III
1. I beni personali ex
art. 179, lett. a), c.c. Generalità. Il problema della prova. 1.1. L’art.
179 c.c. elenca – sulla scorta del precedente art. 217 c.c. – i beni sottratti
tanto alla massa in comunione immediata, che a quella in comunione de residuo. La composita enumerazione
della norma in oggetto consente di individuare diverse classi di cespiti sottratti al disposto degli artt. 177 e
178 c.c., raggruppabili nelle seguenti categorie di beni, che possono
qualificarsi come personali, rispettivamente:
·
in relazione
all’epoca dell’acquisto (lett. a));
·
in relazione al
titolo di acquisto (lett. b) ed e));
·
per destinazione
(lett. c) e d));
·
per surrogazione
(lett. f));
·
a queste serie di
ipotesi si potrà infine aggiungere quella, non espressamente contemplata
dall’art. 179 c.c. (e sulla cui esistenza dottrina e giurisprudenza dibattono),
dei beni personali per accordo dei coniugi.
1.2. Iniziando dunque dalla lett. a), rileviamo che, ai sensi di questa
disposizione, non entrano a far parte della comunione legale «i beni di cui,
prima del matrimonio, il coniuge era proprietario o rispetto ai quali era
titolare di un diritto reale di godimento». Qui dovrà subito dirsi che,
nonostante il tenore letterale della norma, essa va riferita non tanto al momento dell’instaurazione del vincolo
matrimoniale, quanto a quello di inizio
del regime di comunione legale. Se, infatti, gli sposi dovessero optare
inizialmente per il regime di separazione e solo in un secondo momento adottare
quello comunitario, non vi sarebbero dubbi sul fatto che i beni acquistati
durante la prima fase – anteriormente, dunque, alla stipula della convenzione
costitutiva del regime ex artt. 177
ss. c.c. – continuerebbero a configurarsi come personali (per una più ampia
disamina delle altre possibili ipotesi
relative all’instaurazione del regime di comunione legale in un momento
successivo alla celebrazione del matrimonio cfr. Ubaldi 1989, 412 ss.; v. inoltre Oberto, L’autonomia
negoziale nei rapporti tra coniugi (non in crisi), FA, 2003, 646 ss.). 1.3. Problemi particolari si pongono in
caso di trascrizione tardiva del
matrimonio canonico, cui l’art. 8, co. 5° e 6°, l. 25 mar. 1985/121
attribuisce efficacia retroattiva, che si estende sino al momento della
celebrazione delle nozze, purché ciò non pregiudichi i terzi che legittimamente
abbiano acquisito dei diritti. Secondo l’orientamento che appare preferibile, gli acquisti compiuti medio tempore
dai coniugi, anche separatamente, ricadono in comunione, ma gli atti di
disposizione sui beni così acquistati, posti in essere dall’intestatario (che
abbia agito senza l’intervento del coniuge), non potranno essere annullati con
l’azione prevista dall’art. 184 c.c., né essere in altro modo pregiudicati (Barbiera 1996, 512 s.; a Beccara 2002, 150). 1.4. La disposizione è applicabile
anche alle quote in comunione ordinaria
acquisite dai coniugi prima del matrimonio. In questo senso può invocarsi anche un precedente di legittimità, secondo
cui la comunione convenzionale, sussistente tra i coniugi al riguardo di
un bene e costituitasi prima dell’entrata in vigore del regime legale «non si
trasforma in comunione legale, ma continua ad essere disciplinata dagli artt.
1100 e ss. cod. civ. ove non venga posta in essere la convenzione prevista
dall’art. 228 cit. (Nella specie è stata esclusa, ai fini della proposizione
della domanda di divisione di una comunione convenzionale instaurata prima del
15 gennaio 1978, la necessità di una previa sentenza definitiva di
separazione)» (Cass., 1 mar. 1991/2183, GC, 1991, I, 1735). 1.5. Anche il denaro «prematrimoniale», alla stregua degli altri diritti
acquistati prima delle nozze, è da considerarsi escluso dalla comunione (v. per
tutti Auletta 1999, 174, cui si
rinvia anche per la questione, da risolversi negativamente, relativa
all’esistenza o meno di un diritto di godimento, in capo a ciascun coniuge, sui
beni personali dell’altro, similmente a ciò che era previsto dall’abrogato art.
217 c.c.). 1.6. La dottrina ha
esattamente rilevato che talune incertezze, a distanza di tempo, possono
discendere dalla difficoltà di
individuazione dei beni (mobili) già facenti parte del patrimonio personale
prima delle nozze. Al riguardo, va notato che la nuova disciplina non ha
ripetuto la prescrizione contenuta nell’abrogato art. 228 c.c., il quale
imponeva di procedere ad una «descrizione autentica» dei beni mobili posseduti
prima del matrimonio. 1.7. In caso
di dubbio dovrebbe soccorrere la presunzione
di comunione di cui all’art. 195 c.c. (sul tema dei rapporti tra tale
presunzione e quella di cui all’art. 219 c.c., nonché per l’applicabilità della
prima al caso di specie cfr. per tutti Oberto
2005, 261 ss., 297 ss., 318 ss.).
2. Segue. b) Gli acquisti nelle fattispecie a formazione
progressiva. 1.1.
Notevole rilievo pratico rivestono le problematiche relative alle modalità di
applicazione dell’art. 179, lett. a), c.c. alle fattispecie di acquisto a
formazione progressiva, quando, per l’appunto, l’effetto traslativo finale si
configura come la risultante di un procedimento
complesso. Qui è possibile immaginare una divaricazione temporale tra: (1) il momento in cui la fattispecie
negoziale risulta completa di tutti i suoi elementi, (2) quello in cui la parte
affronta la spesa per l’acquisto e (3) quello in cui la vicenda acquisitiva si
perfeziona. 1.2. Parte della
dottrina ha ritenuto di dover indicare, quale momento determinante per
l’accertamento della caduta o meno in comunione, quello – sopra individuato sub (2) – in cui «è stato sostenuto l’onere economico giustificativo dell’acquisto» (Schlesinger 1992, 149; in senso analogo
Russo 1999, 161 ss., che offre un
criterio di ripartizione attinente «alla sostanza
del tempo della formazione della ricchezza» in virtù del quale «se la parte
economicamente più importante del ‘bene’ è antecedente al matrimonio, il bene
non cade in comunione»). 1.3.
Siffatta soluzione risulta peraltro contraria
allo spirito così come alla lettera della Riforma del 1975, tesa a fornire
alla comunione legale la massima capacità espansiva, a prescindere dal concreto
contributo prestato da ciascuno dei coniugi non solo al ménage familiare, bensì anche ad ogni acquisto in sé considerato. 1.4. Per le medesime ragioni
sembrerebbe inaccettabile pure il criterio sopra indicato sub (1), che peraltro è sostenuto dalla dottrina maggioritaria, la
quale fa leva unicamente sul momento di
perfezionamento della fattispecie negoziale (Ubaldi 1989, 435 ss.; Gabrielli-Cubeddu
1997, 26 ss., 29; v. inoltre Lemmi,
Comunione legale e vendita obbligatoria (sul concetto di «acquisti» ex art. 177, lett. a), c.c.), GI, 1989,
IV, 430 ss.; Auletta 1999, 177; a Beccara 2002, 155; per una posizione
più articolata v. Rimini 2001,
242 ss., che richiama l’art. 192 co. 3°, c.c.). 1.5. In senso contrario si può osservare che il concetto di
«acquisto», contenuto nell’art. 177 c.c., non può riferirsi se non al pieno completamento della vicenda
acquisitiva, con il trasferimento del diritto in capo all’acquirente. 1.6. Per ciò che attiene più
specificamente alle cosiddette vendite
obbligatorie (rectius: ad effetti
reali differiti), partendo dalla considerazione secondo cui, a seguito della
stipulazione di un contratto di compravendita di cosa futura (art. 1472), di
cosa altrui (art. 1478 s. c.c.), di cosa generica, o di cosa alternativa
l’acquirente otterrebbe istantaneamente una situazione di titolarità del
diritto reale, ancorché differita nel tempo, la dottrina maggioritaria opta per
la personalità dell’acquisto (cfr. a
Beccara 2002, 156; cfr. inoltre Lemmi,
op. cit., 430 ss.; Ubaldi 1989, 444; De Paola 1995, 390 s.; Radice 1997, 128; Auletta 1999, 179 s.; in senso
contrario, per la vendita di cosa futura, v. A. – M. Finocchiaro 1984, 895 s.). 1.7. In realtà, se è vero come è vero che la vicenda acquisitiva si perfeziona solo al momento in cui la cosa viene in
essere o il venditore procura l’acquisto al compratore, o interviene la
specificazione o la scelta, saranno solo questi ultimi momenti a rilevare per
la produzione degli effetti ex art.
177 c.c. 1.8. Per quanto attiene, specificamente, alla vendita
con patto di riservato dominio e alla vendita con patto di riscatto
si fa rinvio a quanto già illustrato nel commento all’art. 177 c.c. (v. supra, sub art. 177, §§ 22 s.).
3.
Segue. c) Ulteriori fattispecie controverse. Il problema del preliminare (e del
definitivo per scrittura privata). 1.1. Tra le ulteriori ipotesi prese in considerazione dalla dottrina
rinveniamo quella della divisione di
un bene relativamente al quale uno dei coniugi sia titolare di una quota di comproprietà avente natura
personale. Tra gli autori vi è assoluta concordia nell’escludere dalla massa comune
il cespite assegnato in proprietà individuale al coniuge e ciò in
considerazione della natura meramente dichiarativa della divisione stessa, come
previsto dall’art. 757 c.c. (per tutti A.-M. Finocchiaro
1984, 877). La soluzione va accolta anche nel caso in cui il coniuge
assegnatario sia tenuto al pagamento di conguagli, per i quali si configurerà
solo una questione di rimborsabilità ex
art. 192, co. 1°, c.c. qualora per il pagamento siano utilizzati denaro o altre
risorse della comunione (a Beccara 2002,
159 s.; per un diverso approccio v. Russo
1999, 155 ss., che contesta la tesi della natura dichiarativa della
divisione). 1.2. Un altro caso in
cui la dottrina si è espressa contro la
caduta in comunione è quello in cui, successivamente all’instaurazione del
regime legale, si sia accertata la nullità,
ovvero siano stati pronunziati l’annullamento,
la risoluzione o la rescissione di un contratto di acquisto
concluso da uno dei coniugi in epoca precedente a tale evento, attesa la
retroattività degli effetti di quell’accertamento o di quelle pronunce (cfr. Auletta 1999, 184; Russo 1999, 158 s.; a Beccara 2002, 160). 1.3. Venendo al contratto preliminare concluso prima
dell’instaurazione del regime legale, seguito dal definitivo stipulato sotto la vigenza della comunione, va
riscontrata un’ampia convergenza dottrinale sulla soluzione che assegna alla
comunione l’acquisto del diritto oggetto del contratto definitivo; la
conclusione è condivisa anche dai sostenitori della tesi che afferma come
rilevante il momento di perfezionamento della fattispecie negoziale, posto che
qui la vicenda negoziale relativa al contratto definitivo è percepita come
distinta da quella racchiusa nella stipula del preliminare (cfr. A.-M. Finocchiaro 1984, 991; Ubaldi 1989, 437; De Paola 1995, 392; Auletta 1999, 182; a Beccara 2002, 155; è orientata in tal
senso anche l’unica pronuncia edita: T Parma 1° dic. 1987, GI, 1989, I, 594; contra Barbiera
1996, 475; Di Martino 1997, 73; Radice 1997, 128). 1.4. La conclusione non vale, ovviamente, nel caso in cui si ricada
in una delle previsioni delle lett. b)-f) dell’art. 179 c.c. 1.5. Diverso è il caso in cui le parti
concludano in forma scritta, ma inidonea alla trascrizione (si pensi ad una mera scrittura privata non
autenticata), un contratto definitivo di
compravendita (per designare il quale si usa talora l’impropria espressione
«compromesso»), provvedendo poi in
un secondo momento, seguente alla celebrazione del matrimonio, alla ripetizione
del negozio dinanzi al notaio. Qui appare pacifico che l’effetto traslativo si è verificato prima dell’instaurazione
della comunione; la soluzione non cambierebbe neppure a voler abbracciare
la tesi che fa perno sul «perfezionamento della fattispecie negoziale».
Peraltro, nei rapporti con i terzi l’acquisto dovrebbe ritenersi caduto in
comunione (Corsi 1979, 98; A.- M.
Finocchiaro 1984, 900 s.).
4. I beni personali ex
art. 179, lett. b), c.c. Ratio della disposizione e acquisti mortis
causa. 1.1. La seconda categoria di beni alla quale il legislatore ha riconosciuto il
carattere della personalità è indicata
dalla lett. b) dell’art. 179 c.c., ai sensi della quale sono personali «i beni
acquisiti successivamente al matrimonio per effetto di donazione o successione,
quando nell’atto di liberalità o nel testamento non è specificato che essi sono
attribuiti alla comunione». 1.2. Nel tentativo di giustificare la ratio
che sta alla base della norma in esame, alcuni autori hanno fatto riferimento
al criterio dell’intuitus personae, evidenziando il carattere
intrinsecamente personale delle disposizioni a titolo liberale o testamentario,
attesa anche la necessità di valorizzare al massimo la volontà del donante o
del de cuius (in questo senso Bartolini-Gregori, Donazione e
acquisti a titolo gratuito in regime di comunione legale, in Aa. Vv., Il nuovo diritto di famiglia. Contributi notarili, Milano, 1975,
156; Corsi 1979, 99; De Paola 1995, 477). 1.3. Secondo altro orientamento, la
norma si giustificherebbe in base al fatto che i beni di cui si parla non sono
originati da un contributo solidale dei coniugi direttamente o indirettamente
finalizzato al miglioramento del ménage familiare, ma dall’iniziativa di
un soggetto di per sé potenzialmente anche estraneo al nucleo familiare formato
dai coniugi (cfr. in particolare Detti,
Oggetto, natura, amministrazione della
comunione legale dei coniugi, RN, 1976, 1158; Schlesinger 1977, 397).
1.4. La vera ragione di siffatta opzione di politica legislativa sembra
doversi rinvenire invece in motivi d’ordine storico: invero, già le
antiche coutumes francesi stabilivano
che gli immobili donati o ricevuti per successione dagli ascendenti avrebbero
dovuto ritenersi propres e come tali
esclusi dalla communauté. Ciò
in quanto «la nature des propres est d’être d’anciens héritages (…) qui se sont
transmis dans la famille par succession» (Pothier
Traité de la communauté, in Pothier, Traités sur différentes matières de droit civil, III,
Paris-Orléans, 1781, 539). 1.5. Per ciò che attiene poi più
specificamente agli acquisti mortis
causa, la dottrina segnala l’assenza di particolari questioni di
carattere interpretativo: non vi sono dubbi in particolare sul fatto che la
previsione faccia riferimento sia alle disposizioni a titolo universale,
che a quelle a titolo particolare, a prescindere dal titolo, legale o
testamentario, del lascito (per tutti v. Gabrielli-Cubeddu 1997, 35; a
Beccara 2002, 161). 1.6.
Ugualmente, non sussiste dubbio sul carattere personale dei diritti che il
coniuge legittimario (in tutto o in parte pretermesso) eventualmente
ottenga per effetto dell’utile esercizio dell’azione di riduzione (Gabrielli-Cubeddu 1997, 35; a Beccara 2002, 161).
5. Segue. b) Il
concetto di donazione di cui alla norma in esame. 1.1. Il richiamo alla figura della donazione pone una
serie di problemi legati alla ricca costellazione di ipotesi riconducibili a
tale fattispecie, così come a quella, ancora più ampia, delle «liberalità»,
pure evocata dalla norma in oggetto. Ciò, in primo luogo, per la varietà
degli schemi tipologici regolamentati dal legislatore nell’ambito della
categoria generale configurata dagli artt. 769 ss. c.c. (donazioni
remuneratorie, donazioni obnuziali, ecc.), sia per la fluidità della linea di
demarcazione esistente tra questa categoria e altre tipologie di negozi
a titolo gratuito, quali i regali d’uso e l’adempimento delle obbligazioni
naturali, oppure all’esistenza, anche al di fuori della donazione contrattuale,
di procedimenti negoziali alternativi per la realizzazione di attribuzioni
liberali, quali le donazioni indirette, miste, contratti gratuiti, ecc. (a Beccara
2002, 162). 1.2. La dottrina maggioritaria non manifesta esitazioni nel
riferire la norma in oggetto anche agli acquisti conseguenti a donazione
remuneratoria (De
Paola 1995, 480; Gabrielli-Cubeddu 1997, 36
Auletta 1999, 192), per la
chiara indicazione desumibile dalla formulazione dell’art. 770, co. 1°, c.c. 1.3. Dovrebbero invece confluire nella comunione de
residuo i cd. regali d’uso (art. 770, co. 2°, c.c.), visti quali
proventi di attività personale (in questo senso Corsi 1979, 101, nota 73; A.-M. Finocchiaro 1984, 991, nota 7; De Paola 1995, 479; Radice
1997, 131). A quest’impostazione si è
però esattamente obiettato che siffatta equiparazione non sembra tenere in
conto la totale spontaneità che caratterizza l’esecuzione di tali prestazioni,
alla cui base non sussiste un’obbligazione giuridica, ma un dovere prodotto dal
costume sociale non sottoponibile a coercizione (a Beccara 2002, 163).
Per non dire poi del fatto che, in relazione a molte fattispecie di liberalità
d’uso, appare assai difficile reperire un collegamento con un’ «attività
separata» di cui i medesimi rappresenterebbero il «provento» (si pensi ai
regali di compleanno o di Natale).
6. Segue. c) Le
donazioni indirette. In particolare l’acquisto con denaro fornito da un terzo. 1.1. L’opinione dei primi
commentatori della riforma era senz’altro favorevole alla sottoposizione
alla lett. b) dell’art. 179 c.c. anche delle donazioni indirette (Schlesinger 1977, 396, nota n. 3; Corsi 1979, 101; Cian-Villani
1981, 184; Barbiera 1982, 46; Bianca 1985, 156). 1.2. La tesi contraria, propugnata da alcuni autori che si
sono invece espressi per la caduta in comunione di tale tipo di liberalità, è
basata su argomentazioni relative
essenzialmente alle difficoltà pratiche ed applicative di individuazione
della categoria in oggetto, con la conseguenza che la soluzione preferibile
andrebbe reperita sulla base della disciplina del c.d. negozio-mezzo (si pensi
ad una compravendita, nella quale il prezzo viene corrisposto dal donante
indiretto), con correlativa ricaduta del bene in comunione (così Zuddas, L’acquisto dei beni pervenuti
al coniuge per donazione o successione, in Bianca (a cura di), La
comunione legale, I, Milano, 1989, 411; nello stesso senso, in precedenza,
v. anche Bartolini-Gregori, op. cit., 163 s. nello stesso senso Di Transo, Comunione legale, Napoli, 1999, 40). 1.3. Questa impostazione è stata esattamente criticata da
quella dottrina che, ponendo innanzi tutto in luce la variegata molteplicità
delle ipotesi riconducibili alla donazione indiretta, ha individuato il caso
più problematico (in relazione alle possibili ricadute ex artt. 177 e 179 c.c.) soprattutto nell’acquisto di un bene
con denaro fornito da un terzo (per tutti v. a Beccara 2002, 163 ss.). 1.4. Al riguardo, va
scartato l’argomento incentrato sul favor communionis, posto che l’eventuale volontà del donante di destinare alla comunione il vantaggio oggetto
della disposizione potrebbe sempre concretizzarsi facendo intervenire entrambi
i coniugi alla conclusione del contratto (normalmente di compravendita) che fa
da tramite per la realizzazione della donazione indiretta. 1.5. Decisivo
appare invece il richiamo al dato letterale. In effetti, proprio sull’impiego,
da parte del Legislatore, del termine «liberalità» (idoneo, come noto,
ad inglobare anche la figura della donazione indiretta: arg. ex art. 809 c.c.), si è fondata la giurisprudenza
di legittimità, che nei suoi diversi interventi sul punto, ha sempre
manifestato di optare per la tesi tradizionale della personalità dell’acquisto
(si sono infatti pronunciate per l’assogettamento delle donazioni indirette
all’art. 179, lett. b), c.c. Cass., 15 nov. 1997/11327, FD, 1998, 323; Cass., 8 mag. 1998/4680, RN, 1998, 182; FI, 1999,
I, 994, nonché, da ultimo, CC14 dic. 2000/15778, FD, 2001, 289, D FAM, 2001,
938, VN, 2001, 1235; per la giurisprudenza di merito, nello stesso senso, v. T
Bari, 12 lug. 1978, GI, 1981, I, 93; T Milano 6 nov. 1996, FD, 1997, 469). 1.6. Anche la dottrina più recente appare maggioritariamente orientata a ritenere
che l’art. 179 lett. b) c.c., sia applicabile
a tutte le liberalità, includendosi in queste le donazioni indirette (cfr. Basini, Donazione indiretta e
applicabilità dell’art. 179 lett. b) c.c., Contratti, 1998, 246; nello
stesso senso cfr. anche Caravaglios
1995, 56; De Paola 1995, 477; Morelli, Il nuovo regime patrimoniale
della famiglia, Padova, 1996, 104; Gabrielli-Cubeddu
1997, 36; Finelli, Sul
difficile rapporto tra donazione indiretta e comunione legale dei beni,
NGCC, 2001, I, 274 s.). 1.7.
Sotto il profilo della tecnica operativa andrà tenuto presente che l’opinione
ormai prevalente individua nel bene acquistato – e non già nel denaro
versato – l’oggetto della donazione indiretta che si realizza
allorquando un soggetto acquista un bene con denaro altrui (Cass., 14 mag.
1997/4231; Cass., 15 nov. 1997/11327, FI, 1999, I, 994; in dottrina sul tema
cfr. Forchielli, Immobile acquistato dal discendente con
denaro del «de cuius» e collazione, RDC, 1985, 1395; Bianca, Diritto civile,
III, Il contratto, Milano, 1998, 459). 1.8. Sovente capita però che il
denaro non sia versato direttamente al terzo, bensì sia corrisposto al
donatario, quale mezzo al precipuo scopo di consentire l’acquisto. Peraltro
pure in quest’ultima ipotesi la giurisprudenza più recente ravvisa un caso di
donazione indiretta dell’immobile (e non già del denaro) (cfr. Cass., 15 nov.
1997/11327; Cass., 24 feb. 2004/3642; contra
Cass., 21 gen. 1963/86). La presenza, dunque, di un collegamento negoziale tra
il versamento del denaro da parte del donante indiretto e la stipula del
contratto d’acquisto a titolo oneroso con il terzo consente, secondo questo
orientamento, di non ritenere operante la caduta in comunione che altrimenti si
dovrebbe affermare per effetto dell’impiego di denaro personale (per
donazione), in assenza delle formalità ex
art. 179 lett. f) e cpv. 1.9. Per ciò che attiene alla posizione dei
terzi si ritiene (a Beccara 2002, 167) che la proprietà personale del coniuge donatario non possa
essere opposta ai creditori della comunione, salvo il caso di una preventiva
trascrizione (ex art. 2653, n. 1
c.c.), da parte del coniuge, della domanda giudiziale di accertamento della
proprietà individuale del bene.
7. Segue. d)
Donazioni simulate e dissimulate.
1.1. La
donazione può, in astratto, formare oggetto di negozio tanto simulato
che dissimulato. Cominciando dalla prima ipotesi, può immaginarsi che un
coniuge, il quale intenda sottrarre un bene alla comunione legale, pur
in assenza dei presupposti ex art.
179 lett. f) e/o cpv., induca il terzo a stipulare un’apparente donazione,
dissimulante, in realtà, una compravendita (il cui prezzo viene, ovviamente,
corrisposto di nascosto). Qui si deve ritenere che l’altro coniuge possa
esperire, allo scopo di far ricadere il bene in comunione, l’azione di
simulazione in qualità di terzo pregiudicato ai sensi dell’art. 1415, co. 2°,
c.c. e con il beneficio della libertà della prova di cui all’art. 1417 c.c.
(cfr. Zuddas,
op. cit., 464 s., nonché, in obiter, Cass., 11 ago. 1997/7470, cit.;
cfr. inoltre Pene Vidari, nota a
Cass., 11 ago. 1997/7470, GI, 1998, 1828).
1.2. Per converso, è possibile che un coniuge mascheri una donazione
in suo favore sotto le «mentite spoglie» una compravendita. In tale caso
non vi sono dubbi sul fatto che tale
coniuge donatario possa agire allo scopo
di far dichiarare la simulazione relativa del contratto e di invocare, nel
rispetto dell’inciso finale dell’art. 1414, co. 2°, c.c., gli effetti del
negozio dissimulato, cioè appunto della donazione, con conseguente
riconoscimento del carattere personale del bene; l’azione in questione dovrà
essere proposta nei confronti del donante (simulato venditore) e dell’altro
coniuge (formale comproprietario del
bene) (cfr. a Beccara
2002, 168). 1.3. La soluzione è
stata accolta anche dalla Suprema Corte, che è stata chiamata a
pronunziarsi sull’eventuale applicabilità in favore del coniuge del donatario
della tutela prevista dall’art. 1415, co. 1°, c.c. (Cass., 11 ago. 1997/7470,
cit.). Al riguardo la Cassazione ha deciso che tale norma si riferisce, a
differenza del capoverso, non ai terzi in qualche modo pregiudicati dalla
simulazione stessa, ma solo a quelli che, in buona fede, abbiano acquistato
diritti dal titolare apparente (salvi gli effetti della trascrizione della
domanda di simulazione). Ne consegue, sempre secondo la decisione citata, che,
«nel regime della comunione legale fra i coniugi, l’acquisto di un bene
personale effettuato da uno dei coniugi per donazione fattagli da un terzo, si
sottrae al regime della comunione a norma dell’art. 179 comma primo lett. b)
cod. civ. ancorché la donazione sia dissimulata da una vendita, potendo
l’acquirente opporre all’altro coniuge il carattere simulato di
quest’ultima». 1.4. Negli stessi termini si è espressa una successiva decisione
di merito (T Roma 10 nov. 1999, GI, 2000, 1412), la quale ha altresì affermato che, ai fini
della prova della simulazione, trattandosi di eccezione proposta non
all’interno dei rapporti delle parti contraenti, ma da una delle parti
contraenti nei rapporti verso terzi, al fine di provare la sussistenza di un
valido negozio dissimulato, occorre richiamarsi alla disciplina disposta dagli
artt. 1417 e 2722 c.c. Ricorrendo nella fattispecie un contratto simulato
redatto per iscritto ad substantiam,
la prova della simulazione deve essere fornita, secondo tale decisione,
mediante controdichiarazione che deve essere anteriore o coeva all’atto e la
cui data deve essere certa.
8. Segue. e) La
possibilità di destinare disposizioni testamentarie e donazioni alla comunione
legale. 1.1. La seconda parte dell’art.
179, lett. b), c.c. prevede la possibilità di destinare alla comunione (in
deroga a quanto affermato dallo stesso art. 179, lett. b) prima parte), i beni
acquistati da uno dei due coniugi tramite liberalità o disposizione
testamentaria, a condizione che tale destinazione sia specificamente
indicata nell’atto (successione o donazione) tramite il quale l’acquisto si
è concretizzato. 1.2. L’interrogativo principale al riguardo concerne le
concrete formalità tramite le quali tale volontà di attribuzione alla
comunione deve manifestarsi, anche al fine di evitare che destinatari
dell’attribuzione siano non già i coniugi in comunione legale, ma i medesimi
coniugi, quali contitolari di quote in comunione ordinaria. 1.3. La tesi
preferibile appare quella secondo cui la semplice istituzione ereditaria a
favore dei coniugi, nominativamente indicati e in assenza di riferimenti
alla comunione legale, debba intendersi come disposizione a favore del patrimonio
personale di ciascuno degli sposi. Ne deriva che tra costoro verrà a
costituirsi, relativamente al bene oggetto del lascito, una comunione
ordinaria disciplinata dagli artt. 1100 ss. anziché dagli artt. 177 ss. c.c. (cfr. Schlesinger 1977, 397; Corsi
1979, 100 s.; Cian-Villani 1980,
354 s.; Santosuosso, Beni e attività economica della famiglia,
Torino, 1995, 104; Gabrielli-Cubeddu
1997, 37 s.; Auletta 1999, 187; Cera, Sui beni acquisiti dai coniugi in comunione legale per effetto di
successione o donazione mediante attribuzione specifica, D FAM, 2001, 404
s.; contra Barbiera 1982,
46, sulla base del principio del cd. favor
communionis e A.-M. Finocchiaro
1984, 994). 1.4. Per la donazione,
invece, il problema non dovrebbe (almeno in teoria) porsi, atteso il necessario
intervento del notaio a cui la legge impone il compito di individuare e
formalizzare in termini giuridicamente inequivoci la volontà delle parti; nei
casi di incertezza la soluzione sarà comunque la stessa suggerita in materia di
successioni (a Beccara
2002, 169). 1.5. Tornando alle
disposizioni testamentarie, si afferma in dottrina che la volontà del
disponente di far ricadere il bene in comunione legale deve, per conseguire
tale effetto, concretarsi tramite la peculiare ed esplicita previsione che
la disposizione è rivolta ai due coniugi in comunione legale (ovvero alla
comunione legale tout-court). A tale
soluzione si perviene innanzi tutto in base all’analisi letterale della norma,
la quale richiede la specificazione della attribuzione del bene alla «comunione»,
al posto della più generale destinazione ai due coniugi. Ne consegue che, nel
dubbio circa la reale volontà del de
cuius, l’attribuzione ai due coniugi deve essere intesa come rivolta al
loro patrimonio personale (Schlesinger
1977, 397, nota n. 4, che segnala la contraria presunzione dettata
nell’ordinamento francese dall’art. 1405, 2° co., del Code Civil; Zuddas, op. cit., 459; Gabrielli-Cubeddu 1997, 38; Radice 1997, 133; a Beccara 2002, 172, cui si fa rinvio
anche per la trattazione della complessa questione delle modalità di
accettazione dell’istituzione a titolo d’erede dei coniugi in comunione legale).
9. I beni di uso
strettamente personale di ciascun coniuge ed i loro accessori ex art. 179,
lett. c), c.c. 1.1. Il riferimento ai beni di uso strettamente personale operato dalla lett.
c) dell’art. 179 c.c. è inteso da un parte della dottrina in senso
restrittivo. In sostanza, per evitare facili elusioni della regola dettata
dall’art. 177, lett. a), si è sostenuto che rispetterebbero il dettato
normativo solo gli acquisti di beni dotati di caratteristiche oggettive,
tali da rendere possibile l’utilizzo da parte di uno solo dei coniugi (si pensi
ad esempio ad occhiali da vista, al rasoio, al vestiario, ecc.). Sarebbero
invece destinati alla massa comune tutti i beni che, pur essendo di fatto usati
in modo prevalente, se non addirittura esclusivo, da uno solo dei coniugi, sono
potenzialmente fruibili anche dall’altro (cfr. Schlesinger 1977, 398; Corsi 1979, 104 s.; Gabrielli-Cubeddu 1997, 64 s.; De Paola 1995, 481 ss.; Anelli, Il matrimonio. Lezioni, Milano, 1998, 159). 1.2. A livello giurisprudenziale sembra aver aderito alla
prospettiva testé esposta una pronunzia di merito, che ha giudicato
ricompresa in comunione un’autovettura acquistata separatamente dal
marito e dal medesimo utilizzata in via esclusiva (la moglie, nel caso di
specie, era infatti priva di patente), sulla base della considerazione secondo
cui il mezzo era comunque destinato al soddisfacimento di esigenze familiari (T
Monza 10 mag. 1995, GC, 1996, I, 1158). 1.3. Tale ratio decidendi
è stata però rovesciata sul punto dal giudice di secondo grado (che ha però
confermato per altre ragioni la sentenza), con sentenza a sua volta confermata dalla Suprema Corte,
la quale ha pertanto ribadito la qualità personale (del marito) del veicolo
(Cass., 9 nov. 2000/14575, inedita; in tema di proprietà personale di un
autoveicolo cfr. anche Cass., 6 feb. 1998/1292, GI, 1999, 647, la quale però
non affronta il tema qui in esame, liquidato alla stregua di una mera
«questione di fatto»). In particolare
la Cassazione, nella pronuncia del 2000, ha precisato che «per uso personale
del bene, a norma dell’art. 179, lett. c), c.c. deve intendersi la disponibilità
esclusiva della sua utilizzazione, anche
se tramite altro soggetto; detta disponibilità esclusiva, precisa la Corte,
non viene meno se il coniuge, che ne è titolare, permetta che l’altro coniuge
possa utilizzare il bene in specifiche circostanze e condizioni, come un
terzo». 1.4. La dottrina favorevole alla sopra illustrata lettura
oggettiva (cfr. Schlesinger
1977, 398; Gabrielli-Cubeddu
1997, 65) ha anche prospettato un’interpretazione
abrogatrice del disposto dell’art. 179, co. 2°, nella parte in cui fa
riferimento alle lettere c) e d) del co. 1°, e ciò perché non sembrerebbero
ipotizzabili casi d’immobili (o di mobili registrati) di uso
strettamente personale. La considerazione è peraltro smentita dagli
esempi della garçonnière, dell’atelier di pittura o del «pensatoio»
dello scrittore, nonché, sul piano normativo, oltre che dall’art. 179 cpv.
c.c., dal chiaro richiamo contenuto nell’art. 2647 c.c. 1.5. La dottrina
maggioritaria sembra invece optare per l’utilizzo di un criterio soggettivo
(cfr. per tutti a Beccara
2002, 177; v. inoltre A.-M. Finocchiaro
1984, 997; Bellelli, I beni d’uso strettamente personale, in Bianca (a cura di), La comunione legale, I, Milano, 1989,
468 ss.; Santosuosso, op. cit.,
106 s.; Dogliotti, L’oggetto
della comunione tra i coniugi: beni in comunione de residuo e beni personali, FD, 1996, 338; Radice 1997, 138 s.; Auletta 1999, 202 s.; Russo 1999, 196 ss.); in base ad esso, anche quei beni che, pur
essendo potenzialmente suscettibili di utilizzo promiscuo, risultino concretamente
utilizzati esclusivamente (o in maniera assolutamente prevalente) da uno
dei coniugi, sono sottratti alla regola del coacquisto ai sensi dell’art.
177, lett. a), a prescindere dal loro valore. 1.6. Nella giurisprudenza
di merito ha poi aderito a tale orientamento dottrinale, ispirandosi dunque
ad un criterio soggettivo (basato essenzialmente sul concetto di «utilizzo»),
una decisione della corte d’appello di Milano, che ha qualificato come
personale una collezione di minerali raccolta per hobby da uno dei
coniugi (A Milano 24 mag. 1991, GC, 1992, I, 3175). 1.7. La dottrina che suggerisce il ricorso al criterio
soggettivo ha peraltro introdotto numerosi temperamenti, al fine di
negare la personalità a quei beni il cui valore risulti sproporzionato rispetto
ad un utilizzo e ad una qualificazione meramente personale che andrebbe a
scapito delle risorse del nucleo familiare, sulla base di un parametro di
normalità sociale, rispetto alle condizioni economiche della famiglia (cfr. Detti, op. cit., 1159; Gabrielli-Cubeddu 1997, 66; Lepri, Il regime patrimoniale della famiglia, Torino, 1999, 112), o all’indirizzo di vita prescelti dai
coniugi (cfr. Auletta
1999, 202). 1.8. In assenza di
supporti a livello normativo, sembra tuttavia preferibile ritenere che l’unica
condizione sia costituita dal fatto che il bene venga effettivamente utilizzato
e goduto in considerazione ed in funzione delle sue specifiche
caratteristiche tipologiche. Si può dunque affermare che dovranno essere
considerati personali, ad esempio, pellicce e gioielli, ancorché di
rilevante valore, concretamente ed abitualmente indossati dal coniuge in
occasione d’appuntamenti mondani, ma non sicuramente i gioielli acquistati e
custoditi in una cassetta di sicurezza quale forma d’investimento nell’attesa
che arrivi il momento giusto per la rivendita (a Beccara 2002, 177 s.).
10. I beni che
servono all’esercizio della professione del coniuge ex art. 179, lett. d), c.c. 1.1. La disposizione di cui all’art. 179, lett. d), c.c., che si ispira – come
quella di cui alla precedente lett. c) – alla ratio di tutelare la personalità del soggetto, non si riferisce
ad ogni genere di attività del coniuge. Secondo l’opinione maggioritaria,
infatti, il termine «professione» non è da intendersi come limitato alle sole occupazioni
liberali, ma comprende lo svolgimento (non semplicemente occasionale) di qualsiasi
attività lavorativa autonoma o subordinata (per quest’ultimo caso si pensi
al dipendente che si compri un computer per sbrigare a casa parte del lavoro, o
si formi una biblioteca personale d’aggiornamento, ecc.), ad eccezione delle
attività imprenditoriali (Gionfrida Daino 1989, 481 s.; De Paola 1995, 485; Gabrielli-Cubeddu 1997, 63; Radice 1997, 144; Auletta 1999, 198; Russo 1999, 200 ss., che allarga la
disposizione addirittura alle attività del tempo libero e a quelle senza scopo
di lucro). 1.2. Per le attività imprenditoriali
l’inciso finale della norma fa salva l’applicazione delle regole di cui
all’art. 177, lett. d) e co. 2° c.c. in caso di cogestione, e dell’art. 178
c.c. in caso di gestione individuale. Si è sostenuto però da parte di taluno
che gli acquisti destinati ad aziende a gestione individuale sarebbero
assoggettati all’art. 179, lett. d) medesimo, con la conseguenza (molto
rilevante sul piano pratico) che, in caso di immobili o mobili registrati,
l’esclusione dalla comunione richiederebbe il rispetto delle formalità dettate
dall’art. 179, co. 2°, c.c. (in questo senso Gionfrida Daino 1989, 482 ss.; Santosuosso, op. cit., 109). 1.3. La questione ha formato oggetto, ormai diversi anni or
sono, di un intervento della giurisprudenza di legittimità (Cass., 29
nov. 1986/7060, FI, 1987, I, 810; GC, 1987,
293; su tale decisione v. le osservazioni svolte da Oberto, Comunione
legale, regimi convenzionali e pubblicità
immobiliare, RDC, 1988, II, 187 ss.; la soluzione è stata confermata
successivamente, da Cass., 21 mag. 1997/4533 e da Cass., 19 set. 2005/18456;
nello stesso senso, nella giurisprudenza di merito, v. T Vigevano, 20 feb.
1979, RN, 1979, 625; T Monza 14 nov. 1988, GC, 1989, I, 696; T Piacenza 9 apr.
1991, RN, 1993, 124; T Monza, 1° giu. 1995, GIUS, 1995, 3911), che ha evidenziato la correttezza della
scelta legislativa, fondata sulla distinzione tra beni aziendali (cui si
riferisce l’art. 178 c.c.) e beni relativi all’attività professionale del
coniuge (cui si riferisce l’art. 179 c.c.), giustificandola in base al
maggior valore normalmente rivestito dal complesso dei beni destinati
all’esercizio dell’impresa, rispetto a quelli che servono allo svolgimento di
un’attività professionale non imprenditoriale. 1.4. Per quanto attiene
al «nesso di servizio» tra il bene e l’esercizio della professione, si è
talvolta sostenuta una tesi piuttosto restrittiva, tale da ridurre il
carattere della personalità ai soli beni strettamente indispensabili al
compimento di tale attività. Ne segue che, ad esempio, sarebbe ricompreso nella
comunione l’eventuale immobile acquistato per essere adibito a studio
professionale (attesa la sufficienza della disponibilità di un ufficio in
semplice locazione), unitamente ai relativi arredi ed ornamenti, specie se di
lusso (Schlesinger 1977,
399; De Paola 1995, 485 s.; Santosuosso, op. cit., 109 s.; Barbiera 1996, 497). 1.5. Di contro si è posto peraltro
in rilievo che, laddove il Legislatore intende seguire una tesi più
«rigoristica», lo rende evidente con l’impiego di espressioni che mettano in
luce l’indispensabilità dei beni per l’esercizio della professione. E’ il caso,
ad esempio, dell’art. 514, n. 4, c.p.c., ove l’uso da parte di un
criterio di giudizio rigoristico è reso evidente dal riferimento ai soli
strumenti «indispensabili per l’esercizio della professione, dell’arte o
del mestiere del debitore» (Barbiera 1982, 39). 1.6. Un’ulteriore questione
relativa al «nesso di servizio» tra beni ed attività concerne la sua eventuale cessazione,
in relazione a possibili mutamenti di destinazione del bene di uso personale.
Per converso ci si chiede se la destinazione di un cespite comune all’uso
esclusivo o all’esercizio della professione di uno dei coniugi valga a
trasformarlo in personale. In relazione alla seconda ipotesi, la dottrina (Gabrielli-Cubeddu 1997, 62; Radice 1997, 142; Auletta 1999, 197 s.; Russo 1999, 191 s.) sembra concordare sul fatto che il cambio di
destinazione sia del tutto inidoneo a far uscire il bene dal patrimonio comune.
Maggiori incertezze sussistono in relazione alla prima delle due ipotesi qui
delineate: in quella, cioè, di cessazione dell’utilizzo personale o
professionale dei beni (sul tema v. per tutti Auletta 1999, 205).
11. I beni
ottenuti a titolo di risarcimento del danno ex
art. 179, lett. e), c.c. 1.1. La disposizione dell’art.
179, lett. e), c.c. sottrae al regime
della comunione legale i beni ottenuti dal coniuge «a titolo di risarcimento
del danno, nonché la pensione attinente alla perdita parziale o totale della capacità lavorativa». Si discute se le
due parti di cui si compone la disposizione vadano lette come un tutto
unitario, con la conseguenza che personale sarebbe solo il risarcimento del
danno alla persona e non anche quello eventualmente subito dal patrimonio
(personale) del coniuge. 1.2. Se la consultazione dei lavori preparatori
fa sicuramente propendere per la natura congiunta, e dunque per la
limitazione dell’ipotesi normativa al danno alla persona (v. per tutti
Russo 1999, 212 s.), l’analisi
del dato letterale, con particolare riguardo all’impiego al singolare
dell’aggettivo «attinente», porta a considerare il riferimento alla capacità
lavorativa come circoscritto alla sola pensione, con conseguente lettura
disgiunta delle due parti di cui si compone la disposizione della lett. e)
dell’art. 179 c.c. (Auletta
1999, 207). Ne conseguirà pertanto,
secondo questa interpretazione, che sarà escluso dalla comunione anche il
risarcimento di quel danno che non investa la capacità lavorativa della
persona: si pensi, ad esempio, al risarcimento del danno da distruzione di
un bene personale. 1.3. Per identità di ratio, dovrebbero ricadere sotto la norma in oggetto anche le indennità
ex artt. 2045 e 2047 c.c.,
l’indennità di espropriazione per pubblica utilità ed il risarcimento per
occupazione abusiva, le utilità conseguite ex
art. 2058 c.c. nel caso di risarcimento in forma specifica. Naturalmente, anche
il risarcimento del danno da responsabilità contrattuale per
inadempimento di obbligazioni che vedano come creditore il solo coniuge
rileverà a tal fine. Lo stesso è a dirsi per eventuali penali incassate e
caparre incamerate (che altro non costituiscono se non la forfetizzazione del
danno subito). 1.4. Per ciò che attiene al risarcimento corrisposto dall’assicuratore, questo andrà ricondotto
al disposto dell’art. 179 lett. e) nel caso di assicurazione contro i danni o
per la responsabilità civile; la somma corrisposta nel caso di assicurazione
sulla vita potrebbe essere invece ritenuta personale ex art. 179 lett.
b), in quanto oggetto di donazione indiretta (sul tema dei rapporti tra
donazione indiretta e art. 179, lett. b), c.c. v. supra, sub § 6). 1.5. In giurisprudenza, poi, si è posto
il problema della sorte delle somme corrisposte a titolo di indennità di accompagnamento istituita
dalla l. 11 feb. 1980/18. Sul punto la S.C. ha stabilito che tale indennità non
è indirizzata al sostentamento dei soggetti minorati nelle loro capacità di
lavoro, ma è configurabile come misura di integrazione e sostegno del nucleo
familiare, incoraggiato a farsi carico di tali soggetti, evitando così il
ricovero in istituti di cura e assistenza, con conseguente diminuzione della
relativa spesa sociale. Di conseguenza è stato deciso che tali somme rientrano nella comunione legale, non
essendo equiparabili alla pensione attinente alla perdita totale o parziale
della capacità lavorativa, prevista dall’art. 179, lett. e), c.c. Né in
proposito è possibile l’interpretazione analogica di tale disposizione, che
contempla ipotesi tassative di eccezione al principio generale di inclusione
dei beni nella comunione legale (Cass., 27 apr. 2005/8758).
12. I beni
personali «per surrogazione» ex art. 179, lett. f), c.c. Generalità.
Irrilevanza della destinazione funzionale dei beni surrogati. 1.1. Ai
sensi dell’art. 179, lett. f), c.c. sono altresì esclusi dalla comunione i beni
«acquisiti con il prezzo del trasferimento dei beni personali» elencati nel contesto
delle precedenti previsioni dell’art. 179 c.c. medesimo, ovvero «col loro
scambio», alla condizione che «ciò sia espressamente dichiarato all’atto di
acquisto». La disposizione in esame necessita di essere integrata con le
prescrizioni aggiuntive dettate dal capoverso
del medesimo art. 179 c.c., per il caso di acquisto di beni immobili o
mobili registrati. 1.2. Avuto
riguardo alla formulazione lessicale della disposizione («prezzo del
trasferimento dei beni personali sopraelencati»), in dottrina si è posto
innanzi tutto il problema della sorte degli acquisti operati facendo impiego
del corrispettivo ricavato dalla
cessione dei beni personali ai sensi della lettera f) dell’art. 179 c.c.
(ossia di beni personali per surrogazione), anziché delle (espressamente
menzionate) lett. a) - b). 1.3.
D’altro canto, è sorta questione circa la surrogabilità
del denaro facente ab origine
parte del patrimonio individuale del coniuge (perché per esempio, antecedente
al matrimonio ovvero frutto di donazione), senza costituire il risultato di
un’operazione di smobilizzo di un cespite personale di altra natura. In
proposito prevale la tesi favorevole alla facoltà di surrogazione con
riferimento a tutti i beni personali
(ivi compreso, ovviamente, il denaro) ai sensi dell’art. 179 c.c., senza
eccezioni di sorta (v. per tutti a
Beccara 2002, 188; cfr. inoltre Scarano,
I beni acquistati con il prezzo o lo
scambio di beni personali (art. 179, lett. f) c.c.), in Bianca (a cura di), La comunione legale, I, Milano, 1989,
532; Gabrielli-Cubeddu 1997, 49
s.; Auletta 1999, 215; Russo 1999, 222 s.). 1.4. Rimangono estranei alla previsione
normativa i beni in comunione de residuo, pur se questi non
possono considerarsi comuni, almeno fin tanto che non è intervenuta una causa
di scioglimento del regime legale (il tema è trattato ampiamente supra, sub artt. 177-178, § 41). 1.5. Un particolare
requisito per la surrogazione viene poi imposto da quegli autori secondo i
quali l’esclusione potrebbe avere luogo solo nell’ipotesi in cui il bene sostitutivo
di bene personale ex art. 179 lett.
c) e d) sia a sua volta destinato ad uso strettamente personale o
all’esercizio della professione, poiché diversamente troverebbe
applicazione la regola dell’art. 177, lett. a), c.c. (Corsi 1977, 114; Bellelli, op. cit., 474; Gionfrida Daino 1989, 491 s.; Gabrielli-Cubeddu 1997, 49; Auletta 1999, 206 s.). 1.6. La tesi non solo non trova
fondamento nella lettera norma, ma, anzi, pare logicamente in contrasto con
essa, posto che non si spiegherebbero le ragioni del richiamo operato dalla
lett. f) dell’art. 179 c.c. alle lettere c) e d) dello stesso articolo (che
rimanda ai «beni personali sopraelencati»). Invero, se il bene cd. sostitutivo
possiede già i requisiti richiesti dalle previsioni delle citate lett. c) e d),
la sua attribuzione al patrimonio deriva proprio dalla diretta applicazione dei
relativi precetti normativi, senza alcuna necessità di verificare la
provenienza della provvista impiegata per l’acquisto e di compiere la relativa
dichiarazione. L’unico modo per dare significato all’art. 179 lett. f) nella
parte appena richiamata, consiste proprio nel riconoscimento che i beni
acquistati reinvestendo il ricavato della vendita di un bene d’uso personale o
destinato all’esercizio della professione sono personali a
prescindere dalla loro destinazione funzionale, a condizione, ovviamente,
che siano rispettate le formalità di cui all’art. 179, lett. f) (cfr. A.-M. Finocchiaro 1984, 1007; De Paola 1995, 484 s.; Radice 1997, 143 s.; Russo 1999, 215 s.; a Beccara 2002, 182).
13. Segue. b) La
dichiarazione di esclusione e il problema della sua necessità. 1.1. La condizione cui l’art. 179, lett. f), c.c.
espressamente subordina l’esclusione dalla comunione consiste nel fatto che
venga emessa una apposita dichiarazione di esclusione «all’atto
dell’acquisto», in funzione della provenienza personale delle risorse
impiegate. 1.2. Secondo taluni, la norma potrebbe essere intesa come finalizzata
alla tutela della posizione dei terzi aventi causa dal coniuge acquirente
ovvero creditori. Ma una simile prospettiva mal si concilia con il rilievo
secondo cui la dichiarazione stessa – riferita ad una vicenda negoziale avente
per oggetto beni mobili non registrati – non risulta assoggettata ad alcun
requisito di forma, rivelandosi per tal motivo strutturalmente inadeguata
rispetto all’ipotizzata finalità divulgativa (così a Beccara 2002, 190). 1.3.
Altri autori mettono poi in evidenza come la disposizione in esame non si
possa considerare come preordinata alla tutela del coniuge
dell’acquirente, nel senso che la stessa avrebbe lo scopo di renderlo consapevole che il consorte sta
per effettuare un acquisto con provvista di risorse personali, e di
consentirgli in tal modo di sollevare eventuali opposizioni. In effetti la dichiarazione
di esclusione non deve essere effettuata in contraddittorio con l’altro
coniuge, ma solamente all’atto di acquisto e dunque, almeno di norma, in
presenza di un diverso soggetto, l’alienante, cui tra l’altro verosimilmente
poco o nulla importa della provenienza del capitale impiegato per l’acquisto (a Beccara 2002, 190). 1.4. Sembra dunque che, con la
prescrizione in esame, il legislatore abbia semplicemente voluto predisporre un
vero e proprio «meccanismo di difesa della comunione» (Gabrielli-Cubeddu 1997, 48; sottolinea
il rilievo, nel caso di specie, del principio del favor communionis anche Barbiera
1996, 455), subordinando il diritto
soggettivo del coniuge di proteggere la titolarità individuale dei beni
acquistati mediante l’impiego di risorse personali alla rigida osservanza di un
onere formale la cui omissione, da qualsiasi causa determinata, produce la
conseguenza della inevitabile ricaduta del cespite nel patrimonio comune. 1.5.
Peraltro la Cassazione, almeno in un primo tempo, ha negato la necessità
della dichiarazione in questione in due decisioni pronunciate,
rispettivamente, su una fattispecie di permuta di bene personale e su una
vicenda di acquisto di un cospicuo quantitativo di titoli azionari tramite
investimento di un ingente capitale ricevuto in donazione dal padre di uno dei
due coniugi (Cass., 8 feb. 1993/1556, GC, 1993, I, 2425, D FAM, 1993,
I, 980; GI, 1994, 270; RN, 1994, II,
1023; Cass., 18 ago. 1994/7437, VN, 1995,
I, 800; GC, 1995, I, 2503; RN, 1995, II, 939). 1.6. In queste sentenze la Corte sembrava partire dall’idea di
una ratio della disposizione volta a fare
chiarezza sulla provenienza dei mezzi impiegati per l’acquisto: se, dunque,
il carattere personale del corrispettivo è certo, la dichiarazione in esame si
risolverebbe in un onere formale del tutto superfluo. 1.7. Questa
giurisprudenza si è però venuta a scontrare con l’orientamento dominante
della dottrina, secondo cui la dichiarazione in oggetto rappresenterebbe,
in ogni caso, la conditio sine qua non
affinché l’acquisto possa qualificarsi come personale e, pertanto, le andrebbe
riconosciuto carattere costitutivo ai fini dell’esclusione del cespite
dalla comunione (Quadri, L’oggetto della comunione tra coniugi: i
beni in comunione immediata, FD,
1996, 183; Radice 1997, 151 s.; Auletta 1999, 216; a Beccara 2002, 192; contra Bianca,
Diritto civile, II, La famiglia. Le successioni, 3° ed., Milano, 2001, 106, sulla base del
presupposto che la dichiarazione si renderebbe necessaria «in quanto può essere
obbiettivamente incerto se l’acquisto realizzi o meno il reinvestimento di
denaro o beni personali», onde sarebbe superflua quando tale funzione non possa
essere svolta per la certezza della personalità delle risorse). 1.8. Le citate pronunce di
legittimità sono state peraltro superate da un successivo revirement, con il quale la Corte
Suprema ha tra l’altro espressamente affermato – occupandosi di una situazione
attinente al secondo comma dell’art. 179 c.c. – che «la dichiarazione di cui è
onerato il coniuge acquirente, prevista nella lettera f) del primo comma
dell’art. 179 cod. civ. al fine di conseguire l’esclusione, dalla comunione,
dei beni acquistati con il prezzo del trasferimento dei beni strettamente
personali o con il loro scambio, non è meramente facoltativa» (Cass., 24
set. 2004/19250, FD, 2005, 12).
14. Segue. c)
Requisiti di forma e sostanza della dichiarazione di esclusione. 1.1. Per quanto attiene ai requisiti formali della
dichiarazione in questione, va rilevato che – a parte le ipotesi (riconducibili
per lo più all’ambito applicativo del co. 2° dell’art. 179) dei negozi
traslativi assoggettati a prescrizioni di forma (art. 1350 c.c.) – non sussiste alcun motivo per
disconoscere la validità di una dichiarazione di esclusione effettuata verbalmente
o anche solo per facta concludentia. 1.2. Si noti che, a prescindere
dalle contingenti difficoltà probatorie, la regola potrà trovare applicazione
solo nelle vicende relative a rapporti tra coniugi, perché, nei confronti
dei terzi il disposto dell’art. 197 c.c. rende comunque necessaria la
formazione di un atto scritto dotato di data certa (cfr. Corsi 1979, 115 s.; Silvestri,
Formalità degli acquisti in surrogazione
di cui alla lett. f) dell’art. 179 c.c., in Bianca (a cura di), La
comunione legale, I, Milano, 1989, 534;
Gabrielli-Cubeddu 1997, 54 s.;
Auletta 1999, 218). 1.3.
Quanto al momento in cui la dichiarazione va effettuata, dubbi sono
stati affacciati circa la legittimità di una dichiarazione rilasciata
antecedentemente all’acquisto. Il problema nasce per effetto della formulazione
letterale della lett. f), la quale fa riferimento esclusivamente al momento
perfezionativo della vicenda acquisitiva. Appare però più ragionevole, al fine
di alleggerire il più possibile gli oneri posti a carico dell’acquirente,
optare per la legittimità di una dichiarazione emessa antecedentemente alla
vicenda acquisitiva (Silvestri,
op. cit., 567; De Paola 1995,
494; Gabrielli-Cubeddu
1997, 53; Radice 1997, 152; a Beccara 2002, 195). 1.4.
In merito al profilo contenutistico non pare trovare sufficiente
supporto normativo l’opinione (cfr. Regine,
nota a Cass., 18 ago. 1994/7437, NGCC, 1995, I, 564; Montesano, nota a Cass., 18 ago. 1994/7437, SOC, 1995, 499) che richiede l’indicazione specifica e
dettagliata dei beni personali costituenti (direttamente ovvero previa
alienazione) la risorsa dell’acquisto che si intende sottrarre alla comunione
tramite la surrogazione. 1.5. Esigenze di semplificazione dell’esercizio
del diritto soggettivo del coniuge di mantenere la titolarità individuale dei
propri cespiti inducono per contro la dottrina maggioritaria a considerare
sufficiente una dichiarazione di contenuto generico (v. per tutti;
Segni, Gli atti di straordinaria amministrazione
del singolo coniuge sui beni immobile della comunione, RDC, 1980, 623, nota
n. 65; Gabrielli-Cubeddu
1997, 54, che peraltro, in relazione agli acquisti immobiliari, ritengono
necessario «un livello adeguato di determinatezza»; Auletta 1999, 218; a Beccara 2002, 194). 1.6. Così, ad esempio, in una fattispecie di acquisto
immobiliare, il tribunale di Parma si è accontentato della dichiarazione del
coniuge acquirente di «impiegare denaro proprio» e di quella del coniuge
non acquirente di «ben conoscere la provenienza personale del denaro stesso» (T
Parma 28 mar. 1985, RN 1985, 1204), mentre il tribunale di Napoli ha stabilito
che «La dichiarazione del coniuge acquirente richiesta dall’art. 179 lett. f)
c.c. non deve indicare specificamente i beni in surrogatoria dei quali si opera
l’acquisto, essendo sufficiente, al fine di escludere la sottoposizione
dell’acquisto alla comunione immediata ai sensi dell’art. 177, lett. a), c.c.,
anche una dichiarazione generica. In tale ipotesi, però, incomberà sul coniuge
acquirente l’onere di dimostrarne la corrispondenza alla realtà effettiva» (T
Napoli, 17 nov. 1993, D GIUR, 1995, 218).
1.7. Per ciò che attiene alle possibili forme di tutela dei creditori
personali del coniuge rispetto all’eventualità che il loro debitore,
nell’effettuare un acquisto con risorse del proprio patrimonio individuale, si
astenga – volontariamente o meno – dall’adempimento dell’onere di cui all’art.
179 lett. f), provocando la ricaduta in comunione del cespite, la dottrina
discute sull’ammissibilità del ricorso all’azione surrogatoria (per tutti v. a Beccara 2002, 196 s.).
15.
L’acquisto personale di beni immobili o mobili registrati ex art. 179 cpv. c.c. Generalità. La partecipazione dell’altro coniuge
all’atto di acquisto e le dispute sul suo carattere necessario. 1.1. L’esclusione dalla comunione di un acquisto effettuato
ai sensi delle lettere c), d) ed f) dell’art. 179 c.c. è vincolato dal
capoverso del citato articolo al rispetto di una particolare formalità,
consistente nella previsione che «tale esclusione risulti dall’atto di acquisto
se di esso sia stato parte anche l’altro
coniuge». 1.2. La prima parte di
tale frase viene intesa nel senso che sarebbe normativamente imposto al coniuge
che si accinga ad operare un acquisto personale di carattere immobiliare di
inserire nel negozio una dichiarazione
di estrinsecazione di tale propria volontà, corredata dall’indicazione
delle cause giustificative (ossia della categoria di appartenenza)
dell’invocata personalità. 1.3. Per
i beni personali per surrogazione
tale dichiarazione si identifica totalmente con quella già prescritta dall’art.
179, lett. f), tanto che, in realtà, il capoverso dell’art. 179 nulla aggiunge
a quanto già necessario ai sensi del co. 1°, mentre, per quel che attiene ai
beni di uso strettamente personale,
ovvero destinati all’esercizio della professione,
il capoverso dell’art. 179 c.c. impone un requisito formale aggiuntivo (Gabrielli-Cubeddu 1997, 93; a Beccara 2002, 199) 1.4. Sulla necessità o meno della partecipazione al negozio del coniuge
escluso dall’acquisto va detto che, in fase di primo commento alla riforma, era
stata suggerita un’interpretazione
riduttiva della norma, alla stregua della quale la formalità sarebbe
necessaria solamente nei casi in cui l’acquisto del bene venga operato
congiuntamente dai coniugi con risorse provenienti dai rispettivi patrimoni
personali, ed avrebbe la funzione di subordinare la costituzione sul bene di
una comunione ordinaria (il luogo di quella legale) ad un’espressa dichiarazione
in tale senso delle parti (Cian, Sulla pubblicità del regime patrimoniale
della famiglia. Una revisione che si impone, RDC, 1976, I, 44; Cian-Villani 1980, 400 s.; Barbiera 1982, 37). 1.5. Questa opinione ha riportato anche
il favore della (più risalente) giurisprudenza,
compresa quella di legittimità. Infatti la Cassazione, affrontando nel 1993 il
caso della permuta di un immobile di proprietà personale di un coniuge (in
quanto proveniente da donazione), ha optato per la personalità del bene conseguito
come corrispettivo, considerando irrilevante
(oltre all’assenza della dichiarazione di esclusione) la mancata partecipazione del consorte (Cass., 8 feb. 1993/1556,
cit.). L’affermazione è stata successivamente ribadita da una decisione di
merito (T Firenze 2 feb. 1998, R FI,
1999 voce Famiglia (regime personale della), n. 62) e da una
di legittimità (Cass., 9 nov. 2000/14575), entrambe relative a casi di acquisto
di un bene mobile registrato (un’autovettura) personale ai sensi dell’art. 179,
lett. c). 1.6. In senso contrario si
esprime però la dottrina assolutamente
prevalente, la quale, ponendo l’accento sulla necessità (cui si ispirerebbe
la norma) di rafforzare la tutela del
coniuge escluso, ha rilevato come la lettura proposta finisca per negare la
funzione prospettata proprio con riferimento alle ipotesi (gli acquisti
separati) nelle quali la possibilità di abusi è sensibilmente più alta. A
livello letterale sembrerebbe – sempre ad avviso di alcuni studiosi –
maggiormente plausibile che il «se» della
parte conclusiva equivalga in realtà ad un «purché», nel senso che i due
presupposti della presenza nell’atto della dichiarazione di esclusione e della
partecipazione dell’altro coniuge fungerebbero entrambi da condizioni
necessarie di verificazione dell’effetto finale e dunque dell’entrata del bene
nel patrimonio personale in luogo di quello comune (Oppo, Responsabilità
patrimoniale e nuovo diritto di famiglia, RDC, 1977, I, 111; Corsi 1979, 108; Segni, op. cit., 616 s.; A.-M.
Finocchiaro 1984, 1016; Schlesinger
1992, 158; De Paola 1995, 498; Gabrielli-Cubeddu 1997, 89; Auletta 1999, 221). 1.7. Per le stesse considerazioni la
medesima dottrina maggioritaria non condivide le interpretazioni propense ad
attribuire alla partecipazione del coniuge non acquirente una valenza sul piano meramente probatorio,
nel senso che la stessa avrebbe solamente la funzione di semplificare l’onus probandi
del coniuge acquirente in caso di successiva contestazione, mentre la sua
mancanza non impedirebbe il perfezionamento della fattispecie acquisitiva a
titolo personale (in questo senso v. invece Rocchetti
March, L’intervento dell’altro
coniuge negli acquisti di beni personali immobili e mobili registrati, in Bianca (a cura di), La comunione legale, I, Milano, 1989,
581 ss., secondo la quale la partecipazione non sarebbe essenziale in quanto la
sua mancanza non farebbe venire meno la personalità dell’acquisto, ma
addosserebbe semplicemente al coniuge acquirente l’onere della prova della
personalità medesima in caso di contestazione da parte dell’altro). 1.8. Anche la giurisprudenza, dopo le già ricordate decisioni nel senso della non
necessaria partecipazione dell’altro coniuge, ha finito con l’allinearsi sulle posizioni dottrina.
Per la precisione andrà innanzi tutto ricordato che già alcune pronunce di merito si erano espresse nel senso
della necessità di tale partecipazione (cfr. T Monza 14 nov. 1988, cit.; T
Catania 14 nov. 1989, D FAM, 1990, 556; T Pistoia 21 ott. 1995, FD, 1996, 50). 1.9. Nel 2004 la Cassazione, facendo perno sulle particolari esigenze di certezza
caratterizzanti il traffico giuridico immobiliare, ha espressamente affermato la necessità della partecipazione di entrambi i
coniugi all’atto d’acquisto ex art.
179 cpv. c.c., dovendo il coniuge non acquirente esprimere «un’ ‘adesione’ alla dichiarazione resa dal coniuge acquirente», avente
altresì valore ricognitivo «del ricorso dei presupposti per l’operatività della
natura meramente ‘personale’ dell’acquisto». Da ciò emergerebbero «i tratti di
una fattispecie complessa, al cui
perfezionamento, in un disegno normativo del tutto compatto ed unitario,
concorrono, ad un tempo, il ricorso effettivo dei presupposti di cui alla
lettera f) (o delle lettere c) e d) ) dell’art. 179 cod. civ.); la relativa
dichiarazione resa dal coniuge il quale si rende ‘acquirente esclusivo’, e la
partecipazione all’atto dell’altro coniuge» (Cass., 24 set. 2004/19250, cit.).
16. Segue.
b) La natura della partecipazione del coniuge escluso all’atto di acquisto. 1.1. La dottrina si è a lungo cimentata sul tema della
natura della partecipazione del coniuge. Specie in un primo tempo, essa ne ha
asserito il carattere negoziale, nel
senso che l’esclusione dell’immobile dal patrimonio comune dipenderebbe da una
dichiarazione discrezionale di volontà in senso conforme da parte dell’escluso
(Detti, op. cit., 1170; Krogh, Gli acquisti del coniuge imprenditore in regime di comunione legale dei
beni, in Aa. Vv., Scritti in onore di Guido Capozzi,
Milano, 1992, II, 723 ss.; ulteriori riferimenti in Radice 1997, 155, nota 120). 1.2. Tale inquadramento è stato tuttavia rifiutato dalla dottrina maggioritaria, sulla base del rilievo
secondo cui l’assoggettamento dell’effetto acquisitivo al patrimonio personale
e alla manifestazione del consenso del consorte finirebbe per vanificare di
fatto il diritto soggettivo del coniuge di trasformare – nel rispetto dei
presupposti di cui all’art. 179, lett. f), c.c. – la composizione del
patrimonio individuale per quanto concerne gli acquisti immobiliari per surrogazione,
ovvero di effettuare acquisti finalizzati al soddisfacimento delle proprie
esigenze (relativamente a valori di espresso riconoscimento costituzionale)
personali ovvero lavorative nei casi di cui alle lett. c) e d) (in questo senso
v. per tutti Segni, op. cit., 623 s.; De Paola 1995, 499; Gabrielli-Cubeddu 1997, 90; Radice 1997, 156; Auletta 1999, 223). 1.3. Per quanto attiene alla giurisprudenza va rilevato che la natura negoziale della partecipazione
del coniuge è stata espressamente
esclusa nel 2000 da una pronuncia di legittimità (Cass., 19 feb. 2000/1917,
GC, 2000, I, 1365; FI, 2000, I, 2247; VN, 2000, I, 896), che ha configurato
l’intervento del coniuge non acquirente come «atto giuridico in senso stretto privo di contenuto negoziale, volto
ad attestare che quanto dichiarato dall’acquirente corrisponde a verità»,
sottolineando il «carattere ricognitivo, e non negoziale» della mancata
contestazione, da parte del coniuge, in detta sede. Tale comportamento
costituirebbe pur sempre «un atto giuridico volontario e consapevole, cui il
legislatore attribuisce la valenza di testimonianza
privilegiata, ricollegandovi l’effetto di una presunzione iuris et de iure di esclusione della
contitolarità dell’acquisto». Il vincolo derivante da detta presunzione non sarebbe
peraltro «assoluto, potendo essere rimosso per errore di fatto o per violenza, nei limiti in cui ciò è consentito
per la confessione, cui può equipararsi il riconoscimento di una situazione
giuridica». 1.4. L’«irruzione» nello
scenario giurisprudenziale della già citata decisione del 2004 (Cass., 24 set.
2004/19250, cit.) sembra portare un elemento decisivo, nella posizione
della Corte di legittimità, in favore
della tesi della natura negoziale della partecipazione del coniuge, ormai
vista come un elemento assolutamente imprescindibile della fattispecie
descritta dall’art. 179 cpv. c.c., ancorché la medesima Corte, in tale ultimo
arresto, non prenda posizione esplicita sul punto e non chiarisca se e quali
strumenti siano a disposizione del potenziale acquirente in caso di rifiuto del
coniuge non acquirente, né dica, viceversa, di quali strumenti quest’ultimo si
possa avvalere nel caso la sua partecipazione «favorevole» all’atto dovesse
dimostrarsi in seguito per qualche ragione non giustificata. 1.5. Di contro alla tesi negoziale si
pone quella della natura meramente
ricognitiva. In suo favore si è espressa parte della giurisprudenza più
risalente (cfr. ad es. Cass., 8 feb.
1993/1556, cit.; per le decisioni di merito v. T Pistoia 21 ott. 1995,
cit.; T Napoli 17 nov. 1993, cit.), nonché la dottrina minoritaria (in questo
senso cfr. De Paola 1995, 499 s.; Radice 1997, 155; Santosuosso, op. cit., 117).
17.
Segue. c) Ammissibilità e limiti di una successiva contestazione della
personalità dell’acquisto. 1.1. La questione relativa all’ammissibilità ed ai limiti
di una successiva contestazione della personalità dell’acquisto da parte del
coniuge escluso viene variamente risolta dalla dottrina, pur profilandosi come
maggioritaria la tesi favorevole
(per una panoramica delle varie opinioni v. a
Beccara 2002, 205 ss.). 1.2.
Parte di essa, peraltro, fa discendere dalla partecipazione del coniuge non
acquirente al negozio di acquisto concluso dall’altro una vera e propria inversione dell’onere della prova in
sede di eventuale successiva contestazione, nel senso che graverebbe su di lui
il rischio della mancata dimostrazione in giudizio dell’insussistenza dei fatti
giustificativi della personalità dell’acquisto non contestati al momento della
conclusione del negozio (per tale impostazione si vedano Rocchetti March, op. cit., 586; Schlesinger 1977, 406; Id. 1992, 161; Auletta
1999, 224). 1.3. Quest’opinione è
stata criticata da chi ha osservato che nessun accenno a variazioni della
regolamentazione legale dell’onere della prova predisposta dall’art. 2697 c.c.
è rinvenibile nello specifico dettato normativo dell’art. 179, co. 2°, c.c.;
d’altro canto, nell’eventuale procedimento giurisdizionale di accertamento
troveranno applicazione le regole ordinarie, per cui al coniuge non acquirente sarà sufficiente invocare l’operatività del
precetto generale dell’art. 177, lett. a), c.c., mentre competerà all’altro
allegare e provare in giudizio i fatti costitutivi della personalità
dell’acquisto (a Beccara 2002,
206 s.) 1.4. Venendo alla posizione dei terzi che abbiano acquistato diritti dal coniuge risultante dai
registri immobiliari (e dal titolo di acquisto) come proprietario esclusivo,
ovvero dei creditori che abbiano pignorato il bene come personale, rispetto
all’eventualità che ne venga successivamente dichiarata la proprietà comune, va
rilevato che parte della dottrina ha cercato di salvaguardare la posizione di
tali soggetti ipotizzando un’applicazione
analogica degli artt. 1415 e 2652, n. 4, c.c. (Schlesinger 1977, 408 s.; Corsi
1979, 118). 1.5. In senso contrario
si è peraltro esattamente obiettato che le
due situazioni non possono essere equiparate, difettando in particolare,
nel caso dell’acquisto falsamente personale, quel requisito dell’accordo
simulatorio tra le parti che nell’impostazione legislativa sembrerebbe
giustificarne l’assogettamento ai rischi derivanti dalle inopponibilità sancite
dagli artt. 1415 e 1416 c.c. Trattandosi di un’azione di mero accertamento
occorrerà fare invece riferimento all’art. 2653,
n. 1, c.c. (si richiamano a tale disposizione Radice 1997, 157 s.; Auletta
1999, 230 s.). 1.6. In ogni caso
occorre tenere presente che, essendo intervenuto un negozio dispositivo da
parte del coniuge unico intestatario, l’accertamento di cui sopra non potrà che
riguardare lo stato di comunione esistente prima del compimento di tale atto:
la proprietà del terzo non potrà quindi essere posta in discussione se non
travolgendo il negozio dispositivo medesimo con l’unico strumento posto a
disposizione del coniuge pretermesso, vale a dire l’azione di annullamento prevista dall’art. 184 c.c. In tal caso,
il terzo acquirente dal coniuge non potrà ritenersi «terzo» ai sensi degli
artt. 1445-2652 n. 6 c.c., essendo parte del negozio colpito dalla pronunzia di
annullamento (Bruscuglia, La separazione dei beni, in Aa. Vv., Il diritto di famiglia, II, Tr. BES., IV, Torino, 1999, 300 s.);
egli non potrà pertanto avvalersi della tutela accordata da tali norme, che
opererà invece solo a vantaggio di eventuali successivi acquirenti dalla
controparte contrattuale del coniuge alienante (Bruscuglia, op. loc.
ultt. citt.; a Beccara 2002, 208).
18.
Segue. d) Il problema dell’eventuale rifiuto di partecipare all’atto. 1.1. La dottrina chiarisce che l’ipotesi del rifiuto va
tenuta distinta da quella della semplice
assenza (per dimenticanza, errata valutazione di superfluità della sua
presenza, ecc.), dovendosi ritenere che di un diniego in senso tecnico è
possibile parlare solamente nel momento in cui il coniuge sia stato formalmente
invitato a partecipare, ed abbia ciononostante deciso di non intervenire (Gabrielli, Acquisto in proprietà esclusiva di beni immobili o mobili registrati da
parte di persona coniugata, VN, 1984, 666; a Beccara 2002, 208). 1.2.
Per chi si pone nell’ottica della necessaria partecipazione del coniuge la
soluzione più radicale del problema non può consistere se non nell’impossibilità di escludere la caduta
in comunione in caso di rifiuto e proprio a questa conclusione sembra
condurre il ragionamento svolto dalla Cassazione nella più volte ricordata
sentenza del 2004. Il coniuge non avrebbe quindi scelta diversa dall’astenersi
da un atto che, ove ugualmente compiuto, condurrebbe inevitabilmente ad un
incremento del patrimonio comune. 1.3.
La dottrina che ritiene necessaria la partecipazione all’atto dell’altro
coniuge ammette che sia possibile l’acquisto personale anche in caso di
ingiustificato rifiuto del coniuge, purché venga ottenuto un accertamento giudiziale della presenza
dei presupposti di cui all’art. 179, co. 1°, lett. c) e d), ovvero f). Vi è
tuttavia divergenza tra quanti reputano necessario che tale accertamento venga
effettuato prima del compimento
dell’acquisto (così Schlesinger
1992, 160; Radice 1997, 157), e
quanti considerano sufficiente anche un accertamento
successivo (De Paola 1995,
502; Gabrielli-Cubeddu 1997, 92;
in favore dell’ammissibilità di un accertamento successivo si è espressa anche
Cass., 2 giu. 1989/2688, che peraltro era stata chiamata a pronunziarsi sul
diverso tema del c.d. rifiuto preventivo del coacquisto, su cui v. infra, sub § 19). 1.4. La tesi,
poi, che ha sicuramente riscosso meno successo è quella che fa leva sul ricorso
alla speciale procedura giudiziaria
delineata dall’art. 181 c.c. (in questo senso v. invece Barbiera 1996, 461): soluzione, questa,
inaccettabile, non essendo consentito regolare l’eventuale esclusione di un
acquisto alla comunione sulla base di una norma di carattere eccezionale
inerente l’amministrazione dei beni che già ne fanno parte (sul tema v. per tutti
Auletta 1999, 226 s.).
19. Beni
personali per accordo tra i coniugi. Il problema del rifiuto preventivo del
coacquisto ex lege in comunione legale. La tesi favorevole. 1.1. Un’ulteriore
categoria di beni personali potrebbe essere costituita da quegli acquisti che,
pur non rientrando in una delle ipotesi descritte dall’art. 179 c.c., i coniugi
in comunione legale decidessero di
comune accordo di non sottoporre al regime legale. Il tema è usualmente
conosciuto come «rifiuto preventivo del coacquisto ex lege ex art. 177
c.c.». 1.2. Questa possibilità,
sebbene negata dalla giurisprudenza di merito (escludono l’ammissibilità del
rifiuto preventivo del coacquisto T Piacenza 9 apr. 1991, cit.; T Napoli 17
nov. 1993, cit.; T Parma 21 gen. 1994, FD, 1994, 310), venne sostenuta ormai
diversi anni or sono da un celebre leading
case della Cassazione (CC, 2 giu. 1989/2688, FI, 1990, I, 608; RN,
1990, II, 172, con nota di Laurini;
GC, 1990, I, 1359; GI, 1990, I, 1, 1307). 1.3.
La tesi era stata del resto prima ancora prospettata e adeguatamente dimostrata
dalla dottrina (Gabrielli, Scioglimento parziale della comunione legale fra coniugi. Esclusione
dalla comunione di singoli beni e rifiuto preventivo del coacquisto, RDC,
1988, I, 341 ss., spec. 356 ss.; nello stesso senso v. anche Gabrielli-Cubeddu 1997, 95 ss.; cfr. inoltre, sempre nello stesso
senso, Montesano, Rifiuto del coacquisto. Altre ipotesi di
esclusione di un bene dalla comunione legale e riconoscimento dell’autonomia
negoziale nei rapporti patrimoniali familiari, VN, 1991, LXXVIII
ss.; Lamberti, Ipotesi di riducibilità convenzionale della
comunione legale, ivi,
1992, 384 ss.; Lo Sardo, Il rifiuto preventivo del coacquisto,
ivi, 395 ss., e Id., Ma la comunione legale non è una prigione!, RN, 1993, 124 ss.; Oberto,
I contratti della crisi coniugale, I, Milano, 1999, 156 s.; Valignani, I limiti all’autonomia
dei coniugi nell’assetto dei loro rapporti patrimoniali, FA, 2001, p. 391
ss.; De Falco, Separazione dei
beni, comunione convenzionale e fondo patrimoniale, relazione presentata
all’incontro di studio sul tema «I rapporti patrimoniali della famiglia»
organizzato dal Consiglio Superiore della Magistratura, Nona commissione –
tirocinio e formazione professionale, svoltosi a Roma nei giorni 14 – 16 aprile
2003 (testo dattiloscritto), 7 ss.; Oberto,
L’autonomia negoziale nei rapporti tra
coniugi (non in crisi), cit., 656 ss.; per la dottrina contraria alla
decisione di legittimità del 1989 v. Galletta,
Estromissione dei beni dalla comunione legale e consenso del coniuge,
nota Cass., 2 giu. 1989/2688, GI, 1990, 1307 ss.; Parente, Il preteso rifiuto del coacquisto ex lege
da parte di coniuge in comunione legale, nota Cass., 2 giu. 1989/2688, FI, 1990,
I, 608 ss.; Bargelli-Busnelli, voce
Convenzione matrimoniale,
EdD, Aggiornamento, IV, Milano, 2000, 445 ss.; per ulteriori richiami
dottrinali si fa rinvio a Caravaglios
1995, 177 s.). 1.4. Interessante
sarà notare che il rationale di questa soluzione si fonda essenzialmente
sul principio generale secondo cui nemo
potest locupletari invitus, oltre che sulla constatazione che l’autonomia dei coniugi può spingersi, ex
art. 2647 c.c. (ma anche ex art. 210 c.c.), ad escludere dalla comunione
singoli beni, se non addirittura l’intero regime comunitario. Le argomentazioni addotte dalla dottrina
vanno dalla considerazione della possibilità (concessa dall’art. 159 c.c.), di
escludere in toto il regime comunitario, a quella (ammessa dall’art. 210
c.c.) di dar luogo a convenzioni «riduttive», a quella (argomentabile ex
art. 191 cpv. c.c.) di effettuare scioglimenti parziali del regime legale, a
quella (espressamente contemplata dall’art. 2647 c.c.) di stipulare convenzioni
che escludano singoli beni dalla comunione, a quella (consentita
dall’abrogazione dell’art. 781 c.c.) di stipulare donazioni tra coniugi (cfr.
per tutti Gabrielli, Scioglimento parziale della comunione legale
fra coniugi. Esclusione dalla comunione di singoli beni e rifiuto preventivo
del coacquisto, loc. ultt. citt.). 1.5.
Le critiche a tale posizione si sono essenzialmente imperniate sul rischio che
il «meccanismo di funzionamento della comunione legale, che prevede, al suo
interno, i casi e le modalità con cui i coniugi possono attribuire carattere
personale a determinati beni» sia «snaturato
ed alterato» (così Bargelli-Busnelli,
voce Convenzione matrimoniale, cit., p. 446); ma a tale
osservazione si può replicare che alla sovrana volontà delle parti è concesso,
addirittura, derogare in ogni momento in
toto al regime legale (cfr. per tutti Oberto,
L’autonomia negoziale nei rapporti tra
coniugi (non in crisi), cit., 659 ss.). 1.6. Non solo: il principio di autonomia negoziale applicabile alle
convenzioni matrimoniali consentirebbe comunque ai coniugi di pervenire al medesimo risultato,
determinando, per esempio «il carattere della categoria in modo che essa sia
idonea a comprendere proprio e soltanto quel bene» (Gabrielli, Scioglimento parziale della comunione legale
fra coniugi. Esclusione dalla comunione di singoli beni e rifiuto preventivo
del coacquisto, cit., p. 348 s.).
20. Segue. b) Il revirement della
Cassazione in senso contrario all’ammissibilità di un rifiuto preventivo del
coacquisto ex lege in comunione legale. 1.1. Nel 2003 la Cassazione
(Cass., 27 feb. 2003/2954, FD, 2003, p. 559), tornando sulla precedente
giurisprudenza, ha stabilito che «la partecipazione alla stipula del coniuge
formalmente non acquirente e l’eventuale dichiarazione di assenso, da parte
sua, all’intestazione personale del bene, immobile o mobile registrato,
all’altro coniuge, non hanno efficacia
negoziale o dispositiva, sotto forma di rinuncia, del diritto alla
comunione legale sul bene acquisendo, né
sono elementi di per sé sufficienti a escludere l’acquisto dalla comunione,
ma hanno carattere ricognitivo degli effetti della dichiarazione, resa
dall’altro coniuge, circa la natura personale del bene, se e in quanto questa
oggettivamente sussista, ex art. 179 c.c.». 1.2. Partendo da queste premesse la Corte ha deciso che «ove tale natura personale dei beni manchi
(e tale mancanza si ha allorché il bene, senza essere di uso strettamente
personale o destinato all’esercizio della professione del coniuge, venga
acquistato con denaro del coniuge stesso, ma non proveniente dalla vendita di
beni personali), la caduta in comunione
legale non è preclusa da dette partecipazione e dichiarazione, tanto più
che, nella pendenza di tale regime, il
coniuge non può rinunciare alla comproprietà di singoli beni acquistati durante
il matrimonio (e non appartenenti alle categorie elencate nel co. 1°
dell’articolo 179 del c.c.) salvo che sia previamente o contestualmente mutato,
nelle debite forme di legge e nel suo complesso, il regime patrimoniale della
famiglia». 1.3. Si è rilevato in
senso critico (Oberto, L’autonomia negoziale nei rapporti tra coniugi (non in crisi), cit.
659 ss.) che la motivazione del testé citato revirement della giurisprudenza di legittimità si snoda attraverso
una serie di affermazioni apodittiche. In primo luogo, la decisione in esame
dichiara expressis verbis di discostarsi dal citato precedente del 1989,
laddove, in realtà, quest’ultimo – a differenza del caso più recente, relativo
ad un problema di «surroga» del carattere personale di un bene – riguardava un
caso pacificamente non riferibile al disposto dell’art. 179 c.c., in cui
l’esclusione dalla comunione legale non era fatta risalire alla riconducibilità
della fattispecie ad una delle ipotesi contemplate in tale norma, bensì
esclusivamente alla volontà concorde dei coniugi. 1.4. I Supremi Giudici, nella decisione
del 2003, proseguono poi affermando che l’elenco
di cui all’art. 179 c.c. avrebbe carattere tassativo, contemplando «poche
eccezioni» alla regola fissata dall’art. 177 c.c., tra le quali non
rientrerebbe il caso in cui un coniuge «rinunzi (…) alla contitolarità di un
singolo bene». Un argomento testuale, in questo senso – sempre ad avviso della
Cassazione – sarebbe ricavabile
dall’articolo 210, 3° co., c.c., a mente del quale le norme della comunione
legale non sono derogabili relativamente, fra l’altro, all’uguaglianza delle
quote di comproprietà sui beni che formerebbero oggetto della comunione legale.
Ne conseguirebbe che, a maggior ragione, un coniuge, in regime di comunione
legale, non potrebbe rinunziare all’intera quota a lui spettante su un bene che
ne forma oggetto, non rientrando tale ipotesi nelle categorie elencate
dall’articolo 179 c.c.
1.4. La
decisione non presta peraltro alcuna attenzione al fatto che i coniugi potrebbero in ogni momento addirittura
escludere in toto l’operatività del regime legale, ovvero escluderlo
per tutti gli acquisti da compiersi in quel dato giorno e/o aventi quelle
determinate caratteristiche idonee ad eliminare l’operatività del regime
comunitario in relazione a quel determinato bene. 1.5. I Supremi Giudici propongono poi un inaccettabile
riferimento ad un supposto «carattere
pubblicistico» della disciplina della comunione legale, legato all’art. 160
c.c. Tesi, questa, clamorosamente smentita,
peraltro, in parte qua, dall’art. 159 c.c., che consente ai coniugi
di optare, tutto al contrario, addirittura per un regime interamente e
rigorosamente separatista.
1.6. Ancora, osserva la Cassazione che, argomentando diversamente, «il
regime di comunione legale, assunto come normale dalla legge (in mancanza di
diversa convenzione) sarebbe, in realtà, modificabile ad nutum, secondo
l’opzione estemporanea di ciascuno dei coniugi in relazione all’acquisto di
singoli beni». L’affermazione manifesta peraltro nella
maniera più evidente –
con il richiamo ad una supposta modificabilità «ad nutum,
secondo l’opzione estemporanea di ciascuno
(corsivo d.a.) dei coniugi» – come la fattispecie tenuta presente
dalla Corte fosse quella (diametralmente opposta rispetto a quella di cui qui
si discute) dell’inesistenza di un
accordo tra i coniugi.
1.7. Si noti, infine, che la stessa
Cassazione ha ammesso, a pochi mesi di distanza, che
coniugi in comunione legale possano
operare un acquisto in comunione ordinaria (così estromettendo in via
preventiva uno o più beni dalla comunione) senza previamente procedere in alcun
modo al passaggio al regime separatista, ed anzi desumendo tale intenzione
semplicemente dal fatto che ciascuno dei coniugi abbia acquistato «ciascuno a
proprio nome, in comune e pro indiviso»
titoli del debito pubblico (nella
specie, CCT) «ricevendone un titolo cointestato» (Cass., 10 set.
2003/13213, FD, 2003, 533). 1.8.
Peraltro la ancora successiva Cass., 24 feb. 2004/3647, VN, 2004, I, 971 ha
stabilito che «I coniugi in regime patrimoniale di comunione legale, al fine di
effettuare l’acquisto anche di un solo
bene in regime di separazione (tale essendo l’eventuale acquisizione in comunione ordinaria, che esige un
regime di separazione) sono tenuti a previamente
stipulare una convenzione matrimoniale derogatoria del loro regime
ordinario, ai sensi dell’art. 162 cod. civ., sottoponendola alla specifica
pubblicità per essa prevista, non essendo al riguardo viceversa sufficiente una
più o meno esplicita indicazione contenuta nell’atto di acquisto, posto che
questo non viene sottoposto alla pubblicità delle convenzioni matrimoniali, le
quali solo conferiscono certezza in ordine al tipo di regime (patrimoniale) cui
sono sottoposti gli atti stipulati dai coniugi».
1.9. Nello stesso solco sembra poi
collocarsi anche Cass., 19 set. 2005/18456, la quale ha cassato una decisione
di merito che aveva riconosciuto alla dichiarazione della moglie sul carattere
personale dell’acquisto operato dal marito l’effetto di sottrarre l’acquisto
alla comunione legale. Nella specie la dichiarazione era stata espressamente
riferita al disposto dell’art. 179, lett. d), c.c., in relazione all’acquisto di un immobile destinato ad
attività imprenditoriale di autocarrozzeria (e dunque non professionale,
intesa come relativa all’esercizio di professione liberale) del marito. La
Suprema Corte, affermando (correttamente) l’applicabilità alla fattispecie
dell’art. 178 c.c., ha (con asserzione sostanzialmente immotivata e, ad avviso
dello scrivente, non condivisibile) ritenuto irrilevante la chiara
manifestazione di volontà del coniuge nell’atto d’acquisto diretta ad escludere
dalla comunione il bene, concludendo per l’appartenenza alla comunione de residuo dell’immobile.