OMOSESSUALITÀ E FILIAZIONE (*)
Sommario: 1. Premessa. Crisi del rapporto
di coppia e omogenitorialità. – 2. Il divieto, sul piano
sovranazionale, di discriminazioni basate sull’orientamento sessuale. Gli
effetti della Carta di Nizza e la posizione del Parlamento europeo sul tema
delle convivenze omosessuali. – 3. Segue. La posizione della Corte di giustizia dell’Unione europea
sulle unioni omosessuali. – 4. La famiglia di fatto di
fronte alla C.E.D.U. ed alla Corte di Strasburgo. – 5.
La posizione della Corte europea dei diritti dell’uomo sulle unioni
omosessuali. – 6. La proiezione, a livello
sovranazionale, del divieto di discriminazioni basate sull’orientamento
sessuale sulle vicende del rapporto di coppia eterosessuale e sul tema
dell’adozione. – 7. L’irrilevanza dell’orientamento
sessuale del genitore nell’affidamento del minore ai sensi degli artt. 337-bis ss. c.c. – 8.
Il rilievo delle «accuse» di omosessualità mosse da un genitore all’altro. – 9. Crisi della coppia omosessuale e conseguenze per la
prole: impostazione del problema. – 10. Crisi della
coppia omosessuale e conseguenze per la prole: il rilievo degli accordi sui
profili patrimoniali. – 11. Crisi della coppia
omosessuale e conseguenze per la prole: il rilievo degli accordi sui profili
personali ed i rimedi in caso di disaccordo. – 12.
Crisi della coppia omosessuale e conseguenze per la prole: cenni su alcuni
problemi di diritto internazionale privato relativi alle obbligazioni
alimentari. |
1. Premessa. Crisi del rapporto di coppia e
omogenitorialità.
L’argomento dell’incidenza che, nell’ambito della
crisi del rapporto di coppia, l’orientamento sessuale dei genitori può
dispiegare sulle relazioni con i figli minori deve trovare svolgimento su due
versanti distinti: (a) quello delle conseguenze per la prole della crisi di una
coppia eterosessuale, allorquando uno dei due genitori abbia dato vita ad una
relazione omosessuale con un nuovo partner;
(b) quello delle conseguenze per la prole della fine un rapporto di coppia
omosessuale, nel corso del quale (nei modi più vari) sia sorto un rapporto di
filiazione, o si siano sviluppate relazioni privilegiate tra il/la compagno/a e
il figlio dell’altro/a.
Le questioni appena enunciate attengono al vasto tema
dell’omogenitorialità [1], a sua volta strettamente legato alle questioni della
procreazione medicalmente assistita, nonché dell’adozione e dell’affido
familiare, che non posso trattare nella presente sede [2]; mi concentrerò, invece, sui soli profili relativi,
non già all’instaurazione del rapporto omogenitoriale, ma – come detto – alle
conseguenze che l’esistenza di tale situazione, o, corrispondentemente, la sua
crisi, possono determinare nei rapporti con la prole.
Il primo caso da prendere in considerazione è dunque
quello di una coppia eterosessuale – coniugata o meno, ma convivente e con
prole minorenne – la quale si venga a trovare in una situazione di crisi,
mentre uno dei suoi componenti inizia un rapporto di tipo omosessuale, che
magari sfocia anche in una convivenza con il nuovo/la nuova partner. Si tratta di vedere, innanzi
tutto, se siffatta situazione possa dispiegare effetti di sorta
sull’affidamento della prole conseguente alla separazione dei genitori.
Porre una questione del genere a seguito della riforma
sull’affidamento condiviso di cui alla l. 8 febbraio 2006, n. 54 [3], nonché a seguito della riforma della filiazione, di
cui alla l. 10 dicembre 2012, n. 219 ed al successivo d.lgs. 28 dicembre 2013,
n. 154, significa domandarsi se l’omosessualità di uno dei due genitori, ovvero
l’esistenza di una situazione di convivenza con un/una partner del medesimo sesso, costituiscano ragioni per derogare al
principio dell’affidamento ad entrambi i genitori, ovvero per influire sul
concreto regime di gestione dello stesso e, in particolare, sul c.d.
«collocamento» presso l’uno o l’altro dei membri della coppia ormai disciolta.
Come si è esattamente rimarcato [4], la disciplina dell’affidamento condiviso è venuta,
nel 2006, a mutare radicalmente il rapporto tra genitori separati e figli; lo
spirito di questa novella pone i figli al centro dell’attenzione di entrambi i
genitori attraverso la realizzazione di rapporti «significativi e continuativi»
[5] con essi e con la realizzazione comune di entrambi
del progetto educativo relativo alla crescita della prole. Questo concetto, che
è stato definito con il termine di «bigenitorialità» [6], si pone in controtendenza rispetto alla pratica
realizzatasi in precedenza alla riforma, ovvero l’affidamento disgiunto del minore,
generalmente alla madre, con una regolamentazione del diritto di visita al
genitore non affidatario e della somministrazione di un assegno periodico di
contributo al mantenimento.
Se e in che misura le novità introdotte dalla citata
riforma della filiazione degli anni 2012-2013 abbiano influito sulle modalità
concrete di attuazione del principio di «bigenitorialità», specie con riguardo
alla situazione patologica del rapporto tra i parentes, è questione che non può essere affrontata in questa sede [7]. Ciò che rileva qui notare è che la regola
dell’affidamento condiviso non appare abrogata, mentre – ai fini che qui
interessano – appare opportuno concentrare l’attenzione sull’esistenza di un
basilare principio, sul piano sia sovranazionale, che interno, di divieto di
discriminazioni basate sull’orientamento sessuale (sexual orientation discrimination). Proprio attorno a tale
principio si svilupperanno i primi paragrafi di questa trattazione.
Affrontando, innanzi tutto, il problema del divieto di
discriminazioni basate sull’orientamento sessuale nella sua proiezione
sovranazionale, andrà tenuto presente che il Trattato di Lisbona, entrato in
vigore il 1° dicembre 2009, richiama, all’art. 6 [8], la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione
Europea (c.d. Carta di Nizza) del 7 dicembre 2000, la quale condanna
espressamente la discriminazione fondata, tra l’altro, sull’orientamento
sessuale [9]. Da notare che, con tale richiamo, è stato attribuito
alla Carta di Nizza lo stesso valore giuridico dei trattati, disponendosi che i
diritti fondamentali garantiti dalla CEDU, risultanti dalle tradizioni
costituzionali comuni agli Stati membri, fanno parte del diritto dell’Unione
quali principi generali [10].
Da notare che, avendo, all’art. 9, individuato in capo
ad ogni persona «il diritto di sposarsi e di costituire una famiglia» (pur
«secondo le leggi nazionali che ne disciplinano l’esercizio»), la Carta di
Nizza ha compiuto una scelta decisiva, poiché ha consapevolmente optato per
un’espressione diversa da quella contenuta nell’art. 12 della Convenzione
europea sui diritti dell’uomo e le libertà fondamentali (per cui «uomini e donne in età adatta hanno diritto di sposarsi»), proprio al fine di
non escludere le coppie omosessuali. Esattamente la dottrina ha rilevato come
«in tal modo si apre la via al riconoscimento delle coppie omosessuali e dello
stesso matrimonio tra omosessuali» [11], influenzando, a sua volta, l’interpretazione dello
stesso art. 12 della C.E.D.U., atteso che, come si vedrà, anche la Corte di
Strasburgo, chiamata a verificare la compatibilità dell’esclusione delle coppie
omosessuali dall’istituto matrimoniale, con una decisione resa nel 2010, ha
marcato un chiarissimo revirement di
portata storica [12].
Più complessa (ma, in relazione al problema qui
discusso, caratterizzata da una soluzione assolutamente identica) appare invece
la questione che si pone sul piano della Convenzione europea per la
salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali. L’art. 8 di
tale strumento tutela, come noto, i diritti derivanti da rapporti di famiglia,
sancendo genericamente il diritto di ogni persona al «rispetto della propria
vita privata e familiare». D’altro canto, l’art. 12, con riguardo diritto al
matrimonio, fa riferimento esplicito alla famiglia originata dal vincolo coniugale
[13].
Ora, come si è esattamente posto in luce in dottrina [14], quando ancora nel diritto di origine interna
mancavano riferimenti espliciti all’orientamento sessuale, furono proprio le
fonti internazionali a indicare tale condizione personale tra quelle che non
possono di per sé giustificare un trattamento differenziato [15]. Così, nel caso Toonen
v Australia, il Comitato O.N.U. per i diritti umani ha affermato che il
termine «sesso» di cui agli art. 2, co. I, e 26 del Patto dir. civ. e pol.
comprende anche l’ «orientamento sessuale» [16].
Dal 1999 i testi fondamentali dell’Unione europea e
delle Comunità europee prevedono espressamente che le politiche e le azioni
europee debbano mirare a combattere le discriminazioni fondate
sull’orientamento sessuale [17]. La Direttiva 2000/78/CE del 27 novembre 2000 sulla
parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro vieta
le discriminazioni fondate, tra l’altro, sull’«orientamento sessuale». L’art.
21 della Carta di Nizza, come più volte ricordato, vieta «qualsiasi forma di
discriminazione fondata», tra l’altro, sulle «tendenze sessuali» [18].
Il Parlamento europeo, dal canto suo, ha indirizzato
alcune raccomandazioni e risoluzioni, sia agli Stati membri, che alla
Commissione, in materia di diritti delle persone omosessuali.
In particolare, già in data 8 febbraio 1994 è stata
adottata una risoluzione sulla parità dei diritti degli omosessuali, con la
quale il Parlamento ha chiesto alla Commissione di presentare una proposta di
raccomandazione nella quale venisse sollecitata la rimozione degli «ostacoli
frapposti al matrimonio di coppie omosessuali ovvero a un istituto giuridico
equivalente, garantendo pienamente diritti e vantaggi del matrimonio e
consentendo la registrazione delle unioni», nonché la rimozione di «qualsiasi
limitazione del diritto degli omosessuali di essere genitori ovvero di adottare
o avere in affidamento dei bambini».
Queste indicazioni sono state riprese dalla risoluzione
sul rispetto dei diritti umani nell’Unione europea in relazione al biennio
1998-1999, adottata il 16 marzo 2000, con la quale, richiamando l’art. 13 del
Trattato istitutivo della Comunità europea, il Parlamento europeo ha chiesto
«agli Stati che non vi abbiano ancora provveduto di modificare la propria
legislazione al fine di riconoscere legalmente la convivenza al di fuori del
matrimonio indipendentemente dal sesso» e ha evidenziato «la necessità di
compiere rapidi progressi nell’ambito del riconoscimento reciproco delle varie
forme di convivenza legale a carattere non coniugale e dei matrimoni legali tra
persone dello stesso sesso».
Richieste di analogo tenore sono state formulate anche
nella Risoluzione sulla situazione dei diritti fondamentali nell’Unione
europea, approvata dal Parlamento europeo il 4 settembre 2003. Con essa, il
Parlamento europeo ha auspicato la legittimazione, all’interno degli Stati
membri, dei rapporti di coniugio e dell’adozione, anche se richiesti da nuclei
familiari composti da persone dello stesso sesso.
Ancora, si potrà menzionare l’art. 56 della
Risoluzione del Parlamento europeo del 16 marzo 2000, in tema di rispetto dei
diritti umani nell’Unione, volto a garantire alle coppie non sposate ed a
quelle omosessuali i medesimi diritti rispetto alle coppie ed alle famiglie
tradizionali, in particolare in materia di legislazione fiscale, regime
patrimoniale e diritti sociali. In tale atto il Parlamento europeo aveva
indicato la necessità di compiere rapidi progressi nell’ambito del
riconoscimento delle varie forme di convivenza legale a carattere non coniugale
e dei matrimoni legali tra persone del medesimo sesso. Si potrà poi anche
citare la Direttiva 2004/38/CE che, in materia di ricongiungimenti familiari,
ha stabilito che il cittadino europeo che prenda la residenza in un altro Stato
membro, possa riunirsi al coniuge ma anche al partner con cui ha registrato l’unione nello Stato di provenienza,
purché riconosciuta equivalente al matrimonio dallo Stato ospitante.
Si tratta di interventi in tema di disciplina delle
unioni di fatto che il Parlamento europeo fa rientrare nell’ambito della
generale tutela dei diritti umani, essendo la normativa del diritto di famiglia
riservata alla competenza esclusiva dei singoli Stati membri, e costituendo una
materia incisivamente sottoposta ed influenzata da valori, cultura e tradizioni
propri di una nazione. Le iniziative del Parlamento europeo, pur incoraggiando
l’adozione di strumenti atti ad eliminare le discriminazioni esistenti, non
hanno indicato il matrimonio omosessuale quale unica forma di tutela, lasciando
gli Stati membri liberi di scegliere un altro strumento giuridico equivalente.
Il legislatore europeo ha peraltro rivolto nel 2008 un
ulteriore invito alla Commissione perché intervenisse al fine di eliminare gli
ostacoli frapposti al matrimonio omosessuale o ad un istituto giuridico
equivalente, garantendo pienamente diritti e vantaggi del matrimonio e
consentendo la registrazione delle unioni, a modificare dunque i propri ordinamenti
in modo da introdurre la convivenza registrata e riconoscere giuridicamente le
unioni di fatto, senza discriminazioni basate sul sesso [19].
Successivamente, con la Risoluzione del 14 gennaio
2009 in tema di diritti fondamentali nell’Unione europea, il detto Parlamento
ha nuovamente sollecitato gli Stati membri – che non abbiano ancora operato in
tal senso – ad adottare normative di legge al fine di eliminare le
discriminazioni cui sono soggette determinate coppie in ragione del proprio
orientamento sessuale, esortando la Commissione a formulare proposte che
assicurino il principio del riconoscimento giuridico delle coppie omosessuali –
siano esse sposate o legate da una unione civile registrata.
In tempi ancora più recenti lo stesso Parlamento ha adottato
una risoluzione, in data 13 marzo 2012, sulla parità tra donne e uomini
nell’Unione europea, in cui lo stesso organo «si rammarica dell’adozione da
parte di alcuni Stati membri di definizioni restrittive di “famiglia” con lo
scopo di negare la tutela giuridica alle coppie dello stesso sesso e ai loro
figli; ricorda che il diritto dell’UE viene applicato senza discriminazione
sulla base di sesso o orientamento sessuale, in conformità della Carta dei
diritti fondamentali dell’Unione europea». Sono stati approvati inoltre i
passaggi del rapporto in cui si chiede alla Commissione di elaborare proposte
per il riconoscimento reciproco delle unioni omosessuali tra gli stati membri
che già le ammettono «al fine di garantire un trattamento equo per quanto concerne
il lavoro, la libera circolazione, l’imposizione fiscale e la previdenza
sociale, la protezione dei redditi dei nuclei familiari e la tutela dei
bambini», mentre si chiede al Consiglio europeo di «riaffermare il principio di
uguale trattamento senza distinzione di religione o credo, disabilità, età o
orientamento sessuale» [20].
3. Segue. La posizione
della Corte di giustizia dell’Unione europea sulle unioni omosessuali.
Non vi è dubbio che la Corte di Giustizia dell’Unione
europea abbia manifestato a lungo una notevole cautela nell’estendere ai
conviventi omosessuali i diritti riconosciuti alle coppie eterosessuali
(coniugate o meno). Ad esempio, ancora al finire dello scorso millennio, la
Corte del Lussemburgo affermava che «allo stato attuale del diritto nella
Comunità, le relazioni stabili tra due persone dello stesso sesso non sono
equiparate alle relazioni tra persone coniugate o alle relazioni stabili fuori
del matrimonio tra persone di sesso opposto» [21].
Ma, rispettivamente, dieci e tredici anni dopo il
precedente da ultimo citato, nei casi Maruko
e Römer, può veramente dirsi che
l’atteggiamento della Corte sia venuto a mutare in modo radicale. E ciò già a
partire dal c.d. giudizio di comparazione, cioè dall’individuazione del termine
di paragone alla luce del quale esaminare la situazione della coppia convivente
omosessuale. Nei casi Maruko e Römer, infatti, la Corte di giustizia ha
affermato che tale termine non è costituito necessariamente dagli individui di
pari status (cioè i conviventi more uxorio eterosessuali), bensì dalle
coppie che si trovino in una situazione sostanzialmente analoga e quindi dalle
coppie coniugate eterosessuali, qualora la situazione della coppia dello stesso
sesso appaia, in concreto, assimilabile a quella dell’unione coniugale [22].
È dunque vero che, nei casi in cui si accerti in
concreto che la posizione del partner
dello stesso sesso è analoga a quella del coniuge (pensiamo ai caratteri
individuati dalla giurisprudenza interna per ammettere il risarcimento del
danno patrimoniale da morte del convivente more
uxorio), in applicazione del «metodo Maruko»
occorrerà concludere nel senso dell’esistenza di un trattamento
discriminatorio: costituisce infatti una discriminazione diretta ogni
differenza di trattamento tra situazioni che risultino in concreto assimilabili
[23].
Simili modo, ove si ponga mente al diritto successorio di
abitazione della casa familiare di proprietà del partner defunto che il nostro legislatore riserva al coniuge
superstite (art. 540 cpv. c.c.), il fatto che l’esigenza di tutela della
famiglia «tradizionale» coincida con la protezione dei diritti dei successori
legittimi e legittimari, induce a dubitare della necessarietà dell’esclusione tout court del convivente dal diritto al
mantenimento dell’habitat domestico
ai fini della tutela dei controinteressati stessi. Qualora gli eredi legittimi
manchino, è evidentemente assente qualsiasi esigenza di tutela. Qualora tali
eredi esistano, occorre invece effettuare un bilanciamento tra gli interessi
contrapposti: il riconoscimento al convivente del diritto di abitazione e agli
eredi della nuda proprietà dell’immobile e dei mobili consente probabilmente in
concreto di offrire tutela a entrambe le posizioni.
Il margine di apprezzamento di cui gode lo Stato
italiano in questa materia, inoltre, deve ritenersi sensibilmente ridotto in
virtù del fatto che ai conviventi omosessuali è precluso tout court il matrimonio (e dunque la soddisfazione del requisito
stabilito dalla legge per l’accesso al beneficio) e non esistono strumenti lato sensu negoziali con cui una coppia
non coniugata possa tutelarsi reciprocamente e i cui effetti vadano oltre la
loro relazione privata [24].
4. La famiglia di fatto di fronte alla C.E.D.U. ed
alla Corte di Strasburgo.
La Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti
dell’uomo e delle libertà fondamentali (C.E.D.U.) tutela i diritti derivanti da
rapporti di famiglia, garantendo il diritto di ogni persona al rispetto della
vita privata familiare (art. 8), riconoscendo a uomini e donne il diritto al
matrimonio secondo le leggi nazionali che regolano l’esercizio di tale diritto
(art. 12) e vietando ogni discriminazione fondata sul sesso o su ogni altra
condizione (art. 14) [25].
Specificamente, in tema di diritto al matrimonio, i
giudici di Strasburgo ebbero ad affermare, ormai diversi anni fa, che «the
right to marry guaranteed by Article 12 refers to the traditional marriage
between persons of opposite biological sex. This appears also from the
wording of the Article which makes it clear that article 12 is mainly concerned
to protect marriage as the basis of the family». Con queste parole la Corte negò nel 1986 che l’art. citato fosse
violato dalle disposizioni britanniche che vietavano il matrimonio con un
transessuale [26].
La Corte europea dei diritti dell’uomo ha quindi, in
un primo momento, privilegiato un’interpretazione unitaria delle citate
disposizioni, nel senso cioè di tutela dell’unica forma di vita familiare quale
sarebbe quella fondata sul matrimonio, in ciò sicuramente guidata dalla lettera
dell’art. 12 citato, la cui rubrica recita (solo): «diritto al matrimonio».
Nel corso degli anni successivi, però, la stessa Corte
ha orientato la propria lettura delle norme convenzionali in senso più ampio,
in considerazione della natura della Convenzione quale diritto vivente, che
interpreta in maniera evolutiva le concezioni prevalenti negli Stati
partecipanti. I giudici di Strasburgo hanno, dunque, ritenuto che, alla base
della famiglia di cui all’art. 8, primo comma, della Convenzione, vi sia la
cellula uomo-donna costituente un rapporto coniugale, ma anche un possibile
altro rapporto affettivo, che, pur non essendo riconducibile al matrimonio,
possa condividerne alcuni aspetti essenziali. Conseguentemente vi è stata fatta
rientrare la relazione affettiva costituita da persone di diverso sesso
conviventi more uxorio per un certo
periodo di tempo, ove connotata da un sufficiente carattere di stabilità,
desumibile, ad esempio, dalla coabitazione durevole e dalla nascita di figli,
nonché dalla volontà di costituire una famiglia.
Riguardo l’applicazione del principio di non
discriminazione di cui all’art. 14 della Convenzione, la Corte europea dei
diritti dell’uomo ha adottato un approccio graduale, ponendo l’enfasi, in un primo
tempo, sul fatto che ciascuno Stato partecipante, al fine di evitare la
discriminazione delle coppie omosessuali rispetto a quelle eterosessuali, è
tenuto alla attuazione di misure ragionevolmente proporzionate allo scopo
perseguito in un costante bilanciamento tra interesse pubblico e privato,
trovando, cioè, il giusto equilibrio tra interessi concorrenti dell’individuo e
della società [27].
A questi primi passi hanno fatto seguito prese di
posizione assai più nette, come si dirà a tempo debito [28].
Per il momento potrà iniziarsi a rilevare, con una
parte della dottrina [29], che la situazione attuale della giurisprudenza
europea può essere sintetizzata ricorrendo al concetto di presunzione relativa,
con conseguente inversione dell’onere probatorio. In altri termini, mentre la
presenza di un vincolo matrimoniale è idonea a fondare la presunzione
dell’esistenza di una vita familiare, l’assenza di tale rapporto (o di una
convivenza registrata) determina la presunzione che non esista una vita
familiare e il conseguente onere per i soggetti che invochino il rispetto della
loro vita familiare di provarne l’esistenza. In particolare, secondo la
giurisprudenza di Strasburgo, possono essere indizi dell’esistenza in concreto
di una vita familiare una coabitazione stabile e non transitoria, rapporti
affettivi significativi e duraturi, o la presenza di figli concepiti a seguito
di un progetto procreativo comune [30].
Si può anche rimarcare che, nell’ottica dominante sino
al caso Schalk e Kopf c. Austria, di
cui si dirà tra poco, vi poteva anche essere incertezza relativamente alla
inclusione delle unioni di fatto (sia etero che omosessuali) in un più ampio
concetto di «famiglia» da parte delle norme della Convenzione – avuto riguardo
al fatto che l’art. 12 citato reca nella rubrica il solo riferimento al
matrimonio e nel testo stesso della disposizione il diritto di costituire una
famiglia sembra essere visto come riferibile alla sola famiglia fondata sul
matrimonio. Le cose sono però cambiate con la Carta di Nizza che, come noto, si
esprime in forma diversa. L’art. 9 di tale dichiarazione, invero, reca nella
rubrica il riferimento ad entrambi i diritti (celebrare matrimonio e costituire
una famiglia), mentre nel testo della disposizione si fa chiaramente menzione
di due diritti, che l’interprete è autorizzato a ritenere non necessariamente
coincidenti. Non solo: diversamente dalla Convezione europea, la Carta di Nizza
non contiene nella norma citata alcun riferimento ai concetti di «uomo» e
«donna» [31].
In altre parole, l’avere individuato disgiuntamente i
due distinti diritti – quello di sposarsi e quello di creare una famiglia – è
stato interpretato nel senso di avere inteso assicurare una disciplina alle
famiglie non unite in matrimonio, riconoscendo loro una tutela giuridica [32]. E proprio questo argomento si pone alla base di quel
«dialogo tra carte», di cui si nutre l’attuale giurisprudenza di Strasburgo in
questo settore, sulla quale si avrà modo di riferire a tempo debito:
l’ulteriore evoluzione di tale case law
segna infatti la presenza di interventi sempre più marcati a tutela della
famiglia di fatto etero e omosessuale, come si avrà modo di vedere trattando
tra breve di quest’ultimo specifico argomento [33].
5. La posizione della Corte europea dei diritti dell’uomo
sulle unioni omosessuali.
Fino a non molti anni or sono era sicuramente corretto
affermare [34] che la consolidata giurisprudenza della Corte europea
dei diritti dell’uomo rifiutava di riconoscere l’esistenza di una «vita
familiare» tra persone del medesimo sesso, ritenendo invece sempre applicabile
alle questioni concernenti gli omosessuali l’art. 8 sotto il profilo del
diritto al rispetto della «vita privata» [35]. È però altrettanto innegabile che, nel volgere di
breve tempo, anche a Strasburgo la musica è radicalmente mutata.
Ed invero, a parte il già segnalato revirement sul diritto dei transessuali
al matrimonio [36], il «la» a questo nuovo modo di guardare alla
convivenza omosessuale, sulle rive dell’Ill, era stato dato dal caso Salgueiro da Silva Mouta v Portugal, in
cui la Corte affrontò per la prima volta una controversia concernente un
omosessuale dal punto di vista del rispetto della vita familiare; tuttavia la
pronuncia – su cui si tornerà tra poco – non segna ancora un superamento del
tradizionale approccio della Corte: nel caso di specie infatti si discuteva del
rispetto della vita familiare del ricorrente omosessuale e della figlia avuta
da questi in una precedente relazione eterosessuale [37]. Altro precedente di peso attiene alla vicenda
dell’adozione da parte di single, che
viva però in coppia con un partner
del medesimo sesso [38].
Tali decisioni, come previsto, tra gli altri da chi
scrive [39], hanno segnato una vistosa svolta, che ha portato la
Corte europea a includere «l’orientamento sessuale» tra le ragioni che non
possono di per sé determinare una differenza di trattamento ai sensi dell’art.
14 [40], essendo le differenze di trattamento fondate
sull’orientamento sessuale conformi alla Convenzione, solo se se ne dimostra la
necessità per il perseguimento di un fine legittimo [41].
E dunque, mentre già nel 2003, nel caso Karner v Austria, lo Stato convenuto era
stato condannato per violazione degli artt. 8 (che garantisce tra l’altro il
rispetto al proprio «domicilio») e 14 della Convenzione, poiché non aveva
dimostrato che l’esclusione dei conviventi more
uxorio omosessuali dalla successione di diritto nel contratto di locazione
dopo la morte del convivente conduttore fosse «necessaria» per raggiungere il
fine legittimo della «protezione della famiglia intesa in senso tradizionale» [42], nella successiva pronuncia Schalk e Kopf c. Austria, emanata nel 2010, la Corte di Strasburgo
ha affermato che l’esclusione delle coppie omosessuali dal matrimonio non
integra un trattamento discriminatorio contrario alla C.E.D.U., ma ciò solo in
quanto in Austria è oggi riconosciuta la possibilità di registrare la
convivenza, con attribuzione di alcuni diritti e doveri simili, sia pur più
limitati, a quelli coniugali [43].
Nel 2013, poi, la Corte [44] ha condannato nuovamente l’Austria, per aver, questo
stato, frapposto un diniego all’adozione di un minore da parte della convivente
della madre, quando la disciplina regolante le adozioni nel medesimo paese,
prevede la possibilità che coppie di persone eterosessuali, conviventi fra
loro, possano, al contrario, regolarmente adottare. È stato così stabilito che
il diritto all’adozione di un minore, ove dal diritto interno di uno Stato
membro venga riconosciuto anche alle coppie «non coniugate», non può venire
legittimamente escluso per quelle coppie di conviventi del medesimo sesso,
applicando il solo principio discriminatorio della diversità sessuale. In tal
caso lo Stato membro incorre in una violazione del divieto di discriminazione
previsto dall’articolo 14 e del diritto al rispetto della vita privata e
familiare, garantito dall’articolo 8 della Convenzione per la salvaguardia dei
diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali.
In quel medesimo anno, poi, la Corte [45] ha condannato la Grecia per aver escluso le coppie
dello stesso sesso dalle unioni civili. Per Strasburgo, quando uno Stato decide
di inserire nel suo ordinamento una qualsiasi forma di unione civile, non può
escluderne le coppie dello stesso sesso, laddove il medesimo Stato non presenti
«alcuna ragione convincente che possa giustificare tale esclusione» [46].
Ma, per tornare al caso Schalk e Kopf c. Austria, va detto che questa decisione, come non
si è mancato di notare, costituisce prova di un «affascinante “dialogo tra le
Carte”» [47], nell’ambito del quale i giudici di Strasburgo hanno
richiamato proprio l’art. 9 della Carta della U.E. per modificare la propria
interpretazione dell’art. 12 della C.E.D.U., annunciando solennemente che «la
Corte non considererà più che il diritto di sposarsi ai sensi dell’art. 12
debba essere necessariamente limitato al matrimonio tra persone di sesso
opposto» [48].
In motivazione, richiamata la propria pregressa
giurisprudenza per cui le famiglie de
facto sono da ricondurre nella nozione di «vita familiare» e premesso che
«le coppie dello stesso sesso hanno la stessa capacità delle coppie di sesso
diverso di entrare in relazioni stabili e impegnative», i giudici europei hanno
così ritenuto che sarebbe oramai «artificial» mantenere la pregressa distinzione
tra omosessuali ed eterosessuali, annunciando che le relazioni omosessuali non
saranno più comprese soltanto nella nozione di «vita privata», ma nella nozione
di «vita familiare», pure contenuta nell’art. 8 [49].
Correttamente si è ritenuto [50] che proprio il rilievo dato dalla Corte nella
pronuncia in esame al consensus che
si sta progressivamente formando tra gli Stati europei sull’esigenza di
riconoscere alle coppie dello stesso sesso il diritto di formalizzare in
qualche modo la loro unione induce a ritenere che la perdurante mancanza
nell’ordinamento italiano di modalità di formalizzazione delle unioni
omosessuali sarà in un prossimo futuro (se non, ad avviso di chi scrive, già da
ora) da ritenersi in contrasto con l’interpretazione data dalla Corte di Strasburgo
alla C.E.D.U.
Su altro versante, sarà di particolare interesse
verificare nel prossimo periodo gli effetti delle novità normative ed
interpretative nelle materie di competenza dell’Unione europea, con particolare
riguardo alla libertà di circolazione. La questione si pone sia per i
ricongiungimenti familiari sia, più in generale, per i riflessi dell’eventuale
interruzione dello status
matrimoniale (conseguente allo spostamento da un Paese all’altro) sulla stessa
nozione di cittadinanza europea e sulla salvaguardia del principio di non
discriminazione sancito dall’art. 21 della Carta di Nizza e dall’art. 14
C.E.D.U.
I Trattati europei, pur avendo valenza diretta
soltanto nel loro campo di applicazione, agiscono quali potenti strumenti
interpretativi per il giudice nazionale anche nell’applicazione del diritto
statuale [51]: è ragionevole pertanto ritenere che in un futuro
ormai prossimo – tanto più in un contesto europeo che vede progressivamente
ridursi le differenze tra famiglia fondata e famiglia non fondata sul
matrimonio [52] – andrà considerata inaccettabile la posizione di chi
nel nostro arretrato Paese s’ostina a negare che l’unione omosessuale possa dar
luogo ad una famiglia.
Come sarà apparso chiaro dalla lettura dei paragrafi
precedenti, in un tempo nel quale la Corte di Strasburgo si rifiutava ancora di
estendere alle coppie omosessuali i principi attinenti alla legislazione
matrimoniale, con le conseguenti norme «di favore» verso i nubendi, essa aveva
comunque già preso chiaramente posizione in senso contrario all’applicazione di
principi «di sfavore» (e dunque discriminatori) verso genitori omosessuali.
Intendo riferirmi, in primo luogo, alla già citata
sentenza del 21 dicembre 1999, nel caso Salgueiro
da Silva Mouta v. Portugal [53].
Sul punto la Corte europea ha ritenuto che una
decisione della Corte d’appello di Lisbona, la quale aveva negato l’affidamento
della figlia minorenne al padre, motivando sulla base dell’omosessualità di
quest’ultimo e della sua convivenza con un altro uomo, costituisse violazione
degli artt. 8 e 14 della Convenzione [54]. A dire la verità, questa condanna da parte di
Strasburgo, la pronunzia lusitana sembrava veramente «essersela andata a
cercare». La decisione oggetto di contestazione era, invero, ricorsa ad
espressioni quali: «la figlia deve vivere all’interno (…) di una famiglia
tradizionale portoghese», oppure: «qui non è il caso di accertare se
l’omosessualità sia o meno una malattia o se essa sia un orientamento sessuale
verso le persone del medesimo sesso. In entrambi i casi si è in presenza di una
anormalità e un minore non deve crescere all’ombra di situazioni anormali».
Di fronte a questi rilievi la
Corte europea ha avuto partita facile nell’affermare che «ces passages de
l’arrêt litigieux, loin de constituer de simples formules maladroites ou
malheureuses, comme le soutient le Gouvernement, ou de simples obiter dicta, donnent à penser, bien au
contraire, que l’homosexualité du requérant a pesé de manière déterminante dans
la décision finale». Siffatta conclusione
risultava poi confermata dal fatto che la corte d’appello di Lisbona, decidendo
sul diritto di visita del padre, lo aveva messo in guardia dal tenere un
comportamento che consentisse alla minore di comprendere «che suo padre viveva
con un altro uomo in condizioni simili a quelle di due coniugi». La Corte
europea ha quindi stabilito che il giudice portoghese aveva operato una
«distinction dictée par des considérations tenant à l’orientation sexuelle du
requérant, distinction qu’on ne saurait tolérer d’après la Convention», così
negando «l’existence d’un rapport raisonnable de proportionnalité entre les
moyens employés et le but visé» e facendo tra l’altro riferimento al caso Hoffmann v. Austria, nel quale si era
ritenuta la violazione del combinato disposto degli artt. 8 e 14 della
Convenzione da parte di una decisione della Corte Suprema austriaca, che aveva
ritenuto rilevanti nella decisione sull’affidamento di un minore considerazioni
di tipo religioso (nella specie, l’appartenenza della madre ai Testimoni di
Geova).
Sarà interessante notare, poi, che il riscontro della
medesima violazione dell’art. 14 cit., «combiné avec l’article 8» si pone alla
base del successivo arresto del 22 gennaio 2008, con il quale i giudici di
Strasburgo hanno condannato la Francia nel caso E.B. v. France, dichiarando contrario alla Convenzione il diniego
dell’idoneità all’adozione deciso dalle autorità di uno Stato membro che
consente per legge al singolo di adottare, qualora tale diniego sia motivato
con la mancanza di un riferimento genitoriale del sesso opposto a quello
dell’aspirante genitore adottivo celibe o nubile [55].
Tale ultima decisione costituisce un’importante
novità, atteso che, nel precedente caso Fretté
v. France [56], la medesima Corte europea dei diritti dell’uomo
aveva ritenuto, con una maggioranza di soli quattro voti contro tre, che il
rifiuto al ricorrente dell’idoneità all’adozione non integrasse un trattamento
ingiustificatamente discriminatorio poiché, sebbene l’esclusione fosse avvenuta
a causa della sua omosessualità, tale trattamento differenziato perseguiva il
fine legittimo di proteggere il benessere e i diritti dei minori adottandi e
non eccedeva il margine di apprezzamento da riconoscere agli Stati contraenti,
in assenza di un orientamento comune tra gli ordinamenti giuridici europei e
anche all’interno della comunità scientifica in questa materia.
Quando venne pubblicata la decisione nel caso Fretté v. France si rilevò in dottrina
che le differenze tra tale affaire,
giunta a decisione nel 2002 e quella E.B.
v. France, del 2008, non erano tali «da giustificare di per sé una decisione
opposta» [57]. Espressi il mio apprezzamento per quel giudizio,
ritenendo però personalmente erronea la decisione del caso Fretté e non certo quella del caso E.B. Sul tema, se la decisione del 2008 costituisse o meno un
avallo della Corte europea all’omogenitorialità, si aprì così un dibattito. A
chi forniva a tale interrogativo una risposta senz’altro negativa [58] obiettai [59] che, pur non arrivando da Strasburgo alcuna
affermazione positiva sul diritto di un omosessuale, in quanto partner del genitore biologico, ad
adottare il figlio dell’altro, in forza del rapporto di convivenza
(formalizzata o meno) con quest’ultimo, emergeva comunque – in forza del
«combinato disposto» delle sentenze Salgueiro
da Silva Mouta ed E.B. – un
chiaro monito circa la non rispondenza ai principi della Convenzione europea di
pratiche discriminatorie che trovino la propria «giustificazione»
nell’orientamento sessuale del genitore (attuale o «potenziale» che sia).
In una battuta, il messaggio che arrivava dalla Corte
di Strasburgo, se non poteva ancora ricondursi ad una affirmative action in favore dell’omogenitorialità, conteneva pur
sempre un chiaro e netto fin de non
recevoir opposto ad ogni tentativo di considerare l’omosessualità e il
desiderio di omogenitorialità come ragione di trattamento deteriore. Dunque, in
questi termini, ed in questi limiti, parlare di «riconoscimento» e di «avallo»
(nel senso, per l’appunto, di accoglimento di rilevanti istanze di pari
trattamento), da parte della Corte europea, del fenomeno dell’omogenitorialità
non sembrava poi così fuori luogo [60].
La successiva evoluzione della giurisprudenza fiorita
in riva all’Ill ha pienamente confermato quest’ottica.
Ed invero, superata la parziale ed in realtà solo apparente
«battuta d’arresto» costituita dal caso Gas
e Dubois [61], la marcia della Corte verso il riconoscimento dei
diritti delle coppie omosessuali all’adozione è proseguita con il già ricordato
caso X e altri c. Austria. Qui la
Corte [62] ha condannato nuovamente l’Austria, per aver, questo
Stato, frapposto un diniego all’adozione di un minore da parte della convivente
della madre, quando la disciplina regolante le adozioni nel medesimo Paese,
prevede la possibilità che, nell’ambito di convivenze eterosessuali, il
convivente del genitore possa, al contrario, regolarmente adottare il figlio di
quest’ultimo. È stato così stabilito che il diritto all’adozione di un minore
ove dal diritto interno di uno Stato membro, venga riconosciuto anche alle
coppie «non coniugate», non può venire legittimamente escluso per quelle coppie
di conviventi del medesimo sesso, applicando il solo principio discriminatorio
della diversità sessuale.
In motivazione, una volta ribadito (come già nel caso Schalk e Kopf c. Austria) che la
relazione fra persone dello stesso sesso fruisce della tutela apprestata
dall’art. 8 C.E.D.U. alla vita familiare, la Corte ha inquadrato la vicenda
concreta, caratterizzata da una stabile coppia dello stesso sesso, al cui
interno vive un minore figlio di uno dei partner,
alla cui cura provvedono entrambi i conviventi (cfr. il punto 96 della
motivazione). Da segnalare la decisione anche per la precisazione che la stessa
apporta (cfr. il punto 100 della motivazione) sulle tre diverse ipotesi che possono
venire in gioco quando si discute di adozione di persone dello stesso sesso,
vale a dire: a) adozione da parte di un single
(convivente con persona del medesimo sesso); b) adozione del figlio da parte
del partner omosessuale del genitore;
c) adozione di un figlio (di terzi) da parte di una coppia omosessuale.
Ciò chiarito, la Corte spiega perché la decisione non
è in contrasto con la precedente Gas e
Dubois c. Francia. Mentre, infatti, nel caso Fretté, la questione atteneva ad una donna che si era vista
rifiutare l’adozione da single di un
minore, perché essa conviveva con un’altra donna, nel caso Gas e Dubois il problema era quello dell’impossibilità per la
convivente gay di adottare il figlio
biologico della partner. Possibilità
che la legislazione francese prevede solo per la coppia coniugata (e non per
quella pacsée). Poiché all’epoca non
era consentito il matrimonio alle coppie omosessuali, si veniva a porre una
questione di raffronto tra coppia coniugata eterosessuale e coppia convivente
omosessuale (legata, nella specie, da quel rapporto di PACS, che impedisce,
tanto alle coppie omosessuali, come a quelle eterosessuali, di adottare). Ecco dunque perché, in
quell’occasione, «Observant que les Etats contractants n’étaient pas tenus
d’ouvrir le mariage aux couples homosexuels et que le mariage conférait un
statut particulier à ceux s’y engageant», la Corte aveva deciso «que les
requérantes ne se trouvaient pas dans une situation juridique comparable à
celle des couples mariés (ibidem, §
68). Relevant que l’adoption coparentale n’était pas non plus ouverte aux
couples hétérosexuels non mariés qui, comme les requérantes, avaient conclu un
PACS (ibidem, § 69), la Cour a conclu
à l’absence de différence de traitement fondée sur l’orientation sexuelle et à
la non-violation de l’article 14 de la Convention combiné avec l’article 8».
Poiché, dunque, la Corte parte dal presupposto che gli
Stati non siano obbligati a porre a disposizione delle coppie omosessuali
l’istituto matrimoniale (purché – Schalk
e Kopf docet – per lo meno un qualche altro istituto «succedaneo» sia
presente), non si può porre un problema di discriminazione tra coppie coniugate
eterosessuali e coppie conviventi omosessuali, bensì tra coppie conviventi
eterosessuali e coppie conviventi omosessuali. Ben diverso, dunque, il caso X e altri c. Austria, in cui la
legislazione austriaca è stata ritenuta in contrasto con la Convenzione, per il
fatto di consentire l’adozione del figlio del partner eterosessuale, ma non di quello omosessuale.
Passando all’esame della situazione italiana sul punto
qui in discussione, va ricordato che, in base ai principi sanciti un tempo
dagli artt. 155 ss. c.c. (così come risultanti dalla già ricordata riforma
sull’affidamento condiviso), e, successivamente alla riforma della filiazione,
dagli artt. 337-bis ss. c.c.,
l’affidamento ad un solo genitore è previsto alla stregua di una situazione eccezionale
e postula un giudizio non solo di «valore» nei riguardi dell’affidatario, bensì
anche un corrispondente giudizio di «disvalore» (beninteso non in termini
assoluti, bensì in relazione alle capacità educative ed al possesso delle
qualità tali da rendere quel soggetto idonea figura genitoriale di riferimento)
nei confronti del non affidatario [63]. Ma è chiaro che, nell’ambito di tali giudizi, nessun
rilievo può giocare la considerazione dell’orientamento sessuale del genitore,
sia esso o meno accompagnato da una situazione di convivenza con un partner del medesimo sesso.
Diverse sono ormai le decisioni italiane che si
collocano sulla linea tracciata dalla sentenza della Corte di Strasburgo nel
caso Salgueiro da Silva Mouta (di cui
si è detto nel § precedente) e quanto mai lontani appaiono i tempi in cui, ad
esempio, un genitore poteva essere escluso dall’affidamento perché ateo [64].
Così, nel 2006 il tribunale di Napoli [65] ha preso chiaramente posizione in favore
dell’idoneità di un genitore omosessuale ad essere affidatario della prole
minorenne, utilizzando espressioni assai decise e che non hanno mancato di
suscitare reazioni (ingiustificatamente) perplesse di una parte della dottrina [66]. Come è dato leggere nella motivazione della
decisione partenopea, «L’atteggiamento di ostilità, più o meno velata, nei
confronti dell’omosessualità, nel settore in oggetto, è ormai frutto di meri
stereotipi pseudoculturali, espressione di moralismo e non di principi etici
condivisi, privi peraltro di un fondamento normativo. Soprattutto non vi è, né
può esservi, alla base di siffatta prevenzione, alcun fondamento normativo (ed
è appena il caso di ricordare che in altri ordinamenti, anche nell’ambito
dell’Unione europea, è ormai riconosciuto lo stesso matrimonio omosessuale)».
Di contro, prosegue la citata sentenza, l’art 3 Cost. «protegge l’individuo da
qualunque discriminazione legata all’orientamento sessuale; cfr. anche gli
artt. 8 e 14 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo e delle libertà
fondamentali e l’art. 21 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione
europea, nonché la Risoluzione del Parlamento europeo dell’8 febbraio 1994
sulla parità di diritti per gli omosessuali nella Comunità».
Sempre ad avviso dei giudici napoletani, «Va anzi
ribadito che siffatta neutralità della condizione e delle relazioni omosessuali
di un genitore si pone in termini di ben maggior forza rispetto alle
condizioni-condotte “borderline”, se non francamente illecite o “a rischio”,
sopra esaminate, e che pure di per sé non ostano al riconoscimento
dell’idoneità genitoriale e all’affidamento. L’omosessualità, infatti, e
beninteso, è una condizione personale, e non certo una patologia, così come le
condotte-relazioni omosessuali non presentano, di per sé, alcun fattore di
rischio o di disvalore giuridico rispetto a quelle eterosessuali.
L’omosessualità del genitore si pone – ai fini che qui interessano – in termini
non diversi dalle opzioni politiche, culturali e religiose, che pure sono di
per sé irrilevanti ai fini dell’affidamento. Ciò è tanto più vero con
riferimento a contesti socio-culturali elevati, quale è quello delle parti, in
cui le antiche prevenzioni verso l’omosessualità dovrebbero essere superate».
Beninteso, la relazione omosessuale del genitore potrà
in concreto, vale a dire in casi specifici, fondare un giudizio negativo
sull’affidamento o sull’idoneità genitoriale solo allorquando sia posta in
essere con modalità pericolose per l’equilibrato sviluppo psico-fisico del
minore. Tanto, però, può affermarsi anche per una relazione eterosessuale. A
tal proposito il tribunale di Napoli richiama opportunamente alcuni precedenti
giurisprudenziali, in cui la relazione extraconiugale (eterosessuale) del
genitore è stata valutata negativamente quanto alle conseguenze sulla prole [67].
Proprio questi rilievi consentono, a mio avviso, di
superare le preoccupazioni espresse in dottrina da chi teme che la discussione
sui temi in esame «rischi talvolta di trasformare i minori in un mezzo per la
promozione dei diritti degli adulti
omosessuali» [68]. In realtà, è più che evidente che la sacrosanta
rivendicazione di una parità di trattamento tra genitori (etero- o omosessuali
che siano) e di una perfetta indifferenza, sul piano delle caratteristiche
della genitorialità, dell’orientamento sessuale delle figure parentali, non può
attentare all’altrettanto sacrosanta affermazione del principio di assoluta primauté della tutela dell’interesse dei
minori coinvolti, ponendosi, anzi, quale strumento per un’effettiva
realizzazione, nel caso concreto, di questa tutela [69].
Una successiva decisione di merito del tribunale di
Bologna [70] ha deciso che la condizione omosessuale di uno dei
genitori non giustifica e non consente di motivare la scelta restrittiva
dell’affidamento esclusivo all’altro. Nella specie, dopo otto anni di
matrimonio e la separazione consensuale, avvenuta nel 2006 perché il marito si
era scoperto gay, la bambina era
stata affidata alla madre, con la facoltà per il padre di vederla quando lo
desiderava, previo accordo. Allorquando il padre propose di portare la figlia
in vacanza sull’isola di Samos, in Grecia, la madre si oppose, affermando che
quella località sarebbe «notoriamente frequentata quasi esclusivamente da
omosessuali» (sic) [71], con la conseguenza che la figlia avrebbe potuto scoprire
«l’omosessualità del padre senza una graduale e adeguata preparazione». Da qui
la decisione del padre di chiedere l’affido condiviso, poi concesso dal
tribunale. Per il tribunale felsineo, «non vi è alcuna prova che l’isola di
Samos costituisca meta privilegiata del turismo omosessuale» e comunque «il
Tribunale non ha motivo – in assenza di pregiudizio per la figlia – di imporre
al padre una località di vacanza diversa da quella prescelta».
Il caso deciso dal Tribunale di Bologna presenta la
peculiarità della richiesta della modificazione dell’affidamento della bambina:
da esclusivo alla madre a condiviso insieme al genitore omosessuale.
Applicando le norme sull’affidamento condiviso al caso
in questione, i giudici bolognesi hanno evidenziato come l’omosessualità del
genitore non sia un elemento ostativo al raggiungimento degli obiettivi della
riforma. Infatti, per derogare alla regola dell’affidamento condiviso, occorre,
secondo quanto del resto stabilito anche dai supremi giudici di legittimità, «che
risulti nei confronti di uno dei genitori una sua condizione di manifesta
carenza o inidoneità educativa o comunque tale da rendere quell’affidamento in
concreto pregiudizievole per il minore» [72]. L’orientamento sessuale, dunque, non è
ricollegabile, di per sé, a condizione di carenza o inidoneità educativa,
mentre nel caso concreto, i giudici di merito hanno verificato la presenza di
interesse del genitore nei confronti della figlia [73], nonostante la difficile comunicazione tra i
genitori.
Poiché unico criterio che deve orientare la
valutazione giudiziale è quello rappresentato dal best interest del minore, anche riguardo alla sfera delle scelte
personali e più intime del genitore – al pari di altri aspetti, legati alle
opzioni politiche, culturali o religiose – deve affermarsi la rigorosa
neutralità del giudice rispetto agli opposti sistemi di valori cui si ispiri la
condotta educativa dei genitori, con l’ovvio limite costituito dal pregiudizio
per la persona del figlio (artt. 330 e 333 c.c.) [74].
Come dimostrato dalla breve rassegna qui presentata,
ma anche dalla compulsazione degli organi di stampa, casi del genere sono nella
pratica tutt’altro che infrequenti [75].
La stessa Cassazione ha avuto modo di proclamare, nel
2013, che l’asserita dannosità dell’inserimento di un minore, in sede di
separazione dei genitori, nel nuovo nucleo di uno di questi, costituito da una
coppia omosessuale, «va dimostrata in concreto e non può essere fondata sul
mero pregiudizio» [76].
Tema in qualche modo legato a quello qui in esame è
quello dell’affido temporaneo, in relazione al quale la giurisprudenza comincia
a correttamente interpretare il concetto di «famiglia affidataria» come
inclusivo della convivenza omosessuale, posto che lo stesso legislatore fa
riferimento ad una famiglia, con o senza figli minori, ma anche ad una «persona
singola» (art. 2, punto 1, l. 149/2001), o ad una «comunità di tipo familiare»
(art. 2, punto 2, l. 149/2001), purché in grado di assicurare al minore il
mantenimento, l’educazione, l’istruzione e le relazioni affettive di cui ha
bisogno [77]. Inutile dire che, anche alla luce delle affermazioni
della motivazione della decisione Schalk
e Kopf, più volte ricordata, un’interpretazione «europeamente» orientata dovrebbe
condurre alle stesse conclusioni, anche se, in ipotesi, la norma si limitasse a
parlare, tout court, di «famiglia».
8. Il rilievo delle «accuse» di omosessualità mosse da
un genitore all’altro.
Per altro verso, rispetto al profilo esaminato nei §§
precedenti, le «accuse» [78] di omosessualità rivolte da un genitore all’altro, al
fine di sollecitare interventi giurisdizionali restrittivi dell’esercizio dei
diritti inerenti alla posizione genitoriale (sul piano, cioè, dell’affidamento,
del collocamento della prole, dei diritti di visita, ecc.), non solo non
risultano essere state prese in considerazione ai fini dell’imposizione di
misure limitative nei confronti del genitore «accusato», bensì, tutto al
contrario, sono state talora valutate come elemento idoneo, in concorso con
altri, a determinare provvedimenti negativi nei confronti del genitore
«accusatore».
Sul punto è intervenuta la Cassazione [79], in relazione ad un caso in cui a sostegno della
propria richiesta di affidamento esclusivo (e, in subordine, di quello
condiviso), il padre aveva allegato l’inidoneità educativa della moglie, sul
presupposto di una pretesa relazione omosessuale dalla stessa intrattenuta con
un’amica. La richiesta del marito non ha però trovato accoglimento, in ragione
della assoluta infondatezza e del difetto di prova circa l’asserita relazione
intima della donna. Ma le meditate e assai condivisibili argomentazioni del
giudice del merito – corredate dai richiami all’art. 3 Cost., agli artt. 8 e 14
della Convenzione europea dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali
nonché all’art. 21 della Carta dei diritti fondamentali dell’UE – inducono a
ritenere che l’esito del giudizio non sarebbe stato diverso, ove quella
relazione fosse stata adeguatamente e compiutamente dimostrata [80].
Nella fattispecie, il padre è risultato di per sé
(ovvero: senza che la conflittualità fra i genitori abbia interferito sulla
decisione di affidamento esclusivo), inidoneo alla condivisione dell’esercizio della
responsabilità genitoriale in termini compatibili con la tutela dell’interesse
primario del minore. La Cassazione ha infatti avallato il ragionamento seguito
dalla decisione d’appello, fondato sul «comportamento gravemente screditatorio
[da parte del padre] della capacità educativa della madre, adottato dal marito
con non provate accuse anche di sue relazioni omosessuali». Tale atteggiamento
è stato ritenuto fonte «di oggettiva inidoneità del padre alla condivisione
dell’esercizio della responsabilità genitoriale in termini compatibili con la
tutela dell’interesse primario del minore, mentre la madre aveva mostrato,
invece, disponibilità a favorire rapporti tra il padre e il figlio che allo
stato appare sereno e ben integrato scolasticamente».
Il principio risulta tanto più condivisibile, ove si
ponga mente al fatto che, secondo quanto dimostrato dalla prassi, nei casi di
alto tasso di conflittualità tra i genitori, la condizione di omosessualità di
uno dei partners è sempre invocata
dall’altro come fattore idoneo a perturbare l’equilibrio psicofisico del minore
e dunque tale da giustificare l’affidamento esclusivo al genitore eterosessuale
[81].
Sulla stessa linea della Cassazione si pone un decreto
del Tribunale per i Minorenni di Catanzaro, per effetto del quale un minore è
stato affidato esclusivamente alla madre, in quanto il padre, pregiudicato ed
alcolista, non avrebbe costituito un modello educativo per il figlio, non solo
per la condanna per omicidio volontario, ma anche per aver più volte dimostrato
atteggiamenti discriminatori e razzisti contro omosessuali e drogati [82].
9. Crisi della coppia omosessuale e conseguenze per la
prole: impostazione del problema.
Si tratta ora di esaminare il punto – sopra
individuato [83] sub (b) –
concernente le conseguenze per la prole della fine un rapporto di coppia
omosessuale, nel corso del quale (nei modi più vari) fosse sorto un rapporto di
filiazione, o si fosse sviluppato un rapporto privilegiato tra il/la compagno/a
e il figlio dell’altro/a.
Al riguardo dovrà subito dirsi che un rapporto di
filiazione bilaterale rispetto ad entrambi i membri della coppia omosessuale
potrebbe darsi soltanto qualora si trattasse di prole adottiva di entrambi, ciò
che, come noto, la nostra legge non consente se non ad una coppia coniugata.
Un’altra ipotetica alternativa sarebbe quella data dalla presenza di una prole
biologica di uno dei partners (prole,
ovviamente, vuoi generata da precedente unione matrimoniale, vuoi al di fuori
di questa, e dunque riconosciuta o dichiarata), successivamente adottata
dall’altro; ciò sempre a condizione, beninteso, che la creazione di questo
secondo vincolo non avesse «cancellato» il preesistente rapporto, ma vi avesse
aggiunto, per così dire, il secondo al primo, come avviene, ad es., in base all’art.
44, lett. b), l. n. 184 del 1983: cosa che, peraltro, è da noi consentita
soltanto al coniuge e pertanto non al convivente, tanto dell’opposto, come del
medesimo sesso, del genitore [84].
Le uniche adozioni, in relazione ad un minore
abbandonato, da parte di un single
ammesse oggi dal nostro ordinamento sono quella che ha luogo successivamente
alla separazione personale tra i coniugi aspiranti adottanti nel corso
dell’affidamento preadottivo (art. 25, quinto comma, l. n. 184/1983) [85] e quella dell’adozione pronunciata in un Paese
straniero che consente ai singoli l’adozione, a istanza di un cittadino
italiano, il quale dimostri al momento della pronuncia di aver soggiornato
continuativamente e risieduto da almeno due anni in tale Paese, ai sensi
dell’art. 36, comma quarto, l. n. 184/1983 [86]. A favore del singolo possono inoltre essere
pronunciate, come detto, le adozioni in casi particolari di cui all’art. 44, l.
n. 184/1983.
Ben diversa la situazione in svariati altri Paesi,
anche europei, i quali consentono l’adozione del figlio biologico o adottivo
del partner indipendentemente
dall’orientamento sessuale [87]. Altri sistemi ammettono l’esercizio condiviso della
responsabilità genitoriale tra i partners.
Così, ad esempio, in Francia la l. 4 marzo 2002, n. 2002-305, relativa
all’autorità parentale, consente al genitore la delega a terzi di parte o tutta
la responsabilità genitoriale [88]. Proprio tale istituto – che per la coppia
omosessuale, ormai ammessa Oltralpe al matrimonio, ha perso parte del proprio
rilievo – ha ricevuto applicazione in taluni casi di omogenitorialità: così, ad
esempio, la Corte d’appello di Montpellier ha confermato una decisione di primo
grado, in relazione alla posizione di due fratelli minorenni, figli biologici
di genitori entrambi omosessuali, concepiti «dans le cadre du projet d’enfant»
della madre con la sua convivente. Dopo la morte della madre biologica i figli
avevano continuato a vivere con la ex convivente di questa, sulla base di un
documento redatto dalla madre tre anni prima di morire, nel quale la stessa
aveva espresso «sa volonté de voir ses enfants confiés en cas de décès à
Mademoiselle Valérie F...[la convivente, per l’appunto, della madre
biologica]». In proposito la Corte d’appello ha rilevato che sebbene tale lettre d’intention della madre non fosse
stata «enregistrée devant un notaire, elle constitue néanmoins un élément
devant être pris en considération», unitamente all’accordo del padre biologico,
unico titolare della responsabilità genitoriale, a seguito del decesso della
madre. Da tali premesse ne ha derivato la validità di una delega parziale «des
droits de l’autorité parentale des droits de Monsieur A... à l’égard des
enfants Hugo et Adrien», così respingendo la domanda dei nonni materni dei due
ragazzi, che si opponevano a che costoro vivessero con la ex convivente della
madre dei minori [89].
Similmente, in Germania, nel 2009, il Bundesverfassungsgericht (Corte
costituzionale) ha riaffermato che le persone omosessuali hanno il diritto di
adottare la prole (biologica) del partner,
rigettando la questione di costituzionalità sollevata da un tribunale sulla
legge che consente tale tipo di adozione. La Corte ha spiegato che la
genitorialità sociale deve essere considerata alla stregua di quella biologica [90]. Con una storica decisione del 2013, poi, la stessa
Corte ha stabilito che il divieto di «adozione successiva» del figlio adottivo
del partner omosessuale viola
l’interesse del minore, così come il diritto all’uguaglianza del convivente [91].
Si desume, quindi, che il ruolo sociale ed affettivo
del partner stabile del genitore
costituisce la ratio alla quale fare
riferimento, e dà diritto ad un riconoscimento formale nell’ordinamento
tedesco. In Germania, quindi, l’ipotesi di bi-genitorialità omosessuale (con
conseguente responsabilità genitoriale esercitata da entrambi i partner) viene ammessa in quanto si
riconosce espressamente che il compagno omosessuale o eterosessuale del
genitore biologico può effettivamente affiancarsi a quello dello stesso, previo
accertamento dell’interesse del minore.
E’ chiaro, quindi, per tornare all’Italia, che,
nell’ipotesi (fantagiuridica, per quanto attiene al sistema italiano,
nonostante diverse e rilevanti esperienze straniere stiano a dimostrare
l’arretratezza del nostro Belpaese) di previsione di matrimonio tra persone del
medesimo sesso, ovvero di predisposizione di forme di adozione di minori aperte
alle coppie del medesimo sesso, il caso qui appena descritto verrebbe a
ricadere, in tutto e per tutto, sotto le regole che presiedono alla
responsabilità genitoriale fuori e dentro la crisi del rapporto di coppia
(coniugata o meno), con integrale applicazione dei principi scolpiti agli artt.
316 ss., 337-bis ss. c.c. Si potrebbe
allora parlare a pieno titolo di «bigenitorialità omosessuale».
Così non stando le cose, è comunque innegabile che un
rapporto di «genitorialità de facto»
della coppia omosessuale possa darsi: basti pensare al caso dell’unico genitore
biologico (o adottivo, o al genitore biologico o adottivo affidatario a seguito
di allentamento o scioglimento di un precedente legame di coppia eterosessuale)
che inizi uno stabile rapporto di coppia con una persona del medesimo sesso, la
quale di fatto venga ad assumere, agli occhi della prole, un ruolo
«co-genitoriale» (si usa al riguardo talora il termine «genitore intenzionale»,
o di «genitore sociale», proprio per designare il convivente del genitore
biologico e/o legale). Il tutto con l’ulteriore particolarità costituita dalla
circostanza che il minore in questione (il quale ha il sacrosanto diritto di
infischiarsi delle etichette che i giuristi possono voler appiccicare alla
situazione in esame) ben può aver sviluppato un rapporto affettivo verso
entrambi i partners omosessuali,
assolutamente identico a quello che i suoi coetanei nutrono verso i propri
genitori (biologici o adottivi) eterosessuali.
Prima di passare ad esaminare quali strumenti possano
essere utilizzati a beneficio della coppia «sociale» di genitori omosessuali,
sarà il caso di ricordare che proprio siffatta situazione è, oggi come oggi,
l’unica in grado di portare ad una situazione che non saprei definire se non
come «coppia omogenitoriale (legale) differita», nell’ipotesi in cui, cioè, il
minore, figlio di uno dei due conviventi e orfano dell’altro genitore biologico,
venga a trovarsi orfano anche del genitore biologico, convivente con altra
persona del medesimo sesso. In tal caso, quest’ultimo soggetto potrebbe essere
considerato alla stregua di quella persona unita al minore «da preesistente
rapporto stabile e duraturo», ai sensi dell’art. 44, lett. a), l. n. 184/1983 [92]. E’ chiaro che il figlio non sarebbe «figlio della
coppia omosessuale», perché il presupposto di questa adozione è, per l’appunto,
il decesso del genitore biologico, ciò che comporta la fine della coppia: una
filiazione bilaterale verrebbe però comunque a crearsi, sebbene in siffatta
forma «differita».
La regola potrebbe valere, almeno in astratto, anche
nella seguente (e, a dire il vero, piuttosto scolastica) ipotesi: A, figlio
minore di B, viene adottato ai sensi dell’art. 44, lett. a), cit. da C, coniuge
di B. Dopo la morte di B, C convive con il partner
dello stesso sesso D. Muore quindi C e D adotta A, sempre ai sensi della citata
disposizione, la quale non distingue a seconda che la situazione di «orfano»
del minore sia determinata dalla perdita dei genitori biologici, ovvero di
quelli adottivi. Inutile dire che tale ipotesi presuppone la lettura meno
rigorosa di quell’art. 294 c.c. che, richiamato dall’art. 55, l. n. 184/1983,
limita l’adozione da parte di più soggetti al caso in cui i due adottanti siano
coniugati. Secondo parte della dottrina, invero [93], il divieto citato non opererebbe proprio nel caso in
cui la nuova adozione intervenisse dopo la morte del primo adottante, qualora
la nuova adozione fosse conveniente per l’adottando.
Il problema è che la crisi della coppia omosessuale,
in assenza di un idoneo quadro normativo (rectius:
in assenza di un quadro normativo tout
court), rischia di essere consegnata a strumenti di tutela (e sovente di
autotutela) incongrui rispetto alla delicatezza richiesta dalla situazione in
cui sono comunque coinvolti minori.
A ben vedere, il problema non appare così grave nelle
ipotesi in cui sussista accordo tra gli ex
partners e questi (come del resto, fortunatamente, sovente accade) siano
dotati di un adeguato grado di maturità e serietà.
Ancora una volta, infatti, esattamente come succede
nel caso della crisi della famiglia fondata sul matrimonio (così come in quella
della coppia convivente eterosessuale), un rilievo decisivo potrà e dovrà
assumere la negozialità. Non è questa la sede per trattare del rilievo che la
concorde volontà delle parti può svolgere, anche con riguardo alle questioni
attinenti alla gestione del rapporto genitoriale [94], fatti salvi, beninteso, i fondamentali canoni della
tutela dell’interesse del minore e della salvaguardia dei principi dettati
dalle norme imperative, dall’ordine pubblico e dal buon costume. Si potrà solo
dire che tutti gli strumenti negoziali a disposizione dei genitori, coniugati o
meno, per la tutela della prole minorenne sono anche utilizzabili nel quadro di
una situazione del genere di quella qui supposta.
Nulla esclude, quindi, che una coppia omosessuale che
intenda separarsi «civilmente» s’accordi pure per i profili attinenti alla
gestione del rapporto con la prole, ancorché si tratti di figli (biologicamente
e/o giuridicamente) di uno solo di essi. Ciò vale innanzi tutto, ad avviso di
chi scrive, per i profili patrimoniali, la cui causa ha natura contrattuale ed
è legata al principio di autonomia riferibile agli artt. 1321 e 1322 c.c., in
una situazione di sicura meritevolezza di protezione da parte dell’ordinamento [95]. Ne deriva che l’assunzione di eventuali impegni ad
effettuazioni di prestazioni pecuniariamente valutabili dovrà ritenersi valida:
dall’obbligo di corrispondere un assegno, all’impegno a contribuire al
mantenimento in natura, all’assunzione del vincolo ad effettuare trasferimenti
di beni, alla messa a disposizione di un’unità abitativa, alla creazione di
vincoli di destinazione nell’interesse della prole, ex art. 2645-ter c.c. [96], alla creazione di un trust [97].
Dal punto di vista della tecnica contrattuale ben
potranno richiamarsi in questa sede modelli, formule e clausole suggerite nel
2013, per iniziativa di chi scrive, dal Consiglio Nazionale del Notariato, con
particolare riguardo alla cura dei figli minori della coppia di fatto [98]. Pur trattandosi, infatti, di minori non ascrivibili
biologicamente e legalmente alla coppia, bensì ad uno solo dei due membri di
essa, va notato come, anche in questo caso, esattamente come avviene
nell’ipotesi dei figli «bilaterali», questi ultimi si pongano, semplicemente,
quali terzi beneficiari delle intese raggiunte tra i membri della coppia in
crisi. In altri termini, non sembra che l’esistenza di obbligazioni legalmente
vincolanti in capo ad uno solo dei genitori impedisca a questi ultimi di
accordarsi nel senso di far assumere a carico (anche o solo) del «genitore
sociale» la posizione di promittente nell’ambito di un contratto a favore di
terzi, che veda il minore quale, appunto, terzo beneficiario, ad instar di quanto avviene, con la
benedizione di dottrina e giurisprudenza unanimi, in relazione ai figli
(«bilaterali») di una qualsiasi coppia in crisi [99].
Potrà qui aggiungersi che attribuzioni, obbligazioni
ed esborsi di provenienza del «genitore de
facto» (cioè del «non-genitore» biologico e/o giuridico, ma considerato
come vero e proprio genitore dal minore) dovrebbero essere rivestiti della
forma solenne, per evitare ogni contestazione legata ad un loro supposto
carattere donativo.
Ma si tratterebbe comunque di un consiglio a fini di
mero tuziorismo. A ben vedere, infatti, l’interprete potrebbe sovente ravvisare
(pur dovendosi modulare la valutazione di volta in volta sulle particolarità
del caso concreto) in questi atti i connotati dell’adempimento di
un’obbligazione naturale. Ben potrebbe dirsi, invero, che, nell’ambito di un
rapporto di omogenitorialità, le relazioni tra i membri di tale famiglia e
l’«affidamento» ingenerato nella prole dalla creazione di un rapporto de facto dotato di (quanto meno
apparente) solidità giustificano l’esistenza di «doveri» rilevanti ai sensi
dell’art. 2034 c.c., non dissimilmente da quanto avviene nel contesto della
procreazione biologica extramatrimoniale non dichiarata né riconosciuta (se non
addirittura non riconoscibile) [100], o dalla convivenza more uxorio nei rapporti tra i partners
[101].
Dalla citata configurazione deriverebbe, come noto,
l’esonero, per le attribuzioni in discorso, dal rispetto delle formalità ex artt. 782 c.c. e 48 l. notar.; ne discenderebbero
inoltre ulteriori, rilevanti, conseguenze d’altro genere. Si pensi alla non applicabilità all’atto di
adempimento di un’obbligazione naturale di istituti che vanno dalla
revocabilità per ingratitudine o per sopravvenienza di figli (artt. 800 ss.
c.c.), alla garanzia per evizione (art. 797 c.c.), all’obbligo di prestare gli
alimenti in caso di bisogno del donante (art. 437 c.c.) [102], a quello di collazione
(artt. 737 ss. c.c.), o di imputazione (art. 564, secondo comma, c.c.) (da notare peraltro che,
con riguardo a questi ultimi due principi, la relativa applicabilità è comunque
legata alla presenza di un rapporto di filiazione «legale» inter partes).
Regole speciali sussistono poi anche sotto il profilo della capacità richiesta
per la validità dell’atto (cfr. artt. 774 ss. c.c.) [103].
Vere e proprie donazioni
potrebbero ravvisarsi forse solo nel caso di attribuzioni dirette al minore
eccedenti i limiti della proporzionalità, così come individuata da dottrina e
giurisprudenza in relazione alle obbligazioni naturali tra conviventi [104], con l’unica, evidente,
differenza costituita dall’utilizzo del «parametro di riferimento» (sub
specie obligationis naturalis, benininteso) rappresentato qui non già
dall’art. 143 c.c., ma dal combinato disposto degli artt. 148 – 316-bis
c.c.
Ma le considerazioni di cui
sopra portano ad ulteriori riflessioni.
Ed invero, se il richiamo
all’art. 2034 c.c. servirebbe a rendere comunque irripetibili le prestazioni
spontaneamente effettuate dal genitore «sociale», non vi è dubbio, ad avviso di
chi scrive, che, in ogni caso, l’eventuale assunzione, da parte di costui, di
obbligazioni civili nel quadro di un contratto a favore di terzi, che lo
vedesse quale promittente (si pensi, ad es., ad un impegno ad effettuare un
trasferimento immobiliare in favore del minore, figlio biologico e/o legale del
compagno/della compagna), non potrebbe essere ritenuta nulla (e, dunque, non
vincolante neppure per le prestazioni future), sol perché non rivestita della
forma solenne prevista per le donazioni. Invero, come stabilito da una
condivisibile giurisprudenza di legittimità [105], «il contratto a favore
del terzo può bensì importare una liberalità a favore del medesimo, ma,
costituendo detta liberalità solo la conseguenza non diretta né principale del
negozio giuridico avente una causa diversa, si tratterebbe sempre di una
donazione indiretta, la quale se pure é sottoposta alle norme di carattere
sostanziale che regolano le donazioni, non sottostà invece alle norme
riguardanti la forma di queste». In altre parole, nella struttura del contratto
a favore di terzi, l’unico elemento causale rilevante appare essere l’interesse
dello stipulante (qui, il genitore biologico o comunque «legale»): interesse
che, secondo la tesi maggioritaria e preferibile, ben può essere anche solo
morale [106].
Ne deriva pertanto che
l’operazione negoziale usualmente ricondotta alla liberalità indiretta non va
ravvisata solo quando – come avviene nel caso «classico» dell’assicurazione
sulla vita a favore del terzo – all’arricchimento del terzo fa riscontro un
impoverimento dello stipulante (e non solo del promittente, posto che, nel caso
citato, lo stipulante versa allo stipulante i relativi premi [107]), così come in tutti
quelli in cui sussiste una precisa causa onerosa nei rapporti tra promittente e
stipulante, ma va individuata anche laddove, come nella specie, il promittente
non sia in alcun modo vincolato giuridicamente verso lo stipulante. Come
rimarcato autorevolmente dal Pacchioni sotto il vigore del codice 1865 ed alla
luce dei precedenti romanistici, «l’obbligazione del promittente di eseguire
una prestazione ad un terzo può avere il suo fondamento o in una prestazione a
lui già eseguita dal promissario (dazione, assunzione di obbligazione,
liberazione), oppure sempicemente nella sua intenzione di donare al terzo» [108]. Il tutto, naturalmente,
sempre a condizione che in una situazione del genere possa ravvisarsi la
presenza di un vero e proprio animus donandi e non già l’intento di
fornire di acconcia sistemazione un più vasto complesso di rapporti
patrimoniali conseguenti alla crisi del rapporto di fatto.
Le conclusioni appena
presentate, infatti, non muterebbero neppure se le prestazioni oggetto
dell’impegno del genitore sociale non apparissero riconducibili allo schema del
contratto a favore di terzi: si pensi, ad es., all’obbligo di corrispondere al
genitore biologico e/o legale un assegno mensile per il mantenimento del
minore. Qui, pur non producendosi un effetto obbligatorio o reale in capo al
terzo beneficiario, ci troviamo pur sempre di fronte ad un contratto atipico,
sicuramente lecito e meritevole di tutela da parte dell’ordinamento giuridico.
Un accordo che, entrando nel complesso delle pattuizioni di un contratto di
convivenza (o di scioglimento del rapporto di convivenza, eterosessuale o
omosessuale che sia), appare dotato di una sua causa tendenzialmente non
gratuita. Pur difettando qui, pertanto, quell’ubi consistam normativo
che nella crisi della coppia legalmente bi-genitoriale è costituito dagli artt.
337-bis ss. c.c., il richiamo al paradigma contrattuale oneroso
consente, ancora una volta, di assicurare nel migliore dei modi le sorti
patrimoniali del minore, anche in una situazione come quella in esame [109].
Per quanto attiene, invece, ai profili personali, è
indiscutibile che il fondamento normativo circa l’ammissibilità di intese sull’affidamento
(condiviso o esclusivo) e sulle relative modalità di gestione del rapporto
genitoriale non appare riferibile al caso in cui la responsabilità genitoriale
risulti giuridicamente in capo ad una sola persona. Sarà opportuno ricordare
che tale fondamento, nel caso di bigenitorialità, matrimoniale o
extramatrimoniale che sia, va riscontrato vuoi nella disciplina in materia di
separazione personale tra coniugi (cfr. art. 711 c.p.c., laddove si fa
riferimento alle «condizioni della separazione consensuale»), vuoi in quella
del divorzio (cfr. art. 4, sedicesimo comma, l.div., laddove si fa riferimento
alle «condizioni inerenti alla prole e ai rapporti economici») [110], vuoi, infine, nell’estensione del riconoscimento
della validità ed efficacia delle intese sulla prole anche al campo della
filiazione fuori dal matrimonio (cfr. i riferimenti agli «accordi» tra i
coniugi, già rinvenibili negli artt. 155, secondo, terzo e quarto comma, 155-quater cpv. e 155-sexies cpv. c.c., applicabili alla filiazione nata al di fuori del
matrimonio per effetto dell’art. 4 cpv., l. n. 54/2006 [111]: disposizioni, queste, ora trasfuse nel contesto
degli artt. 337-bis ss. c.c. per
effetto del d.lgs. 28 dicembre 2013, n. 154, in vigore dal 7 febbraio 2014).
Nulla esclude, però, che, nell’ambito dei
poteri/doveri che costituiscono l’essenza della responsabilità genitoriale, il
titolare di tale situazione decida di riconoscere comunque un ruolo al proprio
ex partner, a condizione che ciò non
venga in conflitto (cela va sans dire)
con il fondamentale e già richiamato principio della tutela dell’interesse
esclusivo del minore. Con l’ulteriore precisazione che eventuali deleghe della
responsabilità genitoriale non potrebbero avere effetto verso i terzi, in
assenza di una normativa analoga a quella che, come si è ricordato, esiste
Oltralpe. Per completezza potrà ancora aggiungersi che, ad esempio, nel regime
del civil partnership britannico, la
dissoluzione delle unioni omosessuali in cui sono sorti rapporti di filiazione
va accompagnata da uno «Statement of arrangements» [112]. Questo documento, dunque, dispone, su accordo dei partner, le conseguenze per la prole in
caso di separazione.
Nel caso di contrasto tra le parti è invece evidente
che il partner non genitore non potrà
far valere alcun diritto (e corrispondentemente, non sarà sottoposto ad alcun
dovere giuridico) verso il minore figlio dell’altro. Non va però dimenticato
che il criterio cardine per la soluzione dei problemi in cui un minore può
essere coinvolto nella crisi della coppia è pur sempre quello del suo esclusivo
interesse. In nome di tale interesse, a mio avviso, il giudice [113] è legittimato a disporre un affidamento anche a
favore di un estraneo e tale «estraneo» ben potrebbe essere proprio il
«genitore di fatto», o «genitore sociale».
Come del resto riconosciuto in dottrina [114], per quanto paradossale possa sembrare, l’unica
tutela della genitorialità omosessuale è assicurata proprio nel caso di
contrasto tra i partners o di
dissenso dell’altro genitore del minore [115]: in tali casi, infatti, può essere chiesto al
tribunale per i minorenni un provvedimento limitativo della responsabilità del
genitore che con il suo comportamento pregiudichi l’interesse del figlio
minore. A sostegno dell’illustrata soluzione può invocarsi mutatis mutandis quell’orientamento giurisprudenziale che utilizza
l’art. 333 c.c. per consentire i contatti tra nipoti e nonni cui il genitore
esercente la responsabilità parentale (perché unico genitore vivente o
affidatario esclusivo) o il parente affidatario del minore impedisca di
frequentare i nipoti [116]. In applicazione degli amplissimi poteri concessi al
tribunale per i minorenni, nel contesto della citata procedura, il partner potrebbe addirittura richiedere
l’affidamento del minore, posto che, come riconosciuto dalla stessa
giurisprudenza di legittimità, l’intervento ai sensi del ricordato articolo del
codice civile consente l’eventuale affidamento a terze persone, diverse da un
genitore biologico [117].
Esemplare al riguardo la vicenda risolta nel 2007 dal
Tribunale per i minorenni di Milano [118]. Due donne, nel corso della loro convivenza more uxorio, decidono di avere dei figli
attraverso l’auto-inseminazione, grazie alla collaborazione di un amico della
coppia. Nascono così due bambini. Cessato il rapporto affettivo, interviene un
accordo tra le due per regolare il diritto di visita della madre non biologica.
Per un certo tempo tutto procede regolarmente, finché la madre biologica
rifiuta alla co-madre di vedere i bambini, adducendo il verificarsi di
situazioni pregiudizievoli per gli stessi. La co-madre adisce il Tribunale per
i minorenni, ai sensi degli artt. 317-bis
e 155 c.c. (nella formulazione, ovviamente, in allora in vigore). La madre
biologica resiste alla domanda, eccependo una carenza di interesse ad agire ex art. 100 c.p.c. e chiedendo
l’emissione di un ordine di protezione contro gli abusi familiari ai sensi
degli artt. 342-bis ss. c.c. Il
Tribunale per i minorenni dichiara, significativamente, non l’esistenza di una
carenza di interesse, bensì una carenza di legittimazione ad agire della
ricorrente, la quale, non essendo titolare di alcuna potestà sui minori,
«neppure è legittimata a richiedere ed ottenere un provvedimento che sia
espressione dell’esercizio della potestà genitoriale». Il collegio decide
inoltre di inviare gli atti al P.M., «perché valuti l’eventuale richiesta di
apertura di un procedimento ai sensi degli artt. 330 e ss. c.c.».
Come rilevato in dottrina [119], dinanzi ad un quadro simile, la soluzione adottata
dal tribunale milanese brilla per l’equilibrio e la lungimiranza. Il collegio
ha mostrato un profondo rispetto anzitutto per il bene dei minori. Se a muovere
il tribunale fosse stato un pregiudizio fondato sull’orientamento sessuale,
esso avrebbe semplicemente chiuso la questione appellandosi al difetto di
legittimazione ad agire. Invece, proprio perché è possibile che i bambini siano
bisognosi della presenza della co-madre, che immaginiamo come una figura per
loro significativa, si rimette la questione al P.M., affinché, svolte quelle indagini
necessarie a capire come stanno davvero le cose, chieda eventualmente al
tribunale l’emanazione di un provvedimento per consentire alla co-madre di far
visita regolarmente ai minori. Importante, poi, notare che ai giudici non è
interessato minimamente che le due protagoniste fossero lesbiche, essendo
invece unicamente rilevante assicurare ai minori la possibilità di avere
accanto persone che vogliano loro bene, senza alcuna valutazione di tipo
moralistico.
E’ da notare, infine, che una soluzione del genere
rinviene un suo preciso pendant
nell’ambito della disciplina della rottura della coppia eterosessuale
(coniugata o meno), in merito ai rapporti rispetto ai figli di entrambi i
membri della coppia stessa.
Ritengo infatti che la scomparsa del previgente sesto
comma dell’art. 155 c.c., decretata dalla riforma del 2006 (secondo cui «In
ogni caso il giudice può per gravi motivi ordinare che la prole sia collocata
presso una terza persona o, nella impossibilità, in un istituto di educazione»)
non impedisce al giudice – chiamato comunque ad adottare i provvedimenti
relativi alla prole con esclusivo riferimento all’interesse morale e materiale
di essa (art. 337-ter, comma secondo,
prima parte, c.c.) – di disporre il collocamento dei figli minori presso terze
persone, per esempio i nonni o altri parenti nell’eventualità che nessuno dei
genitori sia in grado di occuparsi adeguatamente dei figli.
Come stabilito in precedenza dalla giurisprudenza di
legittimità, si tratta del resto di un affidamento che il giudice può disporre
utilizzando quei larghi poteri che la legge gli attribuisce in contemplazione
dell’esclusivo e superiore interesse del minore [120]. Del resto, nonostante le discordi opinioni
dottrinali sul punto [121], la giurisprudenza intervenuta dopo l’entrata in
vigore della l. 2006/54, ha fatto talvolta applicazione dell’affidamento a
terze persone, conformemente, a tacer d’altro, alla locuzione contenuta
nell’art. 155 c.c. (oggi art. 337-ter
cpv. c.c.), che consente al giudice di adottare «ogni altro provvedimento
relativo alla prole». Così, ad esempio, una pronunzia di merito ha valorizzato
la costruzione di una categoria di provvedimenti atipici che il giudice è
abilitato ad assumere nell’interesse del minore, ai sensi del secondo comma
dell’art. 155 c.c. (oggi art. 337-ter
cpv. c.c.), affidando il minore ai nonni [122].
Anche sotto questo profilo, quindi, omo- ed
etero-genitorialità mostrerebbero di essere null’altro che due facce della
stessa medaglia.
Non è questa la sede per trattare dei risvolti di tipo
internazionalprivatistico legati alle convivenze più o meno formalizzate tra
persone del medesimo sesso [123]. Vorrei però qui solo porre in luce un profilo, dalle
conseguenze pratiche di una certa evidenza, legato all’omogenitorialità. E’
chiaro, infatti, che, comunque si voglia inquadrare il rapporto omogenitoriale,
il riconoscimento di siffatta situazione postula l’esistenza di doveri di
mantenimento, istruzione ed educazione della prole in tutto e per tutto
identici a quelli che esistono nell’ambito di un rapporto (per utilizzare
un’espressione cara, come si è visto, alla corte d’appello di Lisbona…)
«tradizionale».
Orbene, vi è da chiedersi quale rilievo sia stato
attribuito, nelle situazioni considerate, al profilo dell’obbligazione
alimentare dallo strumento che nel 2009 è venuto a regolamentare tale materia a
livello comunitario. Intendo riferirmi al Regolamento (CE) N. 4/2009 del 18
dicembre 2008, relativo alla competenza, alla legge applicabile, al
riconoscimento e all’esecuzione delle decisioni e alla cooperazione in materia
di obbligazioni alimentari [124], ribadendo, a scanso di equivoci, che la nozione
comunitaria di «alimenti» è assai più ampia di quella da noi tecnicamente
desumibile dagli artt. 433 ss. c.c., abbracciando anche le prestazioni
contributive endo-matrimoniali, così come quelle di mantenimento nascenti dalla
crisi del rapporto di coppia sia tra gli ex partners
(coniugati o meno che siano o fossero), che verso i figli (siano essi nati
all’interno o al di fuori del matrimonio) [125].
Sarà il caso di notare che, a differenza dell’art. 5,
paragrafo 2, del Regolamento (CE) n. 44/2001 (precedentemente in vigore e
contenente in allora l’unica disciplina comunitaria delle obbligazioni
alimentari, in seguito sostituita dalla disciplina di cui al Regolamento
approvato nel 2009), il quale parlava genericamente di «obbligazioni
alimentari», il Regolamento n. 4/2009 stabilisce, all’art. 1, che esso «si
applica alle obbligazioni alimentari derivanti da rapporti di famiglia, di
parentela, di matrimonio o di affinità».
Ora, proprio in relazione a questo inciso, va
registrato un netto regresso rispetto alla precedente Proposta di Regolamento del Consiglio relativo
alla competenza, alla legge applicabile, al riconoscimento e all’esecuzione
delle decisioni e alla cooperazione in materia di obbligazioni alimentari recante
la data del 15 dicembre 2005 (da cui il Regolamento n. 4/2009 è poi scaturito),
nel senso che ne sembrano risultare escluse proprio le obbligazioni alimentari
derivanti da rapporti di coppie non coniugate, esplicitamente compresi, invece,
nella citata Proposta [126]. Inutile dire al riguardo che l’inciso del
considerando n. 9 della Proposta, così formulato: «al fine di garantire la
parità di trattamento tra tutti i creditori di alimenti», pateticamente
mantenuto nel considerando n. 11 del citato Regolamento, perde oggi qualsiasi
significato, nel momento in cui l’esclusione dei creditori alimentari sulla
base di rapporti di convivenza, ancorché eventualmente riconosciuta dalla legge
nazionale (ed in svariati ordinamenti europei sostanzialmente equiparata al
matrimonio), viene a privare migliaia di creditori alimentari del nostro
Continente dei vantaggi del nuovo strumento, così riproponendo sul piano
comunitario una discriminazione che diversi legislatori nazionali si sono ormai
lasciati da tempo alle spalle.
E’ vero, indiscutibilmente, che l’inciso «rapporti di
famiglia, di parentela, di matrimonio o di affinità» potrebbe prestarsi anche
ad una lettura diversa e più «liberal»: una lettura in cui al concetto di
«famiglia», pur sempre menzionato ed affiancato a quelli di «parentela, di
matrimonio o di affinità», viene attribuito un significato più ampio rispetto a
questi ultimi, idoneo a comprendere in sé anche tutti i rapporti derivanti
dalla convivenza more uxorio. E’ però
anche vero che, in difetto di strumenti comunitari sulla disciplina della
convivenza e di fronte ad un testo della proposta assai esplicito sul punto,
dal quale il Regolamento ha chiaramente inteso discostarsi, sembra assai
difficile poter attribuire al predetto sostantivo «famiglia» una portata più
estesa di quella semplicemente riassuntiva delle espressioni che ad essa fanno
immediatamente seguito («parentela, matrimonio, affinità»).
Sin qui, naturalmente, si è discorso in questo § dei
soli profili attinenti ai rapporti tra partners.
Quid, allora, delle obbligazioni
attinenti alla prole? La risposta più ovvia sembrerebbe quella legata al
riscontro della presenza, comunque, di un rapporto di «parentela» tra genitori
e figli e non vi è il minimo dubbio che ciò valga con riguardo a tutti i casi in
cui all’estero si sia costituito (vuoi sulla base della generazione biologica,
vuoi per effetto di forme di adozione di minorenni) un rapporto definibile
come, per l’appunto, di genitorialità e, dunque, di «parentela». Qualche
interrogativo potrebbe però porsi per una situazione di omogenitorialità non
rispondente ai «canoni» che caratterizzano la genitorialità nel nostro sistema:
intendo riferirmi al genitore (es.: convivente omosessuale del genitore
biologico) che tale sia in base alle regole dell’ordinamento straniero, ma che
non potrebbe esserlo secondo l’ordinamento italiano.
Sul punto non andrà trascurato che l’art. 22 del
citato Regolamento (e cfr. anche il considerando n. 25) stabilisce testualmente
quanto segue: «Il riconoscimento e l’esecuzione di una decisione in materia di
obbligazioni alimentari a norma del presente regolamento non implicano in alcun
modo il riconoscimento del rapporto di famiglia, di parentela, di matrimonio o
di affinità alla base dell’obbligazione alimentare che ha dato luogo alla
decisione». La previsione (assente nella Proposta del 2005) sembra dettata dal
timore delle conseguenze possibili del riconoscimento e dell’esecuzione di
pronunce su obblighi alimentari nascenti da rapporti di coniugio tra persone
dello stesso sesso, ammessi dalle legislazioni di Paesi europei comunitari
quali quelle del Belgio, della Danimarca, della Francia, dell’Islanda, dei
Paesi Bassi, del Portogallo, del Regno Unito, della Spagna e della Svezia [127]. E’ chiaro infatti che il riconoscimento di tali
obblighi alimentari non può essere impedito dalla citata limitazione di cui
all’art. 1, poiché non vi è dubbio che i crediti alimentari tra coniugi
omosessuali ai sensi degli ordinamenti nazionali citati siano a tutti gli
effetti «obbligazioni alimentari derivanti da rapporti di famiglia» e «di
matrimonio».
Il timore che sembra trasparire dalla lettura del
citato Regolamento è dunque quello che il riconoscimento delle prestazioni
alimentari tra persone del medesimo sesso possa essere utilizzato in altri sistemi
europei per riconoscere diversi ed ulteriori effetti a tali unioni, anche se, a
tal fine, già dovrebbe venire in considerazione la norma relativa all’ordine
pubblico (art. 24 del citato Regolamento).
Sul punto vi è anzi da chiedersi se per caso lo stesso
riconoscimento del solo «limitato» effetto alimentare di un’unione omosessuale
non possa ritenersi in determinati ordinamenti europei (si pensi a quelli più
arretrati, quali quelli della Grecia o dell’Italia) come impedito dalla
clausola dell’ordine pubblico [128]. Ciò che per altro verso (a sommesso avviso dello
scrivente) non dovrebbe ritenersi possibile, atteso che la nozione di
«matrimonio» e di «famiglia» cui si deve accedere è, per l’appunto, quella
europea, nell’ambito della quale non si può non tenere conto della presenza di
numerosissimi ordinamenti che o ammettono il matrimonio tra persone del
medesimo sesso, ovvero prevedono forme di unione che del matrimonio producono i
medesimi (o pressoché i medesimi) effetti.
Se quanto sopra è vero, i timori di contrarietà
rispetto all’ordine pubblico dovrebbero ritenersi fugati anche con riguardo al
caso qui in esame. In altre parole, i provvedimenti e gli atti relativi alle
obbligazioni alimentari di cui si occupa il citato Regolamento, di provenienza
di Paesi in cui la relazione omogenitoriale si è legalmente costituita,
dovrebbero liberamente circolare ed essere eseguibili (oltre tutto, secondo le
regole del nuovo strumento, senza necessità di exequatur), anche se, in ipotesi, afferenti ad obbligazioni alimentari
gravanti sull’omogenitore che tale non potrebbe legalmente essere in base al
nostro ordinamento, senza tema di incorrere negli strali di una possibile
violazione delle regole d’ordine pubblico.
Diverso, probabilmente, il discorso per le obbligazioni
tra i partners: ma questa, come
detto, è un’altra storia [129]. Una storia che, peraltro, oggi va sicuramente
riscritta alla luce del principio di non discriminazione scolpito nella più
volte citata decisione Schalk e Kopf,
con cui si è eliminata ogni possibilità di escludere che la convivenza
omosessuale sia considerabile alla stregua di una famiglia.
(*) Il presente lavoro costituisce la rielaborazione e
l’aggiornamento di un precedente scritto, dal medesimo titolo, edito in Dir. fam. pers., 2010, p. 802 ss.,
nonché in Aa. Vv., Omogenitorialità.
Filiazione, orientamento sessuale e diritto, a cura di Alexander Schuster, Milano – Udine, 2011, p. 245
ss.; dal 26 novembre 2009 disponibile alla seguente pagina web: http://giacomooberto.com/roma_28_11_09/crisi_genitori_omosessuali.htm
(versione .pdf disponibile alla seguente pagina web: http://giacomooberto.com/roma_28_11_09/oberto_estratto_dir_fam_pers_2010.pdf).
Questo studio, aggiornato al 25 febbraio 2014, è disponibile online alla seguente pagina web: http://giacomooberto.com/Oberto_relazione_crisi_genitori_omosessuali.htm.
[1] La letteratura sul tema è quanto mai vasta. A titolo
d’esempio, per quella in lingua italiana cfr. Caggia,
Convivenze omosessuali e genitorialità:
tendenze, conflitti e soluzioni nell’esperienza statunitense, in Aa. Vv.,
I contratti di convivenza, a cura di
Moscati e Zoppini, Torino, 2002, p. 243 ss.; Bottino
e Danna, La gaia famiglia, Trieste, 2005. Per quella in lingua francese
cfr. Bach-Ignasse, « Familles » et homosexualité, in Aa. Vv.,
Homosexualités et droit, sotto la
direzione di Borrillo, Paris, 1999, p. 122 ss.; Leroy-Forgeot,
Les enfants du PACS : réalités de
l’homoparentalité, Vendôme, 1999; Mécary,
Droit et homosexualité, Paris, 2000,
p. 80 ss.; Aa.Vv., Homoparentalités,
approches scientifiques et politiques : actes de la IIIe conférence
internationale sur l’homoparentalité, a cura di Cadoret, Gross, Mécary,
Perreau e Salvador-Ferrer, Paris, 2006. Per quella in lingua inglese
cfr. Bozett, Gay and Lesbian Parents, New York, London, 1987; Maxwell, Mattijssen e Smith, Legal Protection for all the Children: Dutch-American Comparison of
Lesbian and Gay Parent Adoptions, in EJCL
(3.1), 1999; Marzano-Lesnevich e Moskowitz, In the
Interest of Children of Same-Sex Couples, 19 J. Am. Acad. Matrim. Law. 255 (2005), p. 256 ss.; Anderson, Protecting Parent-Child Relationships: Determining Parental Rights of
Same-Sex Parents Consistently Despite Varying Recognition of Their Relationship,
5 Pierce L. Rev. 1 (2006), p. 10 ss.;
Maternach, Where is my Other Mommy? Applying the Presumed Father Provision of the
Uniform Parentage Act to Recognize the Rights of Lesbian Mothers and Their
Children, 9 J. Gender Race & Just.
385 (2005), p. 407 ss. Per la letteratura tedesca cfr. Wendler,
Entwicklung von Kindern
gleichgesclechtlicher Eltern, testo disponibile (non gratuitamente) al
seguente sito web: http://www.grin.com/e-book/52096/entwicklung-von-kindern-gleichgeschlechtlicher-eltern; Fthenakis, Gleichgeschlechtliches
Lebensgemeinschaften und kindlischer Etwicklung, in Aa. Vv., Die Rechtsstellung gleichgeschlectlicher
Lebensgemeinschften, a cura di Basedow, Hopt, Kötz e Dopffel, Tübingen, 2000,
p. 385 ss.
In generale sulle questioni attinenti alle famiglie e
convivenze omosessuali in Italia cfr. Menzione,
Manuale dei diritti degli omosessuali,
Milano, 1996 (in partic. p. 19 ss. per i temi relativi alla genitorialità); Ferrando, Convivenze e modelli di disciplina, in Aa. Vv., Matrimonio, matrimonii, a cura di
Brunetta d’Usseaux e D’Angelo, Milano, 2000, p. 309 ss.; Bonini Baraldi, Le nuove convivenze tra discipline straniere e diritto interno,
Milano, 2005, p. 223 ss.; Pignatelli,
I livelli europei di tutela delle coppie
omosessuali tra «istituzione» matrimoniale e «funzione» familiare, in Riv. dir. costit., 2005, p. 295 ss.; Aa. Vv.,
Le unioni tra persone dello stesso sesso.
Profili di diritto civile, comunitario e comparato, a cura di F. Bilotta,
Milano – Udine, 2008; Aa. Vv., Omogenitorialità.
Filiazione, orientamento sessuale e diritto, a cura di Alexander Schuster, Milano – Udine, 2011, passim. Sui temi d’ordine patrimoniale
v. anche Oberto, Le prestazioni lavorative del convivente
more uxorio, Padova, 2003, spec. p. 125 ss.
[2] Per i richiami in merito alla procreazione
medicalmente assistita in relazione a coppie omosessuali, così come al tema
dell’adozione da parte di coppie omosessuali, cfr. ad es. Caggia, Convivenze omosessuali e genitorialità: tendenze, conflitti e soluzioni
nell’esperienza statunitense, cit., p. 255 ss., 263 ss.; Long, I giudici di Strasburgo socchiudono le porte dell’adozione agli
omosessuali, Nota a Corte europea dei diritti dell’uomo, 22 gennaio 2008,
in Nuova giur. civ. comm., 2008, I,
p. 676 ss.
[3] Su cui v. per tutti Facchini,
Fissore, Naggar, Oberto
e Ronfani, Il nuovo rito del contenzioso familiare e l’affidamento condiviso – Le
riforme del diritto di famiglia viste dagli avvocati – Commenti, formulari e
documenti, a cura di G. Oberto, Padova, 2007.
[4] Cfr. Falletti,
Genitore
omosessuale e affidamento condiviso, Nota a Trib. Bologna, 15 luglio 2008, in Giur. it., 2009, p. 1164 ss.
[5] Cfr. Morello,
Quale applicazione per la legge 54/2006,
in www.personaedanno.it.
[6] La giurisprudenza di legittimità ha affermato che
«Nel quadro della nuova disciplina relativa ai “provvedimenti riguardo ai
figli” dei coniugi separati, di cui ai citati artt. 155 e 155 bis c.p.c., come modificativamente e
integrativamente riscritti dalla legge n. 54/2006, improntata alla tutela del
diritto del minore (già consacrato nella Convenzione di New York del 20
novembre 1989, resa esecutiva in Italia con legge n. 176/1991) alla c.d. “bigenitorialità”
(al diritto, cioè, dei figli a continuare ad avere un rapporto equilibrato con
il padre e con la madre anche dopo la separazione), l’affidamento “condiviso”
(comportante l’esercizio della potestà genitoriale da parte di entrambi ed una condivisione,
appunto, delle decisioni di maggior importanza attinenti alla sfera personale e
patrimoniale del minore) non si pone non più (come nel precedente sistema) come
evenienza residuale, bensì come regola; rispetto alla quale costituisce,
invece, ora eccezione la soluzione dell’affidamento esclusivo. Alla regola
dell’affidamento condiviso può infatti derogarsi solo ove la sua applicazione
risulti “pregiudizievole per l’interesse del minore”» (Cass., 18 giugno 2008,
n. 16593, in Fam. dir., 2008, p. 1106,
con nota di Amram; in Nuova giur. civ. comm., 2009, I, p. 68, con nota di Mantovani).
[7] Sulle polemiche determinate dall’introduzione di
alcune varianti, rispetto all’art. 155 c.c., nel testo dell’art. 337-ter c.c., in merito alla determinazione
della «residenza abituale» del minore in caso di crisi del rapporto tra i
genitori, varianti che dimostrerebbero l’avallo, da parte del legislatore,
della pratica della determinazione, da parte del giudice, di un genitore
«collocatario», si v. http://www.adiantum.it/public/3477-decreto-filiazione,-intervista-a-maglietta--la-commissione-bianca-ha-scavalcato-il-proprio-mandato.asp.
[8] Art. 6: «1. L’Unione riconosce i diritti, le libertà
e i principi sanciti nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea
del 7 dicembre 2000, adattata il 12 dicembre 2007 a Strasburgo, che ha lo
stesso valore giuridico dei trattati. Le disposizioni della Carta non estendono
in alcun modo le competenze dell’Unione definite nei trattati. I diritti, le
libertà e i principi della Carta sono interpretati in conformità delle
disposizioni generali del titolo VII della Carta che disciplinano la sua
interpretazione e applicazione e tenendo in debito conto le spiegazioni cui si
fa riferimento nella Carta, che indicano le fonti di tali disposizioni.
2. L’Unione
aderisce alla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle
libertà fondamentali. Tale adesione non modifica le competenze dell’Unione
definite nei trattati.
3. I diritti
fondamentali, garantiti dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei
diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali e risultanti dalle tradizioni
costituzionali comuni agli Stati membri, fanno parte del diritto dell’Unione in
quanto principi generali».
[9] Cfr. art. 21, primo comma: «(Non discriminazione). 1.
È vietata qualsiasi forma di discriminazione fondata, in particolare, sul
sesso, la razza, il colore della pelle o l’origine etnica o sociale, le
caratteristiche genetiche, la lingua, la religione o le convinzioni personali,
le opinioni politiche o di qualsiasi altra natura, l’appartenenza ad una
minoranza nazionale, il patrimonio, la nascita, gli handicap, l’età o le
tendenze sessuali».
[10] Sulle quanto mai intricate questioni derivanti da
tale richiamo e sul problema, ad esso strettamente collegato,
dell’individuazione di limiti nell’applicazione della Carta di Nizza, in
relazione ai settori anche non «di competenza» del diritto dell’Unione Europea,
si fa rinvio a Oberto, La tutela dei diritti fondamentali nelle
Carte Costituzionali, ovvero del difficile dialogo tra Carte e Corti, in Dir. fam. pers., 2012, p. 173 ss., 246
ss.
[11] Ferrando,
Il matrimonio gay: il testimone passa
alla Consulta, Nota a Trib. Venezia, 3 aprile 2009, in Resp. civ. prev., 2009, p. 1905 ss. V. inoltre Gattuso, Il matrimonio tra persone dello stesso sesso, in Aa. Vv., Trattato di diritto di famiglia, diretto da Zatti, I, Famiglia e matrimonio, 1, seconda
edizione, Milano, 2011, p. 808 ss. Come osservato dalla Corte di Cassazione,
l’art. 9 «non richiede più come requisito necessario per invocare la garanzia
dalla norma stessa prevista la diversità di sesso dei soggetti del rapporto»
(Cass., 17 marzo 2009, n. 6441). Anche Carr,
“Famiglia e famiglie”. Circolazione delle
persone e profili di armonizzazione: l’esperienza irlandese, in Amram, A. D’Angelo (a cura di), La
famiglia e il diritto fra diversità nazionali ed iniziative dell’Unione Europea,
Padova, 2011, p. 89 s., dopo aver rilevato che, «diversamente dalla Convenzione
Europea dei Diritti dell’Uomo, la Carta di Nizza non inserisce il riferimento
ad uomo e donna nella definizione di matrimonio», rimarca che «Questa può
essere vista come una volontaria svolta e crea oggi le condizioni ideali per
stimolare una discussione profonda sulle diversità delle definizioni della
famiglia in seno all’Unione Europea. È forse questo il momento giusto per
provare ad estendere protezione e garanzie a tutte le forme di vita familiare
oggi conosciute e diffuse, tramite i tre meccanismi legali sopra ricostruiti,
ovvero attraverso l’applicazione del principio di non discriminazione sulla
base della nazionalità, l’applicazione del principio di non discriminazione ai
sensi dell’articolo 13 e, infine, il potenziale potere della giurisprudenza
della CEDU divenuta vincolante, rispetto alla neutralità di genere di cui
all’art. 9 della Carta di Nizza?».
[12] Cfr. Schalk e Kopf c. Austria. Per commenti sulla decisione cfr. Gattuso, La Corte costituzionale sul matrimonio tra persone dello stesso sesso,
Nota a Corte cost., 15 aprile 2010, n. 138, in Fam. dir., 2010, p. 653 ss.; Danisi,
La Corte di Strasburgo e i matrimoni
omosessuali: vita familiare e difesa dell’unione tradizionale, in Quaderni cost., 2010, p. 867 ss.; Sileoni, La Corte di Strasburgo e i matrimoni omosessuali: il consenso europeo,
un criterio fragile ma necessario, ibidem,
p. 870 ss.; Winkler, Le famiglie omosessuali nuovamente alla
prova della Corte di Strasburgo, in Nuova
giur. civ. comm., 2010, I, p. 1337 ss.
[13] Art. 8: «- Diritto al rispetto della vita privata e
familiare.
1. Ogni persona ha diritto al rispetto della sua vita
privata e familiare, del suo domicilio e della sua corrispondenza.
2. Non può esservi ingerenza di una autorità pubblica
nell’esercizio di tale diritto a meno che tale ingerenza sia prevista dalla
legge e costituisca una misura che, in una società democratica, è necessaria
per la sicurezza nazionale, per la pubblica sicurezza, per il benessere
economico del paese, per la difesa dell’ordine e per la prevenzione dei reati,
per la protezione della salute o della morale, o per la protezione dei diritti
e delle libertà altrui».
Art. 12: «- Diritto al matrimonio.
Uomini e donne, in età matrimoniale, hanno il diritto
di sposarsi e di fondare una famiglia secondo le leggi nazionali che regolano
l’esercizio di tale diritto».
[14] Long, Le fonti di origine extranazionale, in Aa. Vv.,
Trattato di diritto di famiglia, diretto da Zatti, I, Famiglia e
matrimonio, 1, seconda edizione, Milano, 2012, p. 150.
[15] Sul ruolo delle fonti internazionali
nell’affermazione del principio di non discriminazione per ragioni di orientamento
sessuale cfr. Danisi, Il principio di non discriminazione dalla
CEDU alla Carta di Nizza: il caso dell’orientamento sessuale, 2010, in http://www.forumcostituzionale.it/site/images/stories/pdf/documenti_forum/paper/0154_danisi.pdf;
Pallaro, I diritti degli omosessuali nella Convenzione europea per i diritti
umani e nel diritto comunitario, in Riv.
int. dir. uomo, 2000, p. 104; Wintemute,
Sexual Orientation and Human Rights,
Oxford, 1997, passim.
[16] Nicholas Toonen
v Australia, 31 marzo 1994.
[17] Cfr. art. 13 Trattato CE, così come inserito dal
Trattato di Amsterdam nel 1997, e oggi l’art. 10 del TFUE.
[18] Esattamente rimarca Long,
Le fonti di origine extranazionale,
cit., p. 151, nota 89, che la locuzione «orientamento sessuale», che compare
nelle altre lingue, è stranamente resa in italiano con «tendenze sessuali».
[19] Risoluzione del Parlamento europeo dell’8 febbraio
2008 per la parità dei diritti degli omosessuali nella Comunità europea.
[20] Analoga sensibilità si sta sviluppando a livello
politico anche in quella che rimane la più grande potenza mondiale: basti
ricordare la proposta del Presidente Barack Obama di legalizzare i same-sex marriages negli Stati Uniti;
proposta che, a quanto pare, è sorretta dal 51% dei suoi concittadini, stando
ad un sondaggio ufficiale del maggio 2012 (Cfr. Madhani
e Norman, Poll: 51% back Obama on same-sex marriage, in USA Today, May 18-20, 2012, p. 1) Sulla decisione emessa al
riguardo dalla Corte Suprema cfr. Corte Suprema degli Stati Uniti d’America, 26
giugno 2013, in Foro it., 2013, IV,
c. 540, con nota di Pasetto.
[21] Corte di giustizia CE, Lisa Jacqueline Grant v South-West Trains
Ltd, 17 febbraio 1998, in causa n. C-249/96, par. 38. Sul punto cfr.
anche Toner, Immigration rights of same sex couples in EC Law, in Boele-Woelki e Fuchs (a cura di), Legal Recognition of Same-Sex Couples
in Europe, p. 178; Canor, Equality for Lesbians and Gay Men in the
European Community Legal Order — They Shall be Male and Female, in MJ, 7, (2000), p. 273 ss.
[22] Corte di giustizia CE,
Grande sezione, Maruko v
Versorgungsanstalt der deutschen Bühnen, 1° aprile 2008, in causa C-267/06,
in Fam. dir., 2008, p. 653, con nota
di Bonini Baraldi (cfr. in
particolare par. 67); Corte di giustizia CE,
Grande Sezione, 10 maggio 2011, Römer v
Freie und Hansestadt Hamburg, in causa C-147/08, in Fam. dir., 2012, p. 113 ss., con nota di Nunin, che ha affermato il principio della parità di diritti
pensionistici per gli omosessuali congiunti con una unione civile registrata;
secondo la Corte, il trattamento non può essere inferiore a quello più
favorevole concesso alle persone di diverso sesso regolarmente sposate. Ad
avviso dei giudici del Lussemburgo, la direttiva del Consiglio n. 2000/78/CE,
che stabilisce un quadro generale per la parità di trattamento in materia di
occupazione e condizioni di lavoro, deve essere interpretata nel senso che non
sono escluse dal suo ambito di applicazione ratione
materiae – né sulla base del suo art. 3, n. 3, né a norma del suo
ventiduesimo considerando – le pensioni complementari di vecchiaia come quelle
versate agli ex dipendenti della Freie
und Hansestadt Hamburg e ai loro superstiti ai sensi della legge del Land di Amburgo del 30 maggio 1995, le
quali costituiscono retribuzione ai sensi dell’art. 157 TFUE. Il combinato
disposto degli artt. 1, 2 e 3, n. 1, lett. c), della direttiva 2000/78 osta ad
una norma nazionale, come quella di cui all’art. 10, n. 6, della succitata
legge del Land Amburgo, per cui un
beneficiario partner di un’unione
civile percepisca una pensione complementare di vecchiaia di importo inferiore
rispetto a quella concessa ad un beneficiario coniugato non stabilmente
separato, qualora nello Stato membro interessato, il matrimonio sia riservato a
persone di sesso diverso e coesista con un’unione civile quale quella prevista
dalla legge 16 febbraio 2001, sulle unioni civili registrate (Gesetz über die Engetragene Lebenspartnerschaft),
che è riservata a persone dello stesso sesso, e sussista una discriminazione
diretta fondata sulle tendenze sessuali, per il motivo che, nell’ordinamento
nazionale, il suddetto partner di
un’unione civile si trova in una situazione di diritto e di fatto paragonabile
a quella di una persona coniugata per quanto riguarda la pensione
summenzionata. La valutazione della comparabilità ricade nella competenza del
giudice del rinvio e deve essere incentrata sui rispettivi diritti ed obblighi
dei coniugi e delle persone legate in un’unione civile, quali disciplinati
nell’ambito dei corrispondenti istituti e che risultano pertinenti alla luce
della finalità e dei presupposti di concessione della prestazione in questione.
Sull’evoluzione della giurisprudenza della Corte di giustizia cfr. anche Carr, “Famiglia e famiglie”. Circolazione delle persone e profili di
armonizzazione: l’esperienza irlandese, cit., p. 82 ss.
[23] Long, Le fonti di origine extranazionale,
cit., p. 153.
[24] Così ancora Long,
Le fonti di origine extranazionale,
cit., p. 153 s.
[25] Ferrando,
Il contributo della C.E.D.U.
all’evoluzione del diritto di famiglia, in Nuova giur. civ. comm., 2005, II, p. 263 ss.; cfr. inoltre Donati e Milazzo,
La dottrina del margine di apprezzamento
nella giurisprudenza della Corte europea dei Diritti dell’uomo, in Falzea, Spadaro, Ventura (a cura di), La
Corte Costituzionale e le Corti d’Europa, Torino, 2003, p. 70 ss.
[26] Corte europea dei diritti dell’uomo, 17 ottobre 1986, Rees c. Regno Unito, in Riv.
dir. intern., 1987, 735 ss. V. anche Corte europea dei diritti dell’uomo,
27 settembre 1990, Cossey c. Regno Unito,
ricorso n. 10843/84, ove si afferma che «l’art. 12 precisa che tale diritto è
soggetto alle leggi nazionali degli Stati contraenti. Le conseguenti
limitazioni non debbono restringerlo o ridurlo in modo da pregiudicarne la
sostanza stessa, ma non si può attribuire un effetto di tal sorta
all’impedimento posto, nel Regno Unito, al matrimonio di persone che non
appartengono a sessi biologici differenti». Sui problemi interni posti dal
transessualismo, con particolare riferimento al divorzio, cfr. da ultimo Winkler, Cambio di sesso del coniuge e scioglimento del matrimonio: costruzione
e implicazioni del diritto fondamentale all’identità di genere, Nota a App.
Bologna, 4 febbraio 2011 e Trib. Modena, 28 ottobre 2010, in Giur. mer., 2012, p. 571 ss.
[27] Corte europea dei diritti dell’uomo, 17 luglio 2002, Goodwin c. Regno Unito, con la quale la Corte di Strasburgo ha
dichiarato contrario alla Convenzione il divieto di matrimonio del
transessuale, dopo l’operazione di cambiamento di sesso, con persona del suo
stesso sesso originario. La Corte europea ha in tal caso affermato che il
diritto di un uomo e di una donna di fondare una famiglia non è subordinato al
diritto di sposarsi e che l’impossibilità di procreare o di essere genitori non
può incidere sul primo diritto. Cfr. anche Corte europea dei diritti dell’uomo, 11 luglio 2002, I. v. The United Kingdom, in cui possono leggersi affermazioni del
genere: «78. Reviewing the situation in 2002, the Court observes that Article 12
secures the fundamental right of a man and woman to marry and to found a
family. The second aspect is not however a condition of the first and the
inability of any couple to conceive or parent a child cannot be regarded as per
se removing their right to enjoy the first limb of this provision. 79. The
exercise of the right to marry gives rise to social, personal and legal
consequences. It is subject to the national laws of the Contracting States but
the limitations thereby introduced must not restrict or reduce the right in
such a way or to such an extent that the very essence of the right is impaired
(see the Rees judgment, p. 19, § 50;
the F. v. Switzerland judgment of 18
December 1987, Series A no. 128, § 32). 80. It is true that the first sentence
refers in express terms to the right of a man and woman to marry. The Court is
not persuaded that at the date of this case it can still be assumed that these
terms must refer to a determination of gender by purely biological criteria (as
held by Ormrod J. in the case of Corbett
v. Corbett, paragraph 17 above). There have been major social changes in
the institution of marriage since the adoption of the Convention as well as
dramatic changes brought about by developments in medicine and science in the
field of transsexuality. The Court has found above, under Article 8 of the
Convention, that a test of congruent biological factors can no longer be
decisive in denying legal recognition to the change of gender of a
post-operative transsexual. There are other important factors – the acceptance
of the condition of gender identity disorder by the medical professions and
health authorities within Contracting States, the provision of treatment including
surgery to assimilate the individual as closely as possible to the gender in
which they perceive that they properly belong and the assumption by the
transsexual of the social role of the assigned gender. The Court would also
note that Article 9 of the recently adopted Charter of Fundamental Rights of
the European Union departs, no doubt deliberately, from the wording of Article
12 of the Convention in removing the reference to men and women (see paragraph
41 above) (…) 84. The Court concludes that there has been a breach of Article
12 of the Convention in the present case».
[28] Cfr. infra,
§§ 5 s.
[29] Long, Il diritto italiano della famiglia alla
prova delle fonti internazionali, Milano, 2006, p. 183 s.
[30] Nel caso Johnston
and others v Ireland i tre ricorrenti
lamentavano la violazione del loro diritto al rispetto della vita familiare,
dovuto all’impossibilità per i due membri adulti della coppia di contrarre
matrimonio (e dunque di migliorare con la legittimazione la situazione
giuridica della loro figlia), poiché l’uomo era già coniugato e l’ordinamento
irlandese nel consentiva il divorzio (poi introdotto nel 1996). La Corte,
esaminando il caso sottoposto al suo esame, ha espressamente affermato che «56.
In the
present case, it is clear that the applicants, the first and second of whom
have lived together for some fifteen years (…), constitute a “family” for the
purposes of Article 8 (art. 8). They are thus entitled to its protection,
notwithstanding the fact that their relationship exists outside marriage» (la
decisione reca la data del 18 dicembre 1986). Un altro esempio è dato dalla giurisprudenza della Corte europea dei
diritti dell’uomo in materia di espulsione: l’esistenza di una convivenza more uxorio tra il ricorrente espulso e
un cittadino dello Stato convenuto consente astrattamente di qualificare
l’espulsione quale ingerenza nella vita familiare del ricorrente, con la
necessità dunque di valutare in concreto se tale ingerenza appaia giustificata
ai sensi dell’art. 8 cpv. C.E.D.U. (cfr. Corte europea dei diritti dell’uomo, 15 luglio 2003, Mokrani c. France, par. n. 34). In due casi di immigrati arrivati
in Francia bambini e poi conviventi more
uxorio con cittadine francesi, l’espulsione è stata considerata legittima
in considerazione della gravità dei reati e la convivenza non è stata
considerata, poiché cominciata dopo l’inizio della procedura di espulsione:
l’esclusione della rilevanza in concreto della convivenza ha però
indirettamente confermato la rilevanza in astratto di tale legale familiare
(Corte europea dei diritti dell’uomo, 21
ottobre 1997, Boujlifa c. France,
par. n. 36 e sentenza 26 settembre 1997, El
Boujaidi c. France, par. n. 33). Analogie si riscontrano nel caso di specie
anche con la giurisprudenza della Corte di giustizia CE, la quale, nel caso Eyüp, ha ritenuto che dovesse essere
inclusa nella nozione di «familiare» anche la donna inizialmente coniugata con
il lavoratore turco, che aveva poi divorziato da quest’ultimo pur continuando a
convivere con esso more uxorio e si
era poi risposata con il medesimo individuo, poiché la ratio della norma in esame è quella di garantire diritti autonomi
al familiare lavoratore qualora vi fosse stata nel Paese di accoglienza una
stabile ed effettiva convivenza (Corte di giustizia
CE, 22 giugno 2000, Safet Eyüp v
Landesgeschäftsstelle des Arbeitsmarktservice Vorarlberg, in causa C-65/98,
parr. nn. 28, 34-36, 48). Sul tema cfr. anche Izzo,
Quando la prudenza è eccessiva, in Dir. pubbl. comp. eur., 2000, p. 1595; Pallaro, Coppie di fatto e ricongiungimento familiare nell’ordinamento
comunitario: un nuovo indirizzo della Corte di Giustizia?, in Dir. scambi int., 2001, p. 261.
Conv. europea dir. uomo |
Carta di Nizza |
«Articolo 12 Diritto al
matrimonio A partire dall’età minima per contrarre matrimonio,
l’uomo e la donna hanno il diritto di sposarsi e di fondare una famiglia
secondo le leggi nazionali che regolano l’esercizio di tale diritto». |
«Articolo 9 Diritto di
sposarsi e di costituire una famiglia Il diritto di sposarsi e il diritto di costituire
una famiglia sono garantiti secondo le leggi nazionali che ne disciplinano
l’esercizio». |
[32] Lipari, Riflessioni su famiglia e sistema
comunitario, in Familia, 2006, p.
7 ss.; Ferrando, Le relazioni
familiari nella Carta dei diritti dell’Unione europea, in Pol. dir., 2003, p. 353 ss.; Marella, L’armonizzazione del diritto di famiglia in Europa. Metodo ed obiettivi,
in Panunzio (a cura di), I
costituzionalisti e la tutela dei diritti nelle Corti europee: il dibattito
nelle riunioni dell’osservatorio costituzionale presso la LUISS ‘Guido Carli’
dal 2003 al 2005, Napoli, 2005, p. 555 ss.
[33] Cfr. infra,
§§ 5 s.
[34] Cfr. ad es. Long,
Il diritto italiano della famiglia alla
prova delle fonti internazionali, cit., p. 187.
[35] Sul diritto al rispetto della vita privata quale
strumento per la tutela delle coppie omosessuali cfr. diffusamente Long, Il diritto italiano della famiglia alla prova delle fonti internazionali,
cit., p. 198 ss.; cfr. inoltre Palmerini,
Status familiari e mobilità
trasnazionale: l’armonizzazione possibile, in Amram e A. D’Angelo
(a cura di), La famiglia e il diritto fra
diversità nazionali ed iniziative dell’Unione Europea, cit., p. 60 ss.
[36] Cfr. supra,
§ 4.
[37] Cfr. Corte europea dei diritti dell’uomo, Salgueiro da Silva Mouta v Portugal, 21
dicembre 1999, su cui v. anche infra,
§ 6.
[38] Cfr. il caso E.B.
v France, sui cui cfr. per tutti Oberto,
I diritti dei conviventi. Realtà e
prospettive tra Italia ed Europa, Padova, 2012, p. 240 s.
[39] Oberto, Problemi di coppia, omosessualità e
filiazione, in Dir. fam. pers.,
2010, p. 802 ss., 809 ss. (lo studio è altresì edito in A. Schuster (a cura di), Omogenitorialità. Filiazione, orientamento
sessuale e diritto, cit., p. 245 ss.; il lavoro, come già chiarito,
costituisce una precedente versione del presente scritto).
[40] Il cui testo, pur menzionando le discriminazioni «fondate sul sesso, la razza, il colore, la lingua,
la religione, le opinioni politiche o quelle di altro genere, l’origine
nazionale o sociale, l’appartenenza a una minoranza nazionale, la ricchezza, la
nascita od ogni altra condizione» non menziona espressamente l’orientamento
sessuale.
[41] Il principio è stato affermato con riferimento alla
differenza di trattamento nel diritto penale dei rapporti sessuali tra persone
consenzienti dello stesso sesso e di sesso diverso (Corte europea dei diritti
dell’uomo, L. and V. v Austria, 9
gennaio 2003, in cause nn. 39392/98 and 39829/98), alla scelta sull’affidamento
della prole minorenne a seguito della rottura della relazione di coppia tra i
genitori (Salgueiro da Silva Mouta v
Portugal, 21 dicembre 1999), alla valutazione dell’idoneità all’adozione di
minori della persona omosessuale (Fretté
v France, 26 febbraio 2002 e E. B. v
France, 22 gennaio 2008), al diritto del convivente more uxorio superstite dello stesso sesso a succedere nel contratto
di locazione intestato al compagno defunto (Karner
c. Austria, 24 luglio 2003), al diritto dei partners dello stesso sesso di ottenere il riconoscimento della
loro relazione di coppia (Schalk e Kopf
c. Austria, 24 giugno 2010).
[42] Karner c.
Austria, par. 41.
[43] Schalk e Kopf
c. Austria, par. 109. Per il periodo di tempo precedente tale riforma legislativa
non sussisteva comunque una violazione, poiché l’Austria non aveva ecceduto il
margine di apprezzamento che doveva esserle riconosciuto in ragione della
mancanza di un consensus sul punto
tra gli Stati membri del Consiglio d’Europa (ivi, parr. 104 ss.). La Corte ha poi ritenuto all’unanimità
l’inesistenza di una violazione dell’art. 12 C.E.D.U. e ha respinto, con una
maggioranza di soli quattro voti contro tre, la tesi del ricorrente di
esistenza di una violazione del combinato disposto degli artt. 8 e 14 C.E.D.U.
Su tale decisione cfr. Conte, Profili costituzionali del riconoscimento
giuridico delle coppie omosessuali alla luce di una pronuncia della Corte
europea dei diritti dell’uomo, Nota a Corte europea dei diritti dell’uomo, Schalk e Kopf c. Austria, in Corr. giur., 2011, p. 573 ss.; Conti, Convergenze (inconsapevoli o…naturali) e contaminazioni tra giudici
nazionali e Corte EDU: a proposito del matrimonio di coppie omosessuali, ibidem, 579 ss.; Winkler, Le famiglie
omosessuali nuovamente alla prova della Corte di Strasburgo, cit., p. 1148
ss.
[44] Cfr. Corte europea dei diritti dell’uomo, Grande
camera, 19 febbraio 2013, X e altri c.
Austria, in Guida dir., 2013, 11,
64 ss., con nota di Vaccaro. Sulla
decisione v. anche Fatta e Winkler, Le famiglie omogenitoriali all’esame della Corte di Strasburgo: il caso
della second-parent adoption, in Nuova
giur. civ. comm., 2013, p. 519 ss.
[45] Cfr. Corte europea dei diritti dell’uomo, Grande
camera, 7 novembre 2013, Vallianatos e
altri c. Grecia.
[46] Nella specie, va notato che, con una legge del 2008,
la Grecia, come la stragrande maggioranza dei Paesi europei, a differenza
dell’Italia, ha stabilito il regolamento delle unioni civili in base al
cosiddetto «Patto di libera convivenza» che, però (e a differenza, questa
volta, della maggioranza degli ordinamenti del Continente), espressamente
esclude le persone dello stesso sesso. Secondo il citato arresto, «la Grecia
recepisce le normative europee in fatto di unioni civili riconoscendo altresì
alle coppie non sposate e ai single
il diritto di procreare mediante inseminazione artificiale. Ai contraenti il
patto sono riconosciuti pieni diritti sui beni acquisiti dopo l’avvenuta
stipula. Esso regola inoltre altre questioni riguardanti la prole acquisita
eventualmente nel corso del patto, gli alimenti a quest’ultima in caso di
interruzione del patto e altre questioni ereditarie». Come pure rimarcato in
dottrina (cfr. Conte, Nota a Corte EDU, Vallianatos e altri c.
Grecia, in www.articolo29.it), la
normativa greca in oggetto determina una selezione in grado di produrre
discriminazione, e che viene valutata dalla Corte in termini di verifica della
sua obiettività e razionalità. La Sezione 1 della l. n. 3719/2008, riservando
espressamente la possibilità di contrarre un’unione civile soltanto a due
persone di sesso diverso, introduce una differenza di trattamento basata
sull’orientamento sessuale la quale – come è noto – per risultare ammissibile
richiede giustificazioni particolarmente chiare e circostanziate (riducendo, di
conseguenza, anche il margine di apprezzamento statale, cfr. § 77 della
pronuncia). L’argomento governativo, relativo al possibile utilizzo degli
strumenti di diritto privato per regolare aspetti della vita della coppie
omosessuali conviventi, a giudizio della Corte EDU non persuade: esso infatti
non pare tenere conto del rilievo pubblico derivante dal riconoscimento
giuridico nei confronti dell’unione in quanto tale, e del fatto che «same sex
couples are just as capable as different sex couples of entering into stable
committed relationships» (§ 81 della pronuncia). La Grecia, dunque,
introducendo una normativa sulle unioni civili riservata alle sole coppie
formate da persone di sesso diverso, si è collocata (insieme alla Lituania) in
una posizione isolata nel contesto europeo, ove invece la posizione delle
coppie eterosessuali ed omosessuali conviventi può giovarsi di orizzonti di
tutela maggiormente omogenei. La Corte precisa che tale posizione isolata non
implica, di per sé, una violazione della Convenzione, ma impone che vengano
addotti argomenti convincenti per motivare l’esclusione di determinate
categorie di soggetti dagli obiettivi della normativa nazionale. Questo, nel
presente caso, non avviene, e la Corte EDU, pertanto, dichiara con un voto di
16-1 la violazione congiunta degli articoli 14 e 8 della Convenzione.
[47] Cfr. Gattuso,
Il matrimonio tra persone dello stesso
sesso, loc. ult. cit.
[48] «60. Turning to the
comparison between Article 12 of the Convention and Article 9 of the Charter of
Fundamental Rights of the European Union (the Charter), the Court has already
noted that the latter has deliberately dropped the reference to men and women
(see Christine Goodwin, cited above, § 100). The commentary to the Charter,
which became legally binding in December 2009, confirms that Article 9 is meant
to be broader in scope than the corresponding articles in other human rights
instruments (see paragraph 25 above). At the same time the reference to
domestic law reflects the diversity of national regulations, which range from
allowing same-sex marriage to explicitly forbidding it. By referring to
national law, Article 9 of the Charter leaves the decision whether or not to
allow same-sex marriage to the States. In the words of the commentary: “... it
may be argued that there is no obstacle to recognize same-sex relationships in
the context of marriage. There is however, no explicit requirement that
domestic laws should facilitate such marriages.” 61. Regard being had to
Article 9 of the Charter, therefore, the Court would no longer consider that
the right to marry enshrined in Article 12 must in all circumstances be limited
to marriage between two persons of the opposite sex. Consequently, it cannot be
said that Article 12 is inapplicable to the applicants’ complaint. However, as
matters stand, the question whether or not to allow same-sex marriage is left
to regulation by the national law of the Contracting State». La Corte cita in tale decisione il caso Goodwin; va però tenuto conto del fatto
che il medesimo rationale, fondato
sul dialogo tra la Convenzione EDU e la Carta di Nizza si rinviene anche in Case of I. v The United Kingdom, 11
luglio 2002 (in causa n° 25680/94).
[49] Sul concetto di famiglia nella giurisprudenza della
Corte di Strasburgo cfr. anche Carr,
“Famiglia e famiglie”. Circolazione delle
persone e profili di armonizzazione: l’esperienza irlandese, cit., p. 80
ss.
[50] Long, Le fonti di origine extranazionale, cit.,
p.152.
[51] Così Gattuso,
Il matrimonio tra persone dello stesso
sesso, cit., p. 810.
[52] Sul punto cfr. Patti,
Modelli di famiglia e di convivenza,
in Patti e Cubeddu (a cura di), Introduzione
al diritto della famiglia in Europa, Milano, 2008, p. 114 ss.
[53] Corte europea dei diritti dell’uomo, 21 dicembre
1999, ricorso n. 33290/96, in JCP,
2000, I, p. 203, n. 11, Chron., con
nota di Sudre.
[54] Art. 14: «- Divieto di discriminazione.
Il godimento dei diritti e delle libertà riconosciuti
nella presente Convenzione deve essere assicurato senza nessuna
discriminazione, in particolare quelle fondate sul sesso, la razza, il colore,
la lingua, la religione, le opinioni politiche o di altro genere, l’origine
nazionale o sociale, l’appartenenza a una minoranza nazionale, la ricchezza, la
nascita o ogni altra condizione».
[55] Corte europea dir. uomo, 22 gennaio 2008, in Nuova giur. civ. comm., 2008, I, p. 667,
con nota di Long Rimarca Long, I giudici di Strasburgo socchiudono le porte dell’adozione agli
omosessuali, cit., p. 672 s., lamentando che tale decisione sia stata
fraintesa dai media, che il thema decidendum, come nel precedente
caso Fretté v. France, era costituito
«dal diritto a essere valutati idonei all’adozione e non il diritto
all’adozione, cioè a essere abbinati a un bambino adottabile dopo
l’accertamento dell’idoneità: l’inesistenza di tale diritto indifferentemente
dalle modalità scelte per vivere la propria vita di coppia costituisce intatti
principio ormai consolidato in tutti i Paesi dell’Europa occidentale». Sta però
di fatto che ciò che appare (gravemente) discriminatorio verso l’orientamento
omosessuale è proprio la negazione del diritto ad essere valutati idonei
all’adozione, per via di tale orientamento.
[56] Corte europea dei diritti dell’uomo, 26 febbraio
2002, parr. 38, 42.
[57] Long, I giudici di Strasburgo socchiudono le porte
dell’adozione agli omosessuali, cit., p. 673.
[58] Così Long,
op. loc. ultt. citt.
[59] Cfr. Oberto,
Problemi di coppia, omosessualità e
filiazione, locc. ultt. citt.
[60] Inutile dire che il profilo delle discriminazioni in
base alla sexual orientation tocca
non solo l’aspetto della genitorialità. Si pensi, ad esempio, al tema del
ricongiungimento familiare, sia nei casi riguardanti cittadini extraeuropei
soggiornanti in Italia, sia in relazione alle ipotesi che vedono protagonisti
cittadini comunitari o italiani, laddove la vigente disciplina italiana
espressamente esclude le coppie non unite in matrimonio dall’esercizio di tale
diritto. Nel primo caso, infatti, l’art. 29, d.lgs. 286/1998 (T.U. in materia
di immigrazione e trattamento dello straniero), espressamente limita al
«coniuge» dello straniero residente la possibilità di ottenere il
ricongiungimento familiare, escludendo dai beneficiari il partner non coniugato. Analoga impostazione si desume dalla
disciplina del ricongiungimento familiare dei cittadini comunitari di cui alla
direttiva recepita con d.lgs. 6 febbraio 2007, n. 30: l’art. 2, 1° co., lett.
b) n. 2), infatti, esclude dalla nozione di familiare rilevante ai fini della libera
circolazione il partner che abbia
contratto con il cittadino europeo un’unione registrata sulla base della
legislazione di uno Stato membro, se la legislazione dello Stato membro
ospitante non equipara l’unione registrata al matrimonio; a quanto pare, il
medesimo principio riguarda anche i familiari di cittadini italiani non aventi
la cittadinanza italiana, in forza del disposto dell’art. 23 d.lgs. 30/2007.
Sul punto potrà rilevarsi che la Corte d’appello di
Firenze, con provvedimento del 6 dicembre 2006, ha stabilito che poiché il
nostro ordinamento subordina il rilascio del permesso di soggiorno per motivi
familiari alla qualità di «familiare» del soggetto richiedente, il
provvedimento dell’autorità neozelandese che riconosce a due persone del medesimo
sesso la qualifica di partners di
fatto, cioè di conviventi, e non di familiari, non costituisce titolo idoneo
perché possa essere rilasciato il permesso di soggiorno ai sensi del d.lgs. n.
286/1998 (cfr. App. Firenze, 6 dicembre 2006, in Fam. e dir., 2007, p. 1040, con nota di Pascucci).
La predetta decisione è stata confermata dalla Suprema
Corte (cfr. Cass., 17 marzo 2009, n. 6441, in Fam. dir., 2009, p. 454, con nota di Acierno). Secondo, invero, la Cassazione, «In tema di
diritto dello straniero al ricongiungimento familiare, il cittadino
extracomunitario legato ad un cittadino italiano ivi dimorante da un’unione di
fatto debitamente attestata nel paese d’origine del richiedente, non può essere
qualificato come “familiare” ai sensi dell’ art. 30, primo comma, lettera c),
del d.lgs. n. 286 del 1998, in quanto tale nozione, delineata dal legislatore
in via autonoma, agli specifici fini della disciplina del fenomeno migratorio,
non è suscettibile di estensione in via analogica a situazioni diverse da quelle
contemplate, non essendo tale interpretazione imposta da alcuna norma
costituzionale. Né tale più ampia nozione può desumersi dagli artt. 8 e 12
della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo o dall’art. 9 della Carta di
Nizza (…) in quanto tali disposizioni escludono il riconoscimento automatico di
unioni diverse da quelle previste dagli ordinamenti interni, salvaguardando
l’autonomia dei singoli Stati nell’ambito dei modelli familiari. Infine, non
può trovare applicazione la più recente normativa di derivazione comunitaria,
in quanto il d.lgs. n. 5 del 2007 si applica soltanto ai familiari di
soggiornanti provenienti da paesi terzi e il d.lgs. n. 30 del 2007 tutela la
libertà di circolazione e di soggiorno dei cittadini UE e dei loro familiari
nel territorio di uno stato membro diverso da quello di appartenenza, e non il
diritto al ricongiungimento familiare con un cittadino di uno Stato membro
regolarmente residente e dimorante nel suo paese d’origine».
Quanto mai deludente appare la presa di posizione
della Suprema Corte con riguardo al contenuto ed agli effetti della Carta di
Nizza. Secondo la Cassazione, infatti, al fine di accedere ad una nozione di
«familiare» comprensiva anche del convivente omosessuale, non varrebbero le
disposizioni dell’art. 9 del predetto documento sovranazionale («Il diritto di
sposarsi e il diritto di costituire una famiglia sono garantiti secondo le
leggi nazionali che ne disciplinano l’esercizio»), posto che, «Se è vero che la
formulazione del citato art. 9 da un lato conferma l’apertura verso forme di
relazioni affettive di tipo familiare diverse da quelle fondate sul matrimonio
e, dall’altro, non richiede più come requisito necessario per invocare la
garanzia dalla norma stessa prevista la diversità di sesso dei soggetti del
rapporto, resta fermo che anche tale disposizione, così come l’art. 12 CEDU,
rinvia alle leggi nazionali per la determinazione delle condizioni per
l’esercizio del diritto, con ciò escludendo sia il riconoscimento automatico di
unioni di tipo familiare diverse da quelle previste dagli ordinamenti interni
che l’obbligo degli stati membri di adeguarsi al pluralismo delle relazioni
familiari, non necessariamente eterosessuali». Del tutto ignorato è rimasto,
invece, l’art. 21 della predetta Carta, che, come noto, fonda un chiaro divieto
di trattamenti discriminatori, a ragione, tra l’altro, delle «tendenze
sessuali». Quest’ultimo profilo viene, invece, velocemente sfiorato dalla
Cassazione con riguardo agli artt. 8 e 14 della Convenzione europea dei diritti
dell’uomo, in relazione alla (dai ricorrenti) lamentata «arbitraria ingerenza
nelle scelte del modello familiare, avente anche portata discriminatoria sulla
base degli orientamenti sessuali». Ma siffatto peculiare aspetto viene invece
espressamente scartato dalla Corte, «in quanto la mancata equiparazione al
coniuge è prevista in relazione a qualsiasi tipo di convivenza non
matrimoniale, e non soltanto per quelle tra persone dello stesso sesso».
Peraltro, che la via del matrimonio sia (da noi) irrimediabilmente sbarrata
agli omosessuali non sembra sfiorare neppure per un attimo le menti dei Supremi
Giudici. In senso contrario all’invocabilità del principio di non
discriminazione (sub specie, però, dell’art. 3 Cost.) si
esprime anche D’Angeli, Il fenomeno delle convivenze omosessuali:
quale tutela giuridica?, in I
quaderni della Riv. dir. civ., Padova, 2003, p. 18 ss., pervenendo alla non
condivisibile conclusione per cui la convivenza omosessuale, pur se formazione
sociale rilevante ex art. 2 Cost.,
non potrebbe assurgere al rango di «famiglia» (cfr. in partic. p. 18). Ora, se
si pone mente al fatto che il termine «famiglia» non può ormai essere negato
alla convivenza more uxorio tra
persone di sesso diverso (sul tema v. per tutti Oberto,
I regimi patrimoniali della famiglia di
fatto, Milano 1991, p. 21 ss.), appare più che lampante come la negazione
della medesima qualifica alla stabile unione affettiva tra persone del medesimo
sesso non tragga altra origine se non da una (preconcetta e gratuita)
discriminazione non basata su altra «ragione», che non sia proprio
l’orientamento sessuale. Negare la presenza di una discriminazione rilevante ai
sensi dell’art. 21 della Carta di Nizza (ma, quasi altrettanto certamente,
anche ex art. 3 Cost.) significa,
dunque, negare l’evidenza (ed infatti cfr. Trib. Venezia, 3 aprile 2009,
disponibile al sito web seguente: http://www.personaedanno.it/cms/data/articoli/014238.aspx).
[61] Gas e Dubois c. Francia – ric. n.
25951/07, 15 marzo 2012. Qui, all’interno di una coppia omosessuale unita da un
PACS francese, una delle due conviventi aveva chiesto l’adozione del figlio –
nato con le tecniche di fecondazione artificiale – della partner. Le autorità interne avevano rifiutato l’adozione
ritenendola contraria all’interesse superiore del minore e la Corte europea
aveva escluso la violazione dei parametri convenzionali, rilevando che la
legislazione francese non prevedeva che i conviventi avessero diritti identici
a quelli delle persone coniugate e che la stessa consentiva l’adozione alla
coppia sposata ma non alla coppia unita in base al PACS. Ragion per cui la
situazione dei conviventi uniti da un patto civile non era tale da consentire
alla coppia di aspirare ad un’adozione senza che ciò creasse alcuna
discriminazione. Inutile dire che la questione andrebbe oggi completamente
rivista, alla luce dell’introduzione Oltralpe del principio del mariage pour tous ed anzi; a ben vedere,
anzi, il problema non ha più neppure ragione di porsi.
[62] Cfr. Corte europea dei diritti dell’uomo, Grande
camera, 19 febbraio 2013, X e altri c.
Austria, in Guida dir., 2013, 11,
p. 64 ss., con nota di Vaccaro.
[63] Cass., 18 giugno 2008, n. 16593, cit.: «In tema di
separazione personale dei coniugi, alla regola dell’affidamento condiviso dei
figli può derogarsi solo ove la sua applicazione risulti “pregiudizievole per
l’interesse del minore”, con la duplice conseguenza che l’eventuale pronuncia
di affidamento esclusivo dovrà essere sorretta da una motivazione non solo più
in positivo sulla idoneità del genitore affidatario, ma anche in negativo sulla
inidoneità educativa ovvero manifesta carenza dell’altro genitore, e che
l’affidamento condiviso non può ragionevolmente ritenersi precluso dalla mera
conflittualità esistente tra i coniugi, poiché avrebbe altrimenti una
applicazione solo residuale, finendo di fatto con il coincidere con il vecchio
affidamento congiunto».
[64] Trib. Ferrara, 31 agosto 1948, in Giur. it., 1948, I, 2, c. 592.
[65] Trib. Napoli, 28 giugno 2006, in Giur. merito, 2007, p. 1572 ss., con nota di Fava; in Foro it., 2007, I, c. 138; in Fam.
dir., 2007, p. 621 ss., con nota di Iannaccone;
in Dir. fam. pers., 2007, p. 1691,
con nota di Manera.
[66] Cfr. ad es. Manera,
Se un’elevata conflittualità tra i
genitori (uno dei quali tacciato di omosessualità) escluda l’applicazione in
concreto dell’affidamento condiviso, Nota a Trib. Napoli, 28 giugno 2006,
in Dir. fam. pers., 2007, p. 1677, il
cui pensiero viene qui di seguito testualmente riportato: «non può, infine,
condividersi l’affermazione secondo cui una famiglia omosessuale avrebbe la
stessa valenza educativa di una famiglia eterosessuale, essendo agevole
replicare che, per una corretta ed armoniosa evoluzione della personalità e per
una normale socializzazione, il minore ha bisogno di identificarsi in validi
modelli genitoriali di riferimento, della necessaria compresenza di una figura
educatrice materna e paterna, perché l’assenza di una sola di tali figure
educative non favorisce il normale sviluppo della personalità, ma genera
disturbi psichici, confusioni, vuoti psicologici e profondi traumi, spesso
irreversibili, o irrisolti anche dopo molti decenni. Il minore ha, cioè,
necessità d’un padre e di una madre (e non di due padri o di due madri): la
realtà proverà l’esattezza di tale assunto, dopo che il legislatore avrà
consentito il matrimonio e l’adozione alle coppie omosessuali». In senso
diametralmente opposto v. invece Caggia,
Convivenze omosessuali e genitorialità:
tendenze, conflitti e soluzioni nell’esperienza statunitense, cit., p. 248
ss.
[67] E’ il caso della madre affidataria convivente con partner che impone la sua personalità
invadente (Trib. Velletri, 25 novembre 1977, in Dir. fam. pers., 1978, p.
886), così come è stata ritenuta scorretta la condotta del genitore affidatario
che cerca di spostare l’amore dei figli verso il proprio convivente (Cass., 12
febbraio 1971, n. 364, in Rep. Foro it.,
1973, voce Separazione di coniugi, n.
60); del pari, suscita allarme – per i possibili riflessi negativi sulla prole
– la relazione che si risolva in compagnie occasionali o nella frequenza di
alberghi malfamati (Cass., 22 dicembre 1976, n. 4706, in Dir. fam. pers., 1977, p. 113).
[68] Così Long,
I giudici di Strasburgo socchiudono le
porte dell’adozione agli omosessuali, cit., p. 672.
[69] Sull’idoneità de
facto di numerose coppie omosessuali a svolgere un ruolo genitoriale v. le
ponderate e documentate riflessioni di Caggia,
Convivenze omosessuali e genitorialità: tendenze,
conflitti e soluzioni nell’esperienza statunitense, cit., p. 248 ss.
[70] Trib. Bologna, 15 luglio 2008, in Fam. e min., 2008, n. 9, p. 78 ss., con
nota di Vaccaro; in Giur. it., 2009, p. 1164, con nota di Falletti, secondo cui «Il semplice fatto
che uno dei genitori sia omosessuale non giustifica – e non consente di
motivare – la scelta restrittiva dell’affidamento esclusivo della figlia minore
di genitore omosessuale».
[71] Evidenti, qui, da un lato, la confusione con la non lontana
Mikonos – o, meglio, con l’idea che di essa vige nell’immaginario collettivo
(visto che, in realtà, l’isola è per lo più frequentata da cospicue torme di
«truzzi» romani) –e, dall’altro, rigurgiti di antichi pregiudizi riferiti al
famigerato «unspeakable vice of
the Greeks».
[72] Cass., 19 giugno 2008, n. 16593, cit.
[73] Sul punto la giurisprudenza di merito ha statuito che
«in tema di separazione giudiziale dei coniugi, va escluso l’affidamento
condiviso dei figli minori a fronte del totale disinteresse mostrato da uno dei
genitori per i figli stessi (nella specie, è stato disposto l’affido esclusivo
alla madre della figlia quindicenne, essendo emerso nel giudizio che il padre
non la vedeva da oltre due anni, disinteressandosi completamente di lei, non versando
il contributo per il mantenimento e tenendo condotte elusive e di ostacolo alle
iniziative della madre)» (Trib. Bologna, 17 aprile 2008, in Foro it., 2008, I, c. 1914).
[74] Così Mantovani,
(Presunta) omosessualità di un genitore,
idoneità educativa e rilievo della conflittualità ai fini dell’affidamento,
Nota a Cass., 18 giugno 2008, n. 16593, in Nuova
giur. civ. comm., 2009, I, p. 70.
[75] Cfr. ad es. Albanese,
La mamma lesbica può tenere i figli,
in La Stampa, 30 dicembre 2010, p.
21, in cui si dà atto di un provvedimento emanato in sede di udienza
presidenziale di separazione da parte del presidente del tribunale di Nicosia,
in merito alla circostanza per cui «l’eventuale relazione omosessuale della
madre separanda, laddove non comporti pregiudizio per la prole, non costituisce
ostacolo all’affidamento condiviso dei minori ed alla individuazione della
dimora degli stessi presso l’abitazione della madre».
[76] Cfr. Cass., 11 gennaio 2013, n. 601, in Corr. giur., 2013, p. 436, con nota di
V. Carbone; in Fam. dir., 2013, p. 570, con nota di Ruscello; in Giur. it., 2013, p. 1036, con note di Barbara e di Winkler;
in Nuova giur. civ. comm., 2013, p.
432, con nota di Murgo. Cfr.
inoltre le osservazioni di Paparo,
in Giur. it., 2013, p. 5, nonché Franco, Il «gesto di Ettore»: dalla tradizione al cambiamento antropologico,
in Nuova giur. civ. comm., 2013, II,
p. 506 ss.
[77] Mi riferisco, in particolare, a due pronunzie,
rispettivamente, del giudice tutelare di Parma, 3 luglio 2013, e del tribunale
dei minorenni di Bologna, 31 ottobre 2013, annotate da Conti, Sull’affidamento
di minore ad una coppia dello stesso
sesso. Prime note a margine delle decisioni del G.T.Parma, 3 luglio 2013 e del
Trib. Min. Bologna, 31 ottobre 2013, in http://www.magistraturademocratica.it/mdem/qg/articolo.php?id=270.
Per un’analoga vicenda genovese cfr. Preve,
Genova, bambina affidata a due mamme gay.
“Da cinque anni vivono tutte felici”, in La Repubblica, 17 novembre 2013. Di altri casi concreti riferisce Bilotta, Omogenitorialità, adozione e affidamento familiare, in A. Schuster (a cura di), Omogenitorialità. Filiazione, orientamento
sessuale e diritto, cit., p. 202 ss. Sul tema v. anche Rimini, L’affidamento familiare ad una coppia omosessuale: il diritto del
minore ad una famiglia e la molteplicità dei modelli familiari, in Corr. giur., 2014, p. 155 ss.
[78] Il virgolettato è qui d’obbligo, essendo, come noto,
il concetto di «accusa» intimamente legato a quello di «colpa».
[79] Cass., 18 giugno 2008, n. 16593, cit.
[80] Così Mantovani,
(Presunta) omosessualità di un genitore,
idoneità educativa e rilievo della conflittualità ai fini dell’affidamento,
cit., p. 70 ss.; Amram, Corte di Cassazione e giurisprudenza di
merito: alla ricerca di un contenuto per l’interesse superiore del minore,
Nota a Cass., 18 giugno 2008, n. 16593, in Fam.
dir., 2008, p. 1106 ss.
[81] Così Long,
I giudici di Strasburgo socchiudono le
porte dell’adozione agli omosessuali, cit., p. 676.
[82] Trib. Min. Catanzaro, 27 maggio 2008, in Fam. e
minori, 2008, 10, p. 86.
[83] V. supra, §
1.
[84] Rileva Long,
I giudici di Strasburgo socchiudono le
porte dell’adozione agli omosessuali, cit., p. 675, che «Tutti i Paesi
dell’Europa occidentale, a eccezione del Lussemburgo e dell’Italia, equiparano
la coppia coniugata e il singolo nell’accesso all’adozione. L’obiettivo è di
favorire quanto più possibile le adozioni al fine di offrire una protezione
stabile e definitiva ai minori abbandonati (…). La Francia, in particolare,
consente al singolo sia l’adozione legittimante (adoption plénière) sia l’adozione non legittimante (adoption simple). Il singolo e i coniugi
che desiderino adottare un minore con adozione plénière devono essere preventivamente dichiarati idonei dal président du Conseil général du Département di
loro residenza. La dichiarazione di idoneità (agrément) è emanata a seguito di un’istruttoria svolta interamente
ed esclusivamente dai servizi socio-assistenziali territoriali (in Italia
invece, com’è noto, l’istruttoria è condivisa tra i servizi e l’autorità
giudiziaria e a quest’ultima spetta la decisione finale). Sebbene la legge non
contenga alcuna norma che regoli espressamente l’adozione da parte della persona
omosessuale, i servizi rifiutano quasi sistematicamente l’agrément ai singoli che si dichiarino omosessuali: il loro choix de vie, infatti, sarebbe contrario
all’interesse del minore in quanto lo priverebbe di un riferimento genitoriale
dell’altro sesso (…). L’operato dei servizi sociali è confermato dalla
giurisprudenza amministrativa consolidata (che decide l’impugnazione contro il
provvedimento del président du Conseil
général) con l’autorevole avallo del Conseil
d’Etat». E’ chiaro che un siffatto stato di cose è ormai destinato a mutare
radicalmente, sotto l’impatto, da un lato, della giurisprudenza di Strasburgo
e, dall’altro, dell’introduzione del mariage
pour tous. Ed infatti è del 17 ottobre 2013 la decisione del Tribunal de grande instance di Lille,
che ha disposto l’adoption plénière dei due figli minorenni di una
donna da parte della donna con cui la predetta era appena convolata a nozze
(cfr. http://www.francetvinfo.fr/un-couple-de-femmes-beneficie-de-la-premiere-adoption-pleniere_438666.html).
Per una serie di stringenti e convincenti critiche alla norma che, in Italia,
esclude l’adozione in casi particolari da parte del convivente del genitore
biologico cfr. Bilotta, Omogenitorialità, adozione e affidamento
familiare, cit., p. 222 ss.
[85] Si è esattamente rilevato in dottrina che, in tal
modo, sembra operare una «logica degli affetti» (cfr. Rodotà, Dal soggetto
alla persona, Napoli, 2007, p. 57): nonostante il venir meno di uno dei
coniugi o nonostante la sua intervenuta incapacità, ove i presupposti di
accoglienza, di apertura all’altro e l’idoneità ad essere genitori permangano,
nell’interesse del minore l’adozione può essere disposta nei confronti di
entrambi, con effetto, per il coniuge deceduto, dalla data della morte.
Soprattutto in caso di morte, ci si trova di fronte ad una fictio iuris, il cui senso si rinviene nel particolare rapporto
istauratosi nel periodo dell’affidamento preadottivo. Ove la formazione sociale
che residua dalla scomparsa di uno dei coniugi sia concretamente idonea ad
esercitare positivamente la prevista funzione educativa, non sembrano emergere
ostacoli a che l’adozione sia pronunciata anche a favore di entrambi i coniugi,
benché uno solo sia ancora in vita. Per altro verso, in caso di morte del
coniuge nulla impedisce al coniuge superstite di contrarre un nuovo matrimonio
o di dar vita ad una famiglia di fatto, dopo che l’adozione sia stata disposta:
è una vicenda che potrebbe realizzarsi anche in una famiglia legittima, nella
quale venga meno uno dei coniugi (cfr. Franco,
op. cit., p. 515).
[86] Per un esempio v. App. Torino, 30 ottobre 2000, in Minorigiustizia, 2001, n. 1, p. 162. Su
di un’infelice decisione del tribunale di Brescia in merito alla trascrizione
in Italia di un provvedimento d’adozione di una coppia omosessuale coniugata
negli stati uniti v. infra, § 12.
[87] Cfr. Long,
I giudici di Strasburgo socchiudono le
porte dell’adozione agli omosessuali, cit., p. 675. Un’ampia panoramica
sulle normative dei Paesi che consentono l’adozione a coppie omosessuali è
offerta da Bilotta, Omogenitorialità, adozione e affidamento
familiare, cit., p. 206 ss.
[88] Cfr. artt. 377, 377-1,
377-2, 377-3 del Code Civil:
«Article 377.
Les père et mère,
ensemble ou séparément, peuvent, lorsque les circonstances l’exigent, saisir le
juge en vue de voir déléguer tout ou partie de l’exercice de leur autorité
parentale à un tiers, membre de la famille, proche digne de confiance,
établissement agréé pour le recueil des enfants ou service départemental de
l’aide sociale à l’enfance.
En cas de désintérêt
manifeste ou si les parents sont dans l’impossibilité d’exercer tout ou partie
de l’autorité parentale, le particulier, l’établissement ou le service
départemental de l’aide sociale à l’enfance qui a recueilli l’enfant peut
également saisir le juge aux fins de se faire déléguer totalement ou
partiellement l’exercice de l’autorité parentale.
Dans tous les cas visés
au présent article, les deux parents doivent être appelés à l’instance. Lorsque
l’enfant concerné fait l’objet d’une mesure d’assistance éducative, la
délégation ne peut intervenir qu’après avis du juge des enfants.
Article 377-1.
La délégation, totale ou
partielle, de l’autorité parentale résultera du jugement rendu par le juge aux
affaires familiales.
Toutefois, le jugement de
délégation peut prévoir, pour les besoins d’éducation de l’enfant, que les père
et mère, ou l’un d’eux, partageront tout ou partie de l’exercice de l’autorité
parentale avec le tiers délégataire. Le partage nécessite l’accord du ou des
parents en tant qu’ils exercent l’autorité parentale. La présomption de
l’article 372-2 est applicable à l’égard des actes accomplis par le ou les
délégants et le délégataire.
Le juge peut être saisi
des difficultés que l’exercice partagé de l’autorité parentale pourrait générer
par les parents, l’un d’eux, le délégataire ou le ministère public. Il statue
conformément aux dispositions de l’article 373-2-11.
Article 377-2.
La délégation pourra,
dans tous les cas, prendre fin ou être transférée par un nouveau jugement, s’il
est justifié de circonstances nouvelles.
Dans le cas où la
restitution de l’enfant est accordée aux père et mère, le juge aux affaires familiales
met à leur charge, s’ils ne sont indigents, le remboursement de tout ou partie
des frais d’entretien.
Article 377-3.
Le droit de consentir à
l’adoption du mineur n’est jamais délégué». Sul
tema v. anche M.G. Stanzione, Rapporti di filiazione e “terzo genitore”:
le esperienze francese e italiana, in Fam.
dir., 2012, p. 201 ss.
[89] Cfr. App. Montpellier, 1 décembre 2006, disponibile
al sito web seguente: http://www.legifrance.gouv.fr/affichJuriJudi.do?oldAction=rechExpJuriJudi&idTexte=JURITEXT000007633168&fastReqId=1865519338&fastPos=1.
[90] Cfr.
BverfG, 10 agosto 2009, disponibile
al seguente sito web: http://www.bundesverfassungsgericht.de/entscheidungen/lk20090810_1bvl001509.html;
per il comunicato stampa cfr. http://www.bundesverfassungsgericht.de/pressemitteilungen/bvg09-098.html;
per un’informazione in lingua inglese cfr. http://www.ilga-europe.org/europe/guide/country_by_country/germany/important_steps_towards_common_adoption_for_homosexual_parents_in_germany.
([91]) Cfr. BverfG, 19 febbraio 2013,
disponibile al seguente sito web: http://www.bundesverfassungsgericht.de/entscheidungen/2013/2/19: «Die Nichtzulassung der
sukzessiven Adoption angenommener Kinder eingetragener Lebenspartner durch den
anderen Lebenspartner verletzt sowohl die betroffenen Kinder als auch die
betroffenen Lebenspartner in ihrem Recht auf Gleichbehandlung (Art. 3 Abs. 1
GG)». Per un commento alla decisione cfr.
Brunetta d’Usseaux, Adozione del figlio adottivo: un nuovo
tassello nell’equiparazione tra coppie etero e coppie dello stesso sesso in
Germania, in Nuova giur. civ. comm.,
2013, p. 375 ss.
[92] Per una rassegna di pareri favorevoli a questa
prospettiva cfr. Franco, op. cit., p. 517 s.
[93] Dogliotti,
Adozione di maggiorenni e minori. Artt.
291-314. L. 4 maggio 1983, n. 184. Diritto del minore a una famiglia, in Il Codice Civile. Commentario fondato e
già diretto da Piero Schlesinger, continuato da Francesco Donato Busnelli,
Milano, 2002, p. 173 s., nota 7; contra
Dell’Utri, Dell’adozione di persone maggiori di età e dei suoi effetti, in Aa. Vv.,
Commentario del codice civile,
diretto da Enrico Gabrielli. Della
Famiglia, a cura di Luigi Balestra, artt. 177-342 ter, Torino, 2010, p. 690, secondo cui anche il coniuge del primo
adottante incapperebbe nel divieto, qualora la domanda d’adozione venisse
formulata dopo la morte del precedente, «attesa l’incidenza risolutiva sul
vincolo matrimoniale spiegata dal decesso, tale ad escludere la legittimazione
alla deroga del divieto della seconda adozione, consentita al solo marito o
alla sola moglie (attuali) dell’adottante». Nel senso che si debba escludere
l’adozione ordinaria di una persona già adottata, a nulla rilevando che
l’adottante sia deceduto, cfr. Trib. Milano, 21 novembre 1988, in Dir. fam. pers., 1989, p. 188.
[94] Cfr. Oberto,
I contratti della crisi coniugale,
II, Milano, 1999, p. 1091 ss.; Id.,
Gli accordi concernenti la prole nella
crisi coniugale, in Dir. fam. pers.,
1999, p. 271 ss.; Id., Contratto e famiglia, in Aa. Vv., Trattato del contratto, a cura di Roppo, VI, Interferenze, a cura di Roppo, Milano, 2006, p. 304 ss.
[95] Per i necessari richiami ed approfondimenti cfr. Oberto, I contratti della crisi coniugale, I, Milano, 1999, p. 627 ss., II,
p. 1085 ss.; Id., Contratto e famiglia, cit., p. 272 ss.,
304 ss.; Id., I diritti dei conviventi. Realtà e prospettive tra Italia ed Europa,
cit., p. 81 ss.
[96] Per questo peculiare profilo cfr. Oberto, Atti di destinazione (art. 2645-ter c.c.) e trust: analogie e
differenze, in Contratto e
impresa/Europa, 2007, p. 351 ss.; Id.,
Vincoli di destinazione ex art. 2645-ter c.c. e rapporti patrimoniali tra coniugi, in Fam. dir., 2007, p. 202 ss.; Id.,
I diritti dei conviventi. Realtà e
prospettive tra Italia ed Europa, cit., p. 133 ss.
[97] Ovviamente solo se e nella misura in cui si ritenga
ammissibile, secondo il nostro diritto interno, il ricorso a tale figura: per
approfondimenti cfr. per tutti Oberto,
Trust e autonomia negoziale nella
famiglia, in Fam. dir., 2004, p.
201 ss., 310 ss.; Id., Il trust familiare, disponibile al seguente indirizzo web: https://www.giacomooberto.com/milano11giugno2005trust/relazionemilano.htm;
Id., Atti di destinazione (art. 2645-ter c.c.) e trust: analogie e
differenze, cit., p. 351 ss.; Bartoli,
Riflessioni sul «nuovo» art. 2645 ter c.c. e sul rapporto fra negozio di destinazione
di diritto interno e trust, in Giur.
it., 2007, p. 1297 ss.; Galluzzo,
Crisi coniugale e mantenimento della
prole: trasferimenti una tantum e
art. 2645-ter c.c., Nota a Trib.
Reggio Emilia, 26 marzo 2007, in Fam. dir.,
2008, p. 619 ss.; Monteleone, I vincoli di destinazione ex art. 2645 ter c.c. in sede di accordi di separazione, Nota a Trib. Reggio Emilia,
26 marzo 2007, in Giur. it., 2008, p.
629 ss.; Partisani, L’art. 2645 ter c.c.: le prime applicazioni nel diritto di famiglia, Nota a Trib.
Reggio Emilia, 26 marzo 2007, in Famiglia,
pers., succ., 2007, p. 779 ss.; Severi,
Obbligo di mantenimento del minore e
destinazione dei beni, in Fam. pers.
succ., 2008, p. 2536 ss.
[98] Modelli, formule e clausole sono stati redatti con la
fattiva collaborazione dei Notai Antonio Diener e Francesco Striano e
commentati dallo scrivente in Consiglio
Nazionale del Notariato, Guida operativa in tema di convivenza.
Vademecum sulla tutela patrimoniale del
convivente more uxorio in sede di
esplicazione dell’autonomia negoziale. Contratti
di convivenza open day, 30 novembre 2013; per quelli riferibili alle
situazioni qui in esame cfr. in particolare p. 50 ss., 73 s., 75 ss. Inutile
dire che la scomposta reazione dell’O.U.A. all’iniziativa assunta dal Consiglio
Nazionale del Notariato (cfr. il comunicato stampa del 13 novembre 2013, in http://www.oua.it/Documenti/2013.11.19%20-%20Coppie%20di%20fatto.pdf,
che, tra le altre amenità, accusa il Notariato di operare «un’invasione di
campo», senza tener conto del fatto che rimproverare ai notai di occuparsi di
materia negoziale è come rinfacciare al Papa di occuparsi della dottrina
cattolica…) altro non fa se non comprovare la bontà dell’idea che il predetto
Consiglio ha avuto l’accortezza di lanciare (affidandone la concreta
realizzazione allo scrivente, con la cooperazione dei citati Notai, oltre che
dell’amico Prof. Luigi Balestra), muovendo acque da troppo tempo stagnanti.
[99] Per richiami sul tema si fa rinvio a Oberto, Gli accordi patrimoniali tra coniugi in sede di separazione o divorzio
tra contratto e giurisdizione: il caso delle intese traslative, dal 4 marzo 2009
disponibile al seguente indirizzo web:
https://www.giacomooberto.com/trasferimenti/taormina2009/relazione_oberto_taormina.htm (cfr. in
partic. §§ 15 ss.); v. inoltre Id.,
Trasferimenti patrimoniali in favore
della prole operati in sede di crisi coniugale, Nota a Trib. Salerno, 4
luglio 2006, in Fam. dir., 2007, p.
64 ss.
[100] Su tale fenomeno quale causa di obbligazioni naturali cfr. per tutti Balestra, Le obbligazioni naturali, in Trattato di diritto civile, già diretto da Cicu-Messineo-Mengoni, continuato da Schlesinger, Milano, 2004, p. 80 s.
[101] Sul tema v. per tutti Oberto,
I regimi patrimoniali della famiglia di
fatto, Milano, 1991, p. 83 ss.
[102]
Si tenga però presente la diversa regolamentazione, in punto revocabilità (art.
805 c.c.), evizione (art. 797, n. 3 c.c.) e obbligo alimentare (art. 437 c.c.),
che contraddistingue le donazioni rimuneratorie dalle comuni donazioni.
[103] Per l’applicazione
di siffatti principi ai rapporti inter coniuges cfr. Oberto, Il regime di separazione dei
beni tra coniugi. Artt. 215-219, in Il codice civile. Commentario
fondato e già diretto da P. Schlesinger, continuato da F.D. Busnelli, Milano,
2005, p. 224.
[104] Cfr. Oberto,
I diritti dei conviventi. Realtà e
prospettive tra Italia ed Europa, cit., p. 38 ss.
[105] Cfr. Cass., 29 luglio 1968, n. 2727, in Foro pad., 1970, I, p. 46, con nota di Moscarini; la decisione richiama anche
la precedente Cass., 21 aprile 1956, n. 1227. In dottrina afferma l’idoneità
del contratto a favore di terzi a porre in essere una donazione indiretta, tra
gli altri, Fusaro, Il contratto a favore di terzi, in Aa. Vv., Trattato del contratto, a cura di E. Roppo, III, Effetti, a cura di M. Costanza, Milano,
2006, p. 185. Sembra invece porre una distinzione tra contratto a favore di
terzo e donazione indiretta, assorbendo, per così dire, l’intento liberale
dello stipulante nell’interesse morale di quest’ultimo, Cass., 1° agosto 1994,
n. 7160, in Vita notar., 1995, p.
339: la decisione indaga peraltro la questione nell’ottica dello stipulante e
non già in quella (qui in esame) del promittente.
Per ulteriori ragguagli in tema cfr. Moscarini, Il contratto a favore di terzo, Milano, 1997, p. 108 s., ad avviso
del quale «la nozione di contratto a favore di terzi coglie essenzialmente il
profilo strutturale mentre quella della donazione indiretta si appunta agli
effetti e individua tutte le ipotesi caratterizzate dalla produzione di un
certo tipo di effetti, tra le quali può annoverarsi anche il contratto a favore
di terzi donandi causa»; le due nozioni sono pertanto «suscettibili di utile
sovrapposizione: la nozione di contratto a favore di terzi, che coglie il
profilo strutturale della fattispecie, implica l’applicazione della relativa
disciplina; la nozione di donazione indiretta, volta ad individuare il
risultato economico di liberalità, ossia di vantaggio non corrispondente ad una
controprestazione e neppure ad un vantaggio di altro tipo, implica, sempre sul
piano normativo, l’assoggettamento della fattispecie ad un certo corredo di
regole considerato inscindibile, proprio in quanto connesso con la materialità
del risultato, dal fenomeno della liberalità».
[106] Per i riferimenti cfr. sempre Fusaro, op. cit.,
p. 183 ss.; in giurisprudenza v. i richiami in Cass., 1° agosto 1994, n. 7160,
cit.
[107] Ed infatti, nel senso che solo le somme versate dallo
stipulante, in vita, a titolo di premio assicurativo «possono considerarsi
oggetto di liberalità indiretta a favore del terzo designato come beneficiario,
con la conseguenza dell’assoggettabilità all’azione di riduzione proposta
eventualmente dagli eredi legittimari», cfr. Cass., 23 marzo 2006, n. 6531, in Resp. civ. e prev., 2006, p. 1734; in Guida al dir., 2006, 18, p. 74.
[108] Cfr. Pacchioni,
I contratti a favore dei terzi. Studio di diritto romano, civile e
commerciale, Milano, s.d., ma 1913, p. 181.
[109] Ed infatti la già citata Cass., 29 luglio 1968, n.
2727 affermò la validità (pur escludendone la natura di contratto a favore di
terzi) dell’impegno con il quale un soggetto aveva promesso al fratello
consanguineo (figlio dello stesso padre, ma di madri diverse) di versargli una
somma periodica di denaro per contribuire al mantenimento, non già di
quest’ultimo, ma della sua madre, matrigna del promittente (in una situazione,
dunque, del tutto simile a quella qui in esame di famiglia ricomposta, in cui
il genitore sociale assume però, all’opposto del caso qui ipotizzato, il ruolo
di «utilizzatore finale» dell’attribuzione, invece che quello di soggetto
obbligato). Quest’ultima non era infatti indicata nell’intesa quale
beneficiaria del diritto all’attribuzione. Sul punto la Corte affermò che «deve
considerarsi avente causa lecita una promessa di pagamento rivolta a promettere
il pagamento di un contributo per il sostenimento della matrigna a favore del
proprio fratello consanguineo, che cura il mantenimento della propria madre,
ove il giudice del merito abbia insindacabilmente accertato che, escluso ogni
errore, la parte si era spontaneamente determinata alla promessa per adempiere
ad un proprio dovere morale, in quanto rivolto a ricambiare le cure verso di
lui avute dalla matrigna medesima».
Di un certo interesse, ancorchè esulante dal tema qui
in discussione, appare la questione dell’esistenza di punti di riferimento
normativi che consentano di fondare accordi della crisi coniugale anche con
riguardo alla situazione di figli unilaterali, nel momento in cui i coniugi
della famiglia ricostituita o ricomposta (coniugi, appunto, non conviventi more uxorio) si separino o divorzino.
Chi scrive è, invero, dell’avviso che, tra i possibili «contratti di famiglia
ricomposta» (cfr. Oberto, Famiglie ricostituite: aspetti patrimoniali,
diritti e responsabilità del genitore sociale. (Traccia per una relazione),
in http://giacomooberto.com/oberto_famiglie_ricostituite_traccia_relazione_milano_2012.htm,
§ 13) – ma nella specie sarebbe più corretto parlare di «contratti sulla crisi
della famiglia ricomposta» – rientrino accordi ascrivibili alla categoria delle
«condizioni della separazione consensuale» (cfr. art. 711 c.p.c.), o a quella
delle «condizioni inerenti alla prole e ai rapporti economici» (cfr. art. 4,
sedicesimo comma, l.div.: in questo caso, ovviamente, il richiamo è ai soli
«rapporti economici», non essendo la prole «bilaterale»), secondo la
definizione dallo scrivente più volte data (cfr. Oberto, I contratti
della crisi coniugale, I, cit., p. 700 s.). Non vi è dubbio, infatti, che
il genitore biologico ben potrebbe ritenere di addivenire alla conclusione di
un accordo di crisi coniugale alla sola condizione che il coniuge, o ex tale,
s’accolli prestazioni di carattere patrimoniale a beneficio della propria prole
unilaterale (e «prole sociale» dell’altro), magari rinunziando in contropartita
a pretese per sé. Da tale assunto derivebbero la possibilità di includere
siffatte intese nel verbale di separazione consensuale o di divorzio su domanda
congiunta, così come l’applicabilità dell’art. 19, della legge n. 74/1987.
A proposito di quest’ultima norma andrà detto che la
stessa, sostanzialmente abrogata a partire dal 1° gennaio 2014, è stata inopinatamente
«resuscitata» da una sorprendente lettura (tanto benevola per il contribuente e
– sia chiaro! –sacrosanta sotto il profilo dell’opportunità, quanto
radicalmente infondata sul piano tecnico-giuridico) fornita dalla circolare
dell’Agenzia delle Entrate n. 2/E del 21 febbraio 2014, non per nulla del tutto
carente in parte qua della benchè
minima motivazione. Si riporta qui la porzione rilevante del citato
provvedimento amministrativo: «9.2
Procedimenti in materia di separazione e divorzio. L’articolo 19 della
legge 6 marzo 1987, n. 74, dispone che “tutti gli atti, i documenti ed i
provvedimenti relativi al procedimento di scioglimento del matrimonio o di
cessazione degli effetti civili del matrimonio nonché ai procedimenti anche
esecutivi e cautelari diretti ad ottenere la corresponsione o la revisione
degli assegni di cui agli artt. 5 e 6 della legge 1° dicembre 1970, n. 898,
sono esenti dall’imposta di bollo, di registro e da ogni altra tassa”. Come chiarito con la circolare 21 giugno 2012,
n. 27, tali disposizioni di favore si riferiscono a tutti gli atti, documenti e
provvedimenti che i coniugi pongono in essere nell’intento di regolare i
rapporti giuridici ed economici ‘relativi’ al procedimento di scioglimento del
matrimonio o di cessazione degli effetti civili dello stesso. Qualora
nell’ambito di tali procedimenti, vengano posti in essere degli atti di
trasferimento immobiliare, continuano ad applicarsi, anche successivamente al
1° gennaio 2014, le agevolazioni di cui alla citata legge n. 74 del 1987.
L’articolo 10, comma 4, del decreto non esplica effetti con riferimento a tali
disposizioni agevolative che assicurano l’operatività dell’istituto in
argomento». Inutile ricordare che, in realtà, l’art. 10, comma 4, del d. lgs.
n. 23/2011 dispone testualmente che «in relazione agli atti di cui ai commi 1 e
2 sono soppresse tutte le esenzioni e le agevolazioni tributarie, anche se
previste in leggi speciali». Ora, «leggi speciali» non erano certo solo quelle
che prevedevano esenzioni e agevolazioni esclusivamente
in relazione agli atti ivi descritti (trasferimenti immobiliari), bensì tutte
quelle che comportavano tali effetti in relazione quegli atti (i trasferimenti
immobiliari, appunto), vuoi «isolatamente», vuoi nel contesto di esenzioni più
ampie e diverse: proprio come previsto dall’art. 19 cit., la cui «specialità»
era costituita non già dal fatto di concernere solo (tanto che siffatto avverbio, lo si ripete, nel citato art. 10
non compare!) la materia dei trasferimenti, bensì dalla circostanza di attenere
ad una «materia speciale», quale il diritto tributario della crisi coniugale
(e, dunque, inevitabilmente, anche il diritto tributario dei trasferimenti
immobiliari in sede di crisi coniugale), rispetto alla «materia generale»
costituita dal riordino della normativa fiscale sui trasferimenti immobiliari
nel suo sconfinato complesso.
[110] Sul punto v. per tutti Oberto, I contratti
della crisi coniugale, I, cit., p. 696 ss.
[111] Sul punto cfr. per tutti Oberto, Accordi tra
conviventi e diritti del minore alla luce della riforma sull’affidamento
condiviso, in Facchini, Fissore, Naggar,
Oberto e Ronfani, Il nuovo rito
del contenzioso familiare e l’affidamento condiviso – Le riforme del diritto di
famiglia viste dagli avvocati – Commenti, formulari e documenti, cit., p.
274 ss.
[112] «In a civil partnership where children are involved within the family, a
“Statement of Arrangements”, should be filed. This should include any plans for
the children after the dissolution has taken place»: cfr. http://www.civilpartnershipinfo.co.uk/#Dissolution. La norma di
riferimento è il Par. 43 del Civil
Partnership Act 2004, su cui v. http://www.opsi.gov.uk/acts/acts2004/ukpga_20040033_en_3#pt2-ch2-pb2-l1g44.
[113] In tal caso si sarebbe trattato del Tribunale per i
minorenni, sino alla riforma della filiazione del 2012-2013 (cfr., per la
determinazione delle questioni attinenti a quella che in allora si chiamava
potestà dei genitori, Cass., 7 maggio 2009, n. 10569, in Fam. dir., 2009, p. 992, con nota di Vullo). A seguito della riforma suddetta, che ha determinato
la modifica dell’art. 38 disp. att. c.c., non vi è dubbio che la competenza a
discutere delle controversie sulla gestione della responsabilità genitoriale inter parentes, sebbene non coniugati,
competa al Tribunale ordinario. Va però anche tenuta in conto la possibilità
che il Tribunale per i minorenni sia investito ai sensi dell’art. 333 c.c.
L’ipotesi che qui si prospetta, è, infatti, non già quella della crisi del
rapporto affettivo tra i genitori biologici, bensì quella tra un genitore
biologico ed il «genitore sociale». In tal caso è evidente che gli artt. 337-bis ss. c.c. sono fuori gioco, a meno
che non sia in qualche modo «riesumabile» la lite tra i genitori biologici, che
ha però avuto luogo tempo addietro e nella quale al «genitore sociale» non è
consentito inserirsi. La procedura ex
art. 333 c.c. potrebbe invece essere azionata, ex art. 336 c.c., dal P.M., opportunamente «sollecitato» dal
«genitore sociale».
[114] Cfr. Long,
Il diritto italiano della famiglia alla
prova delle fonti internazionali, cit., p. 677.
[115] Anche se in tal caso, a ben vedere, non è certo la
genitorialità omosessuale ad essere di per sé tutelata, quanto, ancora una
volta, l’interesse del minore, mentre l’«omogenitore» si rende mero strumento
di tale interesse.
[116] Dispongono una limitazione della responsabilità dei
genitori ex art. 333 c.c. per
consentire i contatti tra nipoti e nonni cui il genitore esercente la
responsabilità o l’affidatario del minore impediva di frequentare i nipoti
minorenni Cass., 24 febbraio 1981, n. 1115, in Foro it., 1982, I, c. 1144 e, nella giurisprudenza di merito, Trib.
Min. Perugia, 12 giugno 1979, in Giur.
merito, 1980, p. 6; Trib. Min. Torino, 11 maggio 1988, in Giur. it., 1989, I, 2, p. 234; Trib.
Min. Bari, 10 gennaio 1991, in Giur.
merito, 1992, p. 571; Trib. Min. Messina, 19 marzo 2001, in Dir. fam. pers., 2001, p. 1522.
[117] Cfr. ad es. Cass., 13 agosto 1999, n. 8633; v.
inoltre Cass., 15 novembre 1989, n. 4862; Cass., 4 maggio 1996, n. 4147; Cass.,
29 marzo 1999, n. 2998. Per un’applicazione – in una prospettiva, per così
dire, rovesciata, rispetto a quella qui in esame – dell’art. 333 c.c. al caso
disciplinato dall’art. 46, l. 4 maggio 1983, n. 184, in vista della
salvaguardia del mantenimento di rapporti del minore adottato «in casi
particolari» con il genitore biologico, cfr. Ferrando,
L’adozione in casi particolari del figlio
naturale del coniuge, Nota a Cass., 10 maggio 2011, n. 10265, in Corr. giur., 2012, p. 91 ss., la quale
rileva che, nell’ambito dei poteri previsti dall’art. 333 c.c., «ben potrebbe
essere compreso quello di individuare le modalità più opportune di
frequentazione con il genitore biologico quando questo sia reputato conforme
all’interesse del bambino».
[118] Cfr. Trib. Min. Milano, 2 novembre 2007, in Fam. e minori, Guida al diritto, 2008, n. 3, p. 86. Il resoconto di cui al testo è
tratto da Bilotta, Omogenitorialità, adozione e affidamento
familiare, cit., p. 196.
[119] Cfr. Bilotta,
op. loc. ultt. citt.
[120] Cfr. Cass., 7 febbraio 1995, n. 1401, in Giur. it., 1996, I, 1, c. 538 ss., con
nota di A. Gabrielli; cfr. inoltre
Cass., 8 maggio 2003, n. 6970, in Fam.
dir., 2003, p. 319 ss.
[121] Su cui v. per tutti Arceri,
Commento agli artt. 155-155-ter c.c., in Codice della famiglia, a cura di M. Sesta, I, Milano, 2009, p. 706
s.
[122] cfr. Trib. Salerno, 20 giugno 2006, citata da Pappalardo Reale, L’affidamento condiviso, al sito web seguente: http://www.medeacom.it/public/files/uploaded/Diritto%20civile%2019%2020%2021%20aprile%2007/pappalardo.pdf,
p. 14. V. inoltre Trib. Min. Milano, 12 luglio 2006, in Fam. pers. succ., 2007, p. 82, che in una controversia ai sensi
dell’allora vigente art. 317-bis c.c.
tra genitori non coniugati, aveva affidato i minori, collocati presso la madre,
ai servizi sociali; Trib. Bologna, l° ottobre 2007, ined. (ma menzionata da Arceri, op. loc. ultt. citt.), ha del pari disposto l’affidamento dei
minori ai servizi sociali.
[123] Per una panoramica e per gli ulteriori rinvii cfr. Bonini Baraldi, Le nuove convivenze tra discipline straniere e diritto interno,
cit., p. 199 ss., 223 ss.
[124] Per alcune informazioni di carattere generale si fa
rinvio a Oberto, Gli obblighi di mantenimento e il recupero
dei crediti alimentari in diritto comunitario: la nozione comunitaria di
«alimenti» e i principi in tema di competenza giurisdizionale, disponibile
al sito web seguente: http://giacomooberto.com/milano2009/relazione.htm.
[125] Per un’illustrazione si fa rinvio a Oberto, Gli obblighi di mantenimento e il recupero dei crediti alimentari in
diritto comunitario: la nozione comunitaria di «alimenti» e i principi in tema
di competenza giurisdizionale, cit., § 2.
[126] I passi indietro compiuti dal legislatore comunitario
sul punto sono resi evidenti dalle seguenti tabelle di raffronto:
Proposta di regolamento del Consiglio del 2005,
considerando n. 9: |
Regolamento n. 4/2009, considerando n. 11: |
«L’ambito d’applicazione del regolamento deve
estendersi a tutte le obbligazioni alimentari derivanti da rapporti familiari
o rapporti che producono effetti simili, e ciò al fine di garantire la parità
di trattamento tra tutti i creditori di alimenti». |
«L’ambito di applicazione del regolamento dovrebbe
estendersi a tutte le obbligazioni alimentari derivanti da rapporti di
famiglia, di parentela, di matrimonio o di affinità, al fine di garantire la
parità di trattamento tra tutti i creditori di alimenti». |
Proposta di regolamento del Consiglio del 2005, art.
1, primo comma: |
Regolamento n. 4/2009, art. 1, primo comma: |
«Il presente regolamento si applica alle obbligazioni
alimentari derivanti dai rapporti familiari o dai rapporti che, in forza
della legge ad essi applicabile, producono effetti simili». |
«1. Il presente regolamento si applica alle
obbligazioni alimentari derivanti da rapporti di famiglia, di parentela, di
matrimonio o di affinità». |
[127] Curiosamente, quasi tutte monarchie… A tali
ordinamenti va poi anche aggiunto quello della Norvegia, Paese che però non fa
parte, come noto, dell’U.E.
[128] Sulla reiezione, da parte di un giudice di merito, dell’istanza
di trascrizione dell’adozione di un minore effettuata da una coppia omosessuale
coniugata negli Stati Uniti, cfr. Trib. Brescia, 26 settembre 2006, citata da Lollini, L’importanza della visibilità, già disponibile al seguente sito web
(ora non più reperibile online): http://zibalblog.wordpress.com/2007/10/02/limportanza-della-visibilita/.
Riferimenti al citato provvedimento ora in Lorenzetti,
La giurisprudenza nazionale di merito:
acquisizioni recenti e possibili sviluppi, in Aa. Vv., Le coppie dello stesso sesso: la prima volta
in Cassazione, a cura di R. Torino,
Roma, 2013, p. 127 s., ove si legge che il caso ha visto il rifiuto di
trascrivere un provvedimento di adozione di un minore emesso da una corte
statunitense a favore di due persone dello stesso sesso regolarmente coniugate,
sulla base della contrarietà all’ordine pubblico. Nonostante l’istanza fosse
stata presentata da uno solo dei componenti della coppia, il Tribunale ha
indicato il matrimonio quale requisito irrinunciabile e, visto il non
riconoscimento in Italia del same-sex
marriage, ha affermato la contrarietà ai «nostri principi etici e sociali» del
provvedimento straniero di adozione. Sulla decisione v. anche Bilotta, Omogenitorialità, adozione e affidamento familiare, cit., p. 217
ss. Nel senso, invece, della riconoscibilità in Italia (per assenza di
contrasto con l’ordine pubblico) di un parental
order emesso da un giudice britannico e relativo ad un caso di maternità
surrogata realizzato (da una coppia italiana coniugata) all’estero cfr. App.
Bari, 13 febbraio 2009, disponibile al seguente sito web: http://personaedanno.it/index.php?option=com_content&view=article&id=29604&catid=120&Itemid=367&mese=02&anno=2009.
[129] Per un tentativo di soluzione cfr. Oberto, Gli obblighi di mantenimento e il recupero dei crediti alimentari in
diritto comunitario: la nozione comunitaria di «alimenti» e i principi in tema
di competenza giurisdizionale, cit., § 3.