AIAF Lazio
Corso di aggiornamento professionale autunno 2006
I rapporti patrimoniali tra i coniugi nella separazione e nel divorzio
Roma
Hotel Visconti Palace
Via Federico Cesi n.37
dalle 15 alle 18
Giacomo
Oberto
LE
GARANZIE REALI E PERSONALI.
IL
SEQUESTRO
E IL
PAGAMENTO DIRETTO DEL TERZO.
NUOVE
FORME DI GARANZIA
DEGLI
ASSEGNI
DI
SEPARAZIONE E DIVORZIO
1. Il sequestro ex artt. 156 c.c. e 8 l.div. Differenze rispetto
al sequestro ex art. 671 c.p.c. Presupposti.
Lo speciale potere di sequestro dei beni del
coniuge obbligato al mantenimento previsto dal sesto comma dell’art. 156 c.c., in materia di separazione personale
dei coniugi, e dall’ultimo comma dell’art. 8
L. div., in materia di divorzio, non è includibile nelle c.d. misure cautelari atipiche di cui all’art. 669-quaterdecies c.p.c., in
quanto ha caratteri
peculiari rispetto all’ordinario sequestro conservativo disciplinato
dagli art. 671 e seguenti c.p.c.
Ecco schematizzate le differenze:
Sequestro ex
artt. 671 ss. c.p.c. |
Sequestro
dei beni del coniuge |
presuppone il controllo del periculum in mora
|
prescinde dal periculum, legato, com’è,
alla semplice inadempienza |
può essere concesso anche prima dell’inizio della
causa di merito, con efficacia connessa all’esito del relativo giudizio
parallelo (cfr. art. 669-novies c.p.c.) |
può essere accordato all’esito della separazione
o del divorzio o nel corso dei
relativi giudizi |
e può colpire anche l’intero patrimonio del
debitore, quale mezzo di conservazione della garanzia finalizzato al
pignoramento |
può riguardare soltanto parte dei beni del
coniuge obbligato, senza poter condurre al pignoramento, avendo una funzione
di coazione anche psicologica nei riguardi del coniuge inadempiente (cfr. Corte cost., 19 luglio 1996, n. 258, in Foro
it., 1996, I, c. 3603, nota di Cipriani) |
Esso ha dunque soltanto funzione di garanzia dell’adempimento
degli obblighi patrimoniali stabiliti dal giudice della separazione dei coniugi
o del divorzio (Cass., 28 maggio 2004, n. 10273).
Sull’istanza é competente a decidere
·
il giudice istruttore nel
corso del processo divorzile, operando in materia gli stessi principi stabiliti
dalla Corte Costituzionale per il sequestro ex art. 156 c.c. nel corso
della causa di separazione (sent. n. 258/1996,
cit.) ovvero del giudizio per il
sostentamento dei figli naturali (sent. 18 aprile
1997, n. 99, in Foro it., 1998, I, 3074), nonché
·
il collegio colla sentenza
definitiva, ovvero con successivo decreto camerale revisionale, poiché in
sostanza il provvedimento appartiene
al giudice competente a decidere la controversia
relativa ai rapporti patrimoniali tra i coniugi o ex coniugi (v., con
riferimento all’art. 156 c.c., Cass., 30 gennaio
1992, n. 961).
Esso può essere domandato o può esserne richiesto l’ampliamento, anche dopo la pronunzia giudiziale
di separazione o divorzio dei coniugi e la chiusura del giudizio di primo
grado, ogni qual volta l’inadempimento del coniuge obbligato si sia realizzato
successivamente, con il limite della proposizione della relativa istanza nel
rispetto del principio del contraddittorio (Cass.,
28 maggio 2004, n. 10273).
Il
provvedimento di sequestro di beni del coniuge obbligato all’assegno
di mantenimento presuppone:
·
un credito
già dichiarato,
anche provvisoriamente, e
·
l’inadempienza, mentre
·
non richiede
il periculum in mora (Cass., 12 maggio 1998, n. 4776).
L’inadempienza dell’obbligato
·
non richiede anche la gravità dell’inadempimento o l’intento di
sottrarre quei beni, e nemmeno esige che il creditore non sia in grado di
acquisire altra analoga garanzia attraverso iscrizione d’ipoteca (Cass., 15 novembre 1989, n. 4861).
·
Non si
configura soltanto in caso di mancato versamento dell’assegno di mantenimento,
ma anche nel caso di
inadempimento all’obbligo di prestare idonea garanzia reale o personale
imposto dal giudice ai sensi del quarto comma del citato
art. 156 c.c. e dell’omologa disposizione divorzile, ed altresì nel caso di
inottemperanza ad eventuali prescrizioni della separazione consensuale volte a
garantire l’osservanza dell’obbligo di corrispondere l’assegno di mantenimento
nella misura concordata, prescrizioni che, in tali termini, sono equiparabili
all’obbligo di prestare idonea garanzia eventualmente imposto dal giudice che
pronunzia la separazione giudiziale o il divorzio.
·
Ad esempio in un caso in cui la separazione consensuale prevedeva l’obbligo per il
marito di corrispondere il 75% del reddito netto di tutte le partecipazioni
societarie, nonché il divieto di cedere a terzi i titoli azionari senza il
consenso della moglie, la S.C. ha cassato la decisione di merito che aveva
respinto la richiesta di sequestro ex art. 156 c.c. sostenendo che il
marito, pur avendo alienato i titoli societari, così violando le prescrizioni
della separazione, non si era reso inadempiente all’obbligo di mantenimento (Cass., 12 maggio 1998, n. 4776).
·
L’adempimento successivo
all’istanza di distrazione ex art. 156, comma sesto, c.c. non preclude
l’accoglimento della stessa (cfr. Trib. Taranto, 8 novembre 1996, in Fam.
dir., 1997, p. 131).
2. Il sequestro ex artt. 156 c.c. e 8 l.div. Impugnazioni avverso
il provvedimento.
La statuizione sul sequestro può essere
diversamente impugnata a seconda del provvedimento che la contiene. Si dovrà
quindi distinguere l’ipotesi
1. della sentenza,
2. del decreto di modifica
delle condizioni della separazione o del divorzio o
3. del provvedimento emesso
dal G.I.
Cominciando dalla sentenza, va detto che il relativo capo, contenuto
nella sentenza di separazione o divorzio, che abbia confermato o disposto il sequestro, è
suscettibile di autonoma impugnazione coll’appello; nel giudizio di secondo grado può essere
disposta, per la ricorrenza di giusti motivi, la revoca del sequestro ed è
ammissibile pure la pronuncia, in sentenza, della modifica del provvedimento
reso in primo grado per assicurare l’adempimento degli obblighi di mantenimento
(Cass., 30 gennaio 1992, n. 961, in Giust. civ.,
1993, I, p. 3075).
Il decreto separatamente reso dal tribunale sul sequestro, col
procedimento camerale di cui all’art. 710 c.p.c. ed all’art 9, l. div., è reclamabile dinanzi alla corte di appello. Alla conclusione
dell’adozione del rito collegiale camerale per l’emissione del sequestro
postumo si deve pervenire in base al secondo ed al terzo comma dell’art. 38 att. c.c., per cui i
provvedimenti attribuiti alla competenza residuale del tribunale ordinario in
materia di famiglia sono sempre
emessi in camera di consiglio (Cass., 19
febbraio 2003, n. 2479; Trib. Verona, 17 novembre 1993, in Giur. merito,
1994, p. 859; Trib. Piacenza, 20 gennaio 1995, in Gius, 1995, p. 1424;
Trib. Messina, 7 maggio 1993, in Foro it., 1993, I, c. 1989; Trib.
Catania, 23 aprile 1993, in Dir. fam., 1994, I, p. 217), sentito il p.m.
ove sia interessata prole minorenne (Trib. Monza, 27 ottobre 1989, in Foro
it., 1990, I, p. 1726; Trib. Lucca, 10 gennaio 1986, in Foro pad.,
1986, I, c. 209).
Sul gravame la corte di appello decide, a sua volta, con decreto camerale, non impugnabile mediante
il ricorso straordinario per cassazione, ai sensi dell’art. 111 Cost., poiché si
tratta di provvedimento non decisorio, né definitivo, avendo esso natura
strumentale (rispetto al diritto sostanziale al mantenimento spettante al
coniuge o alla prole) ed essendo esso revocabile o modificabile per
giustificati motivi (Cass., 19 febbraio 2003, n.
2479).
Secondo taluni il sequestro previsto dall’art. 156, sesto comma, c.c. e dall’art. 8, ultimo comma, L. div. concesso dal giudice istruttore
nel corso del giudizio di separazione o di divorzio, essendo caratterizzato dai
requisiti della provvisorietà
e della strumentalità
ed essendo, in particolare, diretto a garantire l’effettività della sentenza
che definisce il giudizio, sarebbe reclamabile ai sensi degli art. 669-terdecies e 669-quaterdecies c.p.c. dettati per i
provvedimenti cautelari (Trib. Cagliari, 21 maggio 1998, in Foro it.,
1998, I, p. 2285).
Peraltro, la giurisprudenza di merito maggioritaria è nel
senso che, siccome alla luce dei costanti orientamenti della Corte
Costituzionale e della Corte di Cassazione il sequestro di parte dei beni del
coniuge separato o divorziato che si sia reso inadempiente agli obblighi di
contenuto economico non ha
natura cautelare, esso non può essere soggetto a
reclamo al collegio (Trib. Modena, 12 febbraio 2003, in Gius,
2003, 10, p. 1118; Trib. Foggia, 12 giugno 2000, in Foro it., 2001, I, c.
2054; Trib. Milano, 21 luglio 1995, in Giur. it., 1995, I, 2, c. 878).
A tal fine si ribadisce che il sequestro, essendo
volto a garantire un obbligo di mantenimento verso il coniuge o la prole,
presuppone l’esistenza di un diritto già sancito in un titolo esecutivo, la cui
peculiare natura di
credito ad esecuzione periodica comporta che la funzione cautelare non
si esaurisca nell’arco del giudizio di merito, ma produca effetti di garanzia permanente, sino a che
si protragga il diritto di mantenimento cui si riferisce (Trib. Milano, 2
dicembre 1999, in Giur. milanese, 2000, p. 319).
Se lo speciale potere di sequestro dei beni del
coniuge obbligato non è includibile nelle misure cautelari atipiche di cui
all’art. 669-quaterdecies c.p.c., non
può procedersi ad assegnazione delle somme o cose sequestrate ai sensi
dell’art. 156 c.c. e dall’art.
Non pare che la reclamabilità dei provvedimenti del giudice istruttore
sul sequestro dei
beni dell’obbligato al mantenimento possa essere desunta dalla generale
impugnabilità dinanzi alla corte di appello dei provvedimenti presidenziali ai
sensi dell’ultimo comma dell’art. 708 c.p.c. in vigore del 16 marzo 2006.
In questo senso depone del resto il principio della tassatività dei mezzi di
impugnazione, previsto dall’art. 568 c.p.p., con
valenza sicuramente generale.
Tale norma ha natura eccezionale, rispetto al
principio generale che i provvedimenti revocabili o modificabili per
giustificati motivi non sono impugnabili in corso di causa ma modificabili
dallo stesso istruttore ai sensi dell’art. 177 c.p.c. (cfr. l’ottavo comma
dell’art. 4, L. div. e l’ultimo comma dell’art. 709 c.p.c.) e del tutto
plausibilmente si riferisce perciò ai soli provvedimenti presidenziali (Dosi, L’affidamento condiviso, in Lessico Dir. Fam.,
1/2006, p. 41). Del resto dovrebbe operare in subiecta materia il
principio generale dell’ordinamento circa la tassatività dei mezzi di
impugnazione e delle pronunzie impugnabili (v., nel processo penale, l’art. 568 c.p.p.; nel processo amministrativo, Cons.
Stato n. 5319/2003 e n. 422/2001, in Foro amm., 2003, p. 257 e 2001, p.
284).
Il provvedimento di sequestro dei beni del coniuge
obbligato all’assegno di mantenimento, potendo essere revocato anche ad opera del giudice di appello per la
sopravvenienza di giustificati motivi (ultimo
comma dell’art. 156 c.c. e primo comma
dell’art. 9 l. div.), ben può, ricorrendo gli stessi giustificati motivi, e
pur sussistendo le condizioni necessarie per la sua concessione (inadempienza
dell’obbligato), non venire emesso, e la valutazione discrezionale circa la presenza dei
giustificati motivi, ove fondata su congrua motivazione, si sottrae al
sindacato di legittimità da parte della S.C. (Cass.,
28 gennaio 2000, n. 944).
3. Il sequestro ex artt. 156 c.c. e 8 l.div. Fattispecie
particolari (nullità del matrimonio, separazione consensuale, figli naturali
riconosciuti).
La sopravvenuta nullità del matrimonio concordatario fra i coniugi, dichiarata con sentenza definitiva del tribunale ecclesiastico e resa esecutiva agli effetti civili dalla corte d’appello, non determina la cessazione della materia del contendere nel procedimento di appello pendente sulla revoca del sequestro, in quanto tale pronuncia di nullità del matrimonio non ne modifica sostanzialmente il regime giuridico quanto ai provvedimenti nei confronti delle prole, atteso che l’art. 129 c. c. stabilisce che si applica, per tali provvedimenti, l’art. 155 c.c. (richiamato dall’art. 156 c.c.), essendo essenziale che la legge 151/1975 ha attribuito al giudice il potere di rivedere in ogni tempo la misura e le modalità del contributo degli ex coniugi per il mantenimento, l’istruzione e l’educazione dei figli, anche dopo la sentenza che dichiara la nullità del matrimonio (Cass., 11 ottobre 1983, n. 5887, in Giur. it., 1984, I, p. 1).
Si noti che il richiamo all’art. 155 c.c. operato dall’art.
156, quarto comma, c.c., rende evidente che i rimedi di cui a tale
disposizione trovano applicazione anche con riguardo agli assegni previsti per
la prole. Qualche dubbio può sussistere relativamente all’assegno per i figli
maggiorenni, posto che l’art. 156 c.c., non toccato dalla riforma del 2006, non
fa riferimento all’art. 155-quinquies c.c. Per i maggiorenni disabili,
invece, il capoverso della norma da ultimo citata estende tutte le disposizioni
concernenti la prole minorenne.
Infine va ricordato che è infondata la questione di legittimità costituzionale del sesto comma dell’art. 156 c.c., nella parte in cui
escluderebbe che il provvedimento di sequestro ivi previsto possa essere disposto
anche in favore di un figlio
naturale riconosciuto, in riferimento agli art. 3 comma 1 e 2 e 30
cost.; la disposizione impugnata viene interpretata dalla Corte delle Leggi nel
senso che questa trova applicazione anche nelle controversie concernenti il
mantenimento dei figli naturali (Corte cost., 18 aprile 1997, n. 99).
4. Il
sequestro ex art. 146, terzo
comma, c.c.
Del tutto diversa rispetto a quella
sopra vista è la funzione
e la struttura del sequestro
speciale previsto dal terzo comma dell’art. 146
c.c., da eseguirsi sui beni del coniuge ingiustificatamente allontanatosi dalla residenza
familiare. Tale sequestro, secondo la S.C., ha una funzione coercitiva e sanzionatoria,
diretta a far cessare
l’allontanamento ingiustificato del coniuge; esso è concesso
esclusivamente per garantire l’adempimento degli obblighi di contribuzione previsti dagli art. 143
e 147 c. c. Come tale, esso può mai essere autorizzato allo scopo di garantire
l’adempimento degli obblighi di mantenimento nascenti dalla sentenza di
separazione in quanto presuppone una situazione anteriore ad un qualsiasi
provvedimento o atto che legittimi la cessazione della convivenza, ed è
destinato a perdere efficacia a seguito di proposizione di domanda di
separazione, che realizza una giusta causa di allontanamento (Cass., 29 novembre 1985, n. 5948).
Secondo la dottrina prevalente l’art. 146 c.c. disciplinerebbe un sequestro conservativo
vero e proprio (Acone, Finocchiaro,
Santosuosso, Santoro-Passarelli, Orsenigo), di talché troverebbe
applicazione il processo cautelare uniforme (Saletti).
Isolatamente si è sostenuto che si verterebbe in tema di un misura diretta a
creare un vincolo di indisponibilità, quale ipotesi autonoma di costituzione di
garanzia reale sui beni del coniuge allontanatosi, e che la competenza sarebbe
dunque devoluta al tribunale ex art. 38 att. c.c. (Attardi); conseguentemente, secondo tale
tesi, la comune natura coercitiva consentirebbe di assimilare il sequestro
«preventivo» di cui al terzo comma dell’art. 146 c.c.
a quello «successivo» di cui al sesto comma dell’art. 156
c.c. (Trib. Lucca, 10 gennaio 1983, in Foro it, 1986, I, c. 1943) ed
il passaggio da l’uno all’altro senza soluzione di continuità.
5. L’ipoteca giudiziale.
Il quinto
comma dell’art. 156 c.c. ed il secondo
comma dell’art. 8 L. div. contengono disposizioni del tutto inutili poiché esse
stabiliscono che le sentenze di separazione e di divorzio costituiscono titolo
per la iscrizione di ipoteca giudiziale, con una mera ripetizione della
normativa ordinaria di cui all’art. 2818 c.c. pure
richiamato in entrambe le norme.
Una lettura in chiave sistematica
di tali disposizioni conduce a concludere nel senso che la valutazione del
coniuge creditore, ai fini dell’iscrizione ipotecaria, circa la sussistenza del pericolo della
sottrazione del debitore agli obblighi su lui gravanti, resta sindacabile nel merito.
Ne consegue che la relativa mancanza, originaria o sopravvenuta, determina, venendo
appunto meno lo scopo per cui la legge consente il vincolo, l’estinzione della
garanzia ipotecaria già prestata e, di conseguenza, il sorgere del diritto del
coniuge obbligato di ottenere dal giudice, dietro accertamento delle condizioni
anzidette, l’emanazione del corrispondente ordine di cancellazione, ai sensi dell’art. 2884 c.c.
Invero il coniuge,
separato o divorziato, beneficiario per sé o per i figli di assegno di
mantenimento a carico dell’altro coniuge, può iscrivere ipoteca giudiziale sui
beni immobili dell’obbligato, sempre che vi sia pericolo di inadempimento da parte di
quest’ultimo, sicché proprio l’accertata
mancanza, anche sopravvenuta, di tale pericolo comporta l’estinzione della
garanzia ipotecaria. Ad esempio, la Cassazione ha ritenuto immune da
vizi logico-giuridici la motivazione del giudice che aveva disposto la
cancellazione dell’ipoteca iscritta dalla moglie, beneficiaria di assegno di
mantenimento in forza della sentenza di separazione, sui beni del marito, in
ragione del corretto adempimento di quest’ultimo, in misura anche superiore al
dovuto, con conseguente esclusione del pericolo di inadempimento (Cass., 6 luglio 2004, n. 12309).
L’iscrizione ipotecaria
in base alla sentenza attributiva dell’assegno di mantenimento che la legge
prevede senza indicare alcun criterio per la determinazione della somma per cui
può essere presa, può essere fatta per la somma indicata dal coniuge creditore (art. 2838 c.c.), con la possibilità per il coniuge
debitore di chiederne la riduzione con ricorso al giudice, il quale non gode di
discrezionalità piena, ma deve applicare criteri che facciano riferimento ad
elementi obiettivi, quali le tabelle previste da r.d. 9 ottobre 1922, n. 1403
per la costituzione delle rendite vitalizie immediate (Cass.,
29 gennaio 1980, n. 679).
Ai sensi del
quinto comma dell’art. 156 c.c. e del secondo comma dell’art. 8 L. div., il
coniuge creditore degli assegni ha titolo per iscrivere ipoteca giudiziale sui
beni dell’altro coniuge obbligato alla corresponsione degli stessi, in forza
del provvedimento che detti obblighi dispone, senza necessità di alcuna autorizzazione da parte del
giudice, è inammissibile, per difetto d’interesse, la richiesta al
giudice della separazione o del divorzio di autorizzazione all’iscrizione
ipotecaria (Cass., 20 novembre 1991, n. 12428).
Le clausole della separazione consensuale
omologata in tema di mantenimento, nel loro contenuto originario od in
quello ridefinito in esito alla procedura di cui agli artt. 710 e 711 cod.
proc. civ., hanno, ai sensi dell’art. 158 cod. civ. (nel testo risultante dalla
pronuncia della Corte Costituzionale n. 186 del
18 febbraio 1988), natura di titolo giudiziale, anche ai fini dell’iscrizione d’ipoteca a norma dell’art. 2818 cod.
civ., al pari delle statuizioni in proposito incluse nella sentenza di
separazione. Ne discende che l’avente diritto a detto mantenimento non è
abilitato, per difetto di interesse, a reclamare, con il rito ordinario o con
quello monitorio, una decisione di condanna all’adempimento, la quale si
tradurrebbe nella reiterazione di un titolo di cui già gode (Cass.,
10 novembre 1994, n. 9393).
Secondo la Corte costituzionale, pure la ingiunzione
per il pagamento delle somme destinate al mantenimento della prole ex art. 148 c.c. è titolo idoneo
all’iscrizione di ipoteca giudiziale, poiché il decreto emesso nei confronti
dell’obbligato inadempiente (genitore o ascendente) segue le regole proprie del
decreto ingiuntivo provvisoriamente
esecutivo; se il decreto medesimo è emesso, invece, nei confronti del
terzo debitore dell’obbligato inadempiente esso
costituisce titolo esecutivo ma non è idoneo all’iscrizione di ipoteca
giudiziale sui beni del terzo, poiché la legge richiama solo le norme relative
al giudizio di opposizione ma non l’art. 655 c.p.c. (Corte cost., 12 febbraio 2002, n. 236).
6. L’ordine di pagamento diretto. Le varie ipotesi conosciute dal nostro
ordinamento.
Esistono quattro ipotesi
di ordine di pagamento diretto:
(a)
Art. 148 c.c.
(b)
Art. 156, sesto comma, c.c.
(c)
Art. 8, commi terzo, quarto, quinto e sesto, l.div.
(d)
342-ter c.c.
7. L’ordine di pagamento diretto ex art. 148 c.c.
In primo luogo vi è il
caso dell’art.
148 c.c. che, in virtù dell’art. 261 c.c., è applicabile anche a tutela della prole
naturale, benché ricompreso nel capo riguardante i diritti ed i doveri
che nascono dal matrimonio (Trib. Messina, 10 maggio 1991, in Giust. civ.,
1992, I, p. 2899; Trib. Firenze, 31 ottobre 1983, in Foro it., 1984, I,
c. 2351).
L’ordine giudiziale di
pagamento è emesso all’esito di una procedura di tipo monitorio che si svolge dinanzi al presidente del tribunale
del luogo di residenza del genitore o degli ascendenti inadempienti, il quale
deve sentire preventivamente costoro e può assumere informazioni con rito del
tutto deformalizzato.
Oggetto del decreto è il versamento di una quota dei
redditi dell’obbligato direttamente dal terzo debitore al genitore o a
chi sopporta le spese per il mantenimento della prole. Sono legittimati attivamente
il genitore o altro affidatario, il figlio maggiorenne, gli istituti di
assistenza ed i parenti che vi abbiano interesse. Secondo la S.C. il presidente
deve compiere un accertamento sommario sull’ammontare dell’assegno dovuto (Cass., 12 aprile 1979, n. 2153).
La disposizione
legislativa di cui all’art. 148 c.c., per effetto
della quale il giudice può disporre, che «una quota dei redditi dell’obbligato»
venga versata direttamente all’avente diritto, non può essere interpretata nel
senso che un tale ordine debba indefettibilmente avere ad oggetto solo una parte delle
somme dovute dal terzo, quale che, in concreto, ne sia la misura e quale che,
in concreto, sia l’importo dell’assegno di mantenimento, bensì nel senso che il
giudice possa legittimamente disporre il pagamento diretto dell’intera somma
dovuta dal terzo, quando questa non ecceda, ma anzi realizzi pienamente il
mantenimento (cfr. sul punto quanto verrà detto con riguardo
all’art. 156, sesto comma, c.c.). E’ incerto tuttavia se operino i limiti
quantitativi dell’art. 545 c.p.c. (Gabrielli, Santosuosso, Trabucchi)
oppure no (Finocchiaro).
Il decreto, immediatamente esecutorio,
va notificato alle parti ed al terzo debitore. E’ ammessa opposizione nelle forme
previste per l’opposizione
al decreto ingiuntivo e trovano applicazione gli artt. 645, 649, 652,
653 e 656 c.p.c. Si è ritenuto che il giudizio di opposizione deve svolgersi
con la necessaria partecipazione di tutti i soggetti ai quali il decreto stesso
va notificato, che pertanto devono essere considerati quali litisconsorti necessari:
l’opposizione deve, pertanto, essere proposta nei confronti dei predetti
legittimati passivi, in assenza va ordinata l’integrazione del contraddittorio
ai sensi dell’art. 102 c.p.c. (in dottrina v. Attardi; cfr. Trib. Potenza, 1 febbraio
1991, in Dir. fam., 1991, p. 1017).
Mancando l’opposizione il
decreto passa in cosa
giudicata e si è sostenuto che, in caso di parziale accoglimento della
domanda, il richiedente debba fare opposizione, non potendo riproporre
successivamente la sua istanza (Attardi).
In senso contrario si é affermato che, nell’ipotesi di accoglimento parziale,
il richiedente potrebbe o far decadere il decreto non procedendo alla sua
notificazione e dunque rinnovare la richiesta, oppure notificare il decreto ed
avanzare impugnazione incidentale riconvenzionale ex art. 334 c.p.c. nel
caso di opposizione della controparte (Finocchiaro).
Le parti ed il terzo
debitore possono sempre chiedere, con le forme del processo ordinario, la modifica e la revoca del
provvedimento per circostanze e motivi sopravvenuti. Secondo un primo
orientamento a tale procedimento revisionale, previsto dall’ultimo
comma dell’art. 148 c.c., si dovrebbe ricorrere anche nel caso del venir
meno della qualità di debitore in capo al terzo intimato (Attardi), mentre per altri il
provvedimento giudiziale diverrebbe automaticamente inefficace.
8. L’ordine di pagamento diretto ex art. 156, sesto
comma, c.c.
La seconda forma di pagamento diretto è data dal sesto comma dell’art. 156 c.c., che regola una ulteriore garanzia a
tutela degli obblighi patrimoniali verso il coniuge più debole e la prole minorenne o non autonoma (Cass., 4
dicembre 1996, n. 10813), in quanto prevede che il giudice possa
ordinare ai terzi debitori anche di somme periodiche verso il coniuge onerato,
che una parte di esse sia versata direttamente al coniuge beneficiario, ovvero
ad altri aventi diritto quali ad es. i nonni affidatari
(Cass.,
17 luglio 1997, n. 6557).
La disposizione è applicabile anche nel caso di separazione consensuale (Corte cost.,
19 gennaio 1987, n. 5).
Essa sanziona l’inadempimento dell’obbligato ed
anche il non puntuale adempimento dell’obbligo di mantenimento del coniuge
separato, pure se con pochi giorni di ritardo rispetto alla scadenza imposta,
ove tale comportamento provochi fondati dubbi sulla tempestività dei futuri pagamenti, in quanto
la funzione che adempie l’assegno di mantenimento viene ad essere frustrata anche da semplici ritardi
(Cass., 14
febbraio 1990, n. 1095). Ne deriva che l’inadempienza non richiede la gravità
dell’inadempimento o l’intento di sottrarre beni, e nemmeno esige che il
creditore non sia in grado di acquisire garanzie attraverso iscrizione
d’ipoteca (Cass.,
15 novembre 1989, n. 4861).
Il debito del terzo deve riguardare solo somme di danaro ivi compresi
i proventi di lavoro e gli assegni pensionistici, sia che costituiscano
trattamento di quiescenza direttamente scaturente dal rapporto di lavoro, sia
che presentino, come quelli dovuti dall’INPS, natura prevalentemente
previdenziale e relazione solo indiretta con detto rapporto (Cass., 10 gennaio
1979, n. 159; Cass., 23 dicembre 1992, n. 13630).
Ove l’assegno debba essere versato all’avente diritto da una P.A., l’eventuale
erronea identificazione dell’organo competente a quel versamento (es. direzione
provinciale, anziché ministero), è emendabile dalla amministrazione stessa in
sede di esecuzione del provvedimento (Cass., 15 novembre 1977, n. 4969).
Il riferimento normativo ad «una parte»
non può essere interpretata nel senso che un tale ordine debba
indefettibilmente avere ad oggetto solo una parte delle somme dovute dal terzo, quale che, in
concreto, ne sia la misura e la quota, e quale che, in concreto, sia l’importo
dell’assegno di mantenimento, bensì nel senso che il giudice possa
legittimamente disporre il pagamento
diretto dell’intera somma dovuta dal terzo, quando questa non ecceda, ma
anzi realizzi pienamente, l’assetto economico determinato in sede di
separazione con la statuizione che, in concreto, ha quantificato il diritto del
coniuge beneficiario (Cass., 2 dicembre 1998, n. 12204).
Il principio è stato di recente ribadito dalla
Corte Suprema, la quale ha stabilito che «L’art. 156, comma VI, c.c.
prevede la facoltà, in capo al Giudice, di ordinare ai terzi, tenuti a
corrispondere, anche periodicamente, somme di denaro all’obbligato, che una
parte di esse venga versata direttamente agli aventi diritto. Siffatta
disposizione deve essere interpretata non già nel senso che un tale ordine
debba indefettibilmente avere ad oggetto solo una parte delle somme dovute dal
terzo, quale che in concreto ne sia la misura e quale che, in concreto, sia
l’importo dell’assegno di mantenimento, bensì nel senso che il giudice possa
legittimamente disporre il pagamento diretto dell’intera somma dovuta dal
terzo, quando questa non ecceda, ma anzi realizzi pienamente, l’assetto
economico determinato in sede di separazione con la statuizione che, in
concreto, ha quantificato il diritto del coniuge beneficiario» (Cass., 6
novembre 2006, n. 23668). La lettura della motivazione
fornisce un interessante esempio dei casi in cui il rimedio in esame può essere
invocato.
L’ordine
del giudice al terzo debitore dell’obbligato non solo si riferisce anche ai
trattamenti pensionistici corrisposti in favore del coniuge già dipendente di
una pubblica amministrazione, ma non sono neppure applicabili in detta ipotesi i limiti stabiliti dal
d.p.r. 180/1950 in materia di sequestrabilità e pignorabilità degli stipendi,
salari e pensioni dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni (Cass., 27 gennaio
2004, n. 1398).
La S.C. esclude anche l’applicabilità per analogia all’assegno di separazione
della disciplina stabilita per quello divorzile, che può essere
affermata esclusivamente in riferimento a quei profili per i quali si accerti
che manchi una specifica disciplina e che sussista la eadem ratio che permetta l’estensione all’uno della
regolamentazione stabilita per l’altro; invece una disciplina della distrazione
in materia di separazione personale esiste e riguarda, tra l’altro, anche la
misura della stessa (l’art. 8, comma 6, L.
div. stabilisce quale limite «la
metà delle somme dovute»; l’art. 156, comma sesto, c.c.,
fa riferimento ad «una parte di esse»), è sufficiente a fare escludere
l’applicabilità per analogia della disposizione per la dirimente considerazione
che non esiste la lacuna normativa che solo legittimerebbe il ricorso
all’interpretazione analogica (Cass., 27
gennaio 2004, n. 1398, in motivaz.).
L’ordine giudiziale di pagamento diretto può essere
emesso
·
dal presidente del
tribunale, unitamente
ai provvedimenti temporanei ed urgenti, quando il coniuge sia già moroso
rispetto agli obblighi previsti dagli artt. 147 e 148 c.c. (Servetti),
·
dal giudice istruttore nel corso del procedimento (Corte cost., 6 luglio 1994, n. 278),
·
dal
tribunale
o con
la sentenza (nel
rispetto dei limiti processuali per la introduzione di domande nuove per fatti
sopravvenuti) e
o col
decreto
revisionale.
La relativa richiesta può
essere proposta per la
prima volta anche nel corso del giudizio di secondo grado, trovando nel
caso applicazione il c.d. principio rebus sic stantibus,
purché risulti sempre rispettato il principio del contraddittorio, a garanzia
del diritto di difesa del coniuge obbligato in sede di accertamento della sua
inadempienza (Cass., 19 dicembre 2003, n. 19527).
L’autonomia e l’originalità dell’istituto
dell’ordine giudiziale di pagamento risulta non soltanto dalla sua funzione di
alternativa sanzione per gli inadempimenti già verificatisi o di garanzia per
prevenire quelli che, pur non essendosi ancora verificati, si ha ragione di
temere, quanto soprattutto dalla non prevista partecipazione al procedimento del terzo debitore
(datore di lavoro o committente) che, invece, è necessaria nell’espropriazione
presso terzi.
Sennonché l’ordine di distrazione ex
art.156 c.c., pur avente natura latamente espropriativa, non costituisce, secondo
la dottrina maggioritaria titolo
esecutivo verso il terzo estraneo al procedimento (Caferra,
Ceccherini, Goldoni, Finocchiaro); si tratterebbe, dunque di un
meccanismo che, ispirandosi alla cessione volontaria dei crediti ex
art. 1260 e seg., c.c. (Cass., 7 luglio 1976, n.
2533), avrebbe come suo effetto (quando sia stata notificata al debitore
ceduto) non già di
obbligarlo a pagare (rimanendo perfettamente libero di contestare
l’esistenza o l’ammontare del suo debito), ma di conseguire la liberazione dal suo debito col pagamento
eseguito alla persona indicata nell’atto notificatogli e di impedirgli il
conseguimento di qualsiasi liberazione qualora paghi invece, nonostante la
notifica, al creditore originario.
Ciò consentirebbe, nel caso in cui il terzo si
rifiuti di adempiere, oltre all’ordinario pignoramento presso terzi, la
chiamata nel processo ex art. 107 c.p.c. (Taranto), oppure l’azione civile per danni (Dogliotti, Carbone), ovvero l’azione
penale ex art. 388 c.p. (De
Filippis e Casaburi);
isolatamente si sostiene, invece, che il coniuge creditore possa agire
esecutivamente nei confronti del terzo debitore sull’intero suo patrimonio (A.
e M. Finocchiaro).
La Corte Costituzionale,
con la sentenza 31 maggio 1983, n. 144 ha
dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 156,
comma sesto, c.c., nella parte in cui non prevede che l’ordine al terzo di
pagare agli aventi diritto in caso di inadempienza del genitore relativa al
mantenimento dei figli sia applicabile anche alla separazione consensuale. In base a
questa sentenza la Cassazione ha ritenuto che l’ordine al terzo di pagare
direttamente somme dovute al coniuge obbligato si estenda al contributo per il
mantenimento dei figli (Cass., 4 dicembre 1996, n.
10813).
9. L’ordine di pagamento diretto ex art. 8, commi terzo,
quarto, quinto e sesto, l.div.
L’ordine al terzo non può, invece, essere emesso a
tutela dell’assegno divorzile, poiché l’art. 8 L. div.,
dopo la novella del 1987, prevede per l’ex
coniuge creditore di ottenere per via stragiudiziale, mediante la notifica del
provvedimento di condanna nei confronti dell’obbligato, la distrazione dei redditi a
quest’ultimo corrisposti da un terzo (comma terzo) e di esercitare, in caso di
suo rifiuto o inottemperanza, direttamente nei suoi confronti l’azione esecutiva (comma
quarto).
L’intimazione deve essere preceduta dalla costituzione in mora
dell’obbligato mediante racc. a.r. e dall’inutile decorso del termine di trenta
giorni, rappresentando tale adempimento un momento della complessa fattispecie
volta ad ottenere stragiudizialmente la distrazione del credito; al coniuge
inadempiente va pure data comunicazione della notifica e dell’intimazione fatte
al terzo debitore.
Il credito, siccome il legislatore parla di «provvedimento» da notificarsi al
terzo, può essere portato non solo dalla sentenza divorzile o dal decreto revisionale, ma
pure dalle ordinanze
interinali rese dal presidente e dall’istruttore.
Significativa è dunque la differenza che esiste tra il caso della
separazione e quello del divorzio in relazione ai soggetti dell’ordine ai
terzi:
·
nel caso della separazione
è il giudice che
può disporre l’ordine di distrazione ai terzi, mentre
·
nel caso del divorzio
è il coniuge che
può chiedere direttamente ai terzi la corresponsione di quanto dovuto dall’obbligato.
Inoltre, nel caso del divorzio, a differenza della separazione,
·
il legislatore prescinde
dall’inadempienza («per assicurare che siano soddisfatte o conservate le
ragioni del creditore») e
·
non fissa limiti alla quantità di beni da
sottoporre a sequestro (laddove nel caso della separazione si parla di «parte»
dei beni del coniuge obbligato).
·
Ancora, come si è visto, nel divorzio il sequestro può avvenire solo su richiesta di parte e non d’ufficio.
Di particolare delicatezza è il tema delle eccezioni opponibili dal
terzo debitore che possono riguardare:
- i rapporti personali tra il terzo ed il coniuge-creditore: le relative eccezioni
possono essere fatte valere liberamente, in quanto, con la notifica, si instaura
un rapporto diretto fra il terzo ed il titolare dell’assegno;
- i rapporti personali tra il terzo e l’ex
coniuge inadempiente: il terzo può rifiutare il pagamento, come avrebbe potuto rifiutarlo al
creditore principale, nelle ipotesi di estinzione del debito, e cioè per
prescrizione ovvero risoluzione del contratto, nonché per compensazione
maturata anteriormente alla notifica del provvedimento di condanna (arg. ex art. 1248, comma secondo, c.c. in
materia di cessione del credito);
- i rapporti tra l’ex coniuge obbligato e l’ex coniuge creditore dell’assegno: in questo caso il terzo
può far valere quelle eccezioni che incidano sull’assegno fino al momento della
notifica del provvedimento giudiziale, con la precisazione però che costui non
potrà far valere in via di eccezione vicende modificative del rapporto che non
fossero state accertate con un provvedimento revisionale.
Gli strumenti processuali per la tutela del terzo debitore sono
l’opposizione all’esecuzione (Quadri, Cipriani, Acone), ovvero
l’azione di accertamento negativo del credito (Feola,
Ceccherini, Dogliotti, Vecchi ed altri), riconosciuta anche dalla
giurisprudenza di merito (Trib. Roma, 18
giugno 1994, in Foro it., 1995, I, c. 376).
Il sesto comma dell’art. 8 L. div.
stabilisce la misura
quantitativa massima della distrazione nella metà delle somme dovute al coniuge obbligato comprensive
di assegni ed emolumenti accessori; la disposizione si riferisce ad emolumenti
derivanti da impiego privato e pubblico (Rigoni, Feola) o da trattamenti
pensionistici (Cass., 11 aprile 1991, n. 3817), senza che operino i limiti di
sequestrabilità e impignorabilità di cui agli artt.
545 c.p.c. e 5 d.p.r. 180/1950 (Cass., 18 luglio
1978, n. 3595), neppure nelle forme oramai circoscritte dalla giurisprudenza
costituzionale (Corte cost., 31 marzo 1987, n. 89; Corte cost., 26 luglio 1988,
n. 878). Detto limite alla distrazione non riguarda, invece, le somme
periodiche di derivazione non lavorativa (Rigoni),
come ad es. i canoni di locazione o di affitto.
Il
quinto comma dell’art. 8 L. div.
stabilisce che, qualora il credito del coniuge obbligato nei confronti di terzi
sia stato già pignorato
al momento della notificazione, il giudice dell’esecuzione provvede alla ripartizione delle somme
fra il coniuge cui spetta la corresponsione periodica dell’assegno, il
creditore procedente ed i creditori intervenuti nell’esecuzione.
In
questo caso, avendo il coniuge
beneficiario dell’assegno azione
diretta esecutiva nei confronti del terzo debitore per il pagamento
delle somme dovutegli quale assegno di mantenimento, egli dovrà intervenire nella
procedura pendente (art. 499 c.p.c.), allegando la
costituzione in mora con l’invito al terzo debitore a versargli direttamente le
somme nelle forme prescritte (Feola), oppure si procederà alla
riunione delle procedure esecutive ove mai esse siano sorte separatamente; il
beneficiario potrà anche sostituirsi al creditore procedente ex art. 511 c.p.c. (Rigoni).
E’ dubbio, se nel caso di precedente pignoramento posto in essere da altri creditori del coniuge
debitore, il limite dalla metà degli emolumenti vada calcolato al lordo o al netto delle
somme pignorate dagli altri creditori. In dottrina, nell’indicare come
preferibile la prima soluzione, si è fatto notare che il sesto comma dell’art.
Resta poi incerto se, nel ripartire le somme, il giudice dell’esecuzione
debba attenersi alla par
condicio creditorum, riconoscendo però la natura alimentare e
privilegiata dell’assegno, ovvero valutare discrezionalmente, col limite del
citato sesto comma, il fine esistenziale della contribuzione post-matrimoniale
e genitoriale, contemperando di diversi interessi di gioco.
Qualora il pignoramento sia successivo alla
distrazione, spetterà al terzo debitore l’onere di dichiararlo ex art. 547
c.p.c.
10. L’ordine di pagamento diretto ex art. 342-ter c.c.
L’ultima forma di ordine giudiziale di pagamento è
disciplinata dall’art. 342-ter c.c. Quando la condotta del coniuge o del convivente è
causa di grave pregiudizio all’integrità fisica o morale ovvero alla libertà
dell’altro coniuge o convivente, il giudice, su istanza di parte, ordina al
coniuge o convivente, che ha tenuto la condotta pregiudizievole, la cessazione
della stessa condotta e dispone l’allontanamento dalla casa familiare del coniuge o del
convivente che ha tenuto la condotta pregiudizievole.
Nell’occasione il giudice può disporre il pagamento periodico di un
assegno a favore delle persone conviventi che, per effetto dei
provvedimenti di protezione, rimangono prive di mezzi adeguati, fissando
modalità e termini di versamento e prescrivendo, se del caso, che la somma sia
versata direttamente all’avente diritto dal datore di lavoro dell’obbligato,
detraendola dalla retribuzione allo stesso spettante.
L’istanza si propone, anche dalla
parte personalmente,
con ricorso al tribunale del luogo di residenza o di domicilio dell’istante,
che provvede in camera di consiglio in composizione monocratica. Il presidente del tribunale
designa il giudice a cui è affidata la trattazione del ricorso.
Il giudice, sentite
le parti, procede nel modo che ritiene più opportuno agli atti di
istruzione necessari, disponendo, ove occorra, anche per mezzo della polizia
tributaria, indagini sui redditi e sul patrimonio personale e comune delle
parti, e provvede con decreto motivato immediatamente esecutivo.
Nel caso di urgenza, il giudice, assunte ove occorra sommarie
informazioni, può adottare immediatamente l’ordine di protezione, fissando
l’udienza di comparizione delle parti davanti a sè entro un termine non
superiore a quindici giorni ed assegnando all’istante un termine non superiore
a otto giorni per la notificazione del ricorso e del decreto; all’udienza il
giudice conferma, modifica o revoca l’ordine di protezione.
Contro il decreto con cui il giudice adotta l’ordine
di protezione o rigetta il ricorso ovvero conferma, modifica o revoca l’ordine
di protezione precedentemente adottato è ammesso reclamo al tribunale entro i termini previsti dal
secondo comma dell’art. 739 c.p.c. Il reclamo non sospende l’esecutività
dell’ordine di protezione. Il tribunale provvede in camera di consiglio, in
composizione collegiale, sentite le parti, con decreto motivato non
impugnabile.
Le disposizioni della legge non si applicano quando la condotta
pregiudizievole è tenuta dal coniuge che ha proposto o nei confronti del quale
è stata proposta domanda
di separazione personale ovvero di scioglimento o di cessazione degli effetti
civili del matrimonio, se nel relativo procedimento si è svolta l’udienza di
comparizione dei coniugi davanti al presidente prevista dall’art. 706
c.p.c. ovvero, rispettivamente, dall’art.
Ne consegue la possibilità di intervenire a tutela
della famiglia legittima e di quella di fatto, senza distinzioni ed a prescindere dalla
pregressa inadempienza dell’obbligato e/o dal pericolo di essa, bastando il fatto storico delle
violenze in famiglia. Il procedimento, del tutto deformalizzato,
presenta problematiche
similari a quelle del sesto comma dell’art. 156 c.c., ivi compreso il
dubbio circa la possibilità o meno di agire esecutivamente contro il datore di lavoro
dell’obbligato, ove resti inadempiuta la prescrizione del versamento
diretto all’avente diritto inserita nell’ordine di protezione.
11. L’obbligo di prestare idonea garanzia.
Scarsamente
adoperato nella pratica è lo strumento previsto dal quarto comma dell’art. 156 c.c. e dal
primo comma dell’art. 8 L. div., che
prevedono la possibilità, per l’autorità giudiziaria, di imporre, con la sentenza, al
coniuge obbligato al mantenimento di prestare idonee garanzie reali o personali,
se vi sia pericolo che si sottragga all’adempimento. Si pensi, ad esempio, al
caso del moroso abituale
anche in ambito extrafamiliare, ovvero al pluriprotestato.
La dottrina ha chiarito che non è necessario che l’obbligato abbia già manifestato la propria
intenzione di non adempiere, o che abbia già posto in essere atti
potenzialmente pregiudizievoli, né che sia stato condannato ai sensi dell’art.
570 c.p. ovvero dell’art. 12-sexies L. div.; il presupposto del
provvedimento di condanna alla prestazione di garanzie è il ragionevole
sospetto che egli possa sottrarsi all’adempimento (Feola). Tale
pericolo di inadempimento va valutato tenendo conto del comportamento,
familiare e non, del coniuge obbligato.
Secondo la scarsa giurisprudenza di legittimità e di
merito sull’argomento, il
tribunale che pronuncia la separazione o il divorzio può condannare genericamente
il coniuge obbligato al pagamento dell’assegno a prestare idonee garanzie reali
o personali, mentre non può procedere direttamente alla costituzione delle
garanzie stesse (Cass., 18 luglio 1977, n. 410); la scelta
concreta della garanzia da prestare va, dunque, lasciata al debitore, mentre
non è consentito subordinare l’efficacia della pronuncia di separazione o
divorzio alla suddetta prestazione (Trib. Roma, 6 novembre 1985, in Temi Rom., 1986, p. 114).
Anche secondo la altrettanto scarsa dottrina sull’argomento l’autorità giudiziaria può solo pronunziare una condanna a prestare garanzie determinate (Palladino, Barbiera, Santosuosso); isolatamente si è sostenuto che la sentenza possa avere carattere costitutivo della garanzia stessa (De Martino). Invero a ciò ostano sia difficoltà pratiche soprattutto per la costituzione in forma specifica di garanzie personali, sia l’assenza di potere un specificamente attribuito dalla legge, non analogicamente ricavabile dall’art. 2932 c.c. (Feola, Punzi).
Se, in base alla sentenza, il coniuge obbligato per
il mantenimento è tenuto a dare una garanzia senza che ne siano determinati il
modo e la forma, può, in
virtù della norma generale dell’art. 1179 c.c., prestare a sua scelta una idonea
garanzia reale (pegno, ipoteca) o personale (fideiussione) ovvero altra
sufficiente cautela (polizza assicurativa).
Si è ritenuto che l’art. 156 c.c. e l’art.
Nel corso
della causa di divorzio il giudice
istruttore non può
imporre all’obbligato di prestare l’idonea garanzia reale o personale,
prevista a conclusione del procedimento, o per un momento successivo (Trib. Milano, 5 dicembre 1995, in Foro it., 1996, I, c. 1050). La sentenza o il decreto collegiale
possono contenere la previsione di un termine entro il quale la garanzia deve
essere costituita (Feola).
Secondo la norma generale di all’art. 1186 c.c.,
quantunque il termine sia stabilito a favore del debitore, il creditore può
esigere immediatamente la prestazione se il debitore non ha dato le garanzie
che aveva promesse. La tesi dell’applicabilità di tale disposizione alla
materia familiare pure sostenuta in dottrina (Punzi,
Barbiera, Feola) è stata giustamente criticata (Palladino, Vincenzi); infatti, il pagamento in unica soluzione è previsto solo per l’assegno
divorzile e coll’accordo delle parti ai sensi dell’ottavo comma dell’art.
Né è
ipotizzabile l’esecuzione specifica ex
art. 612 c.p.c.
della statuizione giudiziale di prestare idonee garanzie, poiché in caso di
genericità della condanna il giudice dell’esecuzione non potrebbe in alcun modo
integrare il titolo, mentre in caso di specificità della condanna ad una
determinata garanzia si tratterebbe di un obbligo di fare incoercibile.
Restano forme di
coercizione indiretta di natura penale, in virtù dell’art. 3 della legge 54/2006, che, per i casi di violazione
dolosa degli obblighi di natura economica tra i quali rientrano pure quelli di
prestare idonea garanzia, si applica sempre l’art. 12-sexies
L. div., che inizialmente sanzionava con le pene previste
dell’art. 570 c.p. la sola sottrazione al pagamento dell’assegno divorzile. Si
aggiunga che l’omessa prestazione della garanzia costituisce condotta
negativamente valutabile per conseguire o azionare legittimamente cautele giudiziali
più certe ed invasive (es. sequestro dei beni, distrazione dei redditi, ipoteca
giudiziale) ovvero, nei casi più gravi, per agire per simulazione o revocatoria
(su quest’ultima ipotesi cfr. Trib.
Milano, 22 luglio 1993, in Gius, 1994, p. 98).
Da ultimo va ricordato che, per la prestazione di
idonee garanzie reali o personali, vertendosi in tema di condanna resa dal
giudice civile, vale sempre il principio della domanda (Feola), che pur contrastato da parte
della dottrina (Scardulla, Bianca),
può trovare eccezione forse solo nell’ambito della tutela officiosa della prole
minorenne ex art. 155, secondo comma, c.c. (Cipriani, Finocchiaro, Vecchi) ovvero
maggiorenni disabili ex art. 155-quinquies, secondo comma,
c.c.
Quello conferito al
giudice della separazione e del divorzio è comunque un potere discrezionale, da esercitarsi
mediante la valutazione degli elementi acquisiti e, in particolare, di quelli che
concernono tali garanzie; ove il giudice non abbia ritenuto di avvalersi di
tale potere, la sentenza di separazione o di divorzio costituisce pur sempre
titolo per l’iscrizione dell’ipoteca giudiziale ai sensi dell’art.
2818 c.c., nel qual caso la valutazione del pericolo è rimessa alla parte
interessata (Cass., 29 novembre 1977, n. 5184).
12. Il giudice competente per l’esecuzione.
Nella
normativa in materia familiare l’unico chiaro richiamo al giudice dell’esecuzione è contenuto
nel quinto comma dell’art. 8 L. div.,
nella parte in cui stabilisce che, qualora il credito del coniuge obbligato nei
confronti di terzi sia stato già pignorato al momento della notificazione,
all’assegnazione e alla ripartizione delle somme fra il coniuge cui spetta la
corresponsione periodica dell’assegno, il creditore procedente ed i creditori
intervenuti nell’esecuzione, provvede appunto il giudice dell’esecuzione.
Naturalmente, avendo il coniuge
beneficiario dell’assegno azione diretta esecutiva nei confronti del terzo debitore
per il pagamento delle somme dovutegli quale assegno di mantenimento (comma 4),
egli dovrà intervenire
nella procedura pendente, allegando la costituzione in mora con l’invito al
terzo debitore a versargli direttamente le somme nelle forme prescritte (comma
3), oppure si procederà alla riunione delle procedure esecutive, ove mai esse
siano sorte separatamente.
Il
quinto comma dell’art. 8 L. div.
costituisce un indubbio indice rivelatore del fatto che anche nell’attuazione
dei provvedimenti in materia di famiglia aventi per oggetto somme di danaro,
forme variegate di rispetto della par
condicio derivano dal più ampio principio per cui la tutela interinale,
anticipatoria e persino cautelare, non può attribuire alla parte effetti
giuridici diversi da quelli conseguibili in via ordinaria, il che postula
l’applicazione delle regole che garantiscono nella espropriazione il
soddisfacimento dei creditori secondo le regole del concorso (Tommaseo, Mammone, Attardi, Arieta).
Proprio
per la par condicio dovrebbe
ritenersi che l’attuazione
dei provvedimenti temporanei ed urgenti di natura economica,
nell’interesse del coniuge
debole e della prole,
non può che svolgersi secondo le forme e le modalità tipiche della espropriazione forzata
dinanzi al giudice dell’esecuzione, la cui funzione è prevista dall’art. 484 c.p.c. e la cui
competenza territoriale va individuata in base all’art. 26 c.p.c. Può dunque
verificarsi che all’attuazione dei provvedimenti interinali aventi per oggetto
somme di danaro provveda un ufficio giudiziario differente da quello del
giudice (presidente o istruttore) che lo ha emesso.
Il
decimo comma dell’art. 6 L. div. ed
il primo comma del nuovo 709-ter c.p.c.,
prevedono che all’attuazione dei provvedimenti relativi all’affidamento della
prole provvede il giudice
del merito. Tali disposizioni non sembrano estensibili alle statuizioni economiche
nell’interesse della prole, stante
proprio la funzione regolatrice del giudice dell’esecuzione per la corretta
applicazione del concorso dei creditori. Del resto la dottrina ha chiarito che persino l’attuazione dei
provvedimenti cautelari aventi per oggetto somme di danaro è devoluta al
giudice dell’esecuzione e non al giudice della cautela, atteso che il richiamo
fatto dall’art. 669-duodecies c.p.c.
agli artt. 491 e seg. c.p.c. e, dunque, al pignoramento (Attardi, Saletti, Proto Pisani,
Luiso).
Per
il citato art. 669-duodecies c.p.c. l’attuazione dei
provvedimenti cautelari inizia direttamente col pignoramento, non essendo state ivi richiamate le
disposizioni relative alla fase propedeutica all’esecuzione costituita dalla
notifica del titolo esecutivo e del precetto (Mammone), per
l’intrinseca esecutività del provvedimento cautelare (Proto Pisani, Attardi). Pare però dubbio che analogo esonero dalla notifica
del titolo esecutivo e del precetto operi anche per l’attuazione dei
provvedimenti temporanei ed urgenti in tema di assegno di mantenimento. La disciplina sui procedimenti
cautelari non si applica, infatti,
ai provvedimenti temporanei ed urgenti emessi dal presidente o dal giudice
istruttore nel corso del giudizio di separazione o di divorzio (v. Trib. Roma, 27 gennaio 1994, e Trib.
Catania, 21 luglio 1993, in Foro
it. 1994, I, c. 1216).
In
dottrina e giurisprudenza, con riferimento ai presupposti per la pronuncia dei
provvedimenti in subiecta materia,
si evidenzia che essi esulano
dalla previsione di cui all’art. 669-quaterdecies
c.p.c. che definisce, unitamente all’art. 703 c.p.c. l’ambito di
applicazione del processo cautelare uniforme. A tal proposito va sinteticamente
rimarcato che l’art. 708 c.p.c. rientra nel capo I del titolo II, non richiamato nell’art. 669-quaterdecies
c.p.c. e che i provvedimenti di cui all’art. 708 c.p.c. prescindono del tutto dalla valutazione del periculum in mora, sono
modificabili anche in base ad un semplice mutamento della circostanze e, anche
se confermati con la sentenza definitiva del giudizio, sono modificabili e
revocabili pure dopo la conclusione del processo nelle forme del rito camerale
(art. 710 c.p.c.).
Non
v’è dunque ragione per l’applicazione diretta, in quanto compatibile o
analogica, del procedimento cautelare
uniforme e dunque dell’art. 669-duodecies
c.p.c. (Cass.,
1 aprile 1998, n. 3374), anche nella parte in cui esclude la
necessità di notificare preventivamente il titolo ed il precetto alla parte
intimata.
Va
comunque segnalato che una remota decisione della S.C. ha stabilito, in via
generale, che i provvedimenti temporanei ed urgenti, adottati dal presidente
del tribunale o dal giudice istruttore nel procedimento di separazione
personale, sono soggetti, in difetto di spontaneo adempimento, ad esecuzione coattiva in via breve,
a mezzo dell’ufficiale giudiziario, salvo che il beneficiario del provvedimento
preferisca avvalersi, come gli è alternativamente consentito, della normale
procedura di esecuzione forzata, notificando alla controparte il titolo e
l’intimazione ad adempiere; nella prima ipotesi giudice competente per
l’esecuzione è quello che ha emesso il provvedimento o quello competente per il
merito se risulta già instaurato il relativo giudizio, mentre nella seconda
ipotesi competente è il giudice dell’esecuzione secondo le regole ordinarie (Cass.,
12/11/1984, n. 5696). Tale alternativa pare difficilmente attuabile
con modalità diverse da quelle dettate dal libro terzo dinanzi al giudice dell’esecuzione e compatibili
coll’attuazione coattiva dei crediti rispetto alla par condicio creditorum tipica dell’espropriazione forzata individuale.
Passando
all’attuazione delle misure, provvisorie ed urgenti nell’interesse dei coniugi
e della prole, aventi ad oggetto obblighi di consegna (es. vestiario, oggetti professionali,
strumenti di lavoro) e rilascio (es. casa familiare) in questi caso trovano
applicazione gli artt. 606
e 608 c.p.c. sul precetto sui
modi della consegna e/o del rilascio. L’intervento del giudice dell’esecuzione
del luogo dove le cose o la casa si trovano è limitata ai provvedimenti, anche
verbali, sulle difficoltà che non ammettono dilazioni ed alla liquidazione
delle spese esecutive anticipate dalla parte istante (artt. 611 e 612 c.p.c.),
nonché alla risoluzione delle opposizioni e delle relative sospensive (artt.
615, 617, 618, 623, 624 c.p.c.).
Ad
un modello d’attuazione, formale e tipizzato, che mutua le sue regole dal
processo esecutivo, si contrappone la disciplina dell’art. 669-duodecies c.p.c., secondo cui
l’attuazione delle misure
cautelari aventi ad oggetto obblighi di consegna o rilascio avviene
invece sotto il controllo del giudice che ha emanato il provvedimento
cautelare, il quale ne determina anche le modalità di attuazione e, ove sorgano
difficoltà o contestazioni, dà con ordinanza i provvedimenti opportuni sentite
le parti; ma, come si è visto, l’art. 669-duodecies
c.p.c. non è direttamente applicabile ai provvedimenti emessi ai sensi degli
artt. 708 e 709 c.p.c. (Cass., 1 aprile 1998, n. 3374) e delle
similari disposizioni per la procedura divorzile.
Sennonché
la S.C. ha ritenuto
che l’ordinanza del presidente del tribunale o del giudice istruttore
attributiva, ad uno dei coniugi, del diritto di abitare la casa familiare deve ritenersi soggetta, in
mancanza di spontaneo adempimento, ad esecuzione coattiva in via breve (a mezzo del
competente ufficiale giudiziario), ovvero alla normale procedura di esecuzione
forzata, con la conseguenza che, nella prima ipotesi, giudice competente per
l’esecuzione sarà quello che ha emesso il provvedimento (ovvero quello
competente per il merito, se risulti iniziato il relativo giudizio), mentre,
nella seconda, la competenza si radica in capo al giudice dell’esecuzione,
secondo le regole ordinarie (Cass., 1 settembre 1997, n. 8317).
All’attuazione dell’ordine di protezione, adottato col decreto ex art. 342-ter c.c., provvede lo stesso giudice che ha
emesso il provvedimento. E’ dubbio se l’attuazione di cui parla l’ultimo comma
delle citata norma riguardi l’intero decreto, e quindi anche il pagamento
periodico di un assegno a favore delle persone conviventi, o solo l’ordine di
protezione in senso stretto (es. allontanamenti, divieti, etc.).
13. Nuove
forme di garanzia degli assegni di separazione e divorzio: clausole penali, trust, vincolo
di destinazione ex art. 2645-ter c.c.
Ci si potrà ora soffermare, pur se
brevemente, su alcuni istituti a tutela dei diritti patrimoniali dei coniugi,
così come della prole, nella famiglia, tanto legittima che di fatto.
Innanzi tutto vorrei ancora una volta
ribadire la raccomandazione sull’opportunità di inserire, negli accordi (oltre
che di separazione e di divorzio, anche) di regolamentazione della crisi
dell’unione di fatto, di clausole
penali per l’inadempimento di prestazioni sia patrimoniali, che personali.
Se è vero come è vero che le disposizioni codicistiche in tema di contratto in
generale costituiscono l’ossatura del
negozio giuridico generale e sono dunque (come affermato da Santoro-Passarelli) applicabili anche al
negozio giuridico familiare, laddove non vi siano norme in deroga, vi è da
chiedersi perché non si potrebbe valorizzare il «vecchio» istituto della clausola penale,
stabilendo che per ogni giorno di ritardo nel pagamento dell’assegno, o per
ogni giorno di ritardo nella «riconsegna» del minore, legittimo o naturale che
sia, sia dovuta una certa somma di denaro.
Il
riconoscimento della natura di negozio familiare all’accordo relativo ai figli, in tutti gli
aspetti in cui il medesimo può manifestarsi, consente anche di estendere ad
esso – come già si è accennato – la disciplina in materia contrattuale. Di grande utilità in
proposito, di fronte alla comprovata maggior sensibilità di tanti genitori (e
dei rispettivi legali) ai profili pecuniari rispetto a quelli affettivi,
potrebbe manifestarsi l’inserimento di una o più clausole penali a garanzia
dell’adempimento di uno o più degli obblighi assunti in materia di affidamento
e di diritto di visita. Per esempio, potrebbero prevedersi vere e proprie penalità di mora per ogni
giorno di ingiustificato ritardo nella «consegna» o nella «riconsegna» (per
usare i brutti termini in voga nell’ambiente) del minore. Non vengono in questo
caso in considerazioni preoccupazioni attinenti alla necessità di garantire il rispetto di diritti
inderogabili della persona, quale quello della libertà in merito a decisioni di carattere
strettamente personale, facendo,
anzi, «premio» su ogni altra considerazione la necessità di salvaguardare in
primo luogo l’interesse della prole.
Nulla
sembra dunque ostare ad un’applicazione delle disposizioni in tema di clausola penale contenute
nella disciplina del contratto in generale (artt. 1382 ss.). Sia quindi
consentito rinnovare in questa sede l’invito ai pratici a provare ad inserire
siffatto genere di clausole negli accordi diretti a disciplinare le conseguenze
della crisi coniugale con riguardo alla prole minorenne. L’operazione potrebbe,
quanto meno, assumere il valore d’un ballon
d’essai per saggiare le reazioni al riguardo della giurisprudenza, mentre è
sicuro che le statistiche registrerebbero un assai più diffuso rispetto delle
intese raggiunte e, forse, anche una diminuzione dei procedimenti esecutivi in
un campo così delicato.
Il
suggerimento in esame, già presentato dall’autore di questo studio (cfr. Oberto, I contratti della crisi coniugale, II, Milano, 1999, p. 1112), è
stato criticato da chi (Amadio, Letture sull’autonomia privata, Padova,
2005, p. 178 s.) ha rimproverato allo scrivente di voler «eludere l’ostacolo»
della vincolatività delle intese non patrimoniali inter coniuges, cercando invece di «liquidare il problema degli
effetti dell’accordo a contenuto non patrimoniale (e della sua violazione),
ricollegandovi sanzioni di natura economica». L’equivoco di una siffatta analisi
riflette l’abitudine (tipica di una parte della dottrina) di procedere
evidenziando esclusivamente parti del tutto circoscritte (e magari marginali)
di opere ben più complesse, per poterne poi predicare l’insufficienza. Ora, non
risponde in alcun modo a verità che chi scrive abbia mai inteso far derivare la
vincolatività dell’impegno dei coniugi su profili non patrimoniali
dall’introduzione di clausole penali. Come evidenziato dall’analisi –
significativamente trascurata dal citato Autore – del profilo causale delle
pattuizioni qui in discorso (cfr. per tutti Oberto,
I contratti della crisi coniugale, I,
Milano, 1999, p. 625 ss., 709 ss.; Id.,
Prestazioni «una tantum» e trasferimenti tra coniugi in occasione di
separazione e divorzio, Milano, 2000,
p. 91 ss.), la vincolatività delle intese non patrimoniali in oggetto
(non qualificabili alla stregua di contratti, alla luce del disposto dell’art.
1321 c.c.) deriva dal semplice fatto che è il legislatore, con l’espressa ed
inequivocabile attribuzione di rilevanza alle «condizioni della separazione
consensuale» (art. 711 c.p.c.), e alle «condizioni inerenti alla prole e ai
rapporti economici» in sede di scioglimento o di cessazione degli effetti
civili del matrimonio (art. 4, comma sedicesimo, l.div.), a fornire carattere
vincolante ai comportamenti cui le parti intendono astringersi, a prescindere,
dunque, dalla patrimonialità o non patrimonialità degli stessi (l’argomento è
ampiamente sviluppato, nel caso il citato Autore volesse completare la propria
indagine, oltre che nelle pagine appena citate, in Oberto, I contratti
della crisi coniugale, II, cit., p. 1165 ss.; Id., Del «Galateo postmatrimoniale»: ovvero gli accordi
sui comportamenti e sul cognome maritale tra separati e divorziati, in Riv.
notar., 1999, p. 337). Il richiamo, dunque, alla clausola penale –
contrariamente a quanto ritenuto dalla surriferita opinione – lungi dall’essere
compiuto nel tentativo (superfluo) di dotare di giuridica vincolatività intese
che tale carattere vincolante già di per se stesse posseggono per effetto delle
citate norme (non prese in considerazione dall’Autore dello scritto cui qui si
replica), deriva dalla semplice applicazione di principi da tempo enunciati in
dottrina e giurisprudenza (per i rinvii all’una e all’altra si rinvia il
paziente lettore ai citati passi dello scrivente: si pensi, tanto per citare
qualche esempio, alle opinioni di Santoro-Passarelli, Gangi e Bianca, riportate
nelle citate opere dello scrivente, oppure alla decisione di legittimità che nel
1983 ritenne applicabili ad un negozio eminentemente personale, quale l’accordo
di riconciliazione tra coniugi separati, i principi in tema di formazione del
consenso contenuti agli artt. 1326-1328 c.c.: cfr. Cass., 29 aprile 1983, n.
2948).
Ci
si intende, cioè, riferire alla regola secondo cui le norme in tema di parte
generale del contratto, proprio perché costituenti l’«ossatura» del negozio
giuridico in generale nel nostro sistema, sono applicabili anche ai negozi
giuridici familiari (ivi compresi quelli a contenuto non patrimoniale), ove non
esistano (come nel caso in esame) principi speciali in deroga. Ma ciò,
evidentemente (e nonostante gli indiscutibili risvolti pratici), non aggiunge
di per sé sul piano giuridico una sola oncia di vincolatività al rapporto in
discussione e con il tema della vincolatività de iure ha assai poco a che vedere. Et de hoc satis.
Di
ostacoli, invece, ve ne sono molti, per ciò che attiene all’impiego del trust, a partire dal fatto che la convenzione de L’Aja del
1985 sul tema è una convenzione di diritto internazionale privato e non una
convenzione di diritto materiale uniforme (sul tema cfr. per tutti Oberto, Trust e autonomia negoziale nella famiglia, in Fam. dir., 2004, p. 201 ss., 310 ss.; Id., Il trust familiare, disponibile al seguente
indirizzo web:
http://utenti.lycos.it/giacomo305604/milano11giugno2005trust/relazionemilano.htm). Le relative norme, dunque, presuppongono la
presenza di un conflitto di ordinamenti e quindi la presenza di elementi di
estraneità che non possono risolversi nel solo fatto che le parti abbiano
deciso di rinviare ad una norma straniera (e dunque nel mero capriccio delle
parti stesse).
Con tutti i dubbi relativi all’ammissibilità della
costituzione di un trust «interno»
tra cittadini italiani, residenti in Italia e su beni qui situati, rimane il
fatto che l’istituto offre uno strumento molto flessibile; sicuramente più
flessibile ed utile del fondo patrimoniale: istituto, questo, inapplicabile,
come noto, alla famiglia di fatto, anche se, come ho cercato di dimostrare in
altre sedi, risultati sostanzialmente analoghi (tutela del convivente debole e
della prole) ben possono essere ottenuti tramite la stipula di contratti di
convivenza (cfr. Oberto,
I
contratti di convivenza tra autonomia privata e modelli legislativi).
E se il problema pratico da risolvere (avendo
riguardo, soprattutto, al profilo della crisi del rapporto) è solo quello di
fornire idonea garanzia
per l’adempimento di determinate obbligazioni, non si vede per quale
ragione un contratto di convivenza (così come un contratto della crisi
coniugale), non possa far ricorso ad uno strumento «sperimentato» con successo
per secoli, quale l’ipoteca
volontaria.
All’ «armamentario legislativo» sopra
ricordato viene ora ad
aggiungersi l’art. 2645-ter c.c., introdotto dall’art. 39-novies della l. 23 febbraio 2006, n. 51, di conversione con modifiche del d.l. 30 dicembre 2005, n. 273 («Recante
definizione e proroga di termini, nonché conseguenti disposizioni urgenti.
Proroga di termini relativi all’esercizio di deleghe legislative»). La norma è
volta a consentire «atti di destinazione per la realizzazione di interessi
meritevoli di tutela». A prescindere dalle gravi questioni generali di
inquadramento dell’istituto e dai suoi collegamenti con il trust (su cui si fa rinvio per tutti a Oberto, Atti di destinazione (art.
2645-ter c.c.) e trust: analogie e differenze, in corso di
stampa), non vi è dubbio che il
medesimo appaia applicabile anche alla famiglia di fatto, in relazione alla
quale potrebbe consentire alle parti di dar vita a qualcosa di analogo al fondo
patrimoniale (cfr. Oberto, Famiglia
di fatto e convivenze: tutela dei soggetti interessati e regolamentazione dei
rapporti patrimoniali in vista della successione, in Fam. dir., 2006, in corso di stampa:
cfr. in particolare §§ 7 ss.).
Uno o più beni immobili o mobili registrati
potrebbero così essere vincolati da uno o da entrambi i conviventi (o da terzi:
si pensi ai genitori) allo scopo di contribuire al soddisfacimento dei bisogni
del nucleo familiare, vuoi per ciò che attiene all’uso dei beni stessi (si pensi alla casa
d’abitazione), vuoi per il reddito che eventualmente da essi potrebbe derivare
(si pensi ai canoni di locazione), un po’ come può avvenire per la famiglia
legittima ex artt. 167 ss. c.c.
A ben vedere, anzi, il vincolo ai sensi dell’art.
2645-ter c.c. appare assai più
«forte» di quello da fondo patrimoniale, per via dell’opponibilità nei
confronti di tutti i creditori dei coniugi, anche a prescindere dalla
ricorrenza delle condizioni descritte dall’art. 171 c.c. D’altro canto,
per ciò che attiene agli eventuali atti dispositivi, il medesimo vincolo appare
dotato di un più elevato grado di «duttilità», rispetto a quello ex
artt. 167 ss. c.c., avuto riguardo alla non necessità di autorizzazione
giudiziale per gli atti ex art. 169
c.c. in presenza di figli minorenni.
Sempre in relazione alla maggiore souplesse
dell’istituto novellamente introdotto, potrà ipotizzarsi un accordo dotato di efficacia
per un periodo superiore a quello della durata del ménage di fatto,
magari proprio nell’interesse della prole (minorenne o maggiorenne ma non
autosufficiente). Tenuto conto della regola (fissata dall’art. 2645-ter
c.c.) secondo cui il vincolo di destinazione può estendersi per novanta anni o per tutta la vita della
persona fisica beneficiaria, tale istituto potrebbe dunque garantire i
diritti dei figli della famiglia di fatto, assicurandone l’avvenire, a
prescindere dalle vicende dei rapporti tra i genitori.