siffatta situazione di contitolarità venga in essere, bensì solo
di dettare le norme applicabili laddove un tale stato di cose (cioè la
titolarità in capo a più soggetti della proprietà o di altro diritto reale)
esista già. 1.7. Per ciò che attiene
poi alla struttura dei due istituti,
va detto che in ogni caso per la comunione legale vige il principio
inderogabile (estraneo, ovviamente, alla comunione ordinaria) dell’assoluta
parità delle quote dei partecipanti (cfr. art. 210 u.c. c.c.). 1.8. Le quote in comunione legale, poi,
sono – per pacifica dottrina e giurisprudenza – singolarmente inalienabili, di contro alla regola
stabilita dall’art. 1103 c.c. per la comunione ordinaria. L’alienazione della
singola quota in comunione legale determinerebbe il subingresso in comunione
legale di un terzo estraneo, con conseguente parziale scioglimento del regime
relativamente al bene in questione, in violazione del principio di tassatività
delle cause di scioglimento previsto dall’art. 191 c.c. 1.9. Per ciò che attiene poi all’alienazione dell’intero bene vale per la comunione legale la
speciale regola ex art. 184 c.c.,
laddove per la comunione ordinaria l’alienazione potrà eventualmente essere
efficace per la quota di competenza dell’alienante. 1.10. Venendo al profilo dell’amministrazione
va chiarito che le regole dettate dagli artt. 1105 ss. c.c. per la comunione
ordinaria appaiono inapplicabili alla comunione legale, cui si riferiscono
invece gli artt. 180 ss. c.c. 1.11.
L’art. 1111 c.c. conferisce poi ad ogni comunista un diritto potestativo di scioglimento che non compete di certo al
coniuge in comunione legale. Quest’ultimo, se lo desidera, può «provocare» lo
scioglimento del regime legale solo nei casi tassativamente previsti dall’art.
191 c.c. Tra questi, in particolare, l’unico che in qualche modo può prestarsi
a consentire alla parte di far venire meno la comunione per effetto di un atto
unilaterale è (al di fuori delle ipotesi di crisi coniugale) quello della
proposizione della domanda di separazione
giudiziale dei beni, ex art. 193
c.c., atto cui, come noto, retroagiranno gli effetti dell’eventuale pronunzia di
accoglimento. Peraltro la domanda va appoggiata a situazioni di fatto ben
precise, la cui sussistenza (che non può certo ritenersi «normale») va
rigorosamente dimostrata dall’attore, cui non rimarrà, in alternativa, altra
soluzione (in caso di disaccordo con il coniuge) che intraprendere il lungo
calvario di una separazione personale contenziosa. 1.12. Al di là di tali profili va evidenziato come il concetto stesso di scioglimento assuma
significati ben diversi nelle due ipotesi. Esso coincide infatti con il
concetto di divisione nella comunione ordinaria, mentre designa unicamente la cessazione del regime (cioè, in primo
luogo, del fenomeno del coacquisto automatico) nella comunione legale. E’
chiaro comunque che non potrà aversi divisione del patrimonio in comunione
legale (nel suo complesso, ma anche atomisticamente considerato in relazione ai
singoli beni che lo compongono) se non sarà intervenuta dapprima una causa di
scioglimento ex art. 191 c.c. 1.13. In conclusione, le differenze
testé evidenziate, sebbene in cospicuo numero e di notevole rilievo (talora
anche pratico) non paiono però tali da
alterare la natura della comunione legale quale, essenzialmente, situazione di
contitolarità di diritti. Ciò appare tanto più vero quando si pensi che la
stessa disciplina della comunione ordinaria dimostra che, quando il legislatore
lo reputa necessario, si possono introdurre limiti ai principi generali
dell’istituto. Così, ad esempio, il principio generale e fondamentale della
libera disponibilità della quota di ogni comunista subisce il limite del
possibile retratto tra coeredi, cioè tra soggetti legati (come lo sono, in
fondo, i coniugi) da un rapporto particolare; d’altronde, lo stesso principio
che assegna ad ogni partecipante il diritto potestativo di ottenere lo
scioglimento della comunione può subire le restrizioni contemplate dall’art.
1111 c.c.
9. La ratio
del regime di comunione legale. 1.1. Diverse tesi sono state avanzate circa la ratio cui si ispirerebbe il regime di comunione legale tra coniugi.
La prima è quella che punta sulla remunerazione
del lavoro femminile (in questo senso cfr. ad es. Russo, Considerazioni
sull’oggetto della comunione, in Studi
sulla riforma del diritto di famiglia, Milano, 1973, ripubblicato in Le convenzioni matrimoniali e altri saggi
sul nuovo diritto di famiglia, Milano, 1983, 76 ss.; Costi, Lavoro e impresa nel nuovo diritto di famiglia, Milano, 1976, 11
ss.; Id., Nuovo regime patrimoniale tra coniugi e società di persone, in Diritto di famiglia. Società - contrattazione
immobiliare, Milano, 1978, 18). 1.2.
La critica a tale impostazione si
basa sulla mancanza di elementi testuali
nonché sulla considerazione per cui, se tale affermazione fosse vera,
occorrerebbe, al momento dello scioglimento, tenere conto del lavoro prestato o
meno in concreto, laddove, tutto al contrario, il regime legale opera e produce
tutti i suoi effetti senza restrizione alcuna a prescindere dal concreto contributo prestato al ménage familiare (cfr. Schlesinger 1992, 70 ss.; v. inoltre Carraro, Il regime patrimoniale della famiglia, Milano, 1979, 54 s.; Cataudella, Ratio dell’istituto e ratio
della norma nella comunione legale tra coniugi, in Aa. Vv., Scritti in
onore di Nicolò. Diritto di famiglia,
Milano, 1982, 302; A.-M. Finocchiaro
1984, 710 s.; Santosuosso, Il regime patrimoniale della famiglia,
Torino, 1983, 24 ss.; Corsi 1979,
54). 1.3. Secondo un altro avviso il
regime della comunione mirerebbe all’attuazione del principio di parità tra coniugi stabilito dall’art. 29 cpv. Cost. Di
contro si può però osservare che, se tale asserzione fosse vera, si dovrebbe
ritenere inconstituzionale il sistema di separazione dei beni (sul punto v. Oberto 2005, 20 ss.; cfr. inoltre Schlesinger 1992, 72; Russo 1999, 12 s.). Come rilevato in
dottrina, la comunione legale muove sullo stesso sfondo del regime
(convenzionale) di separazione dei beni, ossia nell’ambito della distribuzione, ed anzi, giacché colpisce tanto
determinati beni dei coniugi, presuppone il regime di separazione, si sovrappone
e si aggiunge a questo senza mai eliderlo. Se in rapporto al momento contributivo (art. 143 c.c.) il
principio di parità può trovare (ed ha in effetti trovato nella nuova
normativa) una puntuale e generalmente valida formulazione, altrettanto non è
obiettivamente possibile, tenuto conto della nostra attuale realtà economico‑sociale,
con riferimento al momento distributivo.
Ché, anzi, una volta assicurata la parità nel momento contributivo, attraverso
la ripartizione tra i coniugi dell’onere rappresentato dai bisogni della
famiglia, l’unico criterio che, in astratto, potrebbe apparire universalmente
valido, sarebbe proprio quello del regime di separazione. Esso infatti,
combinato con il principio di contribuzione, si traduce nell’ineccepibile (in linea
teorica) statuizione che ciascuno dei coniugi può far proprio tutto ciò che
riesce a produrre in più rispetto a quanto deve destinare al consorzio
familiare. In tal modo, il momento della spontaneità, la libertà di
determinazione non sono sacrificati, pur nel rispetto delle esigenze
contributive (Corsi 1979, 55 s.).
1.4. Di fronte a tali convincenti
considerazioni la tesi maggioritaria si è concentrata sulla constatazione per
cui la ratio della scelta legislativa
va individuata nella volontà di parificare
la partecipazione dei coniugi alle «ricchezze» conseguite post nuptias, agli incrementi patrimoniali realizzati durante
la vita matrimoniale, la cui attribuzione «al solo coniuge che ne abbia
procurato l’acquisto significherebbe (...) ignorare il contributo, diretto o
indiretto, materiale o morale, che l’altro coniuge di solito (...) ha prestato
alle fortune familiari, con propri sacrifici o rinunce, incentivando il
risparmio comune, sostenendo, anche psicologicamente, l’attività del partner» (Schlesinger 1992, 73). 1.5.
Essendo chiaro che valutare tutto ciò in termini economici, caso per caso,
sarebbe impensabile, il Legislatore avrebbe stabilito in linea di principio la
regola di una eguaglianza degli apporti di ciascuno, per lo meno fin quando i
coniugi accettino di vivere in regime di comunione (in senso analogo v. Carraro, Il nuovo diritto di famiglia, RDC, 1975, 101; Cian, Introduzione sui presupposti storici e sui caratteri generali del
diritto di famiglia riformato, COM. RDF, I, 1, Padova, 1977, 52; Prosperi,
op. cit., 16; Gionfrida Daino,
op. cit., 5, nota 3; Caravaglios 1995,
20 s.). 1.6. Siffatta impostazione
sembra essere talora condivisa pure dalla Suprema
Corte: così, ad esempio, in una delle decisioni che segnano la definitiva
sepoltura della «presunzione muciana» in relazione alle coppie in regime legale
(Cass.,23 gen. 1990/351, FI, 1990, I, 2904; GI, 1990, I, 1, 1269) si legge che
il regime legale è «finalizzato al
raggiungimento di un’eguaglianza economica dei coniugi con riferimento agli
acquisti durante il matrimonio (sul presupposto legale di un eguale contributo,
anche economico, di entrambi i coniugi alla realizzazione di essi)» e proprio
per questa ragione «non si concilia con la disposizione dell’art. 70 della
legge fallimentare, se si riflette che la presunzione dell’appartenenza del
denaro al coniuge imprenditore (in relazione agli acquisti) è combattuta e
vinta dal principio giuridico dell’attribuzione degli acquisti stessi ad
entrambi i coniugi, a prescindere dall’accertamento della provenienza del
denaro, anzi sulla opposta presunzione che il prezzo sia la risultante di un
eguale apporto dei coniugi».
10.
Il sostanziale fallimento dell’istituto. 1.1. Nella dottrina più recente si è rimarcato da più parti (v. per tutti Oberto 2005, 6 ss.) che la cattiva prova di sé che, nei fatti, il
regime ex artt. 177 ss. c.c. ha
fornito nei suoi primi trent’anni d’applicazione, sta risospingendo un numero
vieppiù crescente di coniugi verso il
«vecchio» sistema di separazione, trasformando la relativa opzione in sede
di celebrazione delle nozze – per lo meno in vaste zone del nostro Paese –
quasi in una vera e propria «clausola di stile». 1.2. Il regime legale, invero, ha ampiamente dimostrato di potersi
tramutare, nel momento cruciale del suo scioglimento (specie se visto nella
dinamica della crisi coniugale), in un groviglio
inestricabile di lacci serrati attorno alla libertà d’azione di coniugi che
si vorrebbero ormai reciprocamente svincolati, così offrendo più di
un’occasione all’uno di esercitare verso l’altro pressioni indebite e, talora,
veri e propri ricatti (Oberto 2005,
7). Di conseguenza, il vertiginoso aumento del numero delle crisi coniugali ha
finito con il favorire il massiccio ricorso, da parte delle nuove coppie, al
regime di separazione dei beni (Di una «fuga verso la separazione» parlano
anche Sesta e Valignani, Il regime di separazione dei beni, Tr. ZAT., III, Milano, 2002,
460). 1.3. Il fenomeno – che è stato descritto in altra occasione come un vero e
proprio uso dello strumento della
convenzione matrimoniale in contemplation of divorce (Oberto, I contratti della crisi
coniugale, I, Milano, 1999, 558 ss.; per analoghe considerazioni v. anche Sesta, Titolarità e prova della
proprietà nel regime di separazione dei beni, FA, 2001, 871 ss.) – appare
strettamente legato anche ad alcune pervicaci rigidità giurisprudenziali (e non
solo) sul versante, da un lato, degli accordi in vista della crisi coniugale e,
dall’altro, sul tema della libertà negoziale dei coniugi in comunione: libertà
che taluno vorrebbe ingabbiare in un sistema di vincoli tanto ingiustificati
quanto inspiegabili quando si sia in presenza del consenso di entrambi (sul
tema si fa rinvio per tutti a Oberto,
L’autonomia negoziale nei rapporti patrimoniali tra coniugi (non in crisi),
FA, 2003, 617 ss., 655 ss.). 1.4. Si
comprende dunque perché, dopo un iniziale
accoglimento favorevole della comunione legale da parte delle coppie
italiane, che, tanto per fare un esempio, avevano optato nel 1976 per il regime
di separazione in misura inferiore all’1%, anno dopo anno, è continuamente
aumentata la quota di coloro che, al momento della celebrazione delle nozze,
hanno scelto il regime separatista. 1.5.
Risalgono già ai primissimi anni di applicazione della riforma i numerosi abbandoni del regime legale effettuati,
per così dire, «in corso d’opera» dai coniugi che – consapevolmente o meno –
avevano scelto la comunione all’atto della celebrazione delle nozze, o si erano
comunque trovati sottoposti a tale regime per effetto delle disposizioni
transitorie. Pur non esistendo statistiche al riguardo, non potrà non
menzionarsi l’impressionante numero di
decisioni relative alla questione della necessità o meno di autorizzazione
giudiziale per siffatto mutamento di regime: problema, questo, poi risolto
– come noto – dalla l. 10 aprile 1981, n. 142 (sul punto v. per tutti Oberto 2005, 9 ss.; per analoghe
considerazioni v. anche Russo, Le convenzioni matrimoniali. Artt. 159-166-bis, COM. SCH., Milano,
2004, 504 s., che parla al riguardo di «fuga» dal regime di comunione legale). 1.6. Ma è sul versante delle nuove coppie che si deve registrare una
vera e propria rivoluzione. Una rivoluzione che ha avuto luogo in tutto il
Paese, sebbene con velocità assai diverse nelle sue parti. Essa è stata molto
più rapida nelle regioni settentrionali che in quelle meridionali, tanto da
suscitare negli esperti di sociologia stupore e di incredulità: basti pensare
che, dal 1976 al 1991, la quota degli sposi che scelgono la separazione dei
beni è passata dall’1% al 40, al 50 o addirittura al 69%. Già nel 1995
risultava che nelle regioni dell’Italia
settentrionale, la maggioranza delle nuove coppie (ma in alcune di esse più del
60%) preferivano la separazione dei beni, mentre in quelle meridionali gli
sposi che si comportavano in tal modo non raggiungevano neppure il 30%. E la
tendenza non fa che accentuarsi (v. per tutti Oberto,
9 ss.).
11.
L’oggetto della comunione legale (immediata) tra coniugi. Generalità. 1.1. Quando
si parla di oggetto della comunione legale tra coniugi si suole comunemente
partire dalla constatazione per cui i coniugi in regime di comunione legale
sono titolari di tre distinte masse:
(a) quella costituita dai beni in comunione immediata; (b) quella rappresentata
dai beni in comunione c.d. de residuo
e (c) quella formata dai beni personali. Più esattamente, i termini normativi
di riferimento sono: (a) per la comunione immediata gli artt. 177, lett. a), d)
e cpv. c.c.; (b) per la comunione de
residuo gli artt. 177, lett. b) e c), nonché l’art. 178 c.c.; (c) per i
beni personali l’art. 179 c.c. Distinte questioni, variamente intersecantesi
con tali disposizioni, si pongono poi per situazioni quali quelle dell’azienda
coniugale e delle imprese gestite dai coniugi (su cui v. infra sub § 48), delle
partecipazioni sociali (su cui v. infra
sub § 20) e dell’impresa familiare
(per cui v. il commento all’art. 230-bis
c.c.). 1.2. Un primo punto sul quale
si è soffermata la dottrina concerne la considerazione per cui più che dagli «acquisti» (che rappresentano vicende),
l’oggetto della comunione è rappresentato dai «diritti acquistati» (cfr. Schlesinger
1977, 373; Id. 1992, 94). Proprio partendo da tale constatazione ci si
deve chiedere, da un lato, quali effetti dispieghino sull’art. 177 c.c. i differenti modi con i quali si possono
acquistare i diritti nel nostro ordinamento (si pensi all’antinomia classica
tra modi di acquisto a titolo originario e a titolo derivativo), nonché,
dall’altro, quali siano, tra i vari tipi
di diritti, quelli suscettibili di cadere in comunione (si pensi alla
contrapposizione tra diritti reali e di credito e, nell’ambito della prima
categoria, alla distinzione tra diritto di proprietà e iura in re aliena). Sarà dunque opportuno procedere partitamente
all’analisi di tali situazioni.
12.
Gli acquisti a titolo originario in generale.
1.1. La dottrina e la giurisprudenza
italiane si sono variamente espresse sul problema della compatibilità con il
disposto dell’art. 177, lett. a), c.c. della categoria degli acquisti a titolo originario in sé
considerata. Al riguardo, a dispetto della circostanza che il termine
«acquisti», non ulteriormente aggettivato, possa indiscutibilmente essere
riferito tanto a quelli a titolo originario che a quelli a titolo derivativo (cfr. in questo senso Pugliatti, voce Acquisto
del diritto, ED, I, Milano, 1958, 510; A. Corsi,
Accessione e comunione legale, RN,
1992, I, 1392), tre importanti obiezioni sono state sollevate. 1.2. La prima, fondata sulle vicende
più recenti della storia della comunione coniugale in Italia, fa leva sul
raffronto tra il tenore letterale della predetta norma e quello dell’art. 217 c.c. 1942 (nel testo
anteriore alla riforma del 1975), secondo cui formavano oggetto della comunione (allora convenzionale) degli
utili e degli acquisti «gli acquisti fatti durante la comunione dall’uno o
dall’altro coniuge a qualunque titolo»,
per concluderne che l’abrogazione di
tale ultimo inciso dovrebbe manifestare la volontà del legislatore di limitare
l’operatività del regime legale ai soli diritti pervenuti a titolo derivativo.
Peraltro, l’argomentazione appare di per sé troppo debole, se si pone mente al
fatto che nessun altro elemento
sembra evidenziare una siffatta intenzione da parte del legislatore, mentre
l’eliminazione dell’inciso «a qualunque titolo» non ha certo comportato una
restrizione del campo semantico di riferimento di un termine tanto generale
quale quello «acquisti», non ulteriormente aggettivato. 1.3. Un secondo ostacolo viene frapposto da coloro che hanno
ritenuto di far leva sull’art. 179, lett. b), c.c. per ricavarne un principio
d’ordine generale che sancirebbe il
carattere personale dei beni non acquistati a titolo oneroso. Ma
l’antitesi: titolo oneroso - titolo gratuito si pone esclusivamente nell’ambito negoziale, laddove la contrapposizione
tra il titolo originario e quello derivativo investe il momento stesso della
costituzione (o della modificazione) del
rapporto giuridico: tra di essi non sembra dunque potersi instaurare un
rapporto di genere a specie. Si aggiunga che, se si volesse insistere
nell’ipotesi ricostruttiva qui criticata, in molti casi di acquisto a titolo
originario l’effetto acquisitivo si produrrebbe comunque in presenza (e per il
concorrente effetto) di un titolo oneroso, ancorché inefficace (cfr. artt.
1153, 1159 c.c.). 1.4. L’ultima
obiezione (che ha ricevuto anche l’avallo della Corte di Cassazione) circa la
caduta in comunione dei diritti acquistati a titolo originario induce
l’interprete a focalizzare la propria
attenzione sul verbo «compiere»
impiegato dall’art. 177, lett. a), c.c. per descrivere l’azione che dà luogo
all’acquisto per essa rilevante. L’acquisto a titolo originario «non può
ritenersi ‘compiuto’ dal coniuge proprietario del suolo, come richiesto
dall’art. 177: la locuzione verbale impiegata nella norma implica, infatti, il
pregresso espletamento di un’attività
negoziale da parte del coniuge, ossia un acquisto a titolo derivativo, e non anche, quindi, il mero giovarsi di
effetti acquisitivi collegati dalla legge al verificarsi di alcuni fatti,
ancorché questi siano stati favoriti o promossi dal coniuge che se n’è
avvantaggiato» (cfr. Cass.,14 mar.
1992/3141, GC, 1992, I, 1732; RN 1992, II, 848; più di recente v. anche, in
questi stessi termini, Cass.,14 apr. 2004, n. 7060; per la giurisprudenza di
merito v. T Firenze 9 feb. 1985, GC, 1985, I, 2628; RN 1986, II, 727; in
dottrina per una posizione sostanzialmente analoga v. anche Spitali 2002, 97 s.). 1.5. Ma, come già rilevato (cfr. Oberto 1994, 10 ss.), l’interpretazione sistematica
s’incarica di fornire la migliore delle smentite a una siffatta impostazione:
gli artt. 1159 ss. c.c. ci vengono «in coro» a dire che l’usucapione si compie a
determinate condizioni, così lasciando chiaramente intendere che quando il
legislatore impiega tale verbo non lo fa necessariamente per porre l’accento
sullo svolgimento di un’attività (caratterizzata o meno dalla negozialità),
quanto per indicare la realizzazione in concreto, e per qualunque causa, di
tutti gli elementi costitutivi di una determinata fattispecie acquisitiva,
anche a titolo originario. 1.6. Per
concludere, l’interpretazione qui proposta, circa l’inesistenza di ostacoli di carattere
pregiudiziale in merito alla caduta in comunione dei diritti acquistati a
titolo originario, oltre ad essere maggioritaria
in dottrina, appare, indiscutibilmente, più aderente a quella visione solidaristica e partecipativa
degli interessi economici della famiglia che si pone alla base del regime
legale. Se è vero infatti che la ratio
della comunione coniugale è principalmente quella di impedire (al di fuori dei
casi tassativamente indicati dalla legge o comunque di un accordo tra i
coniugi) un unilaterale accrescimento del patrimonio personale in caso di
acquisti operati in costanza di regime, occorre allora concluderne che
l’esclusione degli acquisti a titolo originario si porrebbe in insanabile
contrasto con tale linea direttrice (cfr. T
Rieti, 27 mar.
13. Gli
acquisti per usucapione. 1.1. Una
volta accertato che non esistono ragioni d’ordine pregiudiziale tali da imporre
un trattamento differenziato degli acquisti a titolo originario rispetto a
quelli a titolo derivativo in relazione all’art. 177 c.c., occorrerà
soffermarsi brevemente sulle peculiarità dell’acquisto per usucapione. 1.2. Al
riguardo carattere impediente potrebbe assumere la considerazione secondo cui
l’effetto acquisitivo, conformemente alla logica dell’usucapione, dovrebbe per
forza «adeguarsi alla realtà propria
della situazione possessoria, quale situazione meramente fattuale», a
prescindere, quindi, «dai particolari regimi in cui di volta in volta
s’inquadri (...) la posizione dello stesso possessore in quanto coniuge» (così Tondo, Sugli
acquisti originari nel regime di comunione legale, FI, 1981, V, c. 166).
1.3. All’obiezione non sembra
peraltro possa attribuirsi un peso eccessivo, se si pone mente al fatto che la
regola fissata dall’art. 177, lett. a), c.c. non influisce in alcun modo sulle vicende acquisitive dei diritti,
in sé considerate, ma si limita ad aggiungervi un effetto ulteriore e distinto,
che entra in gioco in un «istante» immediatamente successivo. Anche in materia
contrattuale il legislatore impone quale regola una rigida coincidenza tra i
protagonisti della vicenda acquisitiva (i contraenti, appunto) e i soggetti nei
cui confronti questa dispiega i suoi effetti (cfr. art. 1372 c.c.): eppure
nessuno si sognerebbe di derivarne un argomento in grado di annullare la
portata dell’avverbio «separatamente» (art. 177, lett. a), c.c.) che consacra
il principio dell’acquisto automatico tra coniugi (su tali argomenti cfr., anche per ulteriori approfondimenti, nonché per i
necessari riferimenti dottrinali, Oberto
1994, 13 ss.). 1.4. La tesi della
caduta in comunione degli acquisti per usucapione ha ricevuto l’avallo della stessa Corte di cassazione.
Così, Cass.,20 mar. 1991/2983 ha stabilito che «Con riguardo a giudizio di
rivendicazione di immobile, nel quale il convenuto in regime di comunione
legale con il coniuge, deduca la proprietà del bene in forza di contratto di
acquisto da lui solo stipulato, ovvero in forza di usucapione per possesso da
lui solo esercitato, non insorge necessità di integrazione del contraddittorio
nei confronti di detto coniuge, considerato che l’eventuale inclusione del bene
medesimo nella comunione, ai sensi dell’art. 177 primo comma lett. a) cod.
civ., integra effetto ope legis di quell’acquisto o di quell’usucapione se ed in quanto
perfezionatisi». 1.5. La successiva
Cass.,3 nov. 2000/14347 ha poi deciso che «In regime di comunione legale, se
uno dei coniugi, deducendo una situazione di compossesso con l’altro, propone
in via autonoma domanda di usucapione
di un bene immobile, il giudicato favorevole produce, in virtù del disposto
dell’art. 177 cod. civ., direttamente effetti nella sfera giuridico
patrimoniale dell’altro coniuge rimasto estraneo al giudizio, facendo sì che
egli acquisti la comproprietà di detto
immobile. Per converso, in caso di esito negativo di quella azione, il
giudicato sfavorevole sarebbe opponibile al coniuge che non sia stato parte del
relativo giudizio, se successivamente pretendesse di sentirsi dichiarare
proprietario dello stesso bene, in base ad una situazione fattuale identica a
quella fatta valere nel precedente giudizio dall’altro coniuge». 1.6. Per quanto attiene alla giurisprudenza di merito si può
richiamare T Roma 7 apr. 2003, D FAM, 2004, 120 ss., secondo cui: «Se il
tempo necessario per l’acquisto per usucapione di un bene immobile si è
perfezionato in costanza del regime di comunione legale fra coniugi, la sentenza dichiarativa di tale acquisto
opera in favore di entrambi, anche se la domanda è stata proposta da uno
soltanto dei coniugi ed indipendentemente dal fatto che sia stata dedotta nel
giudizio una situazione di compossesso». 1.7.
Una volta accertato che nessun ostacolo pare opporsi, in linea di principio,
alla caduta in comunione immediata dei diritti acquistati per usucapione (e il
discorso vale, ovviamente, anche per la regola ex art. 1153 c.c.) occorre constatare che il momento rilevante diviene quello in cui si sono verificati tutti
gli elementi costitutivi della fattispecie acquisitiva descritta dal legislatore,
a nulla rilevando l’eventuale anteriorità
del possesso rispetto alla data d’inizio del regime legale. Poste queste
premesse sarà possibile derivarne alcuni corollari. 1.8. Così, sarà personale il bene in relazione al quale il
ventennio si sia concluso prima del
matrimonio, indipendentemente dal fatto che solo in seguito si sia promosso
giudizio per l’accertamento del diritto. 1.9.
Specularmente, se l’usucapione si dovesse compiere soltanto dopo lo
scioglimento del regime, il bene non potrebbe essere ritenuto comune, tranne
che nel caso di compossesso, protrattosi anche successivamente allo
scioglimento del regime (ma in quest’ultima ipotesi si costituirebbe, in base
alle regole generali, una comunione ordinaria). 1.10. Inoltre, essendo – esattamente come per gli acquisti a titolo
derivativo – assolutamente indifferente
la partecipazione o meno di entrambi i coniugi alla vicenda acquisitiva,
non rileverà in alcun modo la circostanza che uno dei due non abbia mai
esercitato alcun potere di fatto sulla cosa, o comunque lo abbia fatto per un
periodo inferiore rispetto a quello richiesto ad usucapionem. 1.11. In
base alla stessa regola sarà indifferente lo stato di buona o mala fede del coniuge non (o per un periodo non
sufficiente) possessore, così come la sua partecipazione o meno al titolo
(astrattamente) idoneo al trasferimento della proprietà, per i casi di
usucapione abbreviata o di acquisti in base all’art. 1153 c.c. 1.12. Per quanto attiene agli effetti,
non bisogna dimenticare che l’operatività dell’art. 177, lett. a), c.c. può
essere, per così dire, inibita, in considerazione di particolari tipi di
destinazione del bene: così, il bene (mobile o immobile) posseduto da parte del
coniuge imprenditore e inserito nell’ambito di un’azienda da quest’ultimo gestita sarà comune solo de residuo (art. 178 c.c.); se si
tratterà di un bene (mobile) di uso strettamente personale o destinato
all’attività professionale del coniuge l’acquisto sarà invece personale, ex art. 179 lett. c) e d) (su tali argomenti cfr., anche per ulteriori
approfondimenti, nonché per i necessari riferimenti dottrinali, Oberto 1994, 13 ss.).
14.
Gli acquisti per accessione. La tesi della Cassazione e le relative critiche. 1.1. La
fattispecie acquisitiva a titolo originario in relazione alla quale si
registrano le maggiori dispute è senz’altro quella disciplinata dagli artt. 934
ss. c.c., anche per effetto del vivace dibattito suscitato da una
giurisprudenza che se, nelle sue prime manifestazioni (a livello di merito),
appariva oscillante, risulta oggi, sulla scorta di numerosissime pronunzie di
legittimità, definitivamente orientata verso la tesi negativa circa la caduta in comunione dell’acquisto (cfr. Cass.,11 giu. 1991/6622, GI, 1992, I, 1, 108;
Cass.,14 mar. 1992/3141, cit.; Cass.,16 feb. 1993/1921, GI, 1993, I, 1, 1902; Cass.,SU
27 gen. 1996/651; Cass.,8 mag. 1996/4273; Cass.,22 apr. 1998/4076; Cass.,11
ago. 1999/8585; Cass.,12 mag. 1999/4716; Cass.,19 gen. 2004/716; Cass.,14 apr.
2004/7060; Cass.,4 feb. 2005/2354). 1.2.
La tesi consolidata della Cassazione determina peraltro conseguenze inaccettabili, lasciando senza risposta alcuni
interrogativi molto seri ed anzi sollevandone altri circa la sua rispondenza al
principio d’uguaglianza. In particolare va stigmatizzata l’irrazionale disparità di trattamento, probabilmente rilevante ex art. 3 Cost., tra l’investimento
consistente nell’acquisto di un edificio già realizzato (abbia l’atto ad
oggetto la sola proprietà superficiaria, ovvero l’immobile nella sua interezza)
e quello che si attua mediante l’erezione di una costruzione su terreno
personale. 1.3. E a questa ipotesi
si può aggiungere quella, forse ancora più sconcertante, del caso in cui il dominus soli, anziché stipulare un «normale»
contratto d’appalto, preveda con l’appaltatore lo scambio tra la proprietà
attuale del terreno e quella di uno o più degli erigendi appartamenti. Qui lo
schema solitamente riconosciuto dalla giurisprudenza, corrispondente alla permuta di cosa presente con cosa futura,
fa sì che le nuove unità immobiliari, acquistate dal coniuge in base al
combinato disposto degli artt. 1555 e 1472 c.c., non possano sottrarsi
all’effetto automatico ex art. 177,
lett. a), c.c. (sul tema v. variamente e anche per gli ulteriori richiami, Giorgianni, Costruzione e miglioramenti effettuati su beni personale in regime di
comunione legale, RTDPC, 1989, 886 ss.; Di
Martino 1997, 86; Oberto,
1994, 17 ss.; Auletta 1999, 65
ss.; Russo 1999 351 ss.; Rimini 2001, 207 ss.; Spitali 2002, 92 ss.). 1.4. La giurisprudenza sopra citata
fonda la propria soluzione talora su di un’apodittica (e già criticata: v. supra sub § 12) supposta estraneità
degli acquisti a titolo originario – tra i quali ricadono, per l’appunto,
quelli per accessione – al fenomeno descritto dall’art. 177 lett. a) c.c. (cfr.
ad es. Cass.,11 ago. 1999/8585). 1.5.
Nella maggior parte dei casi, invece, il fondamento della soluzione descritta
viene reperito in un’asserita inconciliabilità
del principio secondo cui superficies
solo caedit (art. 934 c.c.) con la regola del coacquisto automatico. 1.6. Volendo tentare la via di una
diversa (e ben diversamente equa) soluzione, va detto che la questione al
riguardo è quella di accertare se la comunione si possa costituire su di un
diritto in re aliena (di superficie)
idoneo ad «inglobare» in sé la costruzione realizzata sul fondo personale. Ora,
è lo stesso art. 934 c.c. a prevedere che l’effetto espansivo del diritto di
proprietà sul fondo sia paralizzato dall’esistenza di un titolo o di una disposizione di legge con esso incompatibile. 1.7. Nel caso di specie esiste una ben
precisa regola ostativa all’espansione del diritto «personale» e si identifica
proprio nell’art. 177, lett. a), c.c. o, più esattamente, nel diritto di superficie che, sulla base
di questa norma, una consistente parte della dottrina ha ritenuto di poter
ricavare. La comunione non può sussistere se non in relazione a diritti, i quali a loro volta –
vertendosi in materia di acquisti originari di rapporti reali – non sono
concepibili se non in relazione a beni: per questo sarà necessaria (quale vero
e proprio presupposto fattuale per la configurabilità del diritto di
superficie) la venuta ad esistenza di un
nuovo bene, autonomo e distinto rispetto a quello personale, in grado di
fornire idoneo substrato materiale a quella nuova situazione giuridica che,
proprio sulla base di tale presupposto, si costituirà ex lege (così Oberto 1994,
17 ss., cui si fa rinvio anche per ulteriori approfondimenti e per i necessari
richiami dottrinali). 1.8. La
costituzione del diritto di superficie avviene, come si è detto, per legge,
anche se non in forza di un supposto rapporto di genere a specie tra gli artt. 934 e 177, lett. a), c.c., posto che
qui la specialità è, per così dire, reciproca: la categoria dei coniugi
costituisce invero un sottoinsieme di quella degli altri acquirenti, e, per
converso, quella degli acquisti per accessione è un sottoinsieme della
categoria degli acquisti in genere. La disposizione che dà vita al diritto di
superficie va invece rinvenuta proprio nella combinazione degli effetti prodotti da entrambe le norme citate: di
conseguenza la costruzione diverrà di proprietà del coniuge titolare del suolo
in virtù delle norme in tema d’accessione, ma tale acquisto costituirà proprio
il presupposto per il (ri)trasferimento automatico in comunione (così Oberto 1994, 17 ss.). 1.9. Sulla base delle sopra articolate
premesse è facile argomentare l’inconsistenza dell’obiezione – fatta propria
dalla Cassazione sulla scorta di una parte della dottrina – secondo cui «nella
disciplina degli artt. 952 ss. c.c. la costituzione del diritto di fare o
mantenere una costruzione al di sopra del suolo trova origine sempre e soltanto
in un atto dispositivo», cioè in un atto
negoziale, redatto con il rispetto della forma scritta (cfr. Cass.,11 giu. 1991/6622, cit.; l’argomento
viene ripreso anche dalle successive Cass.,14 mar. 1992/3141, cit., Cass.,16
feb. 1993/1921, cit.). 1.10.
D’altro canto, il fenomeno della costituzione
ex lege di diritti reali su cosa
altrui è ben conosciuto dal nostro ordinamento: si potranno citare al
riguardo gli artt. 540 cpv. e 324 c.c. A ulteriore smentita dell’impostazione
qui criticata giunge il rilievo secondo cui anche i diritti reali su cosa
altrui possono costituirsi per usucapione, e dunque in assenza tanto di un
negozio che di una specifica disposizione di legge e la constatazione vale
anche in relazione alla superficie (così Oberto
1994, 17 ss., cui si fa rinvio anche per ulteriori approfondimenti e per
i necessari richiami dottrinali; al medesimo lavoro si fa richiamo anche per la
trattazione delle questioni connesse in tema di possibilità di conservazione
del carattere personale dell’acquisto per accessione, sulla base di un
eventuale accordo delle parti e dei rapporti con i terzi).
15.
Acquisti per accessione e risvolti di carattere obbligatorio. 1.1. Tra
gli argomenti utilizzati dai sostenitori della natura personale della
costruzione fa spicco la considerazione secondo cui, in un modo o nell’altro,
al coniuge non proprietario del fondo competerebbe un indennizzo in denaro pari
«alla metà del valore dei materiali e
della manodopera impiegati nella costruzione» (cfr. ad es. Cass.,SU 27 gen.
1996/651, cit.; Cass.,22 apr. 1998/4076, cit.). Tale indennizzo è stato
definito un «premio di consolazione»
(così Oberto 1994, 28), che
sembra trovare la sua fonte non tanto in precise disposizioni dell’ordinamento,
quanto nella «cattiva coscienza» di chi, negato il carattere comune della
costruzione edificata manente communione
su fondo personale, si sente in dovere, di fronte ad una soluzione così
palesemente iniqua, di escogitare un rimedio che non lasci il «perdente» del
tutto insoddisfatto. 1.2. Si è
dimostrato in altra sede (così Oberto
1994, 28 ss.) come, con ogni probabilità, all’origine di tale conclusione si
ponga anche un equivoco, consistente nell’aver trasformato, per effetto di una
serie di massime tralatizie, in un vero e proprio dogma («al coniuge sconfitto
sul piano reale compete soddisfazione su quello obbligatorio») quella che
all’origine era la banalissima constatazione d’un risultato ricollegato però a
ben precisi presupposti; vale a dire: se
per la costruzione sono stati impiegati beni o utilità comuni il
proprietario del terreno è tenuto a rifondere al coniuge la metà del relativo
valore. 1.3. Peraltro, al di fuori
di questa rara ipotesi, una siffatta ratio
decidendi non sembra in alcun modo in grado di attribuire al coniuge
perdente sul piano reale un credito in tutti quei casi (di gran lunga più
frequenti) in cui il titolare del fondo consegua direttamente la proprietà del
manufatto in forza di un contratto
d’appalto, ovvero impieghi per la costruzione mezzi personali. 1.4.
L’insostenibilità della tesi secondo cui, in caso di acquisto «personale» per
accessione a seguito di edificazione su fondo personale in costanza di regime
legale, spetterebbe sempre e comunque al coniuge «perdente» una somma di denaro
pari «alla metà del valore dei materiali e della manodopera impiegati nella
costruzione» è stata talora avvertita dalla stessa Cassazione. In una decisione
si legge, ad esempio, che «il rifiuto della tesi dell’acquisizione della
costruzione al patrimonio comune dei coniugi comporta non già il totale
disconoscimento di una tutela dell’altro coniuge in ordine al recupero delle
somme sborsate per la costruzione, ma implica solo l’individuazione di una
tutela diversa, ossia, a seconda dei casi, quella di cui all’art. 192, comma 1,
oppure all’art. 2033 c.c. Ed invero, quando la costruzione sia stata eseguita
sul suolo di proprietà esclusiva di un coniuge con impiego di danaro comune,
non potrà che applicarsi il suddetto comma 1 dell’art. 192, nel senso che il
coniuge che si è giovato dell’accessione sarà tenuto a restituire alla
comunione le somme prelevate dal patrimonio comune per eseguire l’edificazione
(...); mentre, qualora nella costruzione sia stato impiegato danaro
appartenente in via esclusiva all’altro coniuge, a quest’ultimo spetterà il
diritto di ripetere la relativa somma, ai sensi dell’art. 2033 c.c.» (cfr.
Cass.,14 mar. 1992/3141). 1.5. Peraltro, entrambi i rimedi
invocati da questa pronunzia della Cassazione tendono alla reintegrazione di un coniuge nei diritti di cui quest’ultimo era
titolare (rispettivamente pro quota
o per l’intero) al momento dell’appropriazione compiuta dall’altro. Essi non
hanno dunque nulla a che vedere con la
regola «solidaristica» che impone la caduta in comunione dei diritti
acquistati, ma si limitano ad impedire che un soggetto s’arricchisca
ingiustificatamente in danno dell’altro. Sotto questo profilo può quindi dirsi
che il coniuge viene trattato
esattamente come un qualsiasi terzo. La conclusione non può dunque essere
gabellata quale surrogato, sul piano obbligatorio, di quella che afferma la
caduta in comunione della costruzione, né tanto meno essere fatta passare
come ugualmente rispettosa della ratio della normativa in tema di regime
legale della famiglia: basti pensare che, proprio in conformità ad essa, nessun «premio di consolazione» potrà mai
essere attribuito al coniuge perdente sul piano reale, qualora i mezzi per la
realizzazione della costruzione siano di esclusiva provenienza del proprietario
del fondo (sul punto v., anche per ulteriori approfondimenti e richiami, Oberto, 1994, 28 ss., le cui considerazioni
sono riprese da Spitali 2002, 101
ss.).
16.
Gli acquisti di iura in re aliena.
1.1. Nei paragrafi precedenti si sono esaminati i rapporti
tra la regola espressa dall’art. 177 c.c. e i modi di acquisto della proprietà.
Peraltro il generico richiamo al concetto di «acquisto» di cui alla norma
citata non consente certo di concentrare l’attenzione sul solo diritto
dominicale per eccellenza. La prima questione viene dunque ad investire i diritti reali c.d. «minori». Al
riguardo, potrà darsi in linea di massima per scontato che anche ad essi si può riferire il disposto della norma in commento,
tenuto conto, in primo luogo, del fatto che, la legge parla di «comunione» e
non già di «comproprietà», nonché della circostanza che l’art. 179, lett. a),
c.c., contiene un espresso richiamo ai «diritti di godimento». Ciò posto,
occorrerà però sempre tenere conto delle peculiarità di ogni singola
situazione. 1.2. Così non potrà
riconoscersi carattere comune ad una servitù
prediale acquistata in costanza di regime legale a vantaggio di un fondo personale di uno solo dei coniugi
(nello stesso senso cfr. A.-M.
Finocchiaro 1984, 892; Spitali 2002,
90) e lo stesso è a dirsi per un’ipoteca
od un pegno acquistati a garanzia di
crediti personali (cfr. Spitali 2002, 91). Qui sarà il carattere accessorio (rispettivamente:
al diritto dominicale sul fondo dominante e al diritto sul credito garantito)
di tali iura in re aliena ad impedire che i medesimi cadano in comunione. 1.3. Per ciò che attiene poi ai diritti d’uso e di abitazione potrà
argomentarsi a contrariis dall’art.
179 lett. a) che le medesime situazioni, se acquistate dopo la celebrazione
delle nozze, possano formare oggetto di comunione legale (così A.-M. Finocchiaro 1984, 893), a nulla
rilevando il disposto dell’art. 1024 c.c. (che per Comporti, Gli acquisti
dei coniugi in regime di comunione legale, RN, 1979, 73 ss., determinerebbe
invece la caduta in comunione di tali diritti solo nei rapporti interni); il
divieto di cessione di tali situazioni, stabilito da tale norma, impedisce
infatti solo un accordo in deroga delle parti e non certo un effetto disposto
da una precisa norma di legge (oltre tutto, successiva). 1.4. Venendo all’usufrutto
vi è concordia d’opinione nel ritenere che, pur verificandosi una situazione di
contitolarità di tale diritto nel caso venga acquistato manente communione, non si avrà comunque un normale cousufrutto. Il
diritto che qui si comunica è solo
quello acquisito e delimitato dal titolo. Ne consegue che tale situazione
si estingue ai sensi dell’art. 979 c.c. con la morte del primo acquirente (v.
per tutti A.-M. Finocchiaro 1984,
893; Spitali 2002, 91).
Viceversa, nel caso di premorienza
del coniuge beneficiario dell’acquisto automatico, l’usufrutto non si consolida
con la proprietà, determinandosi invece l’accrescimento
della quota del coniuge superstite, anche se tale diritto d’accrescimento non
fosse stato pattuito, perché la posizione del coniuge premorto derivava da
quella dell’originario usufruttuario (sul tema cfr. Capaldi, Acquisto di
usufrutto in comunione legale, RADC, 1991, 1 ss., 13). 1.5. In ogni caso, resta peraltro escluso dalla caduta in comunione
l’usufrutto legale sui beni del figlio di un solo coniuge (Auletta 1999, 42).
17.
Gli acquisti di diritti di credito. Impostazione del problema. 1.1. Fonte
di notevoli discussioni dottrinali ed incertezze (nonché contraddizioni)
giurisprudenziali è la vexata quaestio
della caduta o meno in comunione legale dei diritti di credito. Per ciò che
attiene alla dottrina possono individuarsi tre
indirizzi distinti. (a) Secondo il primo cadrebbero in comunione
indistintamente tutti i diritti di
credito (Busnelli 1976, 41
ss.; Gabrielli, Comunione coniugale ed investimento in
titoli, Milano, 1979, 11 ss.; Cian-Villani
1981, 182; Prosperi, op. cit., 76
ss.; Nuzzo 1984, 54 ss.; Vittucci, I diritti di credito, in Bianca
(a cura di), La comunione legale,
I, Milano, 1989, 33 ss., in part. 38; Quadri,
L’oggetto della comunione legale tra coniugi:
i beni in comunione immediata, FD, 1996, 188 ss.; Di Martino 1997, 60 ss.; Auletta
1999, 84 ss.; cfr. inoltre Schlesinger,
1992, 106 s., sebbene con svariate limitazioni, così rivedendo la posizione
precedentemente espressa in Schlesinger 1977,
374 s.). (b) Secondo un altro avviso l’art. 177 c.c. sarebbe applicabile ai
soli crediti aventi carattere «finale» e
non «strumentale»: in altre parole si dovrebbe trattare di quei soli
crediti che realizzino veri investimenti (Pavone
18.
Segue: b) Ricadute pratiche delle varie tesi in tema di acquisti di crediti. 1.1. Venendo alle conseguenze pratiche di tali
disquisizioni dottrinali non vi è dubbio che la teoria prevalente in giurisprudenza, che esclude radicalmente
l’applicabilità della norma in commento ai diritti di credito, evita
all’interprete il rischio di vanificare, in pratica, la comunione de residuo per tutti quei casi in cui i
«beni» – ad es., ex art. 177 lett. b)
e c) – sono costituiti da somme di
denaro depositate in banca. In
tale fattispecie, invero, si potrebbe affermare che il credito di restituzione
del tantundem, maturato verso
l’istituto di credito, darebbe luogo ad una situazione di comunione immediata. 1.2. L’inconveniente può però essere
agevolmente evitato ricorrendo ad una interpretazione della norma che, andando
alla sostanza, continui a riconoscere natura
di «proventi» o di «frutti» ai depositi in questione. In questa direzione
sembra essersi del resto mossa la giurisprudenza, la quale continua a
riconoscere la natura di beni in comunione de
residuo ex art. 177 lett. c) c.c. ai redditi da attività personale, anche
se depositati su conto corrente bancario: cfr. ad es. Cass.,17 nov. 2000/14897.
1.3. D’altra parte, i timori delle banche di trovarsi inopinatamente
esposti alla pretese di una sorta di «contitolare occulto» del rapporto
concluso con uno solo dei coniugi in comunione, ben potrebbero essere fugati
mercé il ricorso alla teoria del creditore
apparente. Come osservato in dottrina, poi, per poter esigere la
prestazione, il coniuge concreditore dovrebbe sempre dimostrare la propria
legittimazione, e quindi anche l’appartenenza del credito alla comunione. Né è
tutelato, in via generale, l’interesse del debitore a che il credito non venga
ceduto (e la stessa considerazione vale per la parziale cessione ex lege, cui è da assimilare il fatto
che il credito acquistato dal coniuge venga a cadere in comunione: cfr. Vittucci, op. cit., 38 s.). 1.4. Per converso, l’accoglimento della
teoria che ammette la caduta in
comunione dei diritti di credito consente di pervenire a risultati di equità, superando
l’obiezione in forza della quale appare difficile comprendere per quale motivo
l’investimento di una certa somma di denaro dovrebbe ricadere o meno in comunione,
a seconda che sia indirizzato all’acquisto di uno o più determinati beni,
ovvero di crediti, magari risultanti da partecipazioni sociali, o crediti
obbligazionari o comunque racchiusi in titoli (nel senso invece che gli
investimenti quali l’acquisto di titoli del debito pubblico, di quote di fondi
di investimento, di obbligazioni e simili non potrebbero ritenersi idonei a
cadere in comunione, neppure ponendo in evidenza il profilo della proprietà del
titolo cartaceo v. Spitali 2002,
126 s.). 1.5. Estremamente
significativo, poi, appare l’autorevole revirement operato in dottrina da
chi ha osservato che «Sebbene gli argomenti invocati non possano considerarsi
decisivi, tuttavia deve ammettersi – re
melius perpensa – che una esclusione radicale dei crediti dal novero dei
diritti cui può applicarsi l’acquisto automatico in favore della comunione
legale non troverebbe una sufficiente giustificazione nella pur doverosa
opportunità di proteggere la controparte del coniuge che abbia negoziato
‘separatamente’; e che, soprattutto, non si vede come e perché potrebbe conciliarsi
con i principi ispiratori della riforma qualificare ‘personale’ (escludendone
l’altro coniuge) l’acquisto a titolo oneroso di un credito idoneo ad assicurare
un ‘incremento’ patrimoniale» (Schlesinger
1992, 107 s.).
19.
Il preliminare d’acquisto. 1.1. Uno dei casi in cui la giurisprudenza di legittimità
appare più adamantina nel negare la caduta in comunione dei diritti di credito
è costituito dal preliminare d’acquisto
stipulato da uno dei coniugi in costanza di regime legale. In siffatta
ipotesi
20.
Gli acquisti di diritti di partecipazioni sociali. 1.1. In
piena contraddizione rispetto alla regola, enunciata nelle ipotesi sopra
illustrate, secondo cui suscettibili di cadere in comunione legale sarebbero
solo i diritti reali, la stessa Corte di cassazione ha invece affermato a più
riprese l’applicabilità dell’art. 177
lett. a) c.c. agli acquisti di partecipazioni sociali. Così, per quanto
attiene alle azioni di società,
secondo Cass.,18 ago. 1997/7437 «Le azioni di società costituiscono incrementi
patrimoniali rientranti tra gli acquisti di cui all’art. 177, lett. a, cod.
civ., e quindi nell’oggetto della comunione legale tra coniugi, in quanto,
anche se esse non sono meri titoli di credito, ma titoli di partecipazione, l’aspetto patrimoniale è assolutamente
prevalente rispetto ai diritti e agli obblighi connessi con lo status di socio in essi incorporato. Il passaggio
delle azioni (quanto meno per la componente patrimoniale data dal loro valore)
in comproprietà dell’altro coniuge non è escluso dalla previsione
dell’intrasferibilità delle azioni, eventualmente contenuta nello statuto
sociale, atteso che (a prescindere dall’art. 22 della legge 4 giu. 1985 n. 221,
nella specie entrato in vigore successivamente all’acquisto delle azioni) la
comproprietà è un effetto voluto dalla legge per attuare il principio d’ordine
costituzionale della parità tra i coniugi, come tale preminente alla volontà
dei privati» (nello stesso senso v. anche Cass.,27 mag. 1999/5172). 1.2. Facendo applicazione della
medesima regola Cass.,23 set. 1997/9355 ha stabilito che «Nel regime di
comunione legale fra i coniugi, i beni acquistati con i proventi dell’attività
separata di uno dei coniugi entrano immediatamente e di pieno diritto a far
parte della comunione, senza che vi sia possibilità di esclusione mediante la
dichiarazione prevista dall’art. 179, lett. f) cod. civ., applicabile soltanto
all’acquisto effettuato con il prezzo del trasferimento dei beni personali,
tassativamente elencati nel predetto art.
21.
Conti correnti e rapporti bancari; le sorti del denaro. 1.1. Strettamente
legata al tema della caduta in comunione dei rapporti di credito è la questione
della titolarità dei conti correnti e più in generale dei rapporti bancari (su
cui in generale v., anche per i richiami, Alagna,
Regime patrimoniale della famiglia ed
operazioni bancarie, Padova, 1988; Spitali
2002, 126 ss.).
22.
L’acquisto con patto di riservato dominio. 1.1.
Fattispecie particolari di
possibili acquisti ex art. 177 lett.
a) c.c. possono essere determinate da contratti ad effetti reali differiti (si
pensi alla vendita con patto di riservato dominio o con patto di riscatto) o in
cui gli effetti reali possono porsi comunque quale conseguenza (ancorchè non
immediata) del negozio (si pensi al leasing,
ai contratti stipulati relativamente agli immobili di edilizia residenziale
pubblica o a determinati casi di prelazione agraria). La prima di siffatte
ipotesi è costituita dall’acquisto con
patto di riservato dominio da parte di soggetto, per l’appunto, coniugato
in regime di comunione legale dei beni. 1.2.
La soluzione appare legata a quella dei rapporti con l’art. 179, lett. a),
c.c., relativamente agli acquisti concernenti vicende a formazione progressiva (su cui v. infra, sub art. 179, §
2). La dottrina che aderisce alla tesi della rilevanza del momento
perfezionativo della fattispecie negoziale (a prescindere da quello in cui si
verificano gli effetti traslativi) conclude nel senso che il momento
determinante sia quello della stipula
del contratto (in questo senso Ubaldi
1989, 444 s.; De Paola 1995, 409;
Auletta 1999, 180 s). 1.3. Se invece si pone l’accento (come
appre più conforme alla lettera della norma) sul momento del trapasso della
proprietà, atteso che questo si realizza, ex
art. 1523 c.c., con il pagamento
dell’ultima rata del prezzo, si deve ritenere che l’effetto del coacquisto
automatico in capo al coniuge si produca se in quel momento l’acquirente si
trovi sottoposto al regime legale. E ciò indipendentemente
dal fatto che l’altro coniuge abbia o meno preso parte al negozio
acquisitivo, magari stipulato prima ancora della celebrazione delle nozze (sul
punto v. per tutti Oberto, La
vendita con riserva di proprietà, Bin
(a cura di), La vendita, III, 2, Padova, 1995, 953 ss.). 1.4. Proprio in una fattispecie del genere
23.
L’acquisto con patto di riscatto. 1.1.
La giurisprudenza non si è ancora
espressa sul tema dei rapporti tra comunione legale tra coniugi e vendita con
patto di riscatto. Al riguardo, il problema di maggiore interesse sembra
costituito dal caso della alienazione con patto di riscatto operata da un
soggetto prima di entrare con il proprio coniuge nel regime ex artt. 177 ss. c.c. e del successivo
riscatto, esercitato invece manente
communione. 1.2. Una parte della
dottrina che si è occupata della questione (Santarcangelo,
La volontaria giurisdizione nell’attività
negoziale, I, Milano, 1985, p. 408; Ubaldi
1989, 445; De Paola 1995, 410 s.;
Auletta 1999, 181), prendendo le
mosse dalla tesi che configura il riscatto convenzionale alla stregua di un recesso negoziale con effetto retroattivo,
ha affermato che l’esercizio di tale potere, rimuovendo gli effetti del
contratto di compravendita, farebbe «rientrare» il bene nel patrimonio
personale del soggetto. La soluzione sarebbe invece diversa nell’ipotesi di patto di rivendita, nella quale
occorrerebbe, per il ritrasferimento, una
nuova manifestazione di volontà delle parti (cui l’acquirente è
obbligatoriamente tenuto in virtù della clausola contrattuale di rivendita). 1.3. Secondo altro orientamento,
peraltro minoritario, elemento determinante risulterebbe invece la provenienza del denaro usato per
esercitare il riscatto (così Russo
1999, 167). 1.4. Ora, trattando in
altra sede del problema della «retroattività» del riscatto (v. per tutti Oberto, La vendita con patto di
riscatto, Bin (a cura di), La
vendita, III, 2, Padova, 1995, 1034 ss.) si è avuto modo di illustrare come
gli effetti dell’esercizio del riscatto
non siano coincidenti con quelli che determinano la retroattività della
condizione ex art. 1360 c.c. e come,
anzi, la legge si preoccupi soltanto di salvaguardare
la posizione del venditore-riscattante nei riguardi dei diritti costituiti medio tempore dal compratore. Come si
ricava dagli artt. 1504 s. c.c., tutto ciò che il legislatore vuole evitare è che l’esercizio del riscatto sia
di fatto impedito dalla presenza di diritti concessi a terzi dal compratore.
Ma ciò non significa, naturalmente, che la fattispecie sia insensibile alle
vicende che abbiano coinvolto nel frattempo la persona del venditore. A
conferma di quanto sopra si ponga mente, per esempio, all’ipotesi in cui
l’alienante abbia, prima del riscatto, venduto a terzi il bene: sembra evidente
che in questo caso l’esercizio del riscatto determinerebbe senz’altro ed
automaticamente l’effetto previsto dall’art. 1478 cpv. c.c. 1.5. Se è dunque vero che il riacquisto
da parte del venditore non ha efficacia
retroattiva (per lo meno nel senso di cui all’art. 1360 c.c.), bensì
soltanto ex nunc, occorre allora
concluderne che esso non si sottrae alla regola sancita dall’art. 177 c.c. e
che pertanto (anche se il riscatto viene posto in essere disgiuntamente dal
solo alienante) il diritto così
riacquistato è sottoposto al regime comunitario (Oberto, La vendita con patto di riscatto, cit., 1090
ss., cui si rinvia anche per ulteriori approfondimenti, in merito, tra l’altro,
alla possibilità che il coniuge si avvalga della facoltà concessa dall’art. 179
lett. f) c.c., quando intenda conservare il carattere personale del bene
venduto prima del matrimonio e riscattato successivamente, nonché alla
situazione che si determina in caso di vendita con patto di riscatto di un bene
comune effettuata durante la vigenza del regime legale; sul tema v. inoltre Tordo, Brevi note sul riscatto convenzionale e sulle implicazioni correlate al
regime patrimoniale della famiglia, VN, 1993, 594 s.). 1.6. La soluzione del problema di cui sopra, concernente la caduta
in comunione del diritto di riscatto acquistato dal coniuge all’atto
dell’effettuazione della vendita manente
communione, condiziona anche la risposta all’interrogativo circa le
conseguenze dell’alienazione con patto di riscatto di un bene personale.
Non sembra qui accoglibile la tesi (Tordo,
op. cit., 597 s.) secondo cui si tratterebbe qui di una «deductio della facoltà dispositiva del bene», con conseguente
riacquisto alla massa personale del bene alienato, nel caso di esercizio del diritto
di riscatto. Per le stesse ragioni sopra illustrate, infatti, l’innegabile
verificarsi di una vicenda traslativa dal terzo acquirente al coniuge alienante
non può non determinare quell’acquisto che è presupposto dall’art. 177 lett. a)
c.c., salva, naturalmente, la facoltà in capo al coniuge interessato di porre
in essere gli accorgimenti previsti dall’art. 179 c.c. al fine di conservare il
carattere personale di siffatto (ri)acquisto. 1.7. Infine, l’eventuale intervento
dello scioglimento del regime legale nel periodo intercorrente tra la
vendita e l’esercizio del diritto di riscatto farà «degradare» al rango di
contitolarità ordinaria la comunione del diritto di riscatto stesso, con la
conseguenza dell’applicabilità del disposto dell’art. 1507 c.c. e la relativa
facoltà per ciascuno dei coniugi (o ex tali, o dei loro eredi) di esercitare
disgiuntamente il riscatto.
24.
L’acquisto di immobile di edilizia residenziale pubblica. 1.1.
25.
Rapporto locatizio e leasing. 1.1.
La giurisprudenza è assolutamente
costante nel ritenere che «Legittimato
passivo nella controversia diretta ad ottenere la cessazione della proroga
legale del contratto di locazione, stipulato sia anteriormente che
posteriormente all’entrata in vigore della riforma del diritto di famiglia
(legge 19 mag. 1975/151) è unicamente il
conduttore che ha stipulato il contratto e non anche il suo coniuge, in
quanto nella prima ipotesi il rapporto contrattuale, validamente stipulato
secondo la legge del tempo, verrebbe alterato con l’aggiunta di un nuovo
soggetto giuridico ad esso estraneo in contrasto con il principio della
irretroattività della legge, disconoscendosi gli effetti di un atto nato,
secondo la legge del tempo, perfettamente valido ed efficace, mentre nella
seconda ipotesi l’art 184 cod. civ. (nella nuova formulazione) prevede solo
l’annullabilità per la mancanza del consenso o della convalida del coniuge» (cfr.
tra le tante Cass.,23 giu. 1980/3946; Cass.,15 dic. 1981/6634). 1.2. Una leggera variante stilistica di
tale ratio decidendi viene espressa
da altre decisioni nei termini seguenti: «L’art. 180, secondo comma, cod. civ.
attribuisce ad entrambi i coniugi esclusivamente il diritto a stipulare i
contratti di locazione e, al pretermesso, le azioni di cui al successivo art.
184. Ne consegue che legittimato passivo
nella controversia diretta ad ottenere la cessazione della proroga legale
del contratto di locazione e, comunque, il rilascio dell’immobile condotto in
locazione è unicamente il coniuge che ha
stipulato il contratto, sia anteriormente che posteriormente all’entrata in
vigore della riforma del diritto di famiglia (legge n. 151 del 1975)» (cfr. ex multis Cass.,24 feb. 1986/1136, VN,
1986, 283; Cass.,18 ott. 1994/8469).
Comunque sia, la soluzione, sovente motivata, come si è visto, con il richiamo
alle norme in tema di amministrazione, appare in linea con l’affermazione di
principio della Corte circa la caduta in comunione dei soli diritti reali. 1.3.
Non constano invece precedenti giurisprudenziali in materia di contratto di leasing.
Ancora una volta, la soluzione appare legata a quella da fornirsi relativamente
alla caduta in comunione dei diritti di credito. E’ pertanto ragionevole
ritenere che, qualora la questione dovesse presentarsi all’esame della S.C.,
essa escluderebbe (non foss’altro che per ragioni di coerenza – peraltro non
sempre, come si è visto, rispettata – verso le proprie numerose esternazioni
contrarie alla caduta in comunione dei diritti di credito) l’applicabilità
dell’art. 177 lett. a) c.c. ai diritti pertinenti all’utilizzatore. Nel caso di
esercizio del riscatto manente communione
non dovrebbero invece sussistere difficoltà a riconoscere il carattere
immediatamente comune dell’acquisto (ovviamente a condizione che la fattispecie
non sia per varie ragioni riconducibile a situazioni di comunione de residuo o al disposto dell’art. 179
c.c.).
26.
Diritti derivanti dalla prelazione agraria dell’affittuario coltivatore diretto
1.1. Venendo al tema della
prelazione agraria, sarà opportuno affrontare partitamente le questioni
attinenti alla prelazione agraria che la legge attribuisce a favore
dell’affittuario coltivatore diretto del fondo, rispetto a quelle che nascono
dall’istituto della prelazione agraria concessa al coltivatore diretto
proprietario di fondo finitimo. Iniziando dalle prime,
27.
Diritti derivanti dalla prelazione agraria dei coltivatori diretti proprietari
dei fondi finitimi. 1.1. Venendo
alla prelazione concessa ex lege ai
coltivatori diretti proprietari dei fondi finitimi, va osservato che
28.
Il carattere legale del coacquisto automatico. 1.1. L’art. 177 lett. a) c.c. stabilisce, come noto, che
costituiscono oggetto della comunione legale gli acquisti compiuti dai due
coniugi insieme «o separatamente» durante il matrimonio. Ciò significa che il
fenomeno che va sotto il nome di «coacquisto
automatico» (su cui v. per tutti Schlesinger
1977, 371 ss.; Corsi 1979, 83
ss.) si verifica ex lege e non già per effetto di atto negoziale. 1.2. I coniugi, come noto, divengono
titolari del bene acquistato, paritariamente.
Ciò anche nell’ipotesi in cui l’acquisto sia stato effettuato congiuntamente
dai coniugi con un unico contratto nel quale siano state eventualmente previste
quote disuguali, stante l’inderogabilità del principio di parità sancito
dall’art. 210 c.c. (Schlesinger
1992, 91) e in relazione al fatto che la «ricaduta» del bene in comunione è un
effetto legale e non negoziale (cfr. inoltre Oppo,
Acquisto alla comunione coniugale e
pregiudizio dei creditori, RDC, 1981, I, 143, secondo il quale «non è un
effetto negoziale l’attrazione dell’acquisto alla comunione»; in giurisprudenza
v. Cass.,29 ott. 1992/1173; Cass.,10 ott. 1992/11428; Cass.,20 mar. 1991/2983;
Cass.,18 lug. 1983/4969, GI, 1984, I, 1, 286; Cass.,2 feb. 1982/605, FI, 1982,
I, 1979 ss.).
29.
Esclusione della qualifica di «avente causa» in capo al coniuge coacquirente ex lege, che non potrà ritenersi «terzo». 1.1. L’evidenziato carattere legale del coacquisto
determina, quale conseguenza, che il coniuge coacquirente non possa essere considerato «avente causa» dall’altro (cfr. per
tutti Cian-Villani 1981, 164 s.; Spitali 2002, 84 s.). In questo senso
si pronuncia espressamente Cass.,5 mag. 1990/3741, in motivazione, per
escludere l’applicabilità alla fattispecie della regola resoluto jure dantis, revolvitur et jus accipientis ed affermare il
carattere necessario del litisconsorzio tra moglie e marito nel giudizio di retratto
promosso dal conduttore di immobile non abitativo, nei confronti di colui che
dall’atto di vendita risulti acquirente dell’immobile, soggetto, in realtà, al
momento della stipula del negozio, coniugato in regime di comunione. 1.2. Ne consegue, ad esempio, che il
coniuge coacquirente non potrà ritenersi
«terzo» ai sensi e per gli effetti di disposizioni quali gli artt. 1415,
1445, 1458 cpv. e 2901 ult. cpv. c.c., vale a dire di quelle norme che
prevedono posizioni avvantaggiate e distinte (solitamente: salvezze di diritti
in capo ai terzi di buona fede) rispetto a determinati negozi traslativi di
diritti. 1.3. D’altro canto non
potrà certo dirsi che, nel caso di acquisto
viziato da parte del coniuge stipulante, il coniuge coacquirente veda salvo
il proprio coacquisto ex lege, dal
momento che il fondamento di questo secondo fenomeno traslativo risiede proprio
nella correttezza del primo. 1.4. Al
riguardo si è notato in dottrina che «Bisogna fare attenzione, nel descrivere
questo effetto ex lege a favore della
comunione, a parlare di un ‘ritrasferimento’:
una simile qualificazione, infatti, potrebbe far pensare ad una fattispecie
diversa ed ulteriore rispetto al contratto che ha prodotto l’acquisto, cosicché
il coniuge eventualmente estraneo all’atto – ovvero gli stessi coniugi in
regime di comunione, ove si tratti di acquisto compiuto ‘insieme’ – potrebbe
venir considerato un ‘avente causa’, un ‘subacquirente’, dal coniuge autore
dell’atto. Viceversa è pacifico che non possono trovare applicazione nel nostro
caso le norme dettate a tutela dei terzi,
come, ad es., in tema di simulazione (artt. 1415 e 1417 c.c.) o di rescissione
e risoluzione del contratto (artt. 1452 e 1458). Il particolare effetto ex lege
di cui all’art. 177, pertanto, va considerato un’automatica e necessaria conversione
degli effetti negoziali dell’atto: non un ‘ri-trasferimento’, ma piuttosto un co-acquisto a favore dei coniugi in
regime di comunione» (Schlesinger 1992,
90 ss.; cfr. inoltre Gabrielli-Cubeddu
1997, 18 ss.; ipotizza una situazione analoga all’acquisto del diritto nel
contratto favore di terzo Auletta
1999, 44).
30.
Effetti del carattere ex lege dell’acquisto
del coniuge, che non potrà ritenersi parte del contratto acquisitivo; risvolti
pubblicitari e in tema di domande di adempimento. 1.1. Proprio perché ex
lege, il coacquisto a vantaggio del coniuge in regime di comunione legale
determina una non coincidenza tra parti del negozio che si pone quale
fonte originaria dell’acquisto e destinatari
degli effetti. In altri termini, il coniuge destinatario del coacquisto
automatico non è per ciò solo anche parte del negozio predetto. Né la
conclusione varia considerando le norme in tema di amministrazione dei beni in
comunione. Come affermato dalla Corte Suprema in una sua ormai remota
decisione, l’art. 180 c.c. «non comporta
l’ingresso ipso iure, nel contratto
stipulato dall’altro coniuge, del coniuge pretermesso» (Cass.,18 lug.
1983/4969, GI, 1984, I, 1, 286 ss.). 1.2.
Una delle più rimarcabili conseguenze di questo principio possiamo verificarla
sul piano della pubblicità, nel senso che il fenomeno del coacquisto automatico non richiede l’effettuazione di apposita
trascrizione (in questo senso v. T Torino 6 dic. 1978, RD IP, 1979, 64). Il
tema è già stato affrontato nel commento alla parte generale delle convenzioni matrimoniali, cui si fa pertanto
rinvio (v. sub art. 162). 1.3. In questa sede basterà dire che
l’effetto del coacquisto ex lege, non
essendo sottoposto alle regole della pubblicità dichiarativa, non rientra nella logica del meccanismo
dell’anteriorità o posteriorità delle trascrizioni. Così, ad esempio, se
Tizio, coniugato in regime legale con Sempronia e unico intestatario di
immobile in comunione promette in vendita tale bene a Caio, e Caio trascrive la
propria domanda ex art. 2932 c.c. (in
forza di quanto previsto dall’art. 2652, n. 2, c.c.) contro Tizio, il
promissario acquirente Caio non prevale su Sempronia, anche se questa non ha
trascritto la sua domanda di accertamento della comunione. Costei potrà dunque
impugnare l’atto ex art. 184 c.c. (e
dovrà, anzi, farlo nel rispetto dei limiti previsti dalla norma) a prescindere
dalla trascrizione di eventuali atti o domande giudiziali da cui risulti il suo
diritto, poiché la comunione legale è
opponibile ex lege (per
un’affermazione di tale genere e per la soluzione di una controversia nel senso
indicato nell’esempio si v. Cass.,18 mag. 1988/3483, in motivazione, ove si
afferma anche che il coniuge coacquirente «ha acquistato la propria quota del
bene a titolo originario, in virtù di legge»). 1.4. Sul versante, poi, dell’adempimento del contratto acquisitivo,
va detto che, poichè il coniuge coacquirente è destinatario del solo
«acquisto», cioè dell’effetto reale di acquisto di un diritto (reale o di
credito, a seconda della tesi che si intenda seguire) e non è parte del
negozio, deve escludersi che nascano a
suo carico le obbligazioni ex contractu
(es.: pagamento del prezzo) gravanti sul coniuge unico soggetto stipulante.
Ciò costituisce del resto effetto del principio fondamentale sancito dall’art.
1372 c.c., che non trova deroga nel caso di specie. E’ pertanto escluso che una
parte possa mai proporre nei confronti del coniuge della controparte eventuali
domande di adempimento o di risarcimento del danno conseguente ad asseriti
inadempimenti. 1.5. Potrà
aggiungersi a tal proposito che la giurisprudenza di legittimità si è dovuta
occupare di un caso di responsabilità
precontrattuale, stabilendo che «La circostanza che il coniuge
comproprietario sia parte necessaria del contratto per l’alienazione (o per la
promessa di alienazione) di un immobile acquistato in regime di comunione
legale non gli attribuisce, per ciò solo, la qualità di parte ai fini dell’art.
1337 cod. civ. ove alle trattative non sia intervenuto in tale qualità. Infatti
la responsabilità a norma degli artt. 1337 e 1338 cod. civ. prescinde dalla
titolarità o contitolarità del rapporto sostanziale che si vuole
contrattualmente modificare e sorge solo ove un soggetto assuma, nelle trattative,
la qualità di parte e cioè di persona nei cui confronti il contratto da
concludere deve produrre effetto, mentre è irrilevante che lo stesso sia
titolare della situazione sostanziale sottostante ove non si presenti alle
trattative in detta qualità, dal momento che chi non assume la qualità di
parte, non essendo soggetto allo obbligo di comportamento prescritto dalla
legge secondo buona fede, non può violarlo» (Cass.,28 ott. 1983/6386).
31.
Effetti processuali del carattere ex lege dell’acquisto del coniuge: a) Legittimazione passiva e litisconsorzio
necessario nelle cause di impugnazione dei contratti acquisitivi. 1.1. Da quanto illustrato alla fine del paragrafo
precedente e dunque dalla considerazione per cui deve negarsi che la parte di
un contratto possa proporre domande di adempimento o di risarcimento del danno
conseguente ad asseriti inadempimenti nei riguardi del coniuge dell’altro
contraente che sia mero destinatario ex
lege dei relativi effetti, deriva che il coniuge (automaticamente) coacquirente
non dovrebbe ritenersi legittimato passivo né litisconsorte necessario nei
giudizi che concernano il mero negozio
(cioè l’impugnazione o la responsabilità da contratto). 1.2. In realtà, e a ben vedere, il problema della legittimazione
processuale e dell’eventuale esistenza di litisconsorzio necessario si pone in
relazione a quei processi che, pur investendo il solo negozio di acquisto, sono
suscettibili di incidere sull’effetto
traslativo che il medesimo aveva eventualmente prodotto (o che lo stesso
sarebbe stato astrattamente idoneo a produrre, in caso di sua validità). 1.3. Così, per ciò che attiene, ad
esempio, alle domande dirette all’accertamento della simulazione,
Le cause di annullamento
del contratto d’acquisto
32.
Segue: b) Legittimazione passiva e litisconsorzio necessario nelle cause di
rivendica e di retratto. 1.1. La
casistica giurisprudenziale si è anche dovuta confrontare con azioni di rivendica proposte da terzi
su beni in comunione. Qui
33.
Segue: c) Legittimazione passiva e litisconsorzio necessario in altre azioni di
carattere reale. 1.1. Sempre
relativamente ad azioni di carattere reale è stato affermato dalla Cassazione
che «Se un condomino agisce per la demolizione
di un manufatto realizzato su un terreno in comproprietà con il coniuge del
convenuto, ancorchè soltanto questi, secondo l’assunto dell’attore, sia
l’autore delle opere, il contraddittorio deve essere integrato nei confronti di entrambi i comproprietari, essendo la
pronuncia destinata ad incidere su situazioni necessariamente comuni, con la
conseguenza che ove la nullità del giudizio per la mancata partecipazione di
uno dei litisconsorti necessari venga fatta valere, la pronuncia deve essere
annullata e le parti rimesse davanti al primo giudice» (Cass.,15 feb.
1999/1270). 1.2. Analogamente è
stato deciso che «La domanda di demolizione
di corpi di fabbrica abusivamente costruiti su un immobile acquistato da coniugi
in regime di comunione legale, deve esser proposta nei confronti di
entrambi, litisconsorti necessari,
ancorchè non risultino dalla nota trascritta nei registri immobiliari né detto
regime, né l’esistenza del coniuge, non trattandosi di questione concernente la
circolazione dei beni e l’anteriorità dei titoli, bensì di azione reale, che
prescinde perciò dall’individuazione dell’autore materiale dei lamentati abusi
edilizi. La eventuale violazione del contraddittorio è deducibile anche per la
prima volta in sede di legittimità, se risultante dagli atti e non preclusa dal
giudicato sulla questione» (Cass.,20 mar. 1999/2610). 1.3. Anche relativamente alla domanda
di divisione proposta da un comproprietario relativamente a cespiti in
comproprietà con un soggetto coniugato in regime di comunione legale è stato
deciso che «La divisione di un bene comune va annoverata tra gli atti eccedenti
l’ordinaria amministrazione. Pertanto, ai sensi dell’art. 180, secondo comma,
cod. civ., come sostituito dalla legge n. 151 del 1975 sulla riforma del
diritto di famiglia, qualora del bene da dividere siano comproprietari, assieme
ad altri, due coniugi in regime di comunione legale, la rappresentanza spetta
congiuntamente ad entrambi, con la conseguenza che entrambi sono litisconsorti necessari, ex art. 784 cod. proc. civ., nel giudizio divisionale da chiunque
promosso» (Cass.,21 gen. 2000/648).
34.
Segue: d) Conclusioni in tema di legittimazione passiva e litisconsorzio
necessario. 1.1. Sulla
base della disamina sopra condotta della giurisprudenza di legittimità e delle
considerazioni svolte, non sembra azzardato trarre qualche conclusione di
carattere generale circa gli interrogativi posti in tema di legittimazione
passiva e litisconsorzio necessario. La prima distinzione da tenere presente è
certamente quella tra carattere reale o
personale dell’azione. Ciò nel senso che, sicuramente, il carattere reale dell’azione proposta da
un terzo, investendo il profilo del diritto dominicale sul bene, dovrebbe
sempre determinare una situazione di litisconsorzio
necessario tra i coniugi. 1.2.
Per quanto attiene invece alle azioni
personali, ed in particolare a quelle relative al contratto che si pone
quale fonte dell’acquisto in relazione al quale si sia determinato il
coacquisto automatico in capo al coniuge in comunione, il discorso si presenta
sicuramente più articolato. 1.3.
Mentre non paiono sussistere dubbi sull’assenza
di litisconsorzio necessario nel
caso l’azione del terzo investa profili che non travolgono gli effetti traslativi del negozio (si pensi a petita quali la condanna del compratore
al pagamento del prezzo o al risarcimento dei danni per inadempimento o per
responsabilità precontrattuale), i casi più controversi concernono quelle
azioni che, pur investendo il solo negozio, appaiono idonee a travolgerne gli effetti (si pensi a petita quali quelli volti
all’accertamento della nullità, alla pronunzia dell’annullamento, della
risoluzione, della rescissione o comunque dell’inefficacia del negozio). 1.4. Qui occorre tenere presente che,
mentre, da un lato, il venire meno del negozio pone nel nulla l’effetto
traslativo, così eliminando uno dei presupposti indefettibili per l’acquisto
automatico del coniuge, dall’altro, la relativa pronunzia rischia di apparire
come inutiliter data nei riguardi di
quest’ultimo, ove non sia stato parte del processo, con l’ulteriore e già
evidenziata caratteristica data dall’impossibilità di opporre al coniuge il
giudicato ex art. 2909 c.c., non potendosi
tale soggetto ritenere alla stregua di un avente causa dal coniuge acquirente.
Proprio queste ragioni sembrano consigliare quanto meno un’estensione del contraddittorio ex
art. 106 c.p.c., al fine di evitare che la decisione resa alla fine della procedura
risulti non opponibile al coniuge in regime di comunione dei beni. 1.5. La conclusione testé enunciata
potrebbe poi trovare una deroga nel caso di scindibilità degli effetti della pronuncia. Si può pensare al
riguardo all’ipotesi del preliminare di
vendita di bene comune stipulato da un solo coniuge e della successiva
azione ex art. 2932 c.c. proposta dal
terzo nei riguardi del solo promittente venditore. In tale ipotesi
35.
Effetti del carattere ex lege dell’acquisto
del coniuge, in relazione ad eventuali divieti di comprare. 1.1. Il fenomeno del coacquisto automatico può determinare
problemi di coordinamento con una
serie di disposizioni che vietano a
determinati soggetti di rendersi acquirenti di certi diritti, in
considerazione della particolare posizione dei soggetti medesimi. Si pensi, ad
esempio, a quanto disposto dagli artt. 1471 c.c. in tema di vendita, 323 c.c.
in materia di potestà dei genitori e 378 c.c. con riguardo agli atti vietati al
tutore ed al protutore. Si tratta, in altri termini, di stabilire se la caduta
in comunione possa ritenersi operante nel caso in cui ad acquistare non sia il
soggetto colpito dal divieto, ma il di lui coniuge, in regime di comunione
legale. 1.2. Alcuni degli
interrogativi posti possono ricevere risposta già sulla base della
considerazione delle norme che pongono tali divieti. Così, l’art. 1471 c.c. pone
il divieto di rendersi «compratore»,
laddove è chiaro che tale non è il destinatario dell’effetto ex art. 177 lett. a) c.c. Gli artt. 323
e 378 c.c., dal canto loro, usano un’espressione più ampia: «rendersi
acquirenti direttamente o per interposta persona». Ora, se è vero che il
coacquisto automatico potrebbe far pensare, a tutta prima, ad una sorta di
impropria «interposizione di persona», è altrettanto vero che i fenomeni cui le
norme citate – contenenti divieti di carattere eccezionale e dunque inestensibili
analogicamente – sembrano fare richiamo sono quelli, ben diversi,
dell’interposizione reale o di quella fittizia. 1.3. Sul tema potrà segnalarsi che la giurisprudenza di legittimità
si è espressa in relazione alla previsione dell’art. 579 c.p.c. che, se da un
lato nega al debitore esecutato la
legittimazione ad effettuare offerte all’incanto relativamente ai beni
esecutati, dall’altra, come rilevato dalla stessa Cassazione, non integra un
divieto d’acquisto da parte del debitore: «In tema di espropriazione forzata
immobiliare, la previsione dello art. 579 cod. proc. civ. denegativa per il
debitore esecutato dalla legittimazione di fare offerte all’incanto che non
integra un divieto dell’acquisto da parte del debitore costituendo norma
eccezionale rispetto alla ‘regola’ stabilita dallo stesso art. 579 per la quale
la legittimazione all’offerta compete ad ‘ognuno’, non può trovare applicazione
analogica per altre ipotesi od a altri soggetti non considerati in detta norma,
neppure con riguardo al coniuge del
debitore ancorchè sussista tra i coniugi il regime di comunione legale dei
beni previsto dagli artt. 177 e segg. cod. civ., sicché questi rientrando
nell’ampia e onnicomprensiva categoria delineata dal richiamato art. 579 cod.
proc. civ., è ammesso a fare offerte per
l’incanto ed offerta di aumento del sesto dopo la aggiudicazione, senza che
rilevi il fatto che, per volontà della legge, l’effetto traslativo del bene
operato direttamente soltanto in capo a lui quale offerente aggiudicatario si
ripercuota per la metà nel patrimonio del debitore esecutato» (Cass.,2 feb.
1982/605). 1.4. Una decisione di
merito si è invece occupata dell’incidenza del regime legale sul fenomeno del retratto successorio, stabilendo che
«La prevalente e cogente normativa di cui all’art. 177 cod. civ. esula dalle
previsioni dell’art. 732 cod. civ.: non può pertanto esercitarsi il retratto
successorio nell’ipotesi in cui un erede abbia venduto la propria quota
ereditaria ad un coerede e la metà di tale quota sia pertanto passata ex lege al coniuge del compratore per
effetto del regime di comunione legale dei beni vigente tra i coniugi» (T
Verona 26 set. 1983, D FAM, 1983, 1073). Di fronte ad una fattispecie analoga,
vent’anni dopo
36.
Effetti del carattere ex lege dell’acquisto
del coniuge, in relazione ad eventuali requisiti personali richiesti dalla
normativa fiscale. 1.1. Il
coacquisto automatico può dispiegare effetti anche in relazione alla normativa
fiscale, laddove, ad esempio, questa preveda particolari agevolazioni a favore di determinati soggetti. Può
infatti accadere che il soggetto in possesso di siffatti requisiti proceda
all’effettuazione di un acquisto che in tal modo, ex art. 177 lett. a) c.c. venga a cadere in comunione con il
coniuge, eventualmente non in possesso di questi requisiti. 1.2. In proposito va dato atto, innanzi
tutto, di un primo periodo caratterizzato da incertezze nella giurisprudenza delle commissioni tributarie. Così
la commissione tributaria di secondo grado di Matera (29 apr. 1986, BT, 1987,
424) ebbe a decidere che «Nell’acquisto in regime di comunione legale, il
coniuge non costituito in atto assume la qualità di acquirente unitamente al
coniuge stipulante, verificandosi, ope
legis, la comproprietà del bene acquistato. L’indiscutibile effetto
civilistico che deriva dalla stipulazione separata da parte di un solo coniuge
in regime di comunione legale non può estendersi alla normativa dell’art. 2
della legge 168/1982 la quale richiede dall’acquirente e non dallo stipulante,
la dichiarazione di poter godere dei benefici previsti. Non può infatti la
dichiarazione del coniuge stipulante automaticamente valere per l’altro coniuge
che potrebbe anche trovarsi in situazioni che ostacolano la concessione del
beneficio. La mancanza della dichiarazione da parte del coniuge non stipulante
rende pertanto legittima l’applicazione dell’ordinaria imposizione sulla quota di metà che al medesimo perviene ope legis». 1.3. In senso opposto la commissione tributaria di primo grado di
Salerno (27 ott.
37.
Effetti del carattere ex lege dell’acquisto
del coniuge, in relazione ad eventuali situazioni di incapacità. 1.1. Un altro problema posto dal fenomeno dell’acquisto
automatico concerne la possibilità che il coniuge coacquirente ex lege si trovi in situazione di
incapacità o di semi-incapacità. Si noti, sul punto, che il sopravvenire di una
di tali situazioni non determina ipso facto lo scioglimento del regime
legale: cfr. artt. 183 e 193 c.c. D’altro canto è assolutamente pacifico
che la celebrazione di matrimonio da parte di minore autorizzato ex art. 84 c.c. senza la stipula di una
convenzione in deroga determina ex
art. 159 c.c. l’instaurazione del regime legale anche in tale ipotesi e dunque
con un soggetto (il minore emancipato, appunto) in situazione di
semi-incapacità. 1.2. Ora, partendo
dal presupposto che tutte le disposizioni relative alla necessaria
rappresentanza o assistenza da parte di soggetto (genitore, tutore, curatore,
curatore provvisorio) munito di autorizzazione giudiziale si riferiscono ad attività negoziali da porsi in essere per
l’incapace o il semi-incapace, e che l’effetto descritto dall’art. 177 lett. a)
c.c. è frutto della semplice applicazione di una norma di legge (e non già di
una manifestazione di volontà negoziale), sembra potersi trarre la conseguenza
che l’effetto del coacquisto automatico non
sia inibito dalla presenza, in capo al coniuge non agente, di una situazione di
incapacità o di semi-incapacità. 1.3.
A conferma di tale conclusione giunge la considerazione per cui la disciplina a
tutela degli incapaci è generalmente riconosciuta come inapplicabile ai casi di
acquisto a titolo originario (così Jannuzzi, op. cit., 357) cui, pur con i
dovuti distinguo, è pur sempre
avvicinabile il fenomeno del coacquisto automatico.
Inapplicabilità al
coacquisto ex lege della
normativa in tema di incapaci e semi-incapaci
38.
Il carattere «gratuito» del coacquisto. 1.1. Il coacquisto automatico a beneficio del coniuge non agente in
regime di comunione dei beni si verifica sicuramente a prescindere non solo dal
contributo fornito al ménage
familiare (v. supra sub § 9), ma anche da quello relativo
all’acquisto in sé considerato. In altri termini, è del tutto indifferente che il coniuge
coacquirente ex lege abbia o meno versato parte del prezzo
corrisposto per l’acquisto. Il dato può dirsi pacifico tanto in dottrina (sul
tema v. per tutti Schlesinger 1992,
93 s.) che in giurisprudenza (cfr. ad es. Cass.,16 dic. 1993/12439, secondo cui
«La comunione legale fra coniugi, ai sensi dell’art. 177 primo comma lett. a)
cod. civ., riguarda gli ‘acquisti’ compiuti durante il matrimonio,
indipendentemente dalla provenienza delle risorse che li abbiano consentiti»;
v. inoltre Cass.,18 giu. 1992/7524, D FAM, 1993,
39.
Ipotesi di conflitto tra più acquisti automatici ex lege.
1.1. Un’ultima questione attinente al
fenomeno dell’acquisto automatico può porsi relativamente ad ipotizzabili
conflitti con altri fenomeni di acquisto automatico descritti dal vigente
ordinamento. Si pensi alla fattispecie descritta dall’art. 1478 cpv. c.c., in
forza della quale, in caso di vendita di
cosa altrui, «Il compratore diventa proprietario nel momento in cui il
venditore acquista la proprietà dal titolare di essa». 1.2. Se dunque Tizio, coniugato in regime di comunione dei beni,
aliena a Caio un bene di proprietà di Sempronio ed acquista quindi il bene da
quest’ultimo nel momento in cui lo stesso Tizio è coniugato in regime di
comunione legale con Mevia, in relazione allo stesso diritto dominicale vengono
a determinarsi due distinti
trasferimenti automatici ex lege:
uno in favore di Caio (ex art. 1478
cpv. c.c.) e l’altro (pro quota) in
favore di Mevia (ex art. 177 lett. a)
c.c.). I due effetti appaiono ictu oculi
tra di loro incompatibili. 1.3. Neppure può ipotizzarsi che, poiché il
diritto dominicale transita, anche se per un solo istante, nel patrimonio di
Tizio, esso cada in comunione, così determinando l’applicazione dell’art. 1478
c.c. per la sola quota, per l’appunto, di Tizio. Invero, una situazione del
genere darebbe luogo ad una comunione legale tra due soggetti (Mevia e Caio)
non legati da coniugio, in palese contrasto con il presupposto fondamentale
dell’istituto ex artt. 177 ss. c.c. 1.4. La soluzione può forse rinvenirsi
nella considerazione per cui il transito del diritto di proprietà sul bene
altrui nel patrimonio del venditore, descritto dall’art. 1478 c.c., è puramente «servile» e finalizzato
all’acquisto della proprietà in capo al compratore, per cui il coniuge del
venditore di cosa altrui non coacquista ex
art. 177 lett. a) c.c. 1.5. Un
problema in un certo senso analogo può infine porsi in relazione al disposto
dell’art. 1706 c.c., in tema di mandato
senza rappresentanza (ad acquistare) qualora il mandatario senza
rappresentanza abbia acquistato trovandosi in regime di comunione legale. Qui,
in caso di acquisto di beni mobili,
il doppio trasferimento automatico in favore del mandante, presupposto dal
primo comma di tale disposizione, sembra potersi risolvere con la stessa
considerazione che ci ha portati ad escludere l’operatività dell’art. 177 lett.
a) c.c. (acquisto diretto in capo al mandante ed inapplicabilità dell’art. 177
lett. a) c.c. in favore del coniuge del mandatario). 1.6. Per quanto attiene invece ai beni immobili ed ai mobili iscritti in pubblici registri, non vi è
dubbio che un trasferimento automatico verso il mandante non abbia luogo e che
pertanto il coniuge del mandatario coacquisti ex lege ex art. 177 lett. a) c.c. (esclude invece dalla comunione
gli acquisti effettuati nell’interesse di terzi, come i negozi fiduciari e
simulati o le interposizioni fittizie o reali Barbiera
1996, 452 s.). Il mandatario sarà perciò obbligato (sotto pena, evidentemente,
del risarcimento dei danni) a far sì che il proprio coniuge presti il consenso
al trasferimento, mentre il rimedio ex
art. 2932 c.c. non sembra in tale ipotesi esperibile. 1.7. Questa tesi sembra essere stata fatta propria dalla Cassazione
(Cass.,18 giu. 1992/7524, D FAM, 1993, 75), che ha affermato l’inopponibilità dell’interposizione reale
al coniuge dell’interposto, cui è stato riconosciuto il diritto di esperire
proficuamente l’azione di annullamento ex
art. 184 c.c. di un preliminare volto al trasferimento del bene dall’interposto
all’interponente. 1.8. Si noti che,
che nei casi in esame, si verterà sovente in tema di esercizio di attività separata, per cui l’acquisto
sarà da escludersi dalla comunione attuale ex
art. 177 lett. c) c.c.