I

CENNI STORICI

 

 

1. La forma della sentenza e il suo carattere scritto o orale in diritto comune.

 

Le fonti romane contengono svariate regole, citate e discusse per secoli dai dottori del diritto comune, in tema di forma e stile delle sentenze, a cominciare dalla lingua in cui queste andavano pronunciate. Così, mentre il passo D. 47, 1, 48 stabilisce che «Decreta a Praetoribus Latine interponi debent», C. 7, 45, 12 (che riporta una costituzione degli imperatori Arcadio et Onorio) prevede che «Iudices sententias tam Latina quam Graeca lingua sententias proferre possunt». Peraltro la glossa d’Accursio aggiungeva a tale ultima regola la specificazione: «Latina inter Latinos, Graeca inter Graecos, ut intelligantur» [1].

 

 

Sia i glossatori che i commentatori si dilungavano poi su altre questioni squisitamente formali in tema di validità della sentenza, come, ad esempio, se la decisione dovesse essere pronunciata dal giudice in piedi ovvero seduto. In proposito si riteneva concordemente che la decisione fosse nulla se pronunziata dal giudice stando e non sedendo, poiché «iudici est sedere, non stare, cum res de qua agitur desiderat cognitionem plenam, sed advocati est stare» [2], mentre la motivazione addotta al riguardo, nel XIII secolo, dal Rolandino era che il giudice «magis quietum animum habet, quando sedet» [3].

 

D’altro canto, la sentenza poteva essere nulla anche in relazione al tempo in cui essa era stata pronunziata: così, per esempio, se veniva resa tempore feriato [4], oppure di notte [5], ovvero «ratione loci, quia lata est in lupanari, vel propina, vel in loco minus honesto»  [6], ovvero ancora per effetto del modo in cui era stata resa, vuoi perché il giudice l’aveva emessa, come diremmo oggi «di getto» [7], vuoi perché il medesimo non aveva visto gli atti del processo [8].

 

Tornando ancora sul tema della lingua, va detto che Baldo, dopo aver chiarito che la sentenza poteva essere pronunciata sia in greco, che in latino, che in ebraico, a seconda della qualità delle parti (ovvero, addirittura, in tutte le tre lingue simultaneamente, come avrebbe dimostrato il processo a Cristo…), affermava che il giudice, se non conosceva l’idioma delle parti, poteva avvalersi di un interprete, «qui sententiam Iudicis partibus exponat». Alla domanda se la decisione potesse essere emessa per iscritto, anche se i contendenti erano analfabeti, Baldo forniva risposta positiva; ed ugualmente rispondeva in maniera affermativa al quesito se il giudice avesse potuto emetterla in lingua volgare, pur se inter literatos. Sarebbe spettato poi al notaio, che fungeva da cancelliere, riportarne per iscritto il testo: in latino se era stata pronunciata in latino, in volgare se era stata pronunciata in volgare. La conclusione era argomentata dal principio secondo cui il notaio doveva trasporre in latino i sua verba e in volgare le dichiarazioni che lo stesso riceveva da altri e che erano state emesse in volgare [9].

 

 

 

Le questioni qui esposte hanno in qualche modo tratto al problema della forma scritta o orale delle sentenze civili: tema anche questo affrontato da alcuni passi delle fonti romane, da cui è dato desumere che la decisione andava, in linea di massima, emessa per iscritto, anche se va detto subito che i passi in questione non contengono espliciti riferimenti al peculiare aspetto della motivazione.

 

Tra queste fonti si potranno citare, in particolare, le seguenti: «Arbitri nulla sententia est, quam scriptam edidit litigatoribus, si non ipse recitavit» (C., 7, 44, 1); «Hac lege perpetuo credimus ordinandum, ut iudices, quos cognoscendi et pronuntiandi necessitas tenet, non subitas, sed deliberatione habita post negotium sententias ponderatas sibi ante forment, et emendatas statim in libellum secuta fidelitate conferant, scriptasque ex libello partibus legant» (C. 7, 44, 2); «Huic adijcimus sanctioni, ut sententia, quae dicta fuerit, cum scripta non esset, nec nomen quidem sententiae habere mereatur» (C. 7, 44, 3).

 

A commento delle disposizioni sopra citate il glossatore bolognese del XII secolo Viviano Tosco affermava che «in scriptis debet iudex ferre sententiam (…) alioquin non valet» [10]; alle stesse conclusioni perveniva nel secolo XIII l’Ostiense, ricordando come la consegna in forma scritta della sentenza non era comunque sufficiente «si [iudex sententiam] edidit partibus in scriptis sedendo, sed non recitavit» [11].

 

Peraltro va ricordato che lo stesso diritto romano ammetteva alcune eccezioni – «Nisi breves sint lites, et maxime vilium personarum, vel causarum (tunc enim sine scriptis, et sine aliqua expensa cognoscere praesidem oportet) et nisi episcopus cognoscat inter suos subditos» (cfr. C. 7, 44, 3) – che Azone (vissuto tra il XII e il XIII secolo) riferiva alle cause di valore non superiore, un tempo, a 50 aurei e, alla sua epoca, a 300 aurei [12], ma che, secondo altri glossatori e commentatori, andavano rimesse arbitrio iudicis [13].

 

 

 

Che la pratica durante il medioevo (per lo meno all’epoca dei glossatori) fosse invece quella di rendere le decisioni verbalmente sembra confermato dalle affermazioni dell’Ostiense il quale, dopo aver dichiarato che – secondo l’interpretazione letterale delle citate fonti romane – sarebbe stata nulla la sentenza «si [Iudex] recitavit in scriptis non per seipsum, sed per alium», ed averne concluso che «ergo literas ignorans non potest ferre sententiam», s’affrettava ad aggiungere che «Sed certe hoc non servatur de consuetudine. Imo tota die laici, et clerici iudices, et arbitri pronunciant sine scriptis, et tenet sententia alioquin sequeretur quod laicus non posset esse arbiter» [14].

 

Peraltro nei secoli successivi invalse la pratica di rendere la sentenza per iscritto, come attestato, ad esempio, nel Cinquecento, da Giovanni Battista Asinio, il quale, dopo aver osservato che «quaedam sunt acta, quae suaptem natura scripturam requiruntur, ut puta (…) sententia definitiva (…). Alia vero acta iudiciaria sunt, quae scritpuram non requirunt, ut puta (…) sententia interlocutoria, et similia, et illa testibus probari possunt», concludeva nel senso che «usus et consuetudo invaluit, ut acta in scripturam redigantur, quae non solum in Italia; sed extra quoque Italiam communiter observantur», con l’unica eccezione dell’ipotesi in cui si fosse trattato di una «parva causa» [15].

 

 

Nello stesso periodo Giacomo Menochio eccettuava invece il caso in cui il giudice decidesse secondo equità in materie rimesse al suo libero arbitrio, anche se lo stesso giurista dava conto dell’esistenza di profonde dissensiones sul punto [16].

 

 

2. La motivazione della sentenza in diritto comune.

 

       Nel silenzio delle fonti romane sul tema specifico dell’obbligo di motivazione delle sentenze, glossatori e commentatori arrivarono a desumere da alcuni passi il principio generale secondo cui exprimere (o ferre, o assignare) causam sententiae sarebbe stato non solo non necessario, ma addirittura pericoloso, potendo l’indicazione di una ratio decidendi (come diremmo oggi) erronea (pur esistendone una corretta) rendere nulla una sentenza altrimenti valida. Il riferimento era effettuato in particolare a D. 27, 1, 37, in cui il giurista Scevola negava che un tutore potesse ritenersi esonerato, nonostante la decisione del pretore in tal senso emessa sulla base di una causa di esonero non sussistente, pur esistendone effettivamente un’altra valida; la conclusione era dunque nel senso che «quamvis justas ecusationis causas haberet, [tutorem] non tamen esse excusatum, propter vitium pronunciationis».

 

Già l’Ostiense [17] argomentava da tale passo che «non est tutum assignare causam in sententia, quia si malam exprimat pronuncians, quamvis habeat bonam, quam exprimere posset, non valet sententia (…). Ideoque si cautus sit iudex, nullam causam exprimet (…) nisi in casibus, in quibus tenetur causam exprimere». Sulla stessa linea si collocava il francese Guillaume Durand (noto in italia come Guglielmo Durandi, o Duranti o Durante) – autore, nella seconda metà del XIII secolo, del celeberrimo speculum iuris – secondo cui «si rationes, vel allegationes partium, quae ipsum [iudicem] ad pronunciandum movent, in sententiam non ferantur, nihilominus sententia valet (…). Cautius autem faciet iudex, si eas non inferat (…), ne forte quandoque ex incuria errorem in sententia exprimat, et ne viam calumnijs aperiat» [18].

 

Tra i commentatori trecenteschi della Scuola Bolognese Baldo asseriva che «cautius facit [Iudex] si simpliciter condemnat, vel absolvit (…) quia in sententia non est exprimenda causa de necessitate formae, vel legis mandato» [19]; prima ancora, Bartolo, chiosando il citato passo del Digesto, aveva sostenuto che proprio da quest’ultimo si poteva arguire che il giudice non era obbligato ad exprimere causam: «Item ex isto texto potest optime colligi, quod in sententia iudex non tenetur exprimere causam. Nam si exprimat falsam, sententia est nulla: sed si tulit simpliciter, tunc creditur tulisse sententiam veram incerta causa». Rilevato peraltro che, in taluni casi, la ragione della decisione andava comunque dichiarata, aveva concluso nel senso che «si his casibus iudex causam non expresserit in sententia recurrimus ad eum, ut dicat causam, quae eum movit ad sententiam proferendam, cum nullus alius possit eam scire» [20].

 

 

       Del rilievo che assumeva, nella letteratura giuridica del tempo, il timore circa la possibile nullità della sentenza per effetto dell’espressione in essa di una falsa causa fa fede anche un’altra opera fondamentale del XIV secolo: la Practica aurea del de Ferrariis, secondo cui la sentenza «est nulla, si lata sit ex falsa causa expressa in ipsa sententia (…) nam quandoque in sententia exprimitur una sola causa, et super ea est fundata sententia, et tunc sententia redditur nulla, sive sit diffinitiva, sive interlocutoria» [21]. Il celebre giurista quattrocentesco Vitale de Cambanis, protonotaro di Sicilia al seguito di Renato d’Angiò, definiva addirittura «fatuo» il giudice che avesse espresso la motivazione della propria decisione: «Judex fatuus reputatur, qui in sententiam causam exprimit, in quo tamen communiter tenetur, quod non sit necessaria talis expressio»; la lunga e dotta dissertazione nella quale l’autore dell’aureus clausularum tractatus collocava tale affermazione, che si diffondeva sulle varie possibili ipotesi di una o più causae falsae addotta dal giudice unitamente ad una o più verae, con riferimento e/o rinvio (o meno) agli atti dell’una o dell’altra parte, dimostra come la preoccupazione dei dottori medioevali fosse quella di evitare il più possibile che sulla pronunzia venisse a gravare la spada di Damocle della nullitas (all’epoca ancora poco distinta e distinguibile dalla appellabilità), con conseguente incertezza per le parti e discredito per la funzione giudiziaria [22].

 

 

Per quanto attiene, poi, alle formule concrete tramite le quali il giudice poteva esprimere il suo giudizio, il già ricordato speculum iuris invitava il giudice a prepararsi quello che oggi potremmo definire come uno «schema riepilogativo» delle allegazioni delle parti e delle risultanze istruttorie: «Auditis autem allegationibus iudex, ut instructus in causa appareat, petitionem et causae processum, allegationes quoque, et responsiones, et singula actitata sub compendio reepiloget». Nei casi più complessi egli avrebbe invece potuto chiedere ai contendenti stessi di riassumere per iscritto le proprie argomentazioni, nel contesto di un documento assai simile alla nostra comparsa conclusionale: «Si quaestio intricata sit, vel plures angulos et anfractus habens, brevem et veram facti continentiam, allegationes quoque et replicationes partium in scriptis faciat sib dari, ut super eis plene deliberare valeat secum» [23].

 

 

       Venendo alla forma di pronunzia della sentenza, lo speculator raccomandava di menzionare nella decisione domande, eccezioni ed allegazioni delle parti, secondo lo schema seguente: «Caeterum in sententiae prolatione iudex exprimere debet actoris petitionem, et rei responsionem, et eius exceptionem, et generaliter quicquid in causa utriusque petitum, vel allegatum, seu actum est, sub epilogo referat, ut dixi supra (…); quo facto habeat paratam sententiam (…) vel saltem conclusionem ore proprio legat (…) et his verbis, vel similibus in prolatione utatur: FORMA. Visis, et auditis confessionibus et attestationibus, instrumentis, rationibus et allegationibus utriusque partis in iudicio deductis, eisque diligenter examinatis, et intellectis, deliberatione quoque nobiscum et cum peritis praehabita diligenti, talem condemno, vel absolvo. Vel altiter proferat, sicut viderit proferendum, ita tamen, quod canonibus, legibus, vel consuetudinibus conveniat approbatis, quae omnia sunt in sententia exprimenda» [24].

 

Ecco come venivano riassunti dal Rolandino gli elementi essenziali della sentenza, nel Trecento.

 

La motivazione veniva comunque raccomandata dal Durand, così come dagli altri dottori del diritto comune che si occuparono della questione, non come requisito di validità della sentenza (che dunque non era nulla in assenza di expressio causae), ma al solo fine di determinare con precisione l’oggetto della decisione, ne ex toto pereat ius partis, in una serie di casi, tra cui: 1) quando la sentenza fosse di absolutio ab instantia propter ineptam petitionem, ne pereat ius agendi; 2) quando la sentenza si fosse discostata dallo ius commune; 3) quando fosse stata respinta la domanda di rei vindicatio perché il convenuto non possedeva la cosa al momento della sentenza, per far salvo il diritto dell’attore di agire nuovamente senza vedersi opporre l’exceptio rei iudicatae; 4) in appello, se fosse stata revocata la sentenza di primo grado, ut per hoc prioribus iudicibus qui bene secundum acta coram se habita processerunt, nihil imputetur. A queste ipotesi, tipiche dello ius civile, si aggiungeva poi il caso della sentenza di scomunica, che andava motivata perché si trattava di sanzione medicinalis, non mortalis, e la motivazione dava a chi ne era colpito la possibilità di ravvedersi [25].

 

 

3. Sulla via dell’obbligo di motivazione nell’epoca delle signorie.

 

Sulla regola della non obbligatorietà (in linea di massima) della  motivazione della sentenza civile, in diritto comune, vennero poi variamente ad influire i diritti statutari locali e le costituzioni emanate qua e là in alcuni degli stati italiani a cavallo tra il XVI e il XVII secolo, come ad esempio, a Firenze, ove una disposizione del 14 maggio 1532, impose ai giudici della Ruota Fiorentina di «dare e scrivere a pie’ della sentenza (…) brevemente e motivi principali, che gli aranno mossi a così giudicare (…)», o comunque di redigere i motivi entro tre giorni dalla sentenza «allegandovi sempre (…) la legge, e le Doctrine, e le ragioni inductive, e motive di tal suo Iudicio», con la previsione di una sanzione pecuniaria per il giudice che non avesse assolto a tale obbligo. Con la successiva disposizione del 1 settembre 1678 si impose poi l’obbligo di motivazione in tutte le sentenze in cause di valore superiore ai 100 ducati o di valore indeterminabile [26].

 

Ancora nel XVI secolo, proprio commentando le norme fiorentine, Asinio, dopo aver rimarcato che, secondo il diritto locale, «Iudex (…) teneatur in scriptis, cum allegationibus iuris, sive aliqua alteratione causam certam et determinatam quare consuluit, et consilium reddit», sottolineava come tale conclusione venisse a porsi «contra omnium fere doctorum opinionem», poiché «sapiens causam et rationem, iura et allegationes exprimere non tenetur» [27].

 

Nello stesso torno di tempo il venosino Roberto Maranta attestava nella sua celeberrima praxis civilis che la motivazione ben avrebbe potuto consistere in una mera relatio al parere di un giurisperito, seguita dalla seguente dicitura: «Nos talis iudex, etc., sententiamus, et pronunciamus, prout in suprascripto consilio continetur», apponendo quindi la propria firma, alias nulla esset sententia. Maranta notava in proposito, non senza una certa dose di disprezzo nei riguardi dei giudici del tempo, che «Quotidie evenit, maxime in curiis, in quibus sunt isti officiales idiotae, qui ferunt sententias de consilio iurisperiti, et solum legunt consilium (…), quod non est sententia unde poteris opponere et impedire executionem. Et ego bis obtinui. non sunt multi dies, quibus impedivi duas executiones per dictam oppositionem unde sint cauti iudices idiotae ut in calce consilii faciant scribi: Nos talis iudex, etc., sententiamus, et pronunciamus, prout in suprascripto consilio continetur» [28].

 

In Piemonte, una costituzione di Carlo Emanuele I, risalente al 7 gennaio 1615, stabilì che i giudici dovessero motivare esclusivamente su richiesta delle parti, richiesta che queste ultime avrebbero peraltro potuto proporre solo nelle controversie di particolare importanza, oppure per ordine di chi «regge il Magistrato», qualora la motivazione venisse ritenuta necessaria per l’importanza della questione, in caso di decisioni che, per il loro rilievo, «possono far stato, e conseguenza».

 

Un’influenza decisiva sull’introduzione dell’obbligo di motivazione delle sentenze ebbe però anche la prassi dei c.d. Grandi Tribunali, nei quali la motivazione, spesso assai ampia e articolata, era un dato pressochè costante [29]. Tra questi organi giurisdizionali spiccava in particolare la Rota Romana, in cui la sentenza finale non era motivata, ma era preceduta dalla comunicazione alle parti di una decisio, contenente un progetto di decisione contenente le conclusioni dei giudici e le relative rationes dubitandi; su di esse le parti potevano interloquire e controdedurre, provocando la decisione finale, con un meccanismo il cui scopo era quello di ridurre gli appelli e che Gorla ha in qualche modo avvicinato alla pratica dei reports nei sistemi di common law  [30].

 

Sarà utile a questo punto riportare le considerazioni di Taruffo, circa le funzioni della motivazione e del relativo obbligo nei diversi sistemi appena evidenziati.

 

       «Le tre soluzioni ora sinteticamente descritte hanno rilievo in quanto esemplificano diversi modi di intendere la funzione della motivazione. Quella che viene accolta nella legislazione fiorentina è la sola a rendere evidente l’apertura verso la possibilità di controllo esterno sull’operato del giudice, ed a manifestare, quindi, la presenza di una concezione non meramente endoprocessuale della motivazione; d’altronde, anche la segnalata evoluzione nel senso di una progressiva estensione dell’obbligo di motivazione indica una sempre più chiara coscienza del ruolo ‘pubblico’ della motivazione stessa. Nella legislazione piemontese questo elemento manca, come indicano i limiti entro i quali l’obbligo di motivazione è previsto; essi sono pure significativi della scarsa attenzione per il ruolo che la motivazione può svolgere nei confronti delle parti (di persuasione e di chiarificazione, anche in vista delle impugnazioni), ed emerge invece l’idea che la motivazione serva, attraverso la creazione di precedenti sulle questioni di maggiore importanza, a porre ordine e continuità nella giurisprudenza.

       A sua volta, la prassi della Rota romana non è in funzione di un controllo esterno sulla fondatezza della decisione, né appare intesa alla formazione di precedenti (anche se, com’è noto, la giurisprudenza delle decisiones rotali ebbe di fatto amplissima diffusione e grande importanza proprio sotto questo profilo); si tratta invece di un meccanismo diretto a consentire al tribunale la possibilità di rivedere le proprie decisioni nell’àmbito dello stesso procedimento, in base alle obiezioni delle parti, evitando la necessità dell’appello.

       Mentre la funzione e le finalità ispiratrici di queste soluzioni sono chiaramente differenziate, va però osservato che esse hanno in comune un carattere generale assai rilevante: non sussiste, cioè, un atteggiamento inteso a favorire la segretezza delle rationes decidendi. Tale carattere è prevalente nelle legislazioni o nella prassi degli Stati italiani, malgrado importanti eccezioni (Milano, Venezia, Napoli), e costituisce l’elemento che, con ogni probabilità, ha maggiormente facilitato l’estensione dell’obbligo di motivazione» [31].

 

Di notevole interesse sono le osservazioni svolte dal De Luca nella seconda metà del XVII secolo sullo stile legale delle motivazioni, stile direttamente correlato alla funzione da tali motivazioni variamente assolta. 

 

 

Naturalmente sulla storia dell’obbligo di motivazione delle sentenze vennero poi ad influire in maniera decisiva (ancorchè non esclusiva), nei tempi moderni, l’ideologia illuministica, la legislazione rivoluzionaria e le riforme napoleoniche, cui verrà in parte fatto breve richiamo oltre [32]: ma qui l’esigenza di motivare rispondeva – come si vedrà – prima ancora che ad esigenze (endo)processuali, alla necessità ideologica e lato sensu politica di assicurare, da un lato, trasparenza all’operato dei poteri dello Stato e, dall’altro, di razionalizzare l’organizzazione dell’amministrazione della giustizia [33].

 

 

4. La giurisprudenza dei Grandi Tribunali e le raccolte di sentenze italiane.

 

Si è già accennato all’influsso decisivo che dispiegarono sulla storia della motivazione delle sentenze in Italia la giurisprudenza dei Grandi Tribunali italiani, a partire dal XVI secolo, e le relative raccolte che su di essa fiorirono e che finirono per condizionare in maniera determinante la forma mentis e il modo di scrivere dei giudici italiani [34]. In proposito sarà interessante notare come, al di là dei diversi meccanismi attraverso i quali si perveniva alla decisione, le motivazioni presentassero tra di loro larghe similitudini di stile, con numerosi riferimenti non solo ai passi delle fonti romane, bensì anche alla dottrina dei dottori del diritto comune, così come alle precedenti decisioni dello stesso organo, o di altri. Tra i vari Senati e le varie Rote italiane fanno spicco, in particolare, il Senato Piemontese e la Rota Romana, su cui si fa rinvio alla descrizione del Piola Caselli, successivamente ripresa da Gorla [35].

 

 

Moltre altre raccolte, oltre a quelle testè citate, vennero compilate in Italia nel corso dei secoli XVI, XVII e XVIII [36], come, ad esempio, quelle dell’ab Ecclesia per il Senato del Piemonte [37], del Cartario per la Rota della Repubblica di Genova [38], dell’Afflitto e del De Franchis per il Tribunale Supremo del Regno delle Due Sicilie [39], del Surdo per il Senato di Mantova [40], del Monaco per le Rote di Lucca, Firenze e Bologna [41], ecc.

 

Proprio questo scenario, se da un lato venne a favorire un «comune sentire» dei giuristi italiani dell’epoca, dall’altro non mancò di scatenare reazioni contrarie, soprattutto da parte del potere esecutivo, che temeva in tal modo possibili limitazioni al suo potere assoluto, magari sotto il velo dell’interpretazione fondata sulle opinioni della dottrina. Si spiega così perché, ad esempio, tanto Vittorio Amedeo II e suo figlio Carlo Emanuele III, in Piemonte, che Ferdinando IV, nelle Due Sicilie, vietarono le citazioni dottrinali, sia negli atti degli avvocati che delle sentenze, in tal modo ponendo una regola che costituisce un chiaro precedente dell’art. 118, 3° co., delle disposizioni di attuazione del vigente codice di rito [42].

 

 

 

5. Esempi di sentenze.

 

Proprio con riguardo alla giurisprudenza dei Senati e delle Rote,  potrà qui riportarsi, a titolo d’esempio, una decisione risalente al 1575, con cui il Senato del Piemonte, secondo quanto riferito dal Tesauro [43], decise in favore della validità di una donazione effettuata propter benemerita da un militare alla propria concubina [44].

 

 

Si noti che la citata decisione richiama, tra l’altro (al punto n. 6), un precedente del Concilium Neapolitanum (di cui non si riferisce la data), relativamente alla donazione effettuata da un ecclesiastico alla sua concubina, secondo quanto riportato da Matteo degli Afflitti, come è dato vedere qui di seguito [45].

 

 

Questa decisione richiama a sua volta un celeberrimo consilium del giurista medioevale Pietro d’Ancarano, pro concubina cuiusdam sacerdotis, in relazione ad una donazione effettuata da un ecclesiastico (categoria per la quale le donazioni alle concubine erano ritenute – contrariamente rispetto alla regola generale – vietate) alla donna con la quale il medesimo aveva per anni convissuto. L’idea che sta alla base alla tesi della validità è quella per cui l’attribuzione patrimoniale effettuata propter benemerita costituisce, in questo caso, più che una donazione, l’adempimento di un’obbligazione naturale [46].

 

 

Questo parere appare di estremo interesse e di grande modernità, se si pensa che già nel XIV secolo si proponeva l’intuizione di ricorrere alla categoria delle obbligazioni naturali per salvare le attribuzioni tra conviventi.

 

Sulla stessa materia potrà riportarsi quanto scrive, in relazione ad un’altra fattispecie, risalente alla metà del XVII secolo, il Cardinal De Luca, il quale riferisce di una causa iniziata di fronte alla Rota Romana nel 1653 dalla concubina di un militare contro quest’ultimo per l’adempimento di un contratto de quadam annua vitalitia praesta­tione dal momento che il donante «(ut frequens est hujusmodi amantium consuetudo) praedictae donationis poenituisset, ideoque praestationis solutionem denegaret». La controversia si concluse con una transazione (dum actrix, aliquo accepto, acquievit) [47].

 

             longe post haec scripta firmavit etiam Rota in Romana an-

ac stylum extra praecisam negociorum necessitatem in non necessariis evagari.

 

II

FRANCIA

III

INGHILTERRA

IV GERMANIA

SOMMARIO

 



[1] Cfr. Accursio, glossa a C. 7, 45, 12, in Codicis D.N. Iustiniani sacratissimi principis, Imperatoris Augusti, Libri IX Priores, Venetiis, 1592, c. 2120.

[2] Cfr. ad esempio Ostiense, Summa aurea, Augustae Taurinorum, 1579, f.; Azone, In ius civile summa, Lugduni, 1564, f. 203; il richiamo dei glossatori era effettuato a D., 38, 15, 2 (§ 1 e § 2).

[3] Rolandino de’ Passeggeri, Summa Artis Notariae, Taurini, 1590, p. 610.

[4] Cfr. Azone, op. cit., f. 204.

[5] Cfr. ad esempio Giason del Maino, In Iustiniani Codicem, Lugduni, 1564, f. 90, che riferisce al riguardo l’opinione prevalente dei doctores, secondo cui «Sententia lata de nocte non valet, nisi in quatuor casibus» (si noti che tra le eccezioni rientrava l’ipotesi – sempre attuale, a quanto pare! – in cui «iudex esset impeditus multitudine causarum»).

[6] Cfr. Azone, op. loc. ultt. citt.

[7] Paolo de Castro, Clarissimi iuris utriusque doctoris Pauli Castrensis Commentariurum in codicem iustinianum pars secunda, Lugduni, 1544, f. 132: «Non debent sententiae ferri subito, sed cum deliberatione (…) Videtur etiam quod sententiae arbitrorum quae ferunt statim facto compromisso non valeant quasi latae sint causa non cognita».

[8] Paolo de Castro, op. loc. ultt. citt.: «Si potest probari iudicem non vidisse acta: et sic non adhibuisse causae cognitionem sententia non valet».

[9] Cfr. Baldo degli Ubaldi, Commentaria in vi. vii. viii. ix. x. et xi. Codicis lib., Venetiis, 1572, f. 280.

[10] Cfr. Viviano Tosco, glossa a C. 7, 44, 3, in  Codicis D.N. Iustiniani sacratissimi principis, Imperatoris Augusti, Libri IX Priores, Venetiis, 1592, c. 2112.

[11] Cfr. Ostiense, op. cit., f. 148.

[12] Cfr. Azone, op. cit., f. 203.

[13] Cfr. la glossa in margine a C. 7, 44, 3 in  Codicis D.N. Iustiniani sacratissimi principis, Imperatoris Augusti, Libri IX Priores, cit., c. 2113.

[14] Cfr. Ostiense, op. loc. ultt. citt.

[15] Cfr. Asinius, Practica aurea seu processus iudiciarius, Ticini, 1598, f. 109.

[16] Cfr. Menochius, De arbitrariis iudicum quaestionibus et causis libri duo, Francofurti ad Moenum, 1576, f. 37.

[17] Cfr. Ostiense, op. cit., f. 149.

[18] Cfr. Durandi, Speculum iuris, Venetiis, 1585, p. 758.

[19] Cfr. Baldo degli Ubaldi, op. cit., f. 276.

[20] Cfr. Bartolo da Sassoferrato, In Primam Infortiati Partem, Venetiis, 1585, f. 72. Uno dei passi delle fonti romane citate dall’Autore come quelli in cui la motivazione sarebbe stata espressamente richiesta è C., 3, 1, 13, § Illo procul dubio.

[21] Cfr. De Ferrariis, Practica aurea, Venetiis, 1575, f. 99.

[22] Cfr. de Cambanis, Aureus clausularum omnigenarum tractatus, Parisiis, 1515, f. 123 s.

[23] Cfr. Durandi, op. cit., p. 758.

[24] Cfr. Durandi, op. cit., p.787.

[25] Cfr. Durandi, op. loc. ultt. citt.; cfr. inoltre Taruffo, L’obbligo della motivazione della sentenza civile tra diritto comune e illuminismo, in Riv. dir. proc., 1974, p. 279 ss.

[26] Cfr. Taruffo, op. loc. ultt. citt.

[27] Cfr. Asinius, op. cit., f. 165.

[28] Cfr. Maranta, Speculum aureum. et lumen advocatorum praxis civilis, Venetiis, 1578, f. 104.

[29] Cfr. Gorla, I «Grandi Tribunali» italiani fra i secoli XVI e XIX: un capitolo incompiuto della storia politico-giuridica d’Italia, in Quaderni de «Il Foro italiano», 1969, c. 629 ss.; Taruffo, op. cit., p. 280 ss.

[30] Cfr. Gorla, La motivation des jugements, in Foro it., 1979, V, c. 24; Id., Sulla via dei motivi delle sentenze: lacune e trappole, in Foro it., 1980, V, c. 205 ss.

[31] Cfr. Taruffo, op. cit., p. 281; sul procedimento di formazione delle decisioni nella Rota Romana cfr. le ampie descrizioni del Cardinal De Luca, Theatrum veritatis et justitiae, Venetiis, 1706, XV, I, Pars de Judiciis, et de Praxi Curiae Romanae, p. 109 ss. e ivi, III, Dello stile legale, p. 149 s.

[32] Cfr. infra, § 13.

[33] Cfr. Taruffo, op. cit., p. 265 ss., 290 ss.

[34] Sul tema cfr. per tutti Gorla, I «Grandi Tribunali» italiani, fra i secoli XVI e XIX: un capitolo incompiuto della storia politico-giuridica d’Italia, cit., c. 629 ss.; Id., L’origine e l’autorità delle raccolte di giurisprudenza, in Diritto comparato e diritto comune europeo, Milano, 1981, p. 423 ss.

[35] Cfr. Gorla, Lo stile delle sentenze. Testi commentati, in Quaderni de «Il Foro italiano», 1968, c. 402 ss. (che sul punto riporta un brano tratto da Piola Caselli, voce Giurisprudenza, in Digesto it., 1902).

[36] Cfr. Gorla, L’origine e l’autorità delle raccolte di giurisprudenza, in Diritto comparato e diritto comune europeo, Milano, 1981, p. 423 ss.

[37] Ab Ecclesia, Observationes forenses Sacri Senatus Pedemontani, Parmae, 1727.

[38] Chartarius,  Decisiones Rotae Causarum Executivarum Reipublicae Genuensis, Venetiis, 1609.

[39] De Afflictis, Decisiones Sacri Concili Neapolitani, Venetiis, 1552; De Franchis, Decisiones Sacri Regii Consilii Neapolitani, Augustae Tarinorum, 1628.

[40] Surdus, Decisiones Sacri Mantuani Senatus, Plancentiae, 1598.

[41] Monachus, Decisionum Lucensium, Florentinarum et Bononiensium, Criminalium, Civilium, Mixtarum, Libri Tres, Venetiis, 1619.

[42] Gorla, Lo stile delle sentenze. Testi commentati, cit., c. 402 ss.

[43] Thesaurus, Novae decisiones Sacri Senatus Pedemontani, Augustae Taurinorum, 1626, f. 90.

[44] Sul tema cfr. Oberto, I regimi patrimoniali della famiglia di fatto, Milano, 1991, p. 169 ss.; Id., Le prestazioni lavorative del convivente more uxorio, Padova, 2003, p. 2 ss.

[45] Cfr. De Afflictis, op. cit., f. 61.

[46] D’Ancarano, Consilia sive iuris responsa Petri Ancharani, apud Nicolaum Bevilaquam, 1568, f. 131: «dico breviter quod si merita per dictam dominam probarentur credo dictam donationem tenere; licet enim inter personas prohibitas simplex donatio non sit valida tamen donatio ob causam non reprobatur, quia aliam et diversam naturam habet a simplici (…). Non enim dici potest proprie donatio ob causam sed cuiusdam debiti naturalis rest[ituti]o: quia ex collatis servitiis obligatur ille cui conferuntur naturaliter conferenti (…) et dicitur talis obligatio ad antidora». Sui rapporti tra attribuzioni fra conviventi e obbligazioni naturali v. per tutti Oberto, I regimi patrimoniali della famiglia di fatto, loc. ult. cit.

[47] Cfr. De Luca, Theatrum veritatis et iustitiae, VII, pars I, De donationibus, Venetiis, 1706, disc. XLII, p. 82 s.

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