CENNI STORICI
1. La forma della sentenza e
il suo carattere scritto o orale in diritto comune.
Le fonti
romane contengono svariate regole, citate e discusse per secoli dai dottori del
diritto comune, in tema di forma
e stile delle sentenze, a cominciare dalla lingua in cui queste andavano pronunciate. Così,
mentre il passo D. 47, 1, 48 stabilisce che «Decreta a Praetoribus Latine
interponi debent», C. 7, 45, 12 (che riporta una costituzione degli imperatori
Arcadio et Onorio) prevede che «Iudices sententias tam Latina quam Graeca
lingua sententias proferre possunt». Peraltro la glossa d’Accursio aggiungeva a
tale ultima regola la specificazione: «Latina inter Latinos, Graeca inter
Graecos, ut intelligantur» .
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Sia i
glossatori che i commentatori si dilungavano poi su altre questioni squisitamente formali in
tema di validità della sentenza, come, ad esempio, se la decisione dovesse
essere pronunciata dal giudice in piedi ovvero seduto. In proposito si riteneva concordemente
che la decisione fosse nulla se pronunziata dal giudice stando e non sedendo,
poiché «iudici est sedere, non stare, cum res de qua agitur desiderat
cognitionem plenam, sed advocati est stare» , mentre la motivazione addotta al
riguardo, nel XIII secolo, dal Rolandino era che il giudice «magis quietum
animum habet, quando sedet» .
D’altro
canto, la sentenza poteva essere nulla anche in relazione al tempo in cui essa era stata pronunziata: così,
per esempio, se veniva resa tempore feriato , oppure di notte , ovvero «ratione loci, quia lata est in lupanari,
vel propina, vel in loco minus honesto» , ovvero ancora per effetto del
modo in cui era stata resa, vuoi perché il giudice l’aveva emessa, come diremmo
oggi «di getto» , vuoi perché il medesimo non aveva
visto gli atti del processo .
Tornando
ancora sul tema della lingua,
va detto che Baldo, dopo aver chiarito che la sentenza poteva essere
pronunciata sia in greco, che in latino, che in ebraico, a seconda della
qualità delle parti (ovvero, addirittura, in tutte le tre lingue
simultaneamente, come avrebbe dimostrato il processo a Cristo…), affermava che
il giudice, se non conosceva l’idioma delle parti, poteva avvalersi di un interprete, «qui
sententiam Iudicis partibus exponat». Alla domanda se la decisione potesse
essere emessa per iscritto,
anche se i contendenti erano analfabeti,
Baldo forniva risposta positiva; ed ugualmente rispondeva in maniera
affermativa al quesito se il giudice avesse potuto emetterla in lingua volgare, pur se inter literatos. Sarebbe spettato
poi al notaio, che fungeva da cancelliere, riportarne per iscritto il testo: in
latino se era stata pronunciata in latino, in volgare se era stata pronunciata
in volgare. La conclusione era argomentata dal principio secondo cui il notaio
doveva trasporre in latino i sua verba
e in volgare le dichiarazioni che lo stesso riceveva da altri e che erano state
emesse in volgare .
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Le questioni
qui esposte hanno in qualche modo tratto al problema della forma scritta o orale delle
sentenze civili: tema anche questo affrontato da alcuni passi delle
fonti romane, da cui è dato desumere che la decisione andava, in linea di massima, emessa per
iscritto, anche se va detto subito che i passi in questione non contengono
espliciti riferimenti al peculiare aspetto della motivazione.
Tra queste
fonti si potranno citare, in particolare, le seguenti: «Arbitri nulla sententia
est, quam scriptam edidit litigatoribus, si non ipse recitavit» (C., 7, 44, 1);
«Hac lege perpetuo credimus ordinandum, ut iudices, quos cognoscendi et
pronuntiandi necessitas tenet, non subitas, sed deliberatione habita post
negotium sententias ponderatas sibi ante forment, et
emendatas statim in libellum secuta fidelitate conferant, scriptasque ex
libello partibus legant» (C. 7, 44, 2); «Huic adijcimus sanctioni, ut
sententia, quae dicta fuerit, cum scripta non esset, nec nomen quidem
sententiae habere mereatur» (C. 7, 44, 3).
A commento delle disposizioni sopra
citate il glossatore bolognese del XII secolo Viviano Tosco affermava che «in
scriptis debet iudex ferre sententiam (…) alioquin non valet» [10]; alle stesse conclusioni perveniva
nel secolo XIII l’Ostiense, ricordando come la consegna in forma scritta della sentenza
non era comunque sufficiente «si [iudex sententiam] edidit partibus in scriptis
sedendo, sed non recitavit» .
Peraltro va ricordato che lo stesso
diritto romano ammetteva alcune eccezioni
– «Nisi breves sint lites, et maxime vilium personarum,
vel causarum (tunc enim sine scriptis, et sine aliqua expensa cognoscere
praesidem oportet) et nisi episcopus cognoscat inter suos subditos» (cfr. C. 7,
44, 3) – che Azone (vissuto tra il XII e il XIII secolo) riferiva alle cause di
valore non superiore, un tempo, a 50 aurei e, alla sua epoca, a 300 aurei , ma che,
secondo altri glossatori e commentatori, andavano rimesse arbitrio iudicis .
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Che la pratica durante il
medioevo (per lo meno all’epoca dei glossatori) fosse invece quella di rendere le decisioni verbalmente sembra
confermato dalle affermazioni dell’Ostiense il quale, dopo aver dichiarato che – secondo
l’interpretazione letterale delle citate fonti romane – sarebbe stata nulla la
sentenza «si [Iudex] recitavit in scriptis non per seipsum, sed per alium», ed
averne concluso che «ergo literas ignorans non potest ferre sententiam»,
s’affrettava ad aggiungere che «Sed certe hoc non servatur de consuetudine. Imo tota die laici, et
clerici iudices, et arbitri pronunciant sine scriptis, et tenet sententia
alioquin sequeretur quod laicus non posset esse arbiter» .
Peraltro nei secoli successivi
invalse la pratica di rendere la sentenza per iscritto, come attestato, ad esempio, nel
Cinquecento, da Giovanni Battista Asinio, il quale, dopo
aver osservato che «quaedam sunt acta, quae suaptem natura scripturam
requiruntur, ut puta (…) sententia definitiva (…). Alia vero acta iudiciaria
sunt, quae scritpuram non requirunt, ut puta (…) sententia interlocutoria, et
similia, et illa testibus probari possunt», concludeva nel senso che «usus et consuetudo invaluit, ut
acta in scripturam redigantur, quae non solum in Italia; sed extra quoque
Italiam communiter observantur», con l’unica eccezione dell’ipotesi in
cui si fosse trattato di una «parva causa» .
Nello stesso periodo Giacomo Menochio eccettuava invece il caso in cui il
giudice decidesse secondo equità in materie rimesse al suo libero arbitrio,
anche se lo stesso giurista dava conto dell’esistenza di profonde dissensiones sul punto .
2. La motivazione della
sentenza in diritto comune.
Nel
silenzio delle fonti
romane sul tema specifico dell’obbligo di motivazione delle sentenze,
glossatori e commentatori arrivarono a desumere da alcuni passi il principio
generale secondo cui exprimere (o ferre, o assignare) causam sententiae sarebbe stato non solo
non necessario, ma addirittura pericoloso, potendo l’indicazione di una ratio decidendi (come diremmo oggi)
erronea (pur esistendone una corretta) rendere nulla una sentenza altrimenti
valida. Il riferimento era effettuato in particolare a D. 27, 1,
37, in cui il giurista Scevola negava che un tutore potesse ritenersi
esonerato, nonostante la decisione del pretore in tal senso emessa sulla base
di una causa di esonero non sussistente, pur esistendone effettivamente
un’altra valida; la conclusione era dunque nel senso che «quamvis justas ecusationis causas
haberet, [tutorem] non tamen esse excusatum, propter vitium pronunciationis».
Già l’Ostiense [17] argomentava da tale passo che «non est tutum assignare causam
in sententia, quia si malam exprimat pronuncians, quamvis habeat bonam, quam
exprimere posset, non valet sententia (…). Ideoque si cautus sit iudex, nullam
causam exprimet (…) nisi in casibus, in quibus tenetur causam exprimere».
Sulla stessa linea si collocava il francese Guillaume Durand (noto in italia
come Guglielmo Durandi,
o Duranti o Durante) – autore,
nella seconda metà del XIII secolo, del celeberrimo speculum iuris – secondo cui «si rationes, vel allegationes
partium, quae ipsum [iudicem] ad pronunciandum movent, in sententiam non
ferantur, nihilominus sententia valet (…). Cautius autem faciet iudex, si eas
non inferat (…), ne forte quandoque ex incuria errorem in sententia exprimat, et
ne viam calumnijs aperiat» .
Tra i
commentatori trecenteschi della Scuola Bolognese Baldo asseriva che «cautius facit [Iudex] si
simpliciter condemnat, vel absolvit (…) quia in sententia non est exprimenda
causa de necessitate formae, vel legis mandato» ; prima ancora, Bartolo, chiosando il citato
passo del Digesto, aveva sostenuto che proprio da quest’ultimo si poteva
arguire che il giudice non era obbligato ad exprimere
causam: «Item ex
isto texto potest optime colligi, quod in sententia iudex non tenetur exprimere
causam. Nam si exprimat falsam, sententia est nulla: sed si
tulit simpliciter, tunc creditur tulisse sententiam veram incerta causa».
Rilevato peraltro che, in taluni casi, la ragione della decisione andava
comunque dichiarata, aveva concluso nel senso che «si his casibus iudex causam
non expresserit in sententia recurrimus ad eum, ut dicat causam, quae eum movit
ad sententiam proferendam, cum nullus alius possit eam scire» .
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Del rilievo che assumeva, nella letteratura giuridica del
tempo, il timore circa la possibile nullità della sentenza per effetto
dell’espressione in essa di una falsa
causa fa fede anche un’altra opera fondamentale del XIV secolo: la Practica aurea del de Ferrariis, secondo
cui la sentenza «est nulla, si lata sit ex falsa causa expressa in ipsa
sententia (…) nam quandoque in sententia exprimitur una sola causa, et super ea
est fundata sententia, et tunc sententia redditur nulla, sive sit diffinitiva,
sive interlocutoria» . Il
celebre giurista quattrocentesco Vitale de Cambanis, protonotaro di Sicilia al seguito di
Renato d’Angiò, definiva addirittura «fatuo» il giudice che avesse espresso la
motivazione della propria decisione: «Judex fatuus reputatur, qui in sententiam causam
exprimit, in quo tamen communiter tenetur, quod non sit necessaria talis
expressio»; la lunga e dotta dissertazione nella quale l’autore dell’aureus clausularum tractatus collocava tale affermazione, che si diffondeva
sulle varie possibili ipotesi di una o più causae
falsae addotta dal giudice unitamente ad una o più verae, con riferimento e/o rinvio (o meno) agli atti dell’una o
dell’altra parte, dimostra come la preoccupazione dei dottori medioevali fosse
quella di evitare il più possibile che sulla pronunzia venisse a gravare la
spada di Damocle della nullitas
(all’epoca ancora poco distinta e distinguibile dalla appellabilità), con
conseguente incertezza per le parti e discredito per la funzione giudiziaria .
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Per
quanto attiene, poi, alle formule
concrete tramite le quali il giudice poteva esprimere il suo giudizio,
il già ricordato speculum iuris
invitava il giudice a prepararsi quello che oggi potremmo definire come uno «schema riepilogativo» delle
allegazioni delle parti e delle risultanze istruttorie: «Auditis autem
allegationibus iudex, ut instructus in causa appareat, petitionem et causae
processum, allegationes quoque, et responsiones, et singula actitata sub
compendio reepiloget». Nei
casi più complessi egli avrebbe invece potuto chiedere ai contendenti
stessi di riassumere per iscritto le proprie argomentazioni, nel contesto di un
documento assai simile alla nostra
comparsa conclusionale: «Si quaestio intricata sit, vel plures angulos
et anfractus habens, brevem et veram facti continentiam, allegationes quoque et
replicationes partium in scriptis faciat sib dari, ut super eis plene
deliberare valeat secum» .
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Venendo
alla forma di pronunzia
della sentenza, lo speculator raccomandava
di menzionare nella decisione domande, eccezioni ed allegazioni delle parti,
secondo lo schema seguente: «Caeterum in sententiae
prolatione iudex exprimere debet actoris petitionem, et rei responsionem, et
eius exceptionem, et generaliter quicquid in causa utriusque petitum, vel
allegatum, seu actum est, sub epilogo referat, ut dixi supra (…); quo facto
habeat paratam sententiam (…) vel saltem conclusionem ore proprio legat (…) et
his verbis, vel similibus in prolatione utatur: FORMA. Visis, et auditis
confessionibus et attestationibus, instrumentis, rationibus et allegationibus
utriusque partis in iudicio deductis, eisque diligenter examinatis, et
intellectis, deliberatione quoque nobiscum et cum peritis praehabita diligenti,
talem condemno, vel absolvo. Vel
altiter proferat, sicut viderit proferendum, ita tamen, quod canonibus,
legibus, vel consuetudinibus conveniat approbatis, quae omnia sunt in sententia
exprimenda» .
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Ecco come venivano riassunti dal Rolandino
gli elementi essenziali della sentenza, nel Trecento.
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La
motivazione veniva comunque raccomandata
dal Durand, così come dagli altri dottori del diritto comune che si occuparono
della questione, non come requisito di validità della sentenza (che
dunque non era nulla in assenza di expressio
causae), ma al solo fine di determinare con precisione l’oggetto della
decisione, ne ex toto pereat ius partis, in una serie di casi, tra
cui: 1) quando la sentenza fosse di absolutio ab instantia propter ineptam
petitionem, ne pereat ius agendi; 2) quando la sentenza si fosse
discostata dallo ius commune; 3) quando fosse stata
respinta la domanda di rei vindicatio perché il convenuto non possedeva la
cosa al momento della sentenza, per far salvo il diritto dell’attore di agire
nuovamente senza vedersi opporre l’exceptio
rei iudicatae; 4) in appello, se fosse stata revocata la
sentenza di primo grado, ut per hoc prioribus iudicibus qui bene secundum acta
coram se habita processerunt, nihil imputetur. A queste ipotesi, tipiche
dello ius civile, si aggiungeva poi il caso della
sentenza di scomunica,
che andava motivata perché si trattava di sanzione medicinalis, non mortalis, e la motivazione dava a chi ne era
colpito la possibilità di ravvedersi .
3. Sulla via dell’obbligo di
motivazione nell’epoca delle signorie.
Sulla regola
della non obbligatorietà (in linea di massima) della motivazione della sentenza civile, in diritto
comune, vennero poi variamente ad influire i diritti statutari locali e le costituzioni emanate qua
e là in alcuni degli stati italiani a cavallo tra il XVI e il XVII secolo, come ad esempio, a Firenze, ove una
disposizione del 14 maggio 1532, impose ai giudici della Ruota Fiorentina di
«dare e scrivere a pie’ della sentenza (…) brevemente e motivi principali, che
gli aranno mossi a così giudicare (…)», o comunque di redigere i motivi entro
tre giorni dalla sentenza «allegandovi sempre (…) la legge, e le Doctrine, e le
ragioni inductive, e motive di tal suo Iudicio», con la previsione di una
sanzione pecuniaria per il giudice che non avesse assolto a tale obbligo. Con
la successiva disposizione del 1 settembre 1678 si impose poi l’obbligo di
motivazione in tutte le sentenze in cause di valore superiore ai 100 ducati o
di valore indeterminabile .
Ancora nel
XVI secolo, proprio commentando le norme fiorentine, Asinio, dopo aver rimarcato che, secondo il
diritto locale, «Iudex (…) teneatur in scriptis, cum allegationibus iuris, sive
aliqua alteratione causam certam et determinatam quare consuluit, et consilium
reddit», sottolineava come tale conclusione venisse a porsi «contra omnium fere
doctorum opinionem», poiché «sapiens causam et rationem, iura et allegationes
exprimere non tenetur» .
Nello stesso
torno di tempo il venosino Roberto
Maranta attestava nella sua celeberrima praxis civilis che la motivazione ben avrebbe potuto consistere in
una mera relatio al parere di un giurisperito,
seguita dalla seguente dicitura: «Nos talis iudex, etc., sententiamus, et
pronunciamus, prout in suprascripto consilio continetur», apponendo quindi la
propria firma, alias nulla esset
sententia. Maranta notava in proposito, non senza una certa dose di
disprezzo nei riguardi dei giudici del tempo, che «Quotidie evenit, maxime in
curiis, in quibus sunt isti officiales idiotae, qui ferunt sententias de
consilio iurisperiti, et solum legunt consilium (…), quod non est sententia
unde poteris opponere et impedire executionem. Et ego bis obtinui. non sunt
multi dies, quibus impedivi duas executiones per dictam oppositionem unde sint
cauti iudices idiotae ut in calce consilii faciant scribi: Nos talis iudex,
etc., sententiamus, et pronunciamus, prout in suprascripto consilio continetur»
.
In Piemonte, una
costituzione di Carlo Emanuele I, risalente al 7 gennaio 1615, stabilì che i giudici dovessero
motivare esclusivamente su richiesta delle parti, richiesta che queste ultime
avrebbero peraltro potuto proporre solo nelle controversie di particolare
importanza, oppure per ordine di chi «regge il Magistrato», qualora la
motivazione venisse ritenuta necessaria per l’importanza della questione, in
caso di decisioni che, per il loro rilievo, «possono far stato, e conseguenza».
Un’influenza
decisiva sull’introduzione dell’obbligo di motivazione delle sentenze ebbe però
anche la prassi dei c.d. Grandi
Tribunali, nei quali la motivazione, spesso assai ampia e articolata, era un dato pressochè
costante . Tra questi organi giurisdizionali
spiccava in particolare la Rota
Romana, in cui la sentenza finale non era motivata, ma era preceduta
dalla comunicazione alle parti di una decisio,
contenente un progetto di decisione contenente le conclusioni dei giudici e le
relative rationes dubitandi; su di
esse le parti potevano interloquire e controdedurre, provocando la decisione
finale, con un meccanismo il cui scopo era quello di ridurre gli appelli e che
Gorla ha in qualche modo avvicinato alla pratica dei reports nei sistemi di common
law .
Sarà utile a questo
punto riportare le considerazioni di Taruffo, circa le funzioni della motivazione e del relativo
obbligo nei diversi sistemi appena evidenziati.
«Le tre soluzioni ora sinteticamente descritte hanno
rilievo in quanto esemplificano diversi modi di intendere la funzione della
motivazione. Quella che viene accolta nella legislazione fiorentina è la sola a rendere
evidente l’apertura verso la possibilità di controllo esterno sull’operato
del giudice, ed a manifestare, quindi, la presenza di una concezione non meramente endoprocessuale
della motivazione; d’altronde, anche la segnalata evoluzione nel senso di una
progressiva estensione dell’obbligo di motivazione indica una sempre più
chiara coscienza del ruolo
‘pubblico’ della motivazione stessa. Nella legislazione piemontese questo
elemento manca, come indicano i limiti entro i quali l’obbligo di motivazione
è previsto; essi sono pure significativi della scarsa attenzione per il ruolo
che la motivazione può svolgere nei confronti delle parti (di persuasione e
di chiarificazione, anche in vista delle impugnazioni), ed emerge invece l’idea che la
motivazione serva, attraverso la creazione di precedenti sulle questioni di
maggiore importanza, a porre ordine e continuità nella giurisprudenza.
A sua volta, la prassi della Rota romana non è in funzione di un
controllo esterno sulla fondatezza della decisione, né appare intesa
alla formazione di precedenti (anche se, com’è noto, la giurisprudenza delle decisiones
rotali ebbe di fatto amplissima diffusione e grande importanza proprio
sotto questo profilo); si tratta invece di un meccanismo diretto a consentire al tribunale la
possibilità di rivedere le proprie decisioni nell’àmbito dello stesso
procedimento, in base alle obiezioni delle parti, evitando la necessità dell’appello.
Mentre la funzione e le finalità
ispiratrici di queste soluzioni sono chiaramente differenziate, va però
osservato che esse hanno in comune un carattere generale assai rilevante: non
sussiste, cioè, un atteggiamento inteso a favorire la segretezza delle rationes
decidendi. Tale carattere è prevalente nelle legislazioni o nella prassi
degli Stati italiani, malgrado importanti eccezioni (Milano, Venezia,
Napoli), e costituisce l’elemento che, con ogni probabilità, ha maggiormente
facilitato l’estensione dell’obbligo di motivazione» .
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Di notevole interesse
sono le osservazioni svolte dal De Luca nella seconda metà del XVII secolo
sullo stile legale delle motivazioni,
stile direttamente correlato alla funzione da tali motivazioni variamente
assolta.
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Naturalmente sulla
storia dell’obbligo di motivazione delle sentenze vennero poi ad influire in maniera decisiva (ancorchè non
esclusiva), nei tempi moderni, l’ideologia illuministica, la legislazione
rivoluzionaria e le riforme napoleoniche, cui verrà in parte fatto breve
richiamo oltre : ma qui l’esigenza di motivare rispondeva – come si
vedrà – prima ancora che ad esigenze (endo)processuali, alla necessità
ideologica e lato sensu politica di
assicurare, da un lato, trasparenza all’operato dei poteri dello Stato e,
dall’altro, di razionalizzare l’organizzazione dell’amministrazione della
giustizia .
4. La giurisprudenza dei Grandi Tribunali e le raccolte
di sentenze italiane.
Si è già accennato all’influsso decisivo che dispiegarono sulla storia della motivazione
delle sentenze in Italia la giurisprudenza dei Grandi Tribunali italiani, a
partire dal XVI secolo, e le relative raccolte che su di essa fiorirono e che
finirono per condizionare in maniera determinante la forma mentis e il modo di scrivere dei giudici italiani . In proposito sarà interessante notare come, al di là
dei diversi meccanismi attraverso i quali si perveniva alla decisione, le motivazioni presentassero tra
di loro larghe similitudini di stile, con numerosi riferimenti non solo
ai passi delle fonti
romane, bensì anche alla dottrina dei dottori del diritto comune, così come alle
precedenti decisioni dello stesso organo, o di altri. Tra i vari Senati e le
varie Rote italiane fanno spicco, in particolare, il Senato Piemontese e la
Rota Romana, su cui si fa rinvio alla descrizione del Piola Caselli,
successivamente ripresa da Gorla .
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Moltre altre raccolte, oltre a quelle testè citate, vennero compilate in
Italia nel corso dei secoli XVI, XVII e XVIII , come,
ad esempio, quelle dell’ab Ecclesia per il Senato del Piemonte , del Cartario per la Rota della
Repubblica di Genova , dell’Afflitto e del De Franchis
per il Tribunale Supremo del Regno delle Due Sicilie , del Surdo per il Senato di
Mantova , del Monaco per le Rote di Lucca,
Firenze e Bologna , ecc.
Proprio questo scenario, se da un lato venne a favorire un «comune sentire» dei giuristi
italiani dell’epoca, dall’altro non mancò di scatenare reazioni contrarie, soprattutto da parte del potere
esecutivo, che temeva in tal modo possibili limitazioni al suo potere assoluto,
magari sotto il velo dell’interpretazione fondata sulle opinioni della dottrina.
Si spiega così perché, ad esempio, tanto Vittorio Amedeo II e suo figlio Carlo
Emanuele III, in Piemonte, che Ferdinando IV, nelle Due Sicilie, vietarono le citazioni
dottrinali, sia negli atti degli avvocati che delle sentenze, in tal
modo ponendo una regola che costituisce un chiaro precedente dell’art. 118, 3°
co., delle disposizioni di attuazione del vigente codice di rito .
5. Esempi di sentenze.
Proprio con
riguardo alla giurisprudenza dei Senati e delle Rote, potrà qui riportarsi, a titolo d’esempio, una
decisione risalente al 1575, con cui il Senato del Piemonte, secondo quanto
riferito dal Tesauro , decise in favore della validità
di una donazione effettuata propter
benemerita da un militare alla propria concubina .
Si noti che
la citata decisione richiama, tra l’altro (al punto n. 6), un precedente del Concilium Neapolitanum (di cui non si riferisce
la data), relativamente alla donazione effettuata da un ecclesiastico alla sua
concubina, secondo quanto riportato da Matteo degli Afflitti, come è dato
vedere qui di seguito .
Questa
decisione richiama a sua volta un celeberrimo consilium del giurista medioevale Pietro d’Ancarano, pro
concubina cuiusdam sacerdotis, in relazione ad una donazione effettuata da
un ecclesiastico (categoria per la quale le donazioni alle concubine erano
ritenute – contrariamente rispetto alla regola generale – vietate) alla donna
con la quale il medesimo aveva per anni convissuto. L’idea che sta alla base
alla tesi della validità è quella per cui l’attribuzione patrimoniale
effettuata propter benemerita
costituisce, in questo caso, più che una donazione, l’adempimento di
un’obbligazione naturale .
Questo parere appare di estremo interesse e di grande modernità, se si
pensa che già nel XIV secolo si proponeva l’intuizione di ricorrere alla categoria
delle obbligazioni naturali per salvare le attribuzioni tra conviventi.
Sulla stessa
materia potrà riportarsi quanto scrive, in relazione ad un’altra fattispecie,
risalente alla metà del XVII secolo, il Cardinal De Luca, il quale riferisce di
una causa iniziata di fronte alla Rota Romana nel 1653 dalla concubina di un
militare contro quest’ultimo per l’adempimento di un contratto de quadam annua vitalitia praestatione
dal momento che il donante «(ut frequens est hujusmodi amantium consuetudo) praedictae
donationis poenituisset, ideoque praestationis solutionem denegaret». La
controversia si concluse con una transazione (dum actrix, aliquo accepto, acquievit) .
longe post haec scripta firmavit etiam Rota in
Romana an-
ac stylum extra praecisam
negociorum necessitatem in non necessariis evagari.
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Cfr. ad esempio Ostiense, Summa aurea, Augustae Taurinorum, 1579, f.; Azone, In ius civile
summa, Lugduni, 1564, f. 203; il richiamo dei glossatori era effettuato a
D., 38, 15, 2 (§ 1 e § 2).
Rolandino de’ Passeggeri, Summa
Artis Notariae, Taurini, 1590, p. 610.
Cfr. Azone, op. cit., f. 204.
Cfr. ad
esempio Giason del Maino, In Iustiniani Codicem, Lugduni, 1564, f. 90, che riferisce al
riguardo l’opinione prevalente dei doctores,
secondo cui «Sententia lata de nocte non valet, nisi in quatuor casibus» (si
noti che tra le eccezioni rientrava l’ipotesi – sempre attuale, a quanto pare!
– in cui «iudex esset impeditus multitudine causarum»).
Paolo de Castro, Clarissimi iuris utriusque doctoris Pauli
Castrensis Commentariurum in codicem iustinianum pars secunda, Lugduni,
1544, f. 132: «Non debent sententiae ferri subito, sed cum deliberatione (…) Videtur etiam quod sententiae
arbitrorum quae ferunt statim facto compromisso non valeant quasi latae sint
causa non cognita».
Paolo de Castro, op. loc. ultt. citt.: «Si potest probari iudicem non vidisse acta: et sic non adhibuisse
causae cognitionem sententia non valet».
Cfr. Ostiense, op. loc. ultt. citt.
Cfr. Ostiense, op. cit., f. 149.
Cfr. Baldo degli Ubaldi, op. cit., f. 276.
Cfr. Bartolo da
Sassoferrato, In Primam Infortiati
Partem, Venetiis, 1585, f. 72. Uno dei passi delle fonti romane citate
dall’Autore come quelli in cui la motivazione sarebbe stata espressamente
richiesta è C., 3, 1, 13, § Illo procul
dubio.
Cfr. De Ferrariis, Practica aurea, Venetiis, 1575, f. 99.
Cfr. Durandi, op. cit., p.787.
Cfr. Asinius, op. cit., f. 165.
Cfr. Gorla, I «Grandi Tribunali» italiani fra i secoli XVI e XIX: un capitolo
incompiuto della storia politico-giuridica d’Italia, in Quaderni de «Il Foro italiano», 1969, c.
629 ss.; Taruffo, op. cit., p. 280 ss.
Cfr. Gorla, La motivation des jugements, in Foro
it., 1979, V, c. 24; Id., Sulla via dei motivi delle sentenze: lacune e
trappole, in Foro it., 1980, V, c. 205 ss.
Cfr. Taruffo,
op. cit., p. 281; sul procedimento di
formazione delle decisioni nella Rota Romana cfr. le ampie descrizioni del
Cardinal De Luca, Theatrum
veritatis et justitiae, Venetiis, 1706, XV, I, Pars de Judiciis, et de Praxi Curiae Romanae, p. 109 ss. e ivi, III, Dello stile legale, p. 149 s.
Cfr. Taruffo,
op. cit., p. 265 ss., 290 ss.
Sul tema cfr. per tutti Gorla, I «Grandi
Tribunali» italiani, fra i secoli XVI e XIX: un capitolo incompiuto della
storia politico-giuridica d’Italia, cit., c. 629 ss.; Id., L’origine
e l’autorità delle raccolte di giurisprudenza, in Diritto comparato e diritto comune europeo, Milano, 1981, p. 423
ss.
Cfr. Gorla,
L’origine e l’autorità delle raccolte di
giurisprudenza, in Diritto comparato
e diritto comune europeo, Milano, 1981, p. 423 ss.
Gorla, Lo stile delle sentenze. Testi commentati, cit., c. 402 ss.
Cfr. De Afflictis,
op. cit., f. 61.
D’Ancarano, Consilia sive iuris responsa Petri Ancharani, apud Nicolaum
Bevilaquam, 1568, f. 131: «dico breviter quod si merita per dictam dominam
probarentur credo dictam donationem tenere; licet enim inter personas
prohibitas simplex donatio non sit valida tamen donatio ob causam non
reprobatur, quia aliam et diversam naturam habet a simplici (…). Non enim dici potest proprie donatio ob causam sed
cuiusdam debiti naturalis rest[ituti]o: quia ex collatis servitiis obligatur
ille cui conferuntur naturaliter conferenti (…) et dicitur talis obligatio ad
antidora». Sui rapporti tra attribuzioni fra conviventi e obbligazioni naturali
v. per tutti Oberto, I regimi patrimoniali della famiglia di fatto, loc. ult. cit.
Cfr. De Luca,
Theatrum veritatis et iustitiae, VII,
pars I, De donationibus, Venetiis, 1706, disc. XLII, p. 82 s.